Terzo ciclo
Anno liturgico A (2007-2008)
Solennità e feste
N.S. Gesù Cristo Re
dell’universo
34a Domenica
(23 novembre 2008)
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Ez
34,11-17; Sal 22; 1Cor 15,20-28; Mt 25,31-46
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La parabola o, meglio, la visione
profetica del giudizio finale, da leggersi in simbiosi con le parabole
precedenti delle vergini e dei talenti, risponde alla domanda: qual è il
contenuto specifico dell’esercizio della vigilanza? Per la sua assoluta
incisività, la rivelazione che la parabola comporta ha come assunto un
significato più largo rispetto alla questione della vigilanza, ma dipende pur
sempre da quel contesto. La collocazione poi del brano nella struttura della
narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione.
Alla parabola segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel
Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo
stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti.
Stessa cosa sottolinea la liturgia, che
si introduce con la visione dell’Agnello immolato e glorioso (cf. Ap 5,12;
1,6), canta la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di
Ez 34, ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta
di Gesù a Gerusalemme come il presagio del Regno di Dio che viene (cf. Mc
11,9-10).
Le parole di Gesù non ricalcano i toni
delle visioni apocalittiche che abbondano soprattutto nei testi apocrifi. Il
suo parlare del giudizio finale, per quanto inappellabile e tremendo, non
suscita sgomento o tremore. Comporta una rivelazione che parla al cuore, lo
svelamento di un segreto che ha costituito la promessa della vita. Ciò che è
detto avvenire alla fine dei tempi non ha lo scopo di ‘curiosare’ sulla fine
dei tempi, ma di svelare in quale direzione e prospettiva si vive il tempo
presente, in che cosa si gioca la vita. E ciò che è anzitutto sottolineato è la
rivelazione del sogno di Dio con gli uomini, con gli uomini tutti e con gli
uomini di sempre, indipendentemente dalle loro diversità, anche religiose. In
questo senso, le accentuazioni della parabola segnalano un contesto di
intimità, di tenerezza di rapporto, di scelta precisa di Dio che si svela agli
uomini come la via della realizzazione della loro umanità.
In effetti, il giudizio porta sulla
tensione in umanità che dà la misura dell’utilità
del nostro vivere (ecco il senso della vigilanza!), tensione che è radicata nel
mistero stesso di Dio che vuole confondersi con l’umanità nel bisogno, nei suoi
bisogni fondamentali (aver fame, aver sete, essere straniero, essere nudo,
essere malato, patire). Chi tocca l’uomo tocca Dio. La cosa più straordinaria
sembra essere data dal fatto che la fede in Gesù, più è potente, più cioè fa
vedere e fa vivere le cose nella prospettiva di Dio, meno è cosciente del suo
merito. Come a dire: più è radicale, più vale come solidarietà in umanità, non
distinguendosi in questo da chi assume quella stessa umanità pur senza
riferirsi a Gesù. Ciò che, invece, la fede in Gesù fa presagire è la
condivisione del sogno di Dio, la percezione di quella ‘promessa di vita’ che
costituisce la gioia del cuore dell’uomo.
Se ci si ferma a meditare lungamente
sull’espressione del re: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo”, si colgono infinite sfumature, tutte
particolarmente eloquenti per il nostro cuore. Il tono con cui la frase è
pronunciata è il tono di tutte le Scritture: che il desiderio di Dio si
incontri con quello dell’uomo e si possa gioire insieme. L’atto del ‘separare’
le pecore dalle capre riprende l’atto della creazione come compiendola; il
‘venite’ riprende il desiderio dello sposo e della sposa del Cantico dei
Cantici, l’anelito dello Spirito e della Sposa alla fine dell’Apocalisse,
l’invito di Gesù ai suoi discepoli; ‘benedetti del Padre’ riprende la volontà
di benevolenza di Dio per l’uomo di cui Gesù è il Testimone per eccellenza,
l’elezione di Israele come un mistero di intimità condiviso ed esteso a tutte le
genti; ‘ricevete in eredità il regno’ equivale alla stessa eredità del Figlio
(ciò che Gesù vive ci appartiene e ci costituisce) e allo stesso Figlio che è
costituito nostra eredità; ‘preparato per voi’ corrisponde alla gioia per la
quale Dio si è dato premura, per la quale ha fatto il nostro cuore; ‘fin dalla
creazione del mondo’: da sempre, non esiste altro segreto, altra promessa che
interessi il cuore dell’uomo. Una tale pienezza non può derivare dall’uomo. Per
questo i ‘buoni’ non se ne sentono in diritto, si schermiscono: non si sono mai
sentiti superiori ai loro fratelli, non li hanno mai oppressi, li hanno
soccorsi, hanno condiviso beni e vita con loro, ma senza valutare la possibile
ricompensa. Dio, però, che vede nel segreto, li ricompenserà...
A differenza dei ‘cattivi’, i quali,
nemmeno loro hanno valutato la possibile ‘paga’ per il loro agire, ma, siccome
non hanno condiviso beni e vita con i loro fratelli, ora non possono godere la
gioia di Dio che su quella condivisione è fondata. In effetti, il fuoco non è
preparato per gli uomini, ma per i diavoli e se gli uomini faranno esperienza
del fuoco è perché condividono la scelta del diavolo di non partecipare alla
gioia di Dio, ritenuta inadeguata rispetto alle loro aspettative.
La parabola ha a che fare con la
rivelazione della dignità degli atti umani, definiti in rapporto alla
prossimità in umanità, di cui l’uomo non coglie mai veramente la portata
infinita, perché non può mai cogliere fino in fondo la profondità e
l’assolutezza del mistero dell’amore di Dio che si confonde con i suoi figli,
mistero che porta il sigillo del Figlio dell’uomo, morto e risorto per noi.