Terzo
ciclo
Anno
liturgico A (2007-2008)
Solennità
e Feste
Ss. Cuore di Gesù
(30 maggio
2008)
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Deut
7,6-11; Sal 102; 1Gv 4,7-16;
Mt 11,25-30
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Molti testi
della liturgia di oggi possono illustrare emblematicamente l’immagine del cuore
di Gesù, spalancato sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al
calvario lascia intravedere. “Di
generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore” (Sal 32,11)
canta l’antifona di ingresso. I nostri pensieri sono mutevoli, i nostri
progetti pure, ancor più i nostri desideri. Ma sperimentare che quelli del
Signore sussistono per sempre, sono sempre i medesimi, significa cogliere e
accogliere il segreto di amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale
segreto possa essere svelato in tutto il suo splendore solo nel momento più
drammatico della vita di Gesù la dice lunga sul fatto che quell’amore non sia
scontato coglierlo e viverlo, per quanto desiderabile.
“In questo sta l’amore: non siamo stati noi
ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima
di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Questa espressione
dell’apostolo Giovanni riassume bene tutta la consolazione e tutto il dramma
dell’amore di Dio per l’uomo. L’invito è a leggere la storia del mondo e la
propria storia personale a partire da quell’invio. Gesù è il testimone per
eccellenza dell’amore del Padre: “Dio
infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Collegare questi
passi al brano di vangelo odierno fa scaturire una luce potente. Gesù aveva
inviato in missione i suoi discepoli e questi, tornando tutti pieni di gioia
per il successo dell’impresa (cfr. Lc 10,21), provocano un’intima esultanza in
lui tanto da fargli esclamare, rapito nello Spirito Santo: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli
intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto
a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il
Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio
lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e
io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono
mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo
infatti è dolce e il mio carico leggero”.
Due particolari
sono da rilevare: la beatitudine dei piccoli e l’invito a imparare. Per amare è
necessario farsi piccoli: l’amore è rivelazione, non conquista. Vediamo l’amore
di Dio in Gesù perché lui si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare
totalmente la sua gloria e poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora,
la sua piccolezza ha a che fare con la situazione degli uomini, incapaci di
vedere Dio perché non più capaci di amare (“Chi
non ama non ha conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore
(potrebbe essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli
uomini che tanto li inasprisce). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù
morire sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono
cioè di uscire dal peccato), con ciò non vogliono semplicemente mettersi a
posto, ma vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà
sarà sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore
e più saranno disposti a condividerlo con tutti.
E se Gesù
invita: “Imparate da me”, che cosa
dobbiamo imparare? Nel fatto di ‘imparare’ va letta la sfumatura di significato
di ‘essere attratti’, come si può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei
giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha
udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”, pa/j o` avkou,saj para. tou/ patro.j kai. maqw.n e;rcetai
pro.j evme).
Imparare e essere attratti comportano lo stesso movimento, alludono alla
condivisione di una intimità di vita e di sentire che diventa potenza di
azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a lui, per vivere
della sua stessa vita. Non per nulla Giovanni dice che ‘chiunque ama è generato
da Dio’ perché ‘a quanti però l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli
di Dio’. L’amore viene dal fatto di essere generati da Dio, vale a dire di aver
accolto il Figlio, che è stato mandato per testimoniare agli uomini quanto è
grande l’amore di Dio. Accogliere il Figlio significa vivere dello stesso dinamismo
di amore che quel Figlio ha inviato, in modo da far risplendere nel mondo,
nella comunione tra gli uomini, la comunione con Dio. Di tutto questo
l’immagine del Cuore di Gesù è emblema.
La proclamazione
del salmista: “Benedici il Signore anima
mia …” (Sal 102) risuona in tutta la sua potenza sulle nostre labbra appena
ci apriamo al mistero del cuore di Gesù, sentendoci implicati nelle sue parole:
“Ti benedico, o Padre, Signore del cielo
e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli
intelligenti e le hai rivelate ai piccoli…”. E avremo così modo di
comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo
Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno.
La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come
l’amore è la dimensione della santità di Dio che accomuna a sé l’uomo. Il cuore
di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo
stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così
desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, il cuore di Gesù è lì a
ricordarci il contrario: possiamo entrare anche noi nella santità dell’amore di
Dio e avere la vita.