SECONDO
CICLO C
PRIMA DOMENICA DI AVVENTO, ANNO C
Ger
33,14-16; Sal 24; 1 Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-36
È assai caratteristico: l’anno
liturgico finisce e comincia con la stessa lettura evangelica del cap. 21 di
Luca. Ciò che si attende per la fine è lo stesso di ciò che si contempla per
l’inizio. Ciò vuol dire che tutta la storia è racchiusa, vale a dire riceve
senso, a partire da un unico punto: la realtà del Signore Gesù che si colloca
all’ inizio della creazione, al centro e alla fine della storia. La liturgia
insegna a considerare gli eventi a Lui collegati, che sono così significativi
per la vita degli uomini, in una chiave particolare. Ieri, l’ultimo sabato
dell’anno, il canto all’alleluia proclamava: “Siate vigilanti, fissate la speranza in quella grazia che vi sarà data
al ritorno del Signore Gesù Cristo”. E oggi, prima domenica del nuovo anno
liturgico, il canto all’alleluia proclama: “Mostraci,
Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”. La preghiera coglie
così la prospettiva di visione adatta ai nostri cuori davanti al mistero del
Signore Gesù: siamo nell’attesa della rivelazione dell’amore di benevolenza del
Signore per i suoi figli! Attesa, che non si riferisce solamente al premio
finale, ma al desiderio di godibilità, nel tempo, di quella rivelazione, nella
quale si incontrano e si consumano due desideri, quello dell’uomo e quello di
Dio. Tutto l’invito della liturgia dell’Avvento alla vigilanza (vedi il brano
evangelico: “Levate il capo” ... “State bene attenti” … “Vegliate e pregate
in ogni momento”) si concentra sulla possibilità di sentire e accogliere
proprio quel desiderio che Dio ha dell’uomo e che in Gesù si fa percepibile.
Quando accorreremo per adorarlo, a Natale, nella mangiatoia, esulteremo proprio
per la grandezza percepita del desiderio di noi che ha mosso Dio a farsi
toccare da noi.
La Bibbia finisce con un grido: “Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!...
Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20). Riassume l’anelito di Dio per
l’uomo e quello dell’uomo per Dio di cui sono impastate tutte le Scritture.
L’incompletezza delle cose e l’insoddisfazione dell’uomo, a qualunque causa si
addebitino, portano inscritto l’eco di quel grido. A noi l’udirlo, perché dalle
profondità del cuore proviene, eco della promessa del Signore di dare la vita
per la quale siamo fatti. Il brano del vangelo, esortandoci alla vigilanza, ci
invita a sintonizzarci su quel grido, ad accoglierlo come sussulto davanti
all’offerta d’amore del nostro Dio (si veda la prima lettura del profeta
Geremia, al cap. 33, vera dichiarazione d’amore di Dio per il suo popolo) che
sovrasta e attraversa ogni nostro frastuono o sordità. Il salmo che viene
cantato come risposta al brano di Geremia, il salmo 24, apre una finestra di
luce proprio sulle intenzioni di Dio che parlano al nostro cuore: “Il Signore si rivela a chi lo teme … gli fa
conoscere la sua alleanza”. Il testo ebraico è ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per
chi lo teme…”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere
sono la verità e la grazia del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile,
amore che costituisce la sua offerta di alleanza con noi in modo ultimativo,
assolutamente definitivo. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellare
o soffocare, far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non
impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi.
Quando, con la colletta domandiamo:
“O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone
opere al tuo Cristo che viene perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a
possedere il regno dei cieli”, in realtà domandiamo semplicemente di aprire il
nostro cuore al desiderio di Lui. E più precisamente, domandiamo che il nostro
desiderio di Lui si lasci incendiare dal suo desiderio di noi, perché solo così
il bene che si vuole si traduce in opere buone, capaci di far risplendere quel
Bene che a Lui rimanda. Se il nostro bene non parla di Lui, vuol dire che il
nostro cuore non è ancora conquistato dall’amore e se non è stato conquistato
dall’amore come potrà far risplendere il bene?
L’antifona alla comunione riprende
un versetto del brano evangelico coniugandolo secondo una certa dinamica:
“Vegliate e pregate in ogni momento per essere degni di comparire davanti al
Figlio dell’uomo”. Sempre per dire che se il nostro cuore intercetta il
desiderio di Dio per noi, allora il Signore Gesù appare davanti a noi come il
sigillo e la figura di quell’amore di benevolenza di Dio su cui è costruito il
mondo e di cui è intessuta la mia vita. Comparire davanti al Figlio dell’uomo
significa riconoscersi destinatari e soggetti di quell’offerta di amore che
trasfigura il mondo e rende la vita desiderabile e godibile. La liturgia di
oggi insiste semplicemente sul fatto di imparare a intercettare il desiderio di
Dio; non pone prerequisiti particolari. Una volta però che il cuore percepisce
quel desiderio, diventa capace di percorrere una strada, di sopportare la
fatica del cammino che lo condurrà a condividere gli stessi sentimenti di Dio
nel Suo desiderio di comunione con gli uomini. Le prossime domeniche
illustreranno per dove si snoda quel cammino.
IMMACOLATA
CONCEZIONE, ANNO C
Gn
3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
‘Abbiamo
contemplato, o Dio, le meraviglie del tuo amore’: così cantiamo nel ritornello
del salmo responsoriale. In una delle visioni riportate nel suo Libro delle
rivelazioni, Giuliana di Norwich (+ 1420) riporta le parole che Gesù le
avrebbe detto: “Vorresti vedere quanto io l’amo [la sua santa Madre], affinché
tu possa rallegrarti con me dell’amore che ho per lei e di quello che ella ha
per me? Bisogna capire bene qui che, dicendo questo, nostro Signore si
rivolgeva, nella mia persona, a tutti gli eletti. E’ come se avesse detto:
“Vuoi vedere nella Madre mia fino a che punto tu sei amato? E’ per amore verso
di te che io l’ho fatta così grande, così nobile, così bella. Ne sono felice e
vorrei che fosse la stessa cosa per te”. Ogni dono di Dio per ciascuno
comporta condivisione per tutti di gioia e di esperienza dell’amore suo. Per la
Vergine immacolata questo vale in sommo grado perché il dono di Dio in lei
riassume tutta la gioia e l’amore che Dio porta all’umanità da colmare ogni
attesa e desiderio. Uno dei titoli più evocativi che la tradizione abbia forgiato
per illustrare il mistero della Vergine è senz’altro quello di ‘gioia
dell’universo’ perché da lei ha preso carne il Figlio di Dio, motivo della
nostra gioia e della nostra pace.
“Benedetto sia Dio, Padre del nostro
Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione …” : come non riferirlo prima di tutto alla
Vergine Maria? Lei è la benedizione dell’umanità in cui tutti siamo benedetti
perché da lei nasce il Benedetto che ci ha consolati, come la liturgia di tutto
l’avvento proclama. Della Sapienza è detto : “ero la sua delizia ogni giorno,
dilettandomi
davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul
globo terrestre, ponendo le mie
delizie tra i figli dell’uomo” (Prov 8,30-31).
La delizia di Dio tra i figli dell’uomo è proprio lei, la Vergine Immacolata,
come d’altronde lei è la delizia degli stessi figli dell’uomo perché in lei
possiamo contemplare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo.
Le scene della Genesi e
dell’annunciazione si richiamano. Nel giardino dell’Eden, il tentatore si
appressa ad Eva con un annuncio malefico: Eva vuole la ‘sapienza’ e trova la
vergogna, condividendo con Adamo illusione e disincanto da non poter più
trovare delizia nel giardino di Dio. E la sua nuova condizione di peccato e di
dolore sarà vissuta nell’alienazione di cui è segno la violenza dei rapporti.
Nella casa di Nazareth, l’angelo Gabriele porta un annuncio misterioso: Maria
prova timore, resta umile e trova l’esaltazione, condividendo con l’umanità la
grazia e la gioia delle delizie di Dio. La condizione di grazia la fa vivere in
piena armonia ed intimità di cui è segno il suo abbandono in Dio. Lei proclama:
“Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”,
come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la Sua promessa, si manifesti
in me, finalmente e compiutamente, il Suo Bene all’umanità! Ma questa è anche
la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga di me
quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla
fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel
Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.
Non avevo mai riflettuto sul fatto di
chiamare ‘nostra Signora’ la Vergine, Madre di Dio. Qual è il significato di
questo appellativo? Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas è illuminante:
“La Vergine è Signora non solo perché è libera dalla schiavitù del peccato e
partecipe del dominio divino, ma anche perché è diventata causa e radice della
libertà del genere umano” (Omelia 14,8). Così, se l’uomo vuole accedere al
regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo
mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore
perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si
può vivere l’amore senza libertà. Nella sua grandezza non cessa di essere
sorella nostra, come nella nostra miseria non cessiamo di essere oggetto
dell’amore di Dio. Il suo ‘avere’ il Signore con lei è motivo di fiducia per
noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. ‘Il
Signore è con te’ diventa, nella nostra preghiera: ‘tu che hai il Signore
supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!
SECONDA DOMENICA
DI AVVENTO, ANNO C
Bar 5,1-9; Sal
125; Fil 1,4-11; Lc 3,1-6
La chiesa introduce la testimonianza
di un profeta d’eccezione per predisporci ad accogliere la venuta di Gesù:
Giovanni Battista. È definito come la ‘Voce che grida nel deserto’, voce per
una Parola che ancora deve mostrarsi, ma dalla quale è già conquistato e di cui
diventerà testimone.
Il brano del vangelo di Luca, in
questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e misteriose
allusioni. La storia di Gesù è definita in rapporto a Giovanni Battista e
Giovanni Battista è definito in rapporto al popolo di Israele che attende la
manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa. La liturgia fa ben
vedere tutti questi nessi. Vengono definite le coordinate storiche non secondo
i dati della storia di Israele, ma di quella pagana, a indicare la centralità
dell’evento per la storia umana. I riferimenti sono legati alle autorità che
derivano il loro potere dal beneplacito di Roma: Ponzio Pilato
(governatore/prefetto della Giudea tra il 18 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che
governa tra il
Partiamo dalla vocazione del
Battista. Giovanni Battista viene presentato come profeta, profeta per
eccellenza e ultimo profeta, colui che introduce alla ‘presenza’ di Colui che
tutti i profeti avevano annunziato, come sapremo dal seguito del racconto.
Tutti i riferimenti alle Scritture seguono il testo greco dei LXX. Quello che
noi leggiamo in Luca: “la parola di Dio scese su Giovanni” (oppure, secondo
altre versioni: “la parola di Dio fu rivolta a Giovanni”), corrisponde
all’inizio del libro di Geremia. Il testo greco però non dice semplicemente che
la parola di Dio fu rivolta a, ma che la parola di Dio venne su di, che la
parola di Dio fu su di (che il latino rende con ‘factum est verbum Dei’),
usando gli stessi termini che nel libro di Geremia. La cosa straordinaria da
notare è che la stessa espressione viene usata da Giovanni nel suo prologo per
indicare la creazione ad opera del Verbo e la nascita del Verbo come carne.
Queste allusioni sottolineano l’estrema densità di quell’evento che avviene per
il Battista, ma che è avvenuto fin dall’inizio e si è ripetuto per tutti i
profeti: la Parola di Dio entra con forza e si impone, opera quello che
esprime, è capace di dar forma, di dare essere, di fare quello che dice. E qui
sta tutto il senso della storia di Israele, che è storia sacra per tutta
l’umanità, di cui tra breve, nel racconto evangelico, Gesù mostrerà tutta la
forza e lo splendore, Lui che è appunto la Parola che la voce del Battista
proclamerà e di cui si testimonia che è la Parola ‘fatta’ carne, Dio venuto a
compiere le sue promesse.
L’allusione alla voce che grida nel
deserto riprende il testo di Osea: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e
parlerò al suo cuore… Là canterà come
nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d' Egitto… ti farò mia sposa per sempre, ti farò
mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell' amore, ti
fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”, dove il brano, reso pudicamente in italiano, ha un
connotato molto più realistico: ti sedurrò, parlerò sul tuo cuore, con
espressioni tipiche dell’intimità delle relazioni tra l’uomo e la donna;
canterà, nel senso della risposta della sposa che si dona a suo marito. Allora,
portare nel deserto da parte di Dio allude, sì, allo spogliamento (= penitenza)
dei beni e delle cose nei quali ci si è illusi di trovare felicità, ma
soprattutto allude a una nuova storia di amore che Dio è pronto a intessere col
suo popolo su basi nuove, con una nuova alleanza, perché finalmente il cuore
possa godere la vita in modo soddisfacente. Quando il Battista comincia a
gridare nel deserto, nella sua voce c’è l’eco di questo desiderio di Dio di
venire dal suo popolo, un’eco che non rimbomba più da lontano ma si fa sempre
più vicino, fino a tramutarsi nel suono diretto della Parola d’amore che appare
in mezzo al suo popolo quando Gesù si manifesterà.
Quando il
Battista grida: “preparate la via del Signore”, l’allusione è al brano del
profeta Baruch, che costituisce il contesto in cui comprenderla. Là il profeta
aveva proclamato: “Poiché Dio ha stabilito di spianare ogni
alta montagna e le rupi secolari, di colmare le valli e spianare la terra
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”. Non è l’uomo a
spianare la strada al suo Dio, ma è lo stesso Dio che spiana la strada.
L’invito alla conversione è dunque l’invito a ‘vedere’ la venuta di Dio che
viene incontro al suo popolo, è l’apertura di cuore a riconoscerlo nella sua
offerta di alleanza, nella sua proclamazione di amore. Il Battista chiama la
gente alla conversione nel deserto per imparare a percepire la nuova opportunità
di salvezza che viene da Dio, mentre Gesù, che di quella salvezza è l’attore e
il portatore, andrà lui dalla gente per farla gustare e rinnovare così i cuori
tanto che ‘ogni creatura potrà vedere la salvezza’, cioè vedere in Lui quanto è
grande l’amore di Dio per gli uomini (= vedere la gloria) e disporre tutti a
vivere lo stesso mistero di amore perché Dio sia celebrato ovunque. Sarà uno
degli esiti della gioia del Natale.
III DOMENICA
AVVENTO, ANNO C
Sof 3,14-18;
Sal: Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
“Gioisci, figlia di Sion, esulta,
Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”; “Rallegratevi
nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. Così la liturgia,
oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Per quale
motivo? Con quali ragioni? Se non si coglie la portata di questo invito,
nemmeno si può cogliere la portata delle parole e della testimonianza del
Battista secondo il racconto del vangelo.
Il ritornello del salmo responsoriale definisce il nostro
Dio come ‘Dio della gioia’. L’espressione va intesa in due sensi: Dio è pieno
di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (=
Dio è la nostra gioia). Se il cuore non vede mai, non percepisce mai come Dio
cerchi la sua gioia in noi, come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto
è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che Dio è la
nostra gioia, che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il
profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi; è lui
a revocare la nostra condanna, è lui che salta dalla gioia operando la nostra
salvezza, come non potesse essere felice senza di noi. La cosa è tanto
singolare che la nostra psicologia interiore non riesce a produrre una
sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la
radice della nostra dignità. Quella percezione è frutto della ‘conversione’,
vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, gioia
che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. È
l’esperienza della fede: Dio viene incontro a noi e noi lo riconosciamo nel suo
agire per noi. Riconoscere la sua gioia la procura anche a noi. Quando Giovanni
Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce appunto come riflesso
della gioia che quella visione, quell’incontro, gli procura. Fin dal grembo di
sua madre, Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto,
ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo sta in piedi ad udirlo e si riempie di gioia
alla voce dello sposo” (Gv 3,29) : godeva non tanto perché gli era dato predicare e parlare
ma perché poteva ascoltare. Così, quando Luca deve descrivere
la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del
figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la
rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per
noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra
innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia,
mentre deriva dal suo amore per noi.
Così
il motivo della gioia della liturgia di oggi è la proclamazione che il Signore
è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di
dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi, capaci
finalmente di condividerla’. In tal senso il brano evangelico ha un’allusione
misteriosa. Giovanni chiama Gesù ‘uno che è più forte di me’ e mette in
relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come
riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’
significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel
fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il
Regno che si compie è proprio l’amore di Dio che diventa condiviso, apertamente
e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella
letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (= la
perfetta letizia di s. Francesco) è proprio quella che custodisce la gioia di
Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o
distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera
di Dio che si fa manifesta. Per questo insieme allo Spirito Santo viene
nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio
per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia
si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che
contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima
di tutto del nostro Dio e poi di tutti i suoi figli, per cui l’indicazione
delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente conversione
si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.
Possiamo
ora pregare la colletta in verità: “Guarda , o Padre, il tuo popolo che attende
con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero
della salvezza”. Oppure, con la preghiera sulle offerte: “Sempre si rinnovi,
Signore, l’offerta di questo sacrificio che attua il santo mistero da te
istituito, e con la sua divina potenza
renda efficace in noi l’opera della
salvezza”.
IV
DOMENICA AVVENTO, ANNO C
Mic
5,1-4; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-48
La liturgia di oggi si apre con
l’antifona tradizionalmente cantata nella novena in preparazione del Natale: “Rorate coeli desuper et nubes pluant
justum: aperiatur terra, et germinet salvatorem”; “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a
noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8). Si
tratta della versione della Volgata che interpreta messianicamente
l’espressione più neutra dell’ebraico e del greco dei LXX: “Stillate, cieli,
dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca
la salvezza”. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa
contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in
questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la
tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che
avviene cioè in un determinato momento sottintendendo che prima non pensava in
questi termini, ma è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra
il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire
finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca
storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana perché non può esistere
storia umana se non nella storia sacra, nella storia dell’alleanza tra Dio e
l’uomo. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto. Si invoca la
sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa
figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla
terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché
dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si
avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo
in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla
terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è
preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il
desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e
tutto l’uomo per Dio.
A quel ‘volere’ si appella la
Vergine con le sue parole all’angelo:
“Sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto”. Si rivela
qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio per il
desiderio di Dio, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo
splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio della creazione. E non
per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento
delle parole del Signore”. E parafrasando potremmo aggiungere: beata colei
che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio
per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di
benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, eternamente,
su di lei come sul mondo. E’ da tale consapevolezza che sgorgano le parole del
magnificat e il canto di esultanza dell’essere che vede lo spazio di vita
ormai totalmente occupato da
quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo ‘sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra’ per prima cosa chiediamo di
fare esperienza di quell’amore di benevolenza da parte di Dio, amore nel quale
siamo stati concepiti e voluti e che costituisce tutto il nostro splendore.
Se si accoglie il Verbo di Dio, se
ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica
che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ avvenga di me quello che hai detto c’è
anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina
Elisabetta. Le parole del ‘magnificat’ alludono anche alla carità che ha
investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone,
segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di quell’amore Lui è il
rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in verità sa che è amore
per noi. E questo è venuto a ‘far vedere’! E in questo sta la nostra salvezza e
la nostra pace.
Nel canto responsoriale si proclama:
“Fa’ splendere il tuo volto e salvaci,
Signore”, a commento del brano del profeta Michea che aveva annunciato la
nascita del Messia a Betlemme. Il versetto è ripreso dal salmo 79, versetto che
viene ripetuto tre volte nella forma: “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo
salvi”. Il salmo si appunta sulla proclamazione del Messia come ‘figlio
dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci
godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da
non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La
pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore,
amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte
nostra. È interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non
hai voluto né sacrificio né offerta, un
corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo -
poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la
tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40, ma l’ebraico porta:
“gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di
Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di
salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere
quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è
ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino,
vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di
quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il
Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
NATALE
DEL SIGNORE
Messa
della notte: Is 9,1-6; sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa
dell’aurora: Is 62,11-12; sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa
del giorno: Is 52,7-10; sal 97; Eb
1,1-6; Gv 1,1-18
Un poema
natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra
anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che
ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto
Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che
non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per
cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa
darci ancora di più”.
Il Natale
del Signore sottolinea le mosse di Dio verso l’uomo. Tutta la liturgia, nei
suoi tre formulari, non fa che celebrare le ‘avances’ di Dio per l’umanità. In
quel Bambino, nato per noi, tutto si illumina, il mondo torna a risplendere,
fino a seppellire sotto la sua luce tutto quello che lo deturpa, lo travisa e
lo mortifica. Nella liturgia della notte, dentro una luce tutta speciale,
echeggia il grido degli angeli: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà
di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il
Cristo Signore”. In quella dell’aurora si sente la fretta dei
cuori e dei piedi dei pastori che vogliono andare a vedere: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo
avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Nella liturgia del
giorno l’occhio interiore si distende sulla visione agognata: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal
Padre, pieno di grazia e di verità”.
La luce del Natale rimanda alla Pasqua,
come un altro poema natalizio di s. Efrem canta: “Gloria al Nascosto che non
potrebbe essere intravisto con l’intelligenza, ma che si è reso palpabile nella
sua bontà tramite la sua umanità! La natura che non fu mai toccata, per le mani
fu legata e appesa, per i piedi fu fissata e crocifissa: come a lui è piaciuto,
ha preso corpo perché lo si potesse prendere”. Proprio a questo, con tutta la
potenza di rivelazione che comporta quanto all’amore di Dio per l’uomo, vanno
riferite le parole dell’apostolo Giovanni: “Dalla
sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”. È la luce di
tale splendore, fonte della nostra dignità, che rifulge nel Natale. La luce, la
gioia, la pace che caratterizzano il clima della festività natalizia, tanto da
indurre pressoché tutti a riversarle nelle case, nelle strade, nelle città,
hanno a che fare proprio con quel Figlio, nato bambino, che vuol condividere
all’uomo il segreto di Dio.
S.
Giovanni, all’inizio del suo vangelo, parla a nome di tutti i discepoli del
Cristo, a nome di tutti coloro che nell’incontro con quel Figlio, mandato a noi
per la salvezza del mondo, si sono visti cambiare la vita, cambiare gli occhi,
cambiare le radici dei sentimenti tanto da fargli dire, con assoluta evidenza,
capace di suscitare la stessa reazione in chi l’ascolta: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi
vedemmo la sua gloria”. Cosa hanno visto i discepoli, i pastori? Qualcosa
che ha a che fare con l’apertura di un orizzonte e la possibilità di una
esperienza fino ad allora impraticabili: “Dio
nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato”. Quell’orizzonte e quell’esperienza costituiscono il
dono natalizio della pace. E’ la pace che arriva al cuore dell’uomo quando si
vede e si sente raggiunto dall’offerta della benevolenza di Dio che non ha
limiti, espressi nell’immagine di un bambino avvolto in fasce, portato dalla
Vergine, visitato dai pastori, cantato dagli angeli, adorato dai magi. Una
benevolenza che risana le ferite della storia, che abilita a costruire un altro
tipo di storia, che raggiunge così nel profondo il cuore dell’uomo da
imprimergli una libertà intangibile dalle altre ragioni di vita e di
comportamento che non procedano da quella stessa benevolenza. E’ l’esperienza
che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non
ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in Lui possiamo trovare tutti
i beni ai quali anela il nostro cuore. E’ il perenne annuncio profetico dei
credenti in Cristo al mondo.
Per questo,
nella preghiera dopo la comunione della messa dell’aurora, la Chiesa supplica:
“O Dio, che ci hai radunato a celebrare in devota letizia la nascita del tuo
Figlio, concedi alla tua Chiesa di conoscere con la fede le profondità del tuo
mistero e di viverlo con amore intenso e generoso”. Preghiera, che è ripresa
nella colletta della messa del giorno: “…fa’ che possiamo condividere la vita
divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.
Buon Natale a tutti!
SANTA FAMIGLIA, ANNO C.
1Sam
1,20-28; sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
Celebrare la festa della santa
famiglia di Gesù,
Nel racconto del ritrovamento al
tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. A
suo padre e a sua madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di
rispondere: “Perché mi cercavate? Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel
vangelo Gesù risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo
cercano sua madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e
la mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di
nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora
giunta la mia ora”
(Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli
affetti familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la
radice stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel
‘Padre’, di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale
ogni affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale
ogni affetto anela. Significa allora allargare gli orizzonti, un continuo
andare oltre la cronaca e la ‘materialità’ degli eventi, ma nello stesso tempo
comporta la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che
si pensava ovvio, di quello che si credeva. Tutti i genitori conoscono questa
ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia
sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro
progetto, spesso senza poterlo condividere, almeno all’inizio. Ma corrisponde
al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se
entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in
Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così
essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di
questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Della Vergine
si annota nei vangeli: “Sua madre serbava
tutte queste cose nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio
non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose,
che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di
comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti
famigliari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame
tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e non invece con Colui che di quel legame è la
Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto
superiore rischia di soffocare.
Forse non è inutile sottolineare che
la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del
Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io
devo occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce, prima di morire:
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima
dell’ascensione: “E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso…”
(Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che
possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice
di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale
ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo
‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se
stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In
altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la
seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da
questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In
altri termini, osservare i comandamenti risulta possibile in forza dello
Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel quale abita la pienezza della
divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente tiene aperti gli orizzonti
verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché il desiderio di comunione di
Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è stato per la santa famiglia di
Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini
possono vivere i loro affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio
che li apre ad aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così
larga di orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.
MARIA SS. MADRE DI DIO, ANNO C
Nm
6,22-27; sal 66; Gal 4,4-7;
Lc 2,16-21
Nel
calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato
a onorare la Vergine Maria, Madre di Dio. A partire dal 1969, l’antica
festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua
solennità il 1° gennaio, con la chiesa che continua a sottolineare la verità e
la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, Salvatore, ricordando, da
una parte, la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo
e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente
voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, il rito della circoncisione e
dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la
giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in
Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il
riverbero, lo splendore di benedizione.
Con lei,
la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la
sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti
protegga…”. Come devono risplendere gli occhi di Dio guardando questa sua
umile ancella! Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una
lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e
venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità
si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero
grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della
Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per
lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione
della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui
amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a
noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di
lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci
la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di
Dio che risplende su di noi.
‘Il nome di Dio è ormai posto su di
noi’: non c’è più motivo di paura e se la paura non fa più presa sui cuori,
allora vengono meno anche la violenza e l’ingiustizia che di quella paura sono
gli strumenti di offesa per autodifesa. Quel nome di Dio, pur nel suo mistero,
ha un volto, risponde a un nome che è stato scelto umanamente, anche se dietro
suggerimento angelico, che definisce il figlio della Vergine Maria, Gesù. Quel
‘Gesù’, che ora adoriamo bambino nella stalla di Betlemme – questa è la bella notizia per il mondo
intero! – è ormai la benedizione e la protezione di Dio per gli uomini, è il
volto di Dio che risplende benevolo e misericordioso, è il sigillo della pace
di Dio sugli uomini, come la solenne preghiera di benedizione israelita
profetizzava: “Ti benedica il Signore e
ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia
propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace”. Ora
possiamo vedere che il Signore ha effettivamente benedetto, ha rivolto il suo
volto e ci ha concesso la sua pace. È un bambino ‘nato da donna’, a
sottolineare che è veramente figlio, contemporaneamente suo e del Padre, motivo
per cui coloro che come tale lo riconosceranno, a loro volta saranno chiamati
figli di Dio. Ma chi sono coloro che sono chiamati figli di Dio? Coloro che lo
Spirito Santo guida, coloro che lo Spirito Santo governa, coloro che in forza
di quello Spirito saranno operatori di pace (‘beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio’).
Nella lettera ai Galati s. Paolo scrive: “…
Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà,
Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per
volontà di Dio”. Operare la pace da figli, non da schiavi! Non schiavi di
nessuno e di nessuna ideologia, non schiavi per comodo o per paura, non schiavi
di beni, esteriori o interiori, che non procedano da quell’unico Bene, che è
Cristo stesso, pace di Dio, il cui godimento sorpassa ogni intelligenza e
custodisce cuori e pensieri (cfr. Fil 4,7). Anche la pace si può cercare da
schiavi. Favorirà violenze ancora più terribili, non custodendo la dignità di
nessuno. La pace che viene da Dio non tollera mascheramenti o ambiguità, perché
porterà tutti a riconoscere la stessa dignità condivisa che deriva dall’unico
Padre, l’unico che è Giusto perché Misericordioso. Il Figlio, Gesù, che fa
risplendere il suo volto tra gli uomini, ha fatto vedere come sia possibile
declinare la pace di Dio nella storia degli uomini. Coloro che vogliono vivere
e gustare la sua eredità non hanno che da seguirlo e, a loro volta, far
risplendere il suo volto tra gli uomini: è il dono più bello che possono
regalare ai loro fratelli, come la Vergine che, dandoci il Verbo di Dio, ha
fatto il regalo più bello all’umanità. Così la preghiera non può che essere
quella della colletta: “ Padre buono che in Maria, vergine e madre, benedetta
fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi,
donaci il tuo Spirito, perché tutta la
nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad
accogliere il tuo dono”, cioè la pace del tuo Cristo e nulla resti fuori.
EPIFANIA DEL SIGNORE, ANNO C
Is 60,1-6; sal 71; Ef 3,2-6; Mt 2,1-12
Epifania vuol dire manifestazione. La festa di oggi ingloba tre momenti della
manifestazione del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta
dei magi; la manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera
messianica con il battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore
con il primo miracolo alle nozze di Cana. Recita l’antifona al
Magnificat: “Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha
guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi
Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza”. E l’inno
ai Vespri canta: “I magi vanno a Betlem e la stella li guida: nella sua luce
amica cercan la vera luce. Il Figlio dell’Altissimo s’immerge nel Giordano,
l’Agnello senza macchia lava le nostre colpe. Nuovo prodigio a Cana: versan
vino le anfore, si arrossano le acque mutando la natura”. Ma ancora più
significativa è l’antifona al Benedictus: “Oggi la chiesa, lavata dalla colpa
nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni
alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.
Lasciando da parte ogni
considerazione sul battesimo di Gesù, la cui festa ricorre domani, immergiamoci
nel racconto dell’adorazione dei magi. Da notare la differenza degli
atteggiamenti dei vari personaggi in questione. I magi non sanno ma il loro
cuore si è mosso tanto che, pur non sapendo bene di che cosa si trattava, si
mettono in viaggio, arrivano a Gerusalemme, chiedono, cercano. Invece la
Gerusalemme colta, gli scribi e gli anziani, sa le cose ma non si muove. Se
Erode sembra muoversi lo fa solo per paura di perdere il potere e quindi in
realtà non si muove per cercare in verità. Sono i possibili atteggiamenti che
può assumere l’uomo davanti al mistero ed alla storia di Dio. I magi sono la
figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono
al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel
‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra
la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e
permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio tanto che fanno ritorno a
casa loro per altra strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre
la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo
mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che
cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della
conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si
ricollega la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al
mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte
le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è
manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato
qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità,
quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non
l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la
sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili
e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i
nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
Quanto al mistero della
trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo
delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere
con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Quando siamo
acqua e quando siamo vino? Essere acqua significa accettare sì i comandamenti
del Signore, ma limitarsi all’esecuzione esteriore. Passare dall’essere acqua
al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del
comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa
nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia
parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso
di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza
cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta
dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza ‘cordiale’ del Signore,
la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non
basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie
l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il
nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro
che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice
la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si
apre alla conoscenza della gloria del Signore. Quello che i magi hanno
sperimentato, quello che gli apostoli hanno testimoniato, quello che i credenti
in Cristo ‘debbono’ al mondo che aspetta tale manifestazione.
BATTESIMO
DEL SIGNORE, ANNO C
Is
40,1-11; Tt 2,11-14; 3,4-7; Lc 3,15-22
Con la festa del battesimo di Gesù si
chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con l’invocazione del
profeta Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I
cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come
oggi la scena del Battesimo di Gesù fa
intravedere: “Quando tutto il popolo fu
battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera,
il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come
di colomba, e vi fu una voce dal cielo: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te
mi sono compiaciuto”. I cieli che si aprono non preludono ad una visione
del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei beni divini, beni che
dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era messianica ed il cui bene
principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su tutti, attraverso quel Figlio
che lo possiede in pienezza. Così il simbolismo della colomba allude al
carattere escatologico della visione che indica in Gesù il Messia e il punto di
partenza della comunità messianica. Ricorda la colomba del Cantico dei Cantici,
sposa di Yahvé e Giovanni Battista potrà poi esclamare: “Chi possiede la sposa è la sposo; ma l’amico dello sposo, che è
presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29).
Vedendo lo Spirito discendere su Gesù sotto forma di colomba (è soltanto il
Battista che vede, la gente ode solo la voce!) comprende che Gesù aveva la
missione di far apparire la ‘colomba’, cioè il nuovo popolo di Dio animato
dallo Spirito Santo.
Noi preghiamo che il Signore si degni squarciare
i nostri cuori perché anche a noi appaia, finalmente, in tutta la Sua bellezza,
il volto del Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini.
E come dice Paolo a Tito “…nell’attesa
della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio
e salvatore Gesù Cristo”, noi aspettiamo la manifestazione del Signore al
nostro cuore in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non
soltanto alla fine della vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto
del tuo Figlio, fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla Sua bellezza, apri il
nostro cuore alle Sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il Suo amore
e possiamo venire risanati, facci fare l’esperienza viva del Suo perdono perché
possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai
popolo nuovo”.
Al momento del
battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio
prediletto, in te mi sono compiaciuto”. E’ la funzione della parola di Dio
che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: “Voi scrutate le
Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse
che mi rendono testimonianza” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in
quel ‘Figlio prediletto’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da
incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture dove si parla di ‘figlio
prediletto’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio
chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora, nella parabola
dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo
figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il
raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela
la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di
sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di
Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne
faranno scempio. Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri ….
L’aggiunta “in te mi sono compiaciuto” rivela tutta la profondità del
mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto
l’Amore del Padre è per il Figlio e tutto l’Amore del Figlio è per il Padre.
‘In te’, però, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al
Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto
perché in Lui si può contemplare tutta
l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente
il suo sogno sulla creazione e sull’umanità. Così, in quel ‘perfetto’ è già
compreso anche tutto quello che la nostra umanità, unita a quella del Signore
Gesù, compirà (cfr.
Col 1,24-29). Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie,
perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo ed in Gesù questo
amore risplende nella sua radicalità e totalità. E se noi stiamo in Cristo,
allora anche in noi la volontà del Padre si compie, perfetta, perché anche in
noi il Suo amore risplenderà. E questo risplendere del suo amore non deriva
forse dall’essere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci
ha effuso nella Pentecoste? Come s. Francesco dice della perfezione o della
santità: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo
Spirito del Signore e la sua santa operazione”.
TO II, C2
Is
62,1-5; Sal 95; 1 Cor 12,4-11; Gv 2,1-12
Il canto
al vangelo riassume bene il senso del brano evangelico di oggi: “Alle nozze di
Cana Gesù trasformò l’acqua in vino; egli manifestò la sua gloria e i discepoli
credettero in lui”. Non costituisce solo il senso del brano delle nozze di
Cana, ma diventa la chiave di lettura dell’insieme del vangelo di Giovanni.
Gesù incomincia a manifestare la sua gloria con la trasformazione dell’acqua in
vino a Cana, ma la sua gloria sarà pienamente mostrata nel suo splendore di
rivelazione quando, ormai morto sulla croce, dal suo fianco squarciato
usciranno ‘sangue e acqua’ e si realizzerà la profezia: ‘Volgeranno lo
sguardo a colui che hanno trafitto’ (Gv 19,37). E quando Giovanni, alla fine del suo vangelo, spiegherà perché
l’ha scritto, riferendosi ai ‘segni’ che ha descritto nella sua narrazione
dirà: ‘Questi sono stati scritti, perché
crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la
vita nel suo nome’ (Gv 20,31).
Ora,
il primo dei ‘segni’che viene descritto perché si creda in quel ‘Figlio di
Dio’, che è stato mandato perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza (cfr Gv 10,10), è proprio il miracolo di Cana. Gli eventi che
intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni Battista al
Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello spazio di una settimana,
la settimana della nuova creazione, in riferimento alla settimana della
creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di
Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e
Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata
del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono e videro’ di Andrea e Giovanni,
i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro
scoperta in questi termini: ‘abbiamo
trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che
risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose maggiori di queste’. Tutti i
‘segni’ che Gesù compie sono collocati nella scia di questo ‘vedere cose
maggiori’ fino alla rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù,
allorquando le ‘cose maggiori’ sono ormai le ‘cose ultime’, definitive,
supreme, a partire dalle quali tutto prende senso e splendore. La sua ‘gloria’
finalmente è svelata in tutto il suo splendore, la gloria del suo amore per gli
uomini.
In
tale prospettiva, la preghiera dopo la comunione coglie la dinamica essenziale
dei ‘segni’ di Gesù: “Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché
nutriti con l’unico pane di vita formiamo un cuor solo e un’anima sola’, scopo
supremo dell’agire divino, resi partecipi della stessa vita di Dio.
Il
racconto delle nozze non ruota attorno alla figura degli sposi novelli, di cui
non sappiamo nulla, ma attorno all’intervento di Gesù e dei suoi discepoli.
Gesù, il Messia, viene invitato alle nozze, simbolo dell’antica alleanza. Ma
manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino simbolo
dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Se ne
accorge sua madre, che appartiene all’antica alleanza, ma la cui fedeltà a Dio
la rende capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai
servi: “Fate quello che vi dirà”.
L’antica alleanza poteva sperare nell’acqua purificatrice, che non poteva togliere il peccato ma liberava almeno
dall’oppressione della colpa. Gesù, che fa riempire d’acqua le giare e fa
attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova
alleanza con il dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e personale,
nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Quello
che la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a
cui anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile:
l’uomo vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e
condivisibile. E questo si vedrà proprio nella sua ‘ora’ quando dalla croce
risplenderà il suo amore infinito, amore che con il dono dello Spirito Santo
diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e segno di Dio per il
mondo intero.
Il miracolo di
Cana con la trasformazione dell’acqua in vino nel contesto di celebrazione
delle nozze, mentre allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche
al mistero dell’intelligenza delle Scritture e al mistero nuziale della
comunione di Dio con l’uomo. Tutte le Scritture parlano di Lui (‘Voi scrutate le Scritture credendo di avere
in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza.
Ma voi non volete venire a me per avere la vita’, Gv 5,39-40): tutte le
parole alludono alla Parola fatta carne. E quando si incomincia a intravedere
questa tensione profonda che percorre tutta la Scrittura, allora si passa dal
bere l’acqua al gustare il vino. Così come nel compiere i comandamenti di Dio:
un conto è praticarli materialmente, un conto è praticarli cogliendo
l’ispirazione e la rivelazione di vita che comportano. Le nozze alludono anche
al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di Dio che ci
è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati al
suo splendore.
Quest’ultimo
aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che
gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa
solitudine, di ‘abbandonata’ e ‘sola’ all’emozione di essere svelata a se
stessa in una dolcezza di riposo perché abitata, ‘mio compiacimento’ e
‘sposata’ ( forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La percezione di quella nuova
realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata,
costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. ‘Acqua’ e
‘vino’ diventano così le due modalità con cui è possibile agire nella vita:
tutto si può fare essendo acqua e tutto si può fare essendo vino. Per questo è
detto che il vino rallegra il cuore dell’uomo (cfr sal 104,15) e che il regno
di Dio è definito con l’immagine della gioia delle nozze.
TO III, C2
Ne
8,2-10; sal 18; 1 Cor 12,12-31; Lc 1,1-4; 4,14-21
Luca
assegna un significato emblematico alla predicazione di Gesù a Nazaret. La pone
all’inizio della sua missione, benché l’avvenimento sia descritto con
particolari che chiaramente fanno riferimento ad eventi successivi, come
vedremo domenica prossima, allorquando verrà descritto l’esito drammatico di
quella predicazione. Oggi invece la liturgia accentra la sua attenzione sul
fatto in sé, sulla coscienza di Gesù di presentarsi come l’Inviato tanto
atteso. Pieno di Spirito Santo, Gesù era stato condotto nel deserto per esservi
tentato; ora, con la potenza dello Spirito, ritorna e va a Nazaret e annuncia
di essere colui sul quale lo Spirito riposa: “Lo Spirito del Signore è sopra di
me; per questo mi ha consacrato con l' unzione, e mi ha mandato per annunziare
ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai
ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un
anno di grazia del Signore”. Aveva letto solennemente in sinagoga il passo
di Isaia e se l’era attribuito: “Lo
spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'
unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le
piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione
[=il bagliore, allusione al vedere la luce venendo dall’oscurità delle
prigioni] dei prigionieri, a promulgare
l' anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio,
per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare
loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell' abito da
lutto, canto di lode invece di un cuore mesto”.
Il
commento di Gesù è lapidario: “Oggi si è
adempiuta questa Scrittura”. Più volte risuona nel vangelo di
Luca quell’ ‘oggi’: lo dicono gli angeli ai pastori a Betlemme, lo dice Gesù a
Zaccheo e al buon ladrone. È l’oggi della liturgia eucaristica, l’oggi
dell’offerta perenne di salvezza da parte del Signore, l’oggi dell’esperienza
dell’amore del Signore per noi. Se ci ritroviamo tra quei ‘ciechi e oppressi’
(la cecità e la schiavitù sono le coordinate dell’esistenza nel peccato,
nell’oppressione dei rapporti) di cui parla Isaia, allora ci ritroveremo anche
noi con gli occhi fissi e le orecchie attente, il cuore sveglio, davanti a quel
Maestro che dice qualcosa che sicuramente parla al nostro cuore perché si
presenta come Colui capace di compiere le promesse di Dio. Non che il cuore
subito accoglie (l’esito del racconto lo sta a dimostrare), ma il cuore resta
affascinato. Gesù incomincia così a fornire le ragioni di quel fascino.
E le
preghiere della liturgia di oggi mostrano sia le ragioni del fascino sia la
difficoltà di viverlo nel tempo. La colletta ci fa pregare: “O Padre, tu hai
mandato il Cristo, re e profeta, ad annunziare ai poveri il lieto messaggio del
tuo regno, fa’ che la sua parola che oggi risuona nella chiesa, ci edifichi in
un corpo solo e ci renda strumento di liberazione e di salvezza”. Non ogni
ansia di liberazione è buona, ma solo quella che è abbinata al fatto di venire
edificati in un corpo solo. Ciò significa che l’ansia di liberazione per noi
che non si traduca in corrispondente ansia di liberazione per i fratelli non ci
farà ritrovare la libertà, ma si ridurrà in una sorta di più raffinata
schiavitù e perderemo il Cristo e noi stessi. La visione e la libertà che il
Cristo ci ottiene non è che la visione e la libertà che provengono da un amore
accolto e condiviso, l’amore di Dio per noi che diventa radice di vita e di
azione. L’antica colletta faceva pregare: “Dio onnipotente ed eterno, guida i
nostri atti secondo la tua volontà, perché nel nome del tuo diletto Figlio
portiamo frutti generosi di opere buone”. Se la sua volontà è appunto quella di
renderci un cuor solo e un’anima sola, allora guiderà i nostri atti nel senso
di conquistare a tal punto il nostro cuore a quell’amore che da lui proviene da
renderlo unico motore e scopo dell’agire. Solo così si realizza l’invito di
Neemia al popolo dopo la lettura della Legge: “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”.
La gioia è il frutto di un amore manifestato, provato, che è arrivato a
toccarti il cuore, che ti ha conquistato. Quella gioia cela un’energia potente,
che viene descritta dal salmo 18 leggendo le espressioni in significato intensivo:
“la legge del Signore è perfetta”, cioè rende integri e perciò rinfranca
l’anima; “la testimonianza del Signore è verace”, cioè rende veritieri e ti fa
partecipe della sapienza dall’alto; “gli ordini del Signore sono giusti”, cioè
rendono retti e gioiosi; “i comandi del Signore sono limpidi”, cioè rendono
l’uomo luminoso, dallo sguardo pulito e bello… Si può leggere anche così: la
giustizia del Signore, il contenuto cioè della parola di Dio, è quella di
portare gioia al cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di
vivere secondo la sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il
prendermi cura di ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla
abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che consisteva in questo la manifestazione
del Signore e che in questo risiedeva e il compimento del desiderio dell’uomo e
la felicità di Dio. Tutti i frutti dello Spirito “amore,
gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”
(Gal 5,22) sono espressione della cura per l’uomo e chi più li possiede più si
prende cura. E più ci si prende cura più il volto di Dio è rivelato nella sua
verità e la letizia riempie il cuore dell’uomo. Non c’è nulla di più
affascinante di tale mistero e nello stesso tempo nulla di più rischioso nella
vita degli uomini.
TO IV, C2
Ger 1,4-5.17-19;
sal 70; 1 Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30
La scena
è la medesima della domenica precedente: Gesù predica nella sinagoga di
Nazaret. Interessa però sottolineare l’esito di quell’evento: un fiasco! Ma
Luca, che ne ha fatto l’immagine emblematica della predicazione di Gesù, annota
molti particolari che introducono alla comprensione della figura di quel
profeta singolare. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei
suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore ‘profetico’ di quel
rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l' hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù,
allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche
all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra
Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di
grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico,
che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà
in verità: “Non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).
La richiesta
dei miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente
no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta “E' il re d' Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Mt
27,42). Si supplica se si apre il
proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si provoca. Può
compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio
quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire.
Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si può vedere? Non per
nulla, il brano in Matteo termina con “E non fece molti miracoli a causa
della loro incredulità” (Mt 13,58) e
in Marco con “E non vi potè operare
nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si
meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6). È la meraviglia del profeta che non si
capacita della insensibilità dei cuori degli uomini che davanti all’apertura
del cuore di Dio tengono chiusi i loro.
Gesù
non si era limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae
uno spunto profetico e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele
perché i cuori si rendano conto di cosa sia in gioco. Il passaggio è segnalato
da un parlare solenne con le formule ‘Amen, in verità vi dico’. Vi invito a
guardare più nel profondo, a rendervi conto di cosa vi giocate. E anche quando
riferisce il proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, usa un
termine che si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto
all’assemblea: il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore.
Quello che traduciamo con ‘di grazia’ in greco corrisponde a ‘gradito, bene
accetto’, termine che Gesù si applica come profeta. Ora, è accogliendo un
profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta, la grazia che
porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio della prima
lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia. Quel testo
descrive il contenuto di quell’essere pieno dello Spirito, come Gesù si era
presentato a Nazaret. Il profeta è scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una
intimità grande con Dio; è inviato alle nazioni, cioè ha il compito di togliere
il muro di separazione nell’umanità; è come un muro di bronzo davanti a coloro
che lo contrastano, cioè è pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore
di Dio conquisti i cuori. Così la ‘buona novella’ che Gesù annuncia come
profeta non consiste semplicemente in buone parole o in determinati miracoli,
ma rimanda a quella passione/morte/risurrezione in cui risplende in tutto il
suo splendore l’amore di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso
i suoi simili da dentro quello stesso amore.
Per
questo la comprensione della ‘buona novella’, che è lo stesso Signore Gesù, è
ben suggerita dal canto al vangelo: “Benedetto sei tu, o Padre, Signore dei
cieli e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei
cieli”. Non c’è comprensione se non a partire da quella benedizione che rivela
ai cuori quanto si è piccoli davanti allo splendore dell’amore di Dio per
l’uomo, manifestato in Gesù, con l’aprirli alla gratitudine della grazia. Nella
preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza,
la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare
partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di
cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che
tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime
lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la
carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a
Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno
alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono
costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è
radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del
profeta di Nazaret.
TO V, C2
Is
6,1-8; sal 137; 1 Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
Luca
descrive i primi passi della predicazione di Gesù e si premura subito di
indicare come Gesù si sia associato alcuni discepoli, quelli che lo seguiranno
ovunque, nonostante le loro manchevolezze e che verranno a loro volta inviati
(=apostoli) come testimoni del loro Signore. Il brano di oggi evidentemente
verte sulla ‘vocazione’ di Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. La
pesca miracolosa è funzionale al racconto della vocazione dei discepoli. Solo
Luca, a differenza di Marco e Matteo, riferisce della pesca miracolosa.
Ritroviamo quel racconto anche nel vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando
Gesù, risorto, si manifesta agli apostoli. Si tratta di due episodi diversi o
della diversa interpretazione di uno stesso episodio? Nella prospettiva degli
evangelisti la domanda è del tutto secondaria. La domanda principale è la
seguente: cosa ha comportato per i discepoli la manifestazione di Gesù? O,
ancora più precisamente: cosa ha comportato per i discepoli la decisione di
Gesù di manifestarsi a loro? Perché di questo essenzialmente si tratta: Gesù si
manifesta e ‘succede’ qualcosa. Sia agli inizi della vita pubblica di Gesù sia
dopo la risurrezione l’evento è della stessa natura.
C’è un
particolare assolutamente eloquente che si richiama nei due racconti di Luca e
di Giovanni. Davanti all’evento prodigioso della pesca abbondante Pietro è
colto da profonda emozione: “Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù,
dicendo: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. L’apparizione della ‘gloria’ di Dio suscita sempre
timore. Ma il contenuto di quel ‘sono peccatore’, nel cuore di Pietro, si
cristallizza attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la sua risurrezione,
evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la terza volta se lo
ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di stringerle mentre dice di
non essere degno di stare così alla sua presenza, corrisponde il sussurro di
Pietro, addolorato: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio
bene” (Gv 21,17).
Se
è vero, allora, che il racconto di Luca tende a presentare la vocazione degli
apostoli, il contesto che giustifica tale vocazione è però la ‘manifestazione’
di Gesù ai discepoli con l’episodio della pesca miracolosa. La liturgia correla
i due aspetti facendoci leggere, come prima lettura, il brano della vocazione
del profeta Isaia. Il profeta si trova nel tempio, ha una visione ‘esaltante’ e
‘terribile’: partecipa alla liturgia celeste davanti al trono di Dio (le parole
udite da Isaia sono quelle che ripetiamo ancora oggi nella liturgia
eucaristica: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è
piena della sua gloria”) e si sente perduto perché peccatore, ma viene
purificato (la tradizione ha visto nell’immagine del carbone ardente che
purifica la realtà della comunione eucaristica) e successivamente inviato: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle
labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.
La domanda di
fondo che sorge può essere questa: perché la manifestazione della gloria di Dio
ha sempre a che fare con una missione? ‘Vedere’ Dio non può non comportare la
partecipazione ai suoi segreti, i quali non sono che i segreti dell’amore suo
per gli uomini. ‘Vedere’ Dio non può non comportare allora l’invio agli uomini
perché la sua promessa di Bene e di Vita sia condivisa da tutti e la Sua gioia
sia piena. I passaggi sarebbero perciò questi: Dio manifesta la sua gloria -
l’uomo confessa il suo peccato e viene purificato – si è inviati ai fratelli.
La tensione interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale
all’intensità della ‘visione’ di Dio. E la ‘visione’ di Dio è direttamente
proporzionale alla confessione del proprio peccato. Questo perché l’azione
dell’uomo risulti pulita e non si appropri la gloria di Dio. E’ per questo che
il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito
dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana
dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione
comporta la condivisione di un ‘compito’ di intimità col proprio Signore finché
la sua gloria risplenda e si manifesti. Quando la liturgia ci fa pregare: “Dio
di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre
fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo” ci
invita non tanto ad essere pieni di zelo da andare in tutto il mondo, ma a
ripetere l’esperienza di Isaia e di Pietro che ‘vedono’ la gloria del Signore e
non possono non disporsi all’opera di Dio, in modo tale che un’esperienza del
genere risulti così radicale e fondante per la vitalità del nostro cuore da
diventare unica sorgente del nostro agire. Di questa ‘esperienza’ la missione
vive e gli uomini ne attendono gli effetti.
TO VI, C2
Ger
17,5-8, Sal 1; 1 Cor 15,12-20; Lc 6,17-26
Nel
racconto di Luca, subito dopo la scelta degli apostoli, Gesù si presenta con
loro alla folla e guarisce molti. E poi parla ai discepoli mostrando loro la
posta in gioco nel fatto di seguirlo: annuncia le sue ‘beatitudini’. C’è
qualcosa di assolutamente affascinante, ma paradossale nelle parole di Gesù,
come del resto gli stessi discepoli noteranno anche quanto alla vita e al
comportamento del loro Maestro. Su che cosa si potevano basare per potergli
credere? In cosa consisteva quella ‘beatitudine’ che Gesù prometteva loro? E
perché Gesù, qui come altrove in seguito, collegava la ‘beatitudine’ alla
‘persecuzione’? Sono le domande che ci possono ottenere punti di luce per
entrare nella dimensione evangelica.
Possiamo
partire dall’osservazione immediatamente precedente al nostro brano: “Tutta la folla cercava di toccarlo, perché
da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,19). Gesù è posseduto da
una ‘potenza’ che guarisce. I suoi gesti sono ‘potenti’, le sue parole sono
‘potenti’. Vale a dire: procurano guarigione, colmano i cuori. Proprio come
sottolinea il canto al vangelo citando un passo di Matteo 11,28: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati
e oppressi e io vi ristorerò”. Quella capacità di dare ristoro (= dare
riposo, nel senso di guarire, di colmare i desideri e procurare gioia e pace al
cuore) è l’elemento di fascino che attira verso Gesù; è ciò che dà potenza al
suo annuncio; che rende le sue parole accoglibili, sebbene misteriose. Le
guarigioni che ha operato gli permettono di far vedere dove la sua potenza è
efficace, dove è capace di realizzare quel che annuncia: chi lo segue sarà
‘beato’. E la beatitudine che si proverà sarà direttamente proporzionale
all’intensità e radicalità della sua sequela. Questo è il contenuto delle
beatitudini. Dove sta allora il segreto della felicità? Qui ogni evidenza viene
meno. In gioco è solo la fede nella promessa di Dio che agisce in Gesù. Dove è
perfetta letizia, si chiederà s. Francesco? La risposta è la medesima di quella
del Maestro: “Beati voi quando gli uomini
vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v' insulteranno e respingeranno
il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell' uomo. Rallegratevi in
quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli”.
S.
Gregorio di Nissa commentando la prima beatitudine scrive: “Siccome tutti gli
uomini sono abitati dalla superbia, il Signore comincia le beatitudini,
eliminando il male iniziale dell’orgoglio e invitando a imitare il vero Povero
volontario che è beato in verità, in modo da rassomigliargli, secondo quanto
sta nelle nostre possibilità, attraverso una povertà volontaria per aver parte
alla sua beatitudine”. E dopo aver descritto l’ascesa di tutte le beatitudini,
commentando l’ottava, dice: “Qual è lo scopo che perseguiamo? Quale la
ricompensa? Quale la corona? Mi sembra che ogni oggetto della nostra speranza
non è nient’altro che il Signore stesso… è lui l’eredità ed è lui che ti dona
la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti mostra
il tesoro e che è il tuo tesoro…”. La beatitudine allora è vivere quella
comunione con Colui che è l’Amato del tuo cuore. E quando tale amore risalterà
in tutto il suo splendore? Quando tutto e tutti cercheranno di rapirtelo e tu
non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai che non
te lo farai rapire quando lo custodirai per tutti, senza separarti da nessuno
proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa succedere a
un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore dell’uomo.
Lo
conferma il profeta Geremia con le sue dichiarazioni taglienti: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che
pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore…
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia”. La
felicità che viene dall’uomo ti unisce a qualcuno e ti separa da altri e se poi
questa diventa la ricerca della vita si risolverà in affanno e tribolazione. La
felicità che viene da Dio scaturisce invece dall’impedire che tu possa goderla
per te stesso e in forza di te stesso, che possa attingerla a partire da te
stesso, ma solo ricevendola e condividendola con il tuo Signore che l’ha fatta
consistere nello splendore del Suo amore. Per questo, il desiderio di felicità
degli uomini pesca assai più profondamente di quanto sembri; allude alle energie
di grazia che impastano il cuore dell’uomo. Quando Gesù parla della ricompensa
grande nei cieli non allude semplicemente alla felicità del paradiso, ma alla
natura della felicità che proviene dall’eterno, che partecipa dell’eterno e che
si esprime nella nostra storia con uno splendore che ha a che fare con
l’eterno. Parla di quella ‘vita eterna’ che Lui ha svelato e comunicato nel suo
Spirito; parla della conoscenza del Figlio dell’uomo, del Volto di Dio
contemplato dagli uomini. La beatitudine allora comporta, come dice ancora s.
Gregorio di Nissa: “Qualunque cosa sia, la beatitudine comprende una vita
innocente, il bene ineffabile e imprendibile, la bellezza indescrivibile, la
fonte della grazia, la sapienza e la potenza, la luce vera, la sorgente di ogni
bene, la forza che tutto domina, ciò che merita di essere amato senza che venga
mai meno, una gioia sempre effervescente, un giubilo ininterrotto di cui si
potrà dire qualsiasi cosa ma non che dipenda dal nostro merito”.
TO VII, C2
1
Sam 26,2-23, sal 102; 1 Cor 15,45-49; Lc 6,27-38
Gesù
continua a parlare ai suoi discepoli illustrando la potenza e l’estensione
della dinamica che l’incontro con lui ha messo in moto. Fa vedere la qualità di
vita per coloro che possono godere della beatitudine loro promessa: “Amate i vostri nemici … fate del bene a
coloro che vi odiano …”. In questo brano c’è però un problema di
traduzione. Così come lo leggiamo nel testo italiano qualcosa ci sfugge e
qualcosa di essenziale. Rilevo alcuni particolari.
L’espressione ‘fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite
in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’ non è
complemento oggetto ma avverbio.
‘Benedite
coloro che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di
quanti vi maledicono’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in
pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta
delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di
parole insolenti, non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole
irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo
l’onore per la persona che l’ha calpestato.
E ancora: ‘pregate per
coloro che vi maltrattano’ andrebbe reso: ‘pregate per coloro
che vi calunniano’ (come l’antica versione latina riportava: orate pro
calumniantibus vos) ad indicare
la risposta al male più subdolo che produce tristezza. È l’ultima tentazione
contro la carità: si può sopportare l’attacco diretto del nemico, si può tacere
di fronte a chi ti insulta, ma resistere alla tristezza che ti invade quando
sei calunniato per malevolenza e invidia (questo è infatti il significato del
verbo greco usato da Luca) sembra sovrumano; allora, solo la preghiera sincera
può salvare il tuo cuore.
L’espressione
però caratteristica dell’intero brano è un’altra: ‘Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?’
Così tradotta la frase non esprime la rivelazione che comporta sulle labbra di
Gesù. In effetti, l’espressione andrebbe resa con ‘se amate quelli che vi
amano, quale grazia avete?’ oppure ‘…qual è la vostra grazia?’ (come sottolinea
l’antica versione latina, fedele al testo greco: ‘quae vobis est gratia?’).
L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce la discriminante tra
il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di che cosa? Questo è
il punto. Ed è l’interrogativo di fondo di tutto il brano: quale grazia
risplende nel vostro agire? Grazia rivela un tipo di esperienza, quella che
procede dalla beatitudine promessa da Gesù e che il discepolo condivide con
Lui. Quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in lui la
prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi
abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo
della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò
rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre
e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo
annunziamo…” (1 Gv 1,1-4). È l’esperienza, in Gesù Salvatore, della
benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono ricevuto, della
dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti dal di dentro. Esperienza che
ha segnato così alla radice il nostro cuore da non poter più vivere se non
nella dinamica di essa. Ma così vivendo non si fa che condividere la stessa
vita del Figlio di Dio, rivelatore del Padre ricco in misericordia. È da dentro
quell’esperienza che scaturisce l’energia di un amore che non si lascia
limitare o soffocare da niente e da nessuno. E quando quell’amore risplende non
si può non domandare: “quale grazia rivela? Di quale grazia è l’espressione?”.
Le situazioni limite addotte da Gesù (amare i nemici, benedire chi ti maledice,
pregare per chi ti maltratta…) rivelano la ‘normalità’ di un cuore ormai
conquistato alla dinamica divina e per questo significative del discepolo di
Cristo.
Così, anche quando Gesù invita a non
giudicare per non essere giudicati, a perdonare per essere perdonati, ad usare
una misura abbondante per i fratelli (gli aggettivi ‘pigiata, scossa
e traboccante’ alludono alla misura
di capacità quando il recipiente, riempito fino all’orlo, è schiacciato e
scosso per farcene stare ancora un po’ e aggiungerne fino a ottenere un piccolo
colmo in superficie) per ricevere con abbondanza a nostra
volta in cambio da Dio, non fa che riprendere la logica di quella stesa
dinamica: nessuna cosa, sia oggetto o affetto, sia motivo di divisione e di
tristezza con i nostri fratelli perché su tutto prevalga l’amore che il Signore
ci ha fatto conoscere in Cristo Gesù. Allora la richiesta insistente a Dio,
nella preghiera della chiesa, non è tanto quella di avere un cuore generoso, di
avere un amore per tutti, ma piuttosto quella che il Suo Volto si riveli al
nostro cuore per essere attratti a vivere nello splendore di quell’amore che ci
ha toccati.
Gioele 2, 12-18; Sal 50; 2 Cor 5, 20 - 6, 2; Mt 6,
1-6.16-18.
Inizia la
Quaresima, ecco il rito delle ceneri: "Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai". Certamente
ognuno di noi tende a sentirsi e a comportarsi come immortale e non è male che
in qualche occasione ci si ricordi che la realtà non segue i nostri sogni. Ma
il senso del rito celebrato in chiesa ha tutta un'altra portata. Ritorniamo al
racconto della creazione di Adamo, quando Dio prese della polvere della terra,
la plasmò e con il suo soffio la rese essere vivente. Nel salmo 50 si dice che
Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino 'conterere',
allude proprio a questo rendere polvere il cuore. Quando ci sentiamo afflitti,
quando subiamo un'offesa, un'ingiustizia, quando subiamo una prova, senza
ribellarci o adirarci, è come se il nostro cuore venisse pestato fino ad essere
ridotto in polvere. E' reso polvere quando non ha più diritti da avanzare, da
rivendicare. Allora, come polvere della terra, Dio lo può plasmare di nuovo ed
il nostro cuore rinasce come essere nuovo, capace di sentimenti nuovi, più
umani e divini allo stesso tempo. E' il senso appunto della penitenza
quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perchè possa essere di nuovo
modellato da Lui. Come ci avverte il profeta Gioele: sarà possibile convertirsi
al Signore senza spogliarsi delle vanità e illusioni del vivere quotidiano?
Cercheremmo il Signore se potessimo soddisfarci con le nostre vanità e con i
nostri soprusi? Ricordarci allora della nostra finitudine significa intravedere
la possibile dignità della vita che scaturisce dall’incontro con il Dio
vivente. In effetti, se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo,
il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente
quella gioia che cerca, nonostante non manchino i tormenti.
La prima
parola della liturgia di quaresima suona: "Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai
creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu
sei il Signore nostro Dio " (antifona d'ingresso). In questa
professione di fede e di amore si innesta l'invito alla penitenza, tipica del
tempo quaresimale. Salta agli occhi il contrasto tra l'austerità del cammino
penitenziale quaresimale e la levità a cui la Chiesa esorta sulla base delle
parole di Gesù ai suoi discepoli: "quando
digiunate, non assumete aria malinconica ... tu invece profumati la testa e
lavati il volto ...". E' il contrasto tra penitenza secondo
gli uomini e conversione secondo Dio. Quale la ragione? La conversione è il
ritorno ad un'intimità, ad un percepire sempre più intensamente la presenza di
quel Dio che ci ha amati e che ci chiama al Suo amore; è un imparare a vedere
le cose a partire da questa intimità con Dio. Scompare la 'scena' sia esteriore
che interiore. C'è scena dove non c'è intimità, dove non si riesce mai ad
entrare nella camera segreta, a stare in compagnia di Dio senza servirci di
tale presunta compagnia per altri scopi. La penitenza ha lo scopo appunto di
toglierci da questa scena, di toglierci questa scena. E se non produce intimità
vuol dire che non raggiunge lo scopo.
Il brano evangelico descrive
l’atteggiamento penitenziale in tre ambiti: elemosina, preghiera e digiuno. La
dimensione negativa è stigmatizzata nell'ipocrisia, mentre la dimensione
positiva risulta sottolineata dalla capacità di relazionarsi
al prossimo (l'elemosina, oltre che una sorta di restituzione, è un atto
fraterno, una condivisione, un riconoscimento del prossimo come nostro
fratello) e a Dio (la preghiera è abolizione del 'teatro', cioè del fare le
cose per essere visti sia dagli altri che da se stessi; il digiuno serve come
sostegno alla preghiera, all'agire interiore pulito e retto, contrassegnato
dalla gioia del cuore che va incontro al proprio Dio e di conseguenza è libero
di incontrare i suoi fratelli). L'ipocrisia è la deviazione dello scopo di
un'azione (la faccio per me piuttosto che per Dio) con l'aggravante del bisogno
di fare teatro (faccio un'azione davanti agli uomini piuttosto che al cospetto
di Dio). L'ipocrisia può essere soggettiva, vale a dire che perseguo scopi
meschini e interessati nel compiere un'azione buona oppure semplicemente
oggettiva, nel senso che io sono in buona fede, ma mi limito all'azione esteriore
senza coinvolgere la conversione del cuore. Una penitenza di questo tipo non
solo non porta frutti secondo lo Spirito, ma macchia il cuore nel senso che lo
rende insensibile al mistero di Dio e dell'uomo. L'elemento che suggerisce
meglio la corrispondenza dell'azione esteriore con la conversione interiore del
cuore è appunto la gioia, quel senso di levità, di non seriosità con cui si
compiono le buone opere lontani da quel dannato senso di importanza che ci
diamo o da quell'ottuso bisogno di affermazione presso gli altri che ci divora.
E' significativo che la chiesa, all'inizio del cammino quaresimale, ricordi
proprio questa condizione di levità con cui occorre compiere tutte le opere di
penitenza. E' il modo più autentico per far rimarcare come le opere di
penitenza non riguardino che la conversione del cuore e la conversione del
cuore non consista in altro che in una capacità di 'fare incontro' con Dio, con
il prossimo, con noi stessi. La ricompensa promessa non ha nulla a che fare con
la paga dovuta al lavoro fatto; riguarda solo la rivelazione e la pienezza che
gusta il cuore quando viene incontrato da Qualcuno di cui porta il desiderio,
quando si apre alla vita di una relazione che trasforma totalmente il suo modo
di vedere e di sentire.
C’è ancora un aspetto della
penitenza sottolineato dall'esortazione di Paolo ad essere collaboratori di
Dio, collaboratori al mistero della riconciliazione perché gli uomini possano
fare esperienza dell'amore di Dio. Fare le opere davanti agli uomini significa
privare gli uomini dell'occasione di porsi davanti a Dio. Fare le opere davanti
a Dio significa porsi dentro questo mistero di riconciliazione con tutto
il bisogno dei nostri cuori di essere perdonati e di scambiarsi il perdono
vicendevolmente, come segno dell'amore di Dio arrivato fino a noi. Ogni tipo di
penitenza gradita a Dio ci ottiene l'inserimento in questo mistero di
riconciliazione, dove, per la verità dell'amore provato, non c'è più spazio per
la 'scena', nemmeno in noi stessi.
PRIMA
DOMENICA QUARESIMA, ANNO C
Dt
26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13;
Lc 4,1-13
Il cammino quaresimale, iniziato con
il mercoledì delle ceneri, mostra subito tutta la sua drammaticità: se Gesù è
tentato dal diavolo, che ne sarà di noi? Ma in che cosa il diavolo tenta? Cosa
cerca di ottenere? La liturgia suggerisce varie porte di accesso alla
comprensione di quella esperienza misteriosa.
Nell’orazione dopo la comunione si
proclama: “Il pane del cielo che ci hai dato, o Padre, alimenti in noi la fede,
accresca la speranza, rafforzi la carità, e ci insegni ad aver fame di Cristo,
pane vivo e vero e a nutrirci di ogni parola che esce dalla sua bocca”. Ecco il
punto: ‘aver fame di Cristo’, come ‘Cristo ha fame di noi’. Proprio nella sua
‘fame di noi’ Gesù è tentato. Il testo dice: “In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano
e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato
dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe
fame”. Le tentazioni seguono l’esperienza di una pienezza, quella del
battesimo, con la manifestazione dello Spirito che riposa su Gesù, come se lo
zelo per il Signore che muove Gesù nel suo compito messianico potesse risultare
equivoco. Il diavolo lo tenta non nel senso di distoglierlo da Dio inducendolo
al male, ma di suggerirgli che c’è un modo molto più diretto ed efficace per
arrivare al suo scopo. L’inganno starebbe nel fatto di fargli fare qualcosa in
nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio.
L’offerta del diavolo è un’offerta
di potere: conquistare gli uomini, ma assoggettandoli. Conquistarli facendoli
strabiliare; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio. Il diavolo riconosce
che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei Figlio di Dio” significa: dato che tu sei Figlio di Dio, allora puoi… hai il potere di
trasformare le pietre in pani; hai il potere di buttarti giù e restare indenne.
Quando gli offre la gloria del mondo, è consapevole che Gesù è inviato al
mondo, ma il diavolo non conosce i segreti di Dio né desidera averne parte, per
cui tratta Gesù da par suo ed è disposto a passare in sordina davanti al mondo,
per bearsi del fatto che chi conquista il mondo riconosca che lo deve alla sua
nefasta liberalità.
Nella vita, la
dinamica essenziale in gioco è questa e vale in generale: se tu vuoi
assoggettare qualcuno a te, vuol dire che tu sei assoggettato a qualcun altro.
Se hai bisogno di dominare, è perché già sei dominato da qualcosa. Se vuoi
esercitare un potere, è perché tu sei schiacciato da un altro potere. Vale a
dire: non è buono il potere, ma l'obbedienza; non vale il potere, ma
l'amore. Nell'obbedienza (Gesù non aveva altro nutrimento che quello di fare la
volontà del Padre; non aveva altra libertà se non quella di godere dell'intimità
col Padre al punto da fare sempre quello che Lui vuole) e nell'amore (Gesù non
aveva altro potere sull'uomo se non quello dell'amore assoluto e non si
illude mai di sostituirlo con qualcosa che soltanto gli possa assomigliare ma
non lo è) trovi tanta libertà da non aver bisogno di dimostrare mai nulla né di
esercitare dominio mai su nessuno. Allora anche il nostro agire sarà
divino. Sia l'amore che la realizzazione dell'amore hanno bisogno di provenire
da Dio. Per Gesù, il suo essere Figlio di Dio ed il suo compito di Messia
inviato da Dio, sono un tutt'uno. Nel compimento umano del compito ricevuto
mantiene la modalità divina e rifiuta ogni illusione del potere.
La penitenza quaresimale è appunto
diretta contro l'illusione del potere esercitato in tutte le sue forme. Tutte
le forme perverse del potere derivano dall’illusione di scegliere Dio senza
stare dalla parte degli uomini o di scegliere l’uomo senza stare dalla parte di
Dio. Le risposte di Gesù frantumano l'illusione con la quale il diavolo
irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere
l'illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel commentare il Padre Nostro:
"sia fatta la tua volontà come in
cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a
te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a
te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte
le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e
del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro
prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo
amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non
recando offesa a nessuno". E' l'illusione infranta, la libertà acquisita,
lo spazio nuovo dell'umanità da riempire.
Il diavolo si serve delle parole del
salmo 90 per tentare Gesù. Tutto il salmo è stato letto dalla tradizione come
profezia delle tentazioni di Gesù. Quando
il diavolo suggerisce le parole: “Egli darà
ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti
porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede”, i Padri notano che tace il versetto successivo: “Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai
leoni e draghi”, perché in realtà è diretto contro di lui, come riporterà
Luca 10,19: “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare
sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi
potrà danneggiare”. La potenza dell’Altissimo custodisce l’umanità del
Figlio proprio dandole il potere di calpestare ogni potenza del nemico e
custodendola nella sua fedeltà all’intimità col Padre nel suo amore per gli
uomini. È il preludio alla vittoria sulla morte nel tempo della passione. Se
confrontiamo il salmo col passo di Luca 10,17-24 scopriamo cose insospettabili.
All’esultanza, drammatica, dell’Uomo che proprio quando sarà schiacciato
confessa tutta la fedeltà nel suo Dio, partecipe del suo segreto fino in fondo,
corrisponde l’esultanza traboccante di Gesù davanti ai discepoli,
predicatori-testimoni della sua parola di salvezza che vince il diavolo, in
quanto anch’essi hanno parte agli stessi segreti suoi, perché così è piaciuto
al Padre. “Beati gli occhi che vedono ciò
che voi vedete” dirà Gesù. E quella beatitudine diventerà gustabile dai
discepoli quando i loro sguardi sapranno cogliere i segreti di Dio nel volgersi
a Colui che per loro sarà trafitto. Tutto il cammino porta là, alla Pasqua,
come prega la colletta: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di
crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una
degna condotta di vita”.
SECONDA
DOMENICA QUARESIMA, ANNO C
Gen
15,5-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1;
Lc 9,28-36.
L’antica colletta ci fa supplicare:
“purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della
tua gloria”, mentre il canto al vangelo proclama: “ Questi è il mio Figlio
prediletto: ascoltatelo”. Viene così delineato dalla liturgia di oggi
l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo, conoscerne il
mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo
obiettivo. Perché essenzialmente di questo si tratta in quanto tutto qui si
riassume: "Questi è
il mio Figlio prediletto:ascoltatelo". La tensione del
mostrarsi di Dio all'uomo converge verso questo unico punto: conoscere il suo
Figlio prediletto, vedere il suo Volto. Ma anche la tensione del cuore
dell'uomo, che cerca vita e vita che duri, in questo unico punto trova
compimento. Ascoltarlo significa allora percepire che la vita consiste in
questo immergersi e ritrovarsi nello splendore del suo Volto, significa vedere
se stessi, le cose, il mondo, la storia, da dentro il rapporto, accettato, con
questo Figlio prediletto. Così, prima di ritrovarci immersi nel dramma della
passione e della morte, la liturgia ci 'consola' con la visione della
trasfigurazione, preludio alla risurrezione, allo scopo di insegnarci a
vedere nel volto martoriato e insanguinato il Volto del Signore della gloria.
Se gli apostoli si sono ritrovati confusi e smarriti nel momento del dolore,
loro che la visione l'hanno goduta con i loro propri occhi, vuol dire che anche
per noi le cose non andranno diversamente.
A
quale condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del
cuore, nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te ha detto
il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco” potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul monte
della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito allora i
cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di esserne
ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la
contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce
misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza. Già
al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il
Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto anche l’
“ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere tutta
l'estensione di quell’ “ascoltatelo!”, fin dove li porterà l'ascoltare il loro
Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell'espressione
“Figlio mio prediletto”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro
occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della
loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e
da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena
della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di
segnare i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può
che seguire la consegna del silenzio, perché l'evento divino, ancora misterioso
al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.
Alla fine della vita Pietro
ricorderà la potenza singolare di quella strana visione: “Infatti, non
per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto
conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché
siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore
e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce:
"Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto".
Questa voce noi l' abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul
santo monte” (2Pt 1,16-18). E
Giovanni, ancora più avanti nel tempo, ricorderà: “e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno
di grazia e di verità” (Gv 1,14) come anche scriverà nella sua lettera: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi
abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo
della vita…” (1Gv 1,1).
Ma quando i discepoli seguono Gesù
sul monte tutto è ancora confuso. Si notino i particolari: i discepoli sono
oppressi dal sonno, si svegliano come per un attimo, sono impauriti e
ammutoliti – le uniche parole che pronuncia Pietro, sembra non abbiano alcun
senso, se non quello di rivelare il rapimento dei loro cuori! Confusione,
quindi, che contrasta con la luce sfolgorante della visione, che la narrazione
evangelica annota espressamente essere avvenuta dopo l’annuncio ai discepoli da
parte di Gesù della sua passione. Con un dettaglio misterioso: “In verità vi
dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno prima di aver visto il
regno di Dio". Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé
Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare…”. La trasfigurazione ha a che fare con il ‘vedere il
regno di Dio’. Cosa significa? L’espressione è fortemente misteriosa. Si può
vedere il regno di Dio? E dove? Equivale a domandarci: si può vedere la gloria
di Dio? E dove? La gloria di Dio è lo splendore dell’amore di Dio che rifulge
in Gesù, morto e risorto per noi. Per questo il colloquio di Mosè e Elia con
Gesù non può che concernere la sua morte e risurrezione, centro della storia
del mondo e motivo della rivelazione di Dio da sempre, come per mostrare che
tutte le Scritture non hanno altro mistero da svelare se non quell’amore,
svelato e sigillato in Gesù, che riconcilia gli uomini con Dio. Amore che ha un
volto, il Volto del Signore Gesù. Amore, che dà a sua volta un volto a chi se
ne lascia penetrare. E chi scopre il suo volto splende a sua volta dello stesso
amore. È l’esito della sequela del Signore Gesù che i discepoli lasciano
intravedere e di cui impariamo a rilevare le tracce nel corso del nostro
cammino.
TERZA
DOMENICA QUARESIMA, ANNO C
Es
3,1-15; Sal 102; 1 Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Il canto al vangelo dà il senso preciso della odierna liturgia e di tutto
il cammino quaresimale, rilanciando il grido di Gesù che attraversa tutta
quanta la sua predicazione: “Convertitevi,
perché il regno dei cieli è vicino” (a volte viene tradotto: ‘Fate
penitenza’!). Tutto il capitolo 13 di Luca è come un ‘grido’ di Gesù che
esercita una pressione sui cuori: ‘convertitevi’! La forza è tale che possiamo
domandarci: da dove gli deriva quell’urgenza? Sarà da mettere in relazione alla
sua morte prossima? È lo zelo per il suo compito messianico? Tutto il capitolo
tende a dirigere gli sguardi su quello che avverrà a Gerusalemme, sulla
rivelazione che comporterà la sua ‘passione’ a Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i
profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto
raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non
avete voluto! Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta! Vi dico infatti
che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene
nel nome del Signore!”. Quando Gesù sollecita i cuori alla conversione, la
posta in gioco è proprio la possibilità della visione di Dio, la possibilità di
partecipare ai segreti di Dio che si svelano al mondo, la possibilità di
un’esperienza di umanità ritrovata e guarita nell’accoglienza dell’ amore
salvatore di Dio che in Gesù ha appunto il suo sigillo ultimativo. La cosa è
così essenziale per la vita dell’uomo che non è più possibile tergiversare, non
è più possibile far finta, pena la rovina.
Quando la gente cerca di ottenere da Gesù la conferma di un senso
plausibile alle crudeltà della storia (vedi l’esempio dei Galilei uccisi da
Pilato e degli altri periti in un incidente di vita quotidiana), si sente
ributtata nell’assurdo. I ragionamenti umani non possono superare l’assurdo. In
effetti è assurdo pensare che, se io sono risparmiato dal dolore, significa che
ho Dio dalla mia parte! L’uomo non ha alcun potere su Dio e quindi è
perfettamente inutile che cerchi di avere Dio dalla sua parte. Dio è già dalla
sua parte, ma in un modo che non è scontato vedere e vivere. L’esempio di Gesù
è lì a evidenziarlo. Lui è l’Inviato di Dio, Lui è la rivelazione dell’amore di
Dio. Da come accogliamo Lui, accogliamo la vita. Gesù è tutto teso a quel
‘gridare’: ‘convertitevi!...’. Senza la conversione all’alleanza di Dio, di cui
Lui costituisce il sigillo, periremo tutti, sia perché non potremo saziare il
desiderio del nostro cuore e verremo lasciati in balia delle nostre ossessioni
sia perché, oppressi da quelle ossessioni, ci renderemo la vita impossibile gli
uni contro gli altri.
Ora, la conversione si gioca proprio nell’accogliere la rivelazione di Dio,
nello scoprire chi sia Dio per noi. Il grido di Gesù sale dalla profondità del
mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale,
il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio
confessa a Mosé: “Ho osservato la miseria
del mio popolo in Egitto …conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per
liberarlo …”. In quel ‘conosco le sue sofferenze’ si rivela tutta la
partecipazione dell’amore di Dio per le sue creature, tutta la sua prossimità
all’uomo, tutta l’accondiscendenza che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli
antichi commentatori ebraici spiegano così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro
come soffrono loro … le loro pene mi riguardano; vedo anche le pene che non
dicono, ma che opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi
dovrà presentarsi, Dio risponde: “Io sono
colui che sono! …il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio
di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime
ciò che l’uomo di Lui può sperimentare quando lo invoca, quando, avendolo
invocato, ne coglie la vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore.
L’espressione, misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che
sono’ può voler dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io sono là con voi come
voi vedrete’; ‘io sono colui che tu vedrai quando invocandomi io ci sarò’; ‘chi
io sia voi lo saprete da quello che farò per voi’. Il nome di Dio non rinvia
semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è
sempre Dio di: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele,
Dio di Gesù Cristo, Dio di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come
Dio, El, fa parte del nome del popolo, Isra-El. ‘Nostro’ o ‘mio’ ed ‘unico’ in
rapporto a Dio stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza di Dio con l’uomo.
Tanto che, secondo la bellissima espressione di Origene, in questa alleanza che si rivela nel Nome di
Dio è sottesa tutta la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari
venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse
mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco,
Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro” (ORIGENE, Omelie
su Giosué, Omelia XVIII,3).
Se il salmo 102 lo mettiamo in bocca
allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero cogliere! Lui può comprendere
quello che Gesù dice di sé nelle parole di benedizione dei credenti che lo
riconoscono come l’Inviato: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di quella
benedizione: “Benedici il Signore, anima mia, quanto
è in me benedica il suo santo nome”. Tutto il mio intimo lo
benedica; la benedizione di Lui salga dal mio cuore, dalla mia storia, dal
mondo che per quella benedizione vive. Quando
proclamiamo: “Egli perdona tutte le tue
colpe, guarisce tutte le tue malattie…Buono e pietoso è il Signore, lento
all’ira e grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome
di Dio per il nostro cuore che ha cambiato tutta la nostra vita, ce l’ha fatta
apparire sotto tutta un’altra luce, trasfigurandola. Proprio alla scoperta del
Nome di Dio che si rivela in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.
QUARTA
DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO C
Gs
5,9-12; sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
Le parabole,
prima che di noi, parlano di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del
cammino quaresimale e la chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori?
Possono i peccatori trovare salvezza?
La risposta è
nello stesso annuncio evangelico, che Gesù sintetizza splendidamente con la
parabola del figlio prodigo, parabola che sarebbe meglio chiamare del padre
misericordioso. L’antifona di ingresso della liturgia ne esalta subito l’esito
parafrasando un passo del profeta Isaia: “Rallegratevi
con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con
essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo
petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all'
abbondanza del suo seno” (Is 66,10-11). L’immagine è di un bambino ingordo
che succhia al seno della mamma e se ne sazia beato. È l’immagine dell’uomo
peccatore che, pentito, torna al suo Dio e ne scopre la tenerezza. Non è però
un’immagine usuale per la fantasia religiosa dell’uomo. L’uomo preferisce
distinguersi dai suoi simili, peccatori, esibendo una parvenza di giustizia,
senza tener conto dei sentimenti di Dio. Ed è
proprio questo che rende la sua ‘giustizia’ non gradita perché non
solidale con i sentimenti di Dio.
Gesù è indotto
a raccontare la parabola a causa delle lamentele, che diventano perfino accuse,
da parte dei farisei di fronte al suo agire: “I farisei e gli scribi
mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2).
Non si davano pena dei sentimenti di Dio come rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto: "Il Signore mi ha
abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna
del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche
se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is
49, 14-15) O dell’altro passo: “In un
impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto
perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore” (Is 54,8).
Non si ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per
la sua irritazione a causa della pianta di ricino seccata (cfr Gio 4, 10-11).
Di fronte alla parabola del figlio
prodigo potremmo farci una domanda a proposito dei sentimenti dei figli tra
loro e verso il loro padre. È chiaro che la comunione con il padre resta il
segreto della felicità dei due figli. Ora, cosa sarebbe successo se il figlio
minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del fratello
maggiore che non poteva accettare quel trattamento di riguardo del padre a suo
favore? Se avesse preteso comprensione anche dal fratello maggiore, sarebbe
stato sincero nel suo pentimento verso il padre? E se il figlio maggiore si
fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto rivendicare
qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al padre, durante
tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire: “speriamo ritorni … speriamo
non gli capiti qualcosa di irreparabile…”. Il punto è esattamente questo
allora: stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per
poter godere della sua gioia. È questa la comunione con il padre, il segreto
della felicità dei figli. È Gesù a rivelare a quale livello di intimità si
situa il segreto della felicità nella comunione con il Padre: “Tutte le cose
mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” (Gv 17,10), come esattamente il padre della parabola dice al figlio
maggiore. Quando i figli saranno capaci di dire con le parole del salmo: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te
nulla bramo sulla terra” (Sal 73,25) allora saranno nella pace e godranno
la fraternità.
Se s. Paolo proclama che il
ministero della chiesa è la riconciliazione, come riporta la seconda lettura,
vuol dire che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del perdono
di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della ‘nuova’ umanità a noi donata
in Cristo, che tutta la vita umana assume la tensione di estendere a tutto e a
tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. E se, come si legge nella
stessa lettera: “Tutto questo però viene
da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il
ministero della riconciliazione”, 2Cor 5,18), Dio affida all’uomo il
ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno.
"Siamo infatti collaboratori di Dio"
(1Cor 3,9). Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo
supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete
intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature, come la stessa parabola di
Gesù rivela. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere
a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: «Il
Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la
riconciliazione in Gesù, nostra pace ("Egli
infatti è la nostra pace", Ef 2,14). Noi tutti siamo chiamati a
concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo
imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo
scopo divino. Così si fa esperienza di essere solidali con i sentimenti di Dio,
perché in questo consiste la letizia dell’uomo, la cui porta di accesso è il
pentimento, come per il figlio che rientra in se stesso e pensa a suo padre
decidendo di ritornare a casa, nonostante la sua vergogna. Dal pentimento si sviluppa
la conversione, l’incontro con Dio e la possibilità di vivere una ‘nuova’
fraternità, partecipi della gioia del padre che invita alla festa.
QUINTA
DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO C
Is
43,16-21; sal 125; Fil 3,8-14;
Gv 8,1-11
Con quale sincerità e intensità
sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata, scoperta, strattonata,
minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse essere perdonata da
Gesù, le parole del salmo: “Grandi cose
ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia” (Sal 126,3)! È da
dentro questa gioia inattesa, confusa, che si apre per il cuore uno spazio di
intimità tutto nuovo, secondo quella novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora
germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). È lo spazio di una ritrovata
dignità, che si percepisce dal tono dolce con cui ci viene rivolta la parola in
quella intimità di benevolenza con cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di
dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e
d’ora in poi non peccare più”.
All’inizio, dopo il perdono del
nostro peccato, non riusciamo ancora a sentire l’amore che ci viene donato.
Tutto resta ancora assai confuso, ma emerge subito chiaro il senso di una
dignità ritrovata. Tutto ciò che di male abbiamo commesso, quando siamo davanti
al Signore Gesù, resta scritto sulla polvere. Soltanto però il male
riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta scritto sulla
polvere. Quello che non è riconosciuto, quello che non è espresso, quello che
si mantiene nascosto, resta in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza
di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne devono andare perché,
effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di essere senza peccato.
Non avevano quel peccato di cui accusavano la donna, ma ne avevano altri. Ma
loro non hanno fatto esperienza della benevolenza di Dio. La donna, invece,
scoperta in flagrante adulterio, non potendo nascondere nulla, resta davanti a
Gesù: non si scusa, non rivendica, e ritrova la dignità del suo cuore nella
benevolenza di Gesù. Una volta confermati in quella dignità e in quella
benevolenza, il cuore incomincia a sentire l’amore che ci ha toccati,
incomincia a sentire il desiderio di rispondere a quell’amore fino a modellare
tutta la sua vita su di esso e in esso. Ma se prevalessero le nostre
rivendicazioni, le voci del passato, delle sofferenze passate, come ritrovare
la dignità?
La logica interiore di quella
esperienza è ben descritta da s. Paolo, nella lettera ai Filippesi: “Tutto io reputo una perdita di fronte alla
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore … perché io possa
conoscere lui, la potenza della sua resurrezione, la partecipazione alle sue
sofferenze … mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato
conquistato da Gesù Cristo… dimentico del passato e proteso verso il futuro…”. Di fronte a quella ‘carità’, che vorremmo
riempisse tutta la nostra vita, tutto è reputato una perdita. Non puoi non
tendere a ciò da cui è venuto per te il
senso della tua dignità e la scoperta della benevolenza di Dio verso gli
uomini. Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai abbandonato alla
polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te nella
condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per gli uomini.
L’inganno che può ancora nascondersi
nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di ‘dimenticare’ il proprio peccato
e perdere così la solidarietà con i nostri fratelli peccatori. Il segno di tale
dimenticanza è ravvisabile nel momento in cui mi difendo dai miei fratelli,
rivendico qualcosa da Dio contro i miei fratelli. Ciò significherebbe che la
benevolenza di Dio è diventata per me un diritto, perdendo tutta la profondità
dell’intimità con cui mi era stata rivolta.
S. Cipriano ricorda, nel suo
commento al Padre Nostro, che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è
la generosità per essere capaci di perdonare, ma la coscienza di essere
peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci peccatori, non abbiamo
diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio,
perché siamo solidali con tutti i nostri fratelli, non avendo alcun motivo di
rivendicazione nei loro confronti e quindi non separandoci da loro per nessun
motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per gli uomini.
DOMENICA DELLE PALME, ANNO C
Lc
19,28-40// Is 50,4-7; sal 21; Fil 2,6-11;
Lc 22,14-23,56
La liturgia di oggi dà inizio alle
celebrazioni della Settimana Santa. Accompagneremo Gesù nel suo cammino di
passione, allorché il sentimento che occupa la scena è sgomento, dolore,
confusione, imparando a stare solidali con Colui che votò la sua vita a stare
solidale con i peccatori, dalla parte di Dio. Un sentimento di esultanza, di
euforia quasi, introduce agli avvenimenti pasquali: Gesù entra trionfalmente in
Gerusalemme acclamato da ali festanti di discepoli. Assai presto, molto presto
quell’euforia cederà il passo alla paura, alla vergogna, alla confusione, al
tradimento e all’accusa. E quando tutto sarà compiuto, quando tutto sembrerà
ormai definitivamente cancellato nel silenzio della morte che tutto sigilla
nell’oblio, risuonerà ancora un grido di gioia la domenica di Pasqua, ma questa
volta senza nessuna euforia, come strappato a forza, trasfigurante nella sua
assoluta imprevedibilità. Sarà il grido, non che vince la morte, ma che
l’attraversa, che l’assume, che la libera dai suoi confini mondani aprendola
allo splendore del mistero di Dio.
Nel racconto di Luca Gesù aveva
puntato diritto a Gerusalemme nel corso del suo ministero. E’ ormai alle sue
porte, sta per entrarvi perché sa che è giunta la sua ora e non si sottrae più
all’acclamazione festosa dei discepoli. Loro forse pensano altra cosa rispetto
a quello che ha in mente Gesù, ma sottolineano comunque la sua realtà di Messia
liberatore, di Inviato di Dio per il suo popolo, la Benedizione che rappresenta
per loro tutti da parte di Dio. Ma appena terminata la processione, quando ha
inizio la liturgia eucaristica, il tono muta profondamente: emergono allora i
pensieri di Gesù, quelli che i discepoli non potevano leggere, si intravedono i
pensieri di Dio sul suo Figlio venuto a rivelare l’amore del Padre per gli
uomini. Subito la colletta fa pregare: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato
come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e
umiliato fino alla morte di croce …”. Non c’è più nemmeno l’ombra
dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto del Servo del Signore del
profeta Isaia: “Ho presentato il dorso ai
flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto
la faccia agli insulti e agli sputi…”. Si canta il salmo 21: “… hanno forato le mie mani e i miei piedi,
posso contare tutte le mie ossa. Si dividono le mie vesti, sul mio vestito
gettano la sorte”. Se sentissimo proclamare per la prima volta queste
parole scritte molti secoli prima di Gesù e pensassimo agli eventi della sua
passione-crocifissione resteremmo folgorati! Tutto è descritto nei minimi
dettagli! Incredibile. E s. Paolo canta la figura di Gesù nella sua passione
d’amore per gli uomini: “…spogliò se
stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e
alla morte di croce …”. E viene poi annunciato solennemente il racconto
evangelico della passione di Gesù.
Su questo Gesù la chiesa invita a
fissare gli sguardi, in tutta la sua consistenza umana e storica, in tutta la
potenza della sua rivelazione di quanto Dio ama gli uomini, di quanto gli
uomini sono preziosi per Lui, di quanto venga rivoluzionata la vita se vissuta
dentro e a partire dal Suo amore. Come stupendamente ci ricorda la lettera agli
Ebrei: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù,
autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era
posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio.
Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande
ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Eb
12,2-3).
Quando la colletta ci propone Gesù
come modello intende sì porci davanti agli occhi il Gesù fatto uomo e umiliato,
e fino a che punto umiliato!, ma non per suggerirci un modello di umanità
sofferente. Gesù resta modello perché se vogliamo realizzare la nostra
vocazione all’umanità, se vogliamo vivere la nostra umanità in tutta
l’estensione della sua potenzialità, non possiamo non rifarci a Lui che di
questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione
con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte
di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal
dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per
tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza
a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente
ed urgentemente bisogno.
TRIDUO
PASQUALE.
Le
celebrazioni del triduo pasquale del giovedì, venerdì e sabato santo con la
veglia di risurrezione costituisce come un tutt’uno e si può intravedere come
un’unica linea di sviluppo che le attraversa, carica del mistero di cui siamo
chiamati ad assumere la verità.
Introduce
alle celebrazioni la messa del crisma, che sottolinea l’unità della chiesa
attorno al suo vescovo che consacra il sacro crisma di cui i battezzati e
cresimati verranno unti, come dice la preghiera: “Quest’unzione li penetri
tutti e li santifichi, perché, non più soggetti all’eredità del male, spandano
il profumo di una vita santa e divengano tempio della tua maestà divina. Si
compia in essi il disegno misterioso del tuo amore …”. Eco delle parole dell’apostolo:“Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa
partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo
della sua conoscenza nel mondo intero! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il
profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono…”
(2 Cor 2,14-16). Come credenti in Cristo siamo chiamati a diffondere lo
splendore del nome di Cristo, a rendere desiderabile, con la testimonianza
della nostra vita, la conoscenza del Signore Gesù, profumo gradito al cuore
dell’uomo.
La
cena del Signore del giovedì santo celebra l’istituzione dell’eucaristia e del
sacerdozio e contemporaneamente il sacramento del servizio attraverso il rito
della lavanda dei piedi. Qual è la virtù specifica dell’eucaristia, si chiede
Agostino? E’ quella di produrre unità, di essere ciò che riceviamo, cioè un
corpo unico, noi che siamo le sue membra. L’amen che rispondiamo al ‘Corpo di
Cristo’ proferito dal sacerdote al momento della comunione significa: sì,
riconosco di far parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire
mai l’unità di quel corpo. E’ il mistero della comunione con Dio e tra gli
uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore. Per questo il
sacramento del servizio espresso dalla lavanda dei piedi non è in funzione di
una solidarietà o di una generosità umana, ma in funzione dello splendore del
mistero di Cristo, profumo della conoscenza del Cristo. Qui riceve tutta la sua
potenza il comandamento dell’amore al prossimo.
La
proclamazione della passione del Signore e l’adorazione della croce il venerdì
santo rivelano l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini colte
nel mistero della sua obbedienza fino alla morte, e alla morte di croce.
L’obbedienza del Figlio di Dio, che non gli ha fatto preferire nulla a noi,
nemmeno la sua gloria divina, in ciò condividendo con il Padre e lo Spirito
Santo la passione d’amore per noi uomini, suoi figli, induce noi a non
preferire nulla a Lui, e in ciò condividendo la sua obbedienza all’amore senza
ricercare altra contropartita. Di qui scaturisce quella salvezza che risana i
cuori e li abilita alla vita in Dio, alla vita non più soggetta alla morte,
cioè non più dominata da tutto ciò che attiene alla morte.
Tutto
il sabato santo trascorre nel silenzio liturgico in attesa della veglia
pasquale che annuncia la restituzione ai discepoli del loro Signore, il
Vivente, con i segni indelebili nel corpo della sua passione salvatrice. Se
viva è stata la compassione per l’Uomo dei dolori, prorompente sarà la gioia
per la notizia della risurrezione del Signore. E’ una notizia certa, ma non
evidente. E’ una notizia vera, ma non apodittica. Perché quella notizia ha
bisogno di tempo per apparire in tutta la sua potenza, per convincere i nostri
cuori e scoprir loro la sorgente di gioia inesauribile che costituisce. Ha
bisogno di spazi per espandersi, ha bisogno di condivisione per rafforzarsi, ha
bisogno di testimonianze per risplendere. Sono i tempi della chiesa, gli spazi
dell’umanità, la condivisione e le testimonianze dei credenti, perché i nostri
cuori finalmente si convincano a ‘vedere’ e a ‘riconoscere’ il Signore Gesù in
tutta la sua bellezza, morto e risorto per noi.
E
la gioia della sua conoscenza profumi la nostra vita e ne manifesti lo
splendore.
DOMENICA
DI PASQUA
RISURREZIONE
DEL SIGNORE
Un’antifona del sabato santo
introduce al mistero della risurrezione del Signore: “Cristo per noi si è fatto
obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha
innalzato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome”. E così esulta la
chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o
Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella
vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci
deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo
la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia,
ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla
fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che
si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della
vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu,
o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi
sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi
sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso
il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia
non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che
io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori
della notte, al mattino della tua presenza”.
Il racconto della risurrezione di
Gesù, come viene letto nel cap. 20 di Giovanni, cela una eccezionale ricchezza
teologica ed è percorso da una tensione fortissima che proviene dal fatto di
avvicinarci alla frontiera che delimita questo mondo dall’altro mondo, le cose
di quaggiù dalle cose di lassù, ciò che si vede da ciò che ci viene mostrato
soltanto. Le prime parole suddividono il tempo e tutto il capitolo, che narra
gli eventi del giorno della risurrezione, giorno uno e ottavo, resta così
suddiviso: l’alba, la tomba vuota (20,1-10); il mattino, Gesù appare a Maria
(20, 11-18); la sera, Gesù si mostra ai discepoli (20, 19-23); il sigillo
dell’ottavo giorno, l’apparizione a Tommaso (20, 24-29); la conclusione, la
finalità del vangelo (20, 30-31).
Il primo giorno, il giorno uno della
settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto
ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo
personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A
differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza
della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata
portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al
sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo
di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento
è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro.
Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per
lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima
vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e
non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa
all’angoscia dell’incertezza. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal
sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto
l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a
proposito di Giovanni entrato nel sepolcro. L’episodio dei due discepoli che
corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla
fine, alle straordinarie parole: “Allora
entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che
viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di
avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della
risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide
e credette”. La tensione del racconto punta qui. Ma cosa ‘vide’ Giovanni?
Anzitutto, a quel ‘vide’ non arriva tramite deduzione logica, tramite ragionamenti.
Si tratta di una percezione folgorante che contemporaneamente fa comprendere
l’evento e tutto ciò che l’ha preceduto, tutte le Scritture che a quello si
riferivano. Non è un capire, ma un ricevere una rivelazione per la quale tutto
si illumina e tutto prende luce. Possiamo farci un’idea del come e del perché
il discepolo che Gesù amava, entrando nel sepolcro, abbia potuto ‘vedere e
credere’? Si è cercato di rintracciare, anche a livello esegetico, quel
‘qualcosa’ che dentro il sepolcro ha indotto Giovanni a credere. Avrebbe visto
le fasce e il lenzuolo funerario abbassate, non disciolte e il sudario, che era
posto sul capo, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una
posizione unica, cioè in una posizione diversa: invece che essere disteso sulla
pietra sepolcrale con le fasce, era rialzato e avvolto, come inamidato da
quella luce e calore che dovettero prosciugare di colpo gli aromi che
impregnavano le tele.
Comunque sia spiegato l’evento, è
chiaro che la risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i suoi
discepoli. L’esperienza della tomba vuota situa ormai l’intelligenza del
mistero di Dio in una luce assolutamente particolare e apre all’uomo l’accesso
di un tempo ‘eterno’ in cui situare la storia e gli eventi, attraversati così dallo
splendore del corpo glorioso di Cristo, in attesa che quello splendore riempia
gli occhi e investa il cuore.
L’augurio della gioia pasquale
allude proprio al dono di quella luce che inonda gli occhi e il cuore per farci
vivere nella presenza del Signore che ci trascina nel regno del Padre suo.
Il Signore è risorto! E’ davvero risorto!
SECONDA
DOMENICA DI PASQUA, ANNO C
At
5,12-16; sal 117; Ap 1,9-19;
Gv 20,19-31
Una domanda risuona insistente nella
liturgia bizantina di oggi a proposito dell'audacia di Tommaso: come poté
toccare e non restare bruciato? “O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato
il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato
igneo di Gesù Cristo Dio e non è stato bruciato da questo contatto…”; “Chi
impedì che la mano del discepolo si fondesse quando l’accostò al fianco
infuocato del Signore? Chi le diede l’ardire e la forza di tastare ossa
fiammeggianti? Fu il costato stesso che egli toccò. Se quel costato non avesse
trasmesso il potere a una destra di fango, come avrebbe potuto toccare il segno
dei patimenti che avevano scosso le regioni superiori e inferiori?”. La
liturgia drammatizza un evento per mostrarcene il mistero. Da parte di Tommaso
non si tratta di un semplice ‘riconoscimento’, come da parte nostra non si
tratta di un semplice riconoscere vera la risurrezione di Gesù. Il
coinvolgimento è molto più profondo e misterioso.
Tommaso non è un pavido, un
insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo
presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù.
Semplicemente, non vuole illudersi. Il suo dubbio procede da un cuore che
ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli
dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di
ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto
seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la
più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo,
la più intima delle professioni. In quel 'mio' c'è tutto l'anelito del suo cuore,
la sua appassionata esperienza di Lui; in quel 'Signore e Dio', c'è tutta la
rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture, come
tutti i racconti di risurrezione annotano: ‘aprì loro la mente all’intelligenza
delle Scritture’. Lì Tommaso ha compreso le parole di Gesù: “Non vi chiamo
più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho
chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l' ho fatto conoscere a
voi” (Gv 15,15). È
diventato amico perché ha conosciuto i suoi segreti. Da dentro questa
conoscenza deriva anche a noi la possibilità della stessa esperienza:
“Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto
dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza
simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del
reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario
prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di
toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della
teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia, perché
chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio
Signore e mio Dio, gloria a te”. Se da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai
discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono
proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte
dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno
solo senso come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di
Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da Lui deriva e
a Lui si volge sazia il cuore fino alla letizia di vedere che tutti i cuori si
possano di Lui saziare.
La pace che Gesù risorto dona è
appunto la pace che scaturisce dal vedere il suo Volto, dal vederLo con tutti i
segni di quell'amore che fa riposare il nostro cuore, gli fa trovare casa, gli
fa trovare la sua casa finalmente. Non è un dono particolare, un dono in più: è
la conseguenza del vederLo, del suo stare con noi in atto di mostrarsi a noi,
dello schiudersi del nostro cuore alla visione di Lui. E' quanto ogni amore
desidera e da qui, da questa profonda intimità che ne deriva, proviene tutta la
nostra forza. I discepoli sono arrivati gradualmente alla conoscenza di questa
verità. All'inizio li hanno aiutati dei 'segni': la tomba vuota, il racconto
delle donne, degli altri discepoli; poi hanno potuto vedere loro stessi Gesù il
quale si è fermato con loro, ha mangiato con loro, li ha istruiti, ma senza
ancora poter avere la forza di testimoniare con la loro vita questa
sconvolgente verità. Per ultimo, con l'invio dello Spirito Santo, hanno sentito
che la verità di tutta la loro vita e la verità della vita degli uomini fosse
tutta in quel Figlio di Dio, morto e risorto, 'nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza
e della scienza' (Col 2,3) per il quale solo valeva la pena di
buttare la propria vita, nel desiderio che tutti finalmente potessero godere di
quei tesori di sapienza e di scienza, fino alla fine del mondo. L'esito della
missione: che il mondo intero risplenda dell'amore di Dio, rivelato in Cristo,
in tutti i cuori.
Se la liturgia pasquale proclama
insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che
Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia
durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia
dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e
il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Gesù rivela la verità di
questa realtà e Tommaso si situa in quella verità con la sua sussurrata e
potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio.
TERZA DOMENICA PASQUA, ANNO C
At 5,27-42; sal
29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
La liturgia celebra evidentemente la
Parola in funzione nostra: la Parola è per noi. Ora, se potessimo riassumere in
una espressione la vicenda degli apostoli descritta dalla liturgia pasquale,
dovremmo citare il passo: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza
della risurrezione del Signore Gesù” (At 4,33). Da dove deriva loro quella forza, quella ‘potenza’ dell’essere
e dell’agire? Quella forza, che la stessa celebrazione vuole comunicare anche a
noi?
In modo
insolito, possiamo oggi partire dal brano di vangelo per spiegare le altre
letture. Lì rinveniamo la radice di quella ‘potenza’ che la lettura degli Atti
degli apostoli e dell’Apocalisse mostrano in azione. Gesù
sembra scegliere, per manifestarsi dopo la sua risurrezione, gesti usuali, già
noti, in modo che i discepoli possano riconoscerlo e comprenderne il mistero in
tutta la sua densità. Viene narrata una pesca miracolosa, un convenire a mensa,
un colloquio assolutamente speciale. Fermiamoci solo sul colloquio con Pietro.
Il discorso tra Gesù e Pietro, come tra Gesù e l’anima, è tutta una questione
di toni. Gesù non accusa Pietro; glielo aveva predetto che l’avrebbe rinnegato
e subito l’aveva perdonato perché sapeva che il suo cuore voleva stare con lui.
Pietro non si era giustificato, aveva pianto e avrebbe desiderato forse parlare
ancora a Gesù, protestargli il suo amore, ma non aveva più potuto. Questa è la
prima volta che ritorna sull’argomento, dolcemente invitato dallo stesso Gesù.
Il tono di Gesù è pacato, gli parla dopo aver mangiato insieme e gustato
un’intimità sognata. E anche Pietro, tutto preso da quell’intimità, non se ne
accorge quasi e risponde tranquillo: “Certo,
Signore, tu lo sai che ti amo”. La seconda volta, forse con lo stesso tono,
si mostra ancora tranquillo: “Certo,
Signore, tu lo sai che ti amo”. Ma la terza volta, il tono non è più lo
stesso. Pietro ha capito, si fa piccolo, torna alla sua mente la scena del
tradimento, il pianto, lo sguardo di Gesù e, con un filo di voce, appena
sussurrando: “Signore, tu sai tutto; tu
sai che ti amo”. Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso
fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti ama. Quando un uomo
professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il
suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa: in quell’amore c’è
tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non
ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere
il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecorelle”. A tutti
verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e
ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore
per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti
perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli
tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta non sarà più insidiata, come
è avvenuto per Gesù.
Il brano degli Atti degli Apostoli
mostra in atto gli effetti di quella rivelazione di intimità. Ne dice la
condizione e ne fa vedere il segno inequivocabile. Anzitutto la condizione:
l’obbedienza. “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29); “E di
questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro
che si sottomettono a lui” (At 5,32). Nel testo greco i termini ‘obbedire’
e ‘sottomettersi’ sono espressi dallo stesso verbo. Si tratta di un accogliere
la rivelazione di Dio in totale apertura di cuore, riconoscendo l’amore suo per
l’uomo che in Gesù si manifesta in tutta la sua radicalità. Significa
riconoscere che in Gesù il Padre compie il suo disegno di amore per l’uomo. La
sottolineatura non è tanto sull’obbedire, ma sull’intimità di un’obbedienza che
è vissuta dentro un legame di vita inscindibile, nel dono di un amore per il
quale non ci si sente assolutamente degni ma di cui si riconosce la letizia che
porta al cuore. E la letizia è proprio il segno inequivocabile dell’agire in
potenza nello Spirito. Si tratta di quella letizia di cui parla Giacomo: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli,
quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2); quella che qui viene
descritta: “lieti di essere stati
oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). A dire il vero, l’ultima
frase andrebbe resa più precisamente: ‘lieti di essere resi degni di essere
oltraggiati’, con l’allusione al fatto che la letizia nella persecuzione rivela
la dignità ottenuta dall’anima, dignità che si esprime nel suo splendore quando
gli altri la calpestano e non viene meno.
La lettura
dell’Apocalisse, con la scena dell’adorazione dell’Agnello in atto di aprire il
libro sigillato, rivela il perché di quella letizia: “Cantavano un canto nuovo” (Ap 5,9). Chi è capace di un canto nuovo
può disporre di quella letizia perché ormai partecipe dell’unica e definitiva
rivelazione degna del cuore dell’uomo: Dio ha salvato i suoi figli tramite
Gesù. Quella rivelazione svela la dignità dell’uomo davanti a Dio, la nuova
dignità, quella dei tempi nuovi. Il che non significa ‘dei tempi che verranno’,
ma del tempo di Dio che entra nella nostra storia e la rende aperta al suo
Regno. È il tempo celebrato nella Liturgia. In effetti, quando
si celebra l’Eucaristia è come udire il Signore che invita: “Venite a mangiare”. E nessuno gli chiede
“Chi sei?” perché tutti sanno bene che è il Signore, per quanto questo ‘sapere’
a volte sia così sbiadito che non sembra parlare al nostro cuore. Ma se
potessimo udire, di fronte alle infedeltà che non possiamo dimenticare nei suoi
confronti, il suo invito, come a Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami?”, il
cuore avrebbe ancora un soprassalto e potrebbe ricevere la predizione della sua
fedeltà fino alla testimonianza suprema della vita, vivere cioè della dignità e
della letizia dei tempi nuovi.
QUARTA
DOMENICA DI PASQUA, ANNO C
At
13,43-52; sal 99; Ap 7,9-17;
Gv 10,27-30
Dal riconoscimento del Risorto
l’attenzione si sposta sui discepoli che lo riconoscono, sul fatto che i
discepoli costituiscono la comunità del Risorto. Queste ultime domeniche del
tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno
al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito
Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi.
La
liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore. Il
canto al vangelo ne definisce il nucleo: “Io sono il buon pastore, conosco le
mie pecore e le mie pecore conoscono me”, frase ripresa da Gv 10,14. Come Gesù
descrive le ‘sue’ pecore? “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed
esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno
le rapirà dalla mia mano”. Gesù sta
rispondendo a coloro che stentano a riconoscerlo e che alla fine gli daranno
dell’impostore. Il suo ragionamento, sulle prime, ci appare strano. È come se
dicesse: voi non credete a me perché non siete mie pecore e non siete mie
pecore perché non credete, eco di altri simili ragionamenti presenti nelle
Scritture (ad es., Is 29,9: siete ciechi e non potete vedere, ma il Signore vi
ha accecati perché non vediate). Che significa? Gesù descrive le sue pecore in
tre passaggi: 1) le mie pecore sono quelle che ascoltano la mia voce. Non
semplicemente che ascoltano quello che dico, ma che riconoscono che quello che
dico viene da Dio, come lui stesso confermerà poco dopo dicendo che lui e il
Padre sono una cosa sola. Le sue pecore sono quelle che, ascoltando la voce di
Dio, riconoscono in lui l’Inviato, il Testimone, l’Agnello e perciò sentono
nelle sue parole la Parola di Dio, anzi, riconoscono che la sua parola e la sua
vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero; 2) ‘io
le conosco’: vedendo l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono
‘conosciute’, cioè amate e cercate da lui, perché le mette a parte dei segreti
di Dio. Ma questo movimento di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò
quel ‘io le conosco’ comporta questa sfumatura di senso: io conosco tutti, ma
di quella conoscenza che rende condivisibili i segreti di Dio e fa godere
l’intimità con lui sono capaci solo quelle pecore che si lasciano raggiungere,
portare in spalla, come la parabola della pecorella perduta dirà. È conosciuto
chi si lascia portare in spalla. Ne consegue che chi non accetta questo, si
trova come escluso dalla sua conoscenza e proprio perché escluso non può farsi
conoscere; 3) ‘esse mi seguono’: anche qui occorre cogliere la sfumatura di
senso data dal fatto che le pecore possono seguire il pastore perché lui dà
loro la vita, che è la sua (il suo Spirito) e non possono che andare dietro a
lui in quanto solo lui può mostrare il segreto di Dio in tutta la sua
estensione e bellezza. In gioco è sempre la disponibilità alla fede e la fede
si gioca nell’accogliere il mistero di accondiscendenza di Dio per l’uomo in
Gesù, rivelatore del Volto del Padre. Il che non significa rendere Dio più
comprensibile (Dio custodisce tutta la sua trascendenza e inafferrabilità) ma dire
Dio senza allontanarsi dall’uomo.
Ma
c’è di più. Quando le pecore non fanno come gli ascoltatori che ricevono il
rimprovero di Paolo e Barnaba: “Era
necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la
respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo
ai pagani”, si ritrovano nel gregge di Dio. Ognuno, singolarmente preso, si
gioca il destino nel non ritenersi ‘indegno’ del dono di Dio, ma la vita in Dio
si gioca insieme. Il mistero dell’amore di Dio rivelato in Gesù è quello di
riunire insieme i figli di Dio dispersi (cfr Gv 11,52): insieme, nel senso di
una cosa sola con Gesù e nel senso di un corpo solo con Gesù. Il che vuol dire
che la confessione di fede nel Signore Gesù non può farsi che coralmente,
fraternamente, come canta il salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge
che egli guida”. Evidentemente, non significa solo che noi siamo semplicemente
quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in Lui una
stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della
rivelazione del Padre ai loro cuori. Il
salmo 99 lo proclama in acclamazione: “Riconoscete
che il Signore è Dio; egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge
del suo pascolo”. In quel ‘egli ci ha fatti’ c’è tutta la nostra ‘dignità’,
quella dignità che è riservata a tutti e che tutti condivideranno nel regno dei
cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del Signore custodiscono per sé e
difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è basata sull’uomo, ma chi ne ha
conosciuto per esperienza di fede il segreto, in Gesù, è chiamato a custodirla
per tutti finché a tutti venga svelata. Il gregge del Signore che noi siamo ha
la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere la bellezza di questa
dignità.
QUINTA
DOMENICA DI PASQUA, ANNO C.
At
14,21-27; sal 144; Ap 21,1-5; Gv
13,31-35
Il salmo responsoriale proclama: “Benedirò il tuo nome per sempre, Signore”,
a scandire il salmo 144 che commenta ed esprime la vicenda pasquale di Gesù in
favore degli uomini. La benedizione è quella del riconoscimento, da parte della
prima comunità cristiana formata da ebrei, dell’insondabile mistero di Dio nel
suo amore agli uomini che ha voluto aprire anche ai pagani la porta della fede
(cfr. At 14). Si realizza così quella ‘gloria’ di cui aveva parlato Gesù a
proposito del suo sacrificio pasquale: “Io, quando sarò
elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32) e che il vangelo di oggi richiama con
l’espressione: “Ora il Figlio dell' uomo
è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato
glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà
subito”. Nella nuova Gerusalemme, secondo la visione dell’Apocalisse, non
ci sarà più alcuna distinzione tra gli uomini ma tutti saranno il suo popolo: “Udii allora una voce potente che usciva dal
trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi
saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio - con – loro’”. L’unica
differenza tra quaggiù e lassù è costituita dal fatto che quaggiù le lacrime
abbondano mentre lassù ogni lacrima verrà asciugata.
Un particolare è assolutamente rivelatore di quello che
Gesù intende parlando della sua pasqua. Lo possiamo notare con una domanda:
perché Gesù abbina il comandamento dell’amore alla menzione della sua gloria?
Il capitolo 13 di Giovanni è il capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima
cena. Gesù ha lavato i piedi anche a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione
di Gesù: “Vi ho dato infatti l' esempio,
perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Gesù ha chiara la
percezione dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza dei
discepoli che non comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo quando
Giuda se ne è andato e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate
gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli
altri”. Come a dire: l’amore di cui vi faccio comando comprende la
disponibilità a lavarvi i piedi gli uni gli altri, senza distinzioni di sorta
tra buoni o cattivi, perché in gioco è la rivelazione del segreto di Dio che mi
è stato affidato e di cui vi rendo partecipi: la ‘gloria’ del suo amore deve
risplendere in tutta la sua bellezza. Tra l’altro, è singolare che Gesù non
faccia mai comando ai discepoli di amare lui, mentre il comando di amare Dio e
amare il prossimo è diretto. Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce
attraverso le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei comandamenti’;
‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto è: ‘credete in
me’. Perché? Credo che qui si comprenda il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci
fa comando. L’amore vicendevole non rivela la generosità dei cuori, ma
l’esperienza dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio che ha
toccato il cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e perciò è in
rapporto diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù ci fa
comando nei suoi confronti. Le tribolazioni che la lettura degli Atti ci
ricorda essere necessarie nel nostro cammino riguardano la fede e non l’amore
o, meglio, l’amore nel suo radicamento nella fede: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di
Dio”. Così l’azione dell’uomo deve
parlare di Dio e non di se stesso; solo allora la sua ‘gloria’ risplende e il
cuore dell’uomo sarà saziato da quella gloria che allora esprimerà tutta
l’intimità di amore che lega l’uomo al suo Dio.
Possiamo
allora anche comprendere in cosa consista la novità del comandamento dell’amore
annunciata da Gesù in funzione di tre cose. Anzitutto in funzione della radice che lo origina. L’amore di Gesù
deriva dalla intimità della vita, del volere e dei sentimenti con il Padre.
Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione a quella stessa
intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare i piedi ai discepoli per
renderli partecipi del suo segreto con il Padre, segreto che a nessuno è dato
di cogliere se non a coloro che credono nel Figlio. Circondarsi la vita con
l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come vestito della divinità, mistero di
quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più segreto,
là dove l’uomo può imparare la lingua stessa di Dio. In secondo luogo è in
funzione della potenza che lo
sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla
croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei
nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce
se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello
Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la
terza preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e
sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo
in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in funzione della dinamica che lo anima e che lo muove
verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della
storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto
il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi,
regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino
a che sia partecipato a tutti.
SESTA
DOMENICA DI PASQUA, ANNO C
At
15,1-2.22-29; sal 66; Ap 21,10-23; Gv 14,23-29
La
liturgia di oggi predispone due piste per accedere alla rivelazione che
comportano i testi scritturistici. Se partiamo dalla colletta, vediamo che essa
riassume la tensione della preghiera della chiesa in questa dinamica:
‘testimoniare nelle opere il memoriale della Pasqua che celebriamo nella fede’,
dinamica che trova la sua ragione nel canto all’ingresso: ‘il Signore ha
liberato il suo popolo’. La liberazione che si attua nel memoriale della Pasqua
di Gesù, che celebriamo nell’eucaristia, per testimoniarla nella vita, è
caratterizzata dalla letizia, così tipica dell’annuncio pasquale. Ma la letizia
è per la comunione. Una letizia che non si traduca in ansia di comunione non
risponde alla liberazione pasquale. La prima lettura mostra quella letizia in
ansia di comunione alle prese con gli imprevisti della storia. I credenti
provenienti dalla tradizione mosaica, pur accogliendo la fede in Gesù, temono
di mancare alla santità di Dio non obbligando anche gli altri alle stesse
leggi. Nessuno ha la scienza infusa: si decide dunque di studiare la cosa con
il collegio degli apostoli. La modalità di approccio e il contenuto della
decisione che scaturisce sono ambedue frutti dell’azione dello Spirito Santo,
azione alla quale i credenti si sottomettono per poter mantenere la sua gioia,
tutti insieme. Se si osserva più da vicino, la decisione apostolica ribadisce
la fede di tutti: oramai c’è un unico popolo di salvati, circoncisi e
incirconcisi e l’invito ai pagani sembra soltanto quello di non essere fonte di
disagio per i fratelli circoncisi
trovandosi alla stessa mensa. La liberazione è per la gioia e la gioia è per la
comunione: questa è la dinamica pasquale.
Se
partiamo dal canto al vangelo (‘Se uno mi
ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui’),
un altro scenario ci appare. Le parole di Gesù sono incentrate attorno alla
questione della ‘rivelazione’ del Messia. Siamo nel cap. 14 di Giovanni. Gesù
ha appena invitato i discepoli ad osservare la sua parola perché in quella
osservanza godranno l’amore del Padre e la sua manifestazione. Interviene
Giuda, non il traditore, con una domanda niente affatto scontata: “Come è accaduto che devi manifestarti a noi
e non al mondo?”. Il brano evangelico di oggi riprende la risposta di Gesù
a quella domanda, aggiungendo alle parole dette in precedenza sull’osservanza
della sua parola la specificazione: “…
verremo e prenderemo dimora presso di lui”. L’opera di Dio non appare
evidente, non sconvolgerà nessuno nel senso di strabiliarlo e farlo restare
attonito. Soltanto a chi mette in pratica la sua parola, il suo Regno gli si
potrà rivelare. Perché? Perché la sua parola è una parola di amore e chi non
accoglie quell’amore non può capire la sua parola. La sua parola cela la
potenza di amore del Padre per gli uomini e soltanto quando gli uomini si
decideranno ad ascoltarla (come un bambino ascolta sua mamma facendo quel che
lei gli dice) la parola rilascerà la potenza che essa racchiude, potenza che
costituisce la radice della comunione con tutti perché a tutti quella parola è
diretta. La sottolineatura nelle parole di Gesù, però, è data dal fatto che
accogliendo la sua parola si partecipa ad una intimità di vita; meglio, si
condivide l’intimità di vita che corre tra il Padre e il Figlio nello Spirito,
che proprio da Gesù ci è stato effuso e che proprio di Gesù ci fa vedere la
verità di testimone dell’amore del Padre per gli uomini. Così la crescita
spirituale sottende sempre un radicamento nell’intimità di un rapporto che
permette ai cuori di schiudersi, di percepirsi nell’amore, di vedere le cose in
verità. In effetti, quando Gesù dice ‘mi manifesterò’, in realtà vuol dire, non
solo che lo riconosceremo, ma che tutto parlerà di lui, tutto splenderà per lui
e quindi che la vita svelerà il suo segreto.
Più avanti, continuando il suo
discorso, Gesù parlerà di vite e tralci e dirà: “rimanete nel mio amore”. Il che significa, non solo che dobbiamo
stare fedeli alla sua parola, ma soprattutto che, accogliendo la sua parola,
godremo dell’amore che lega il Padre a Lui e Lui al Padre, cosa inaudita per un
orecchio umano, ma supremo desiderio del cuore. Quando al battesimo e alla
trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio
mio prediletto”, il significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche
a tutti noi, vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, Inviato dal Padre,
e accogliendo la sua parola per metterla in pratica, entreremo nella
benedizione di quell’amore di predilezione nel quale il Padre vuole inglobare
tutti. La rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione che
non parli dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, non chiediamo prima di tutto
di poter stare fedeli alla sua volontà, ma più direttamente di poter
sperimentare la sua volontà di amore per noi nella nostra vita, tanto da godere
della comunione con Lui al di sopra di tutto. Questo ci otterrà l’azione dello
Spirito Santo, che ci farà memoria viva del Signore Gesù in questo mondo.
ASCENSIONE,
ANNO C
At
1,1-11; sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53.
La
liturgia ci introduce nel mistero dell’ascensione del Signore Gesù servendosi
dei racconti di Luca (Atti e vangelo) e di Matteo (canto al vangelo). Luca
aveva introdotto la scena dell’ascensione ricordando come Gesù, dopo la sua
risurrezione, fosse apparso più volte ai discepoli parlando loro del Regno di
Dio e promettendo l’invio dello Spirito Santo. Ora, questo parlare del Regno di
Dio corrisponde a quello che lo stesso Luca riporta della percezione dei
discepoli di Emmaus quando si dicono l’un l’altro: ‘non ci ardeva il cuore
quando ci spiegava [ci apriva] le
Scritture?’, insieme al passo che precede immediatamente il racconto di oggi: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza
delle Scritture e disse…”. Aprire le Scritture al cuore e aprire il cuore
alle Scritture è far entrare nel regno di Dio. L’aspetto però caratteristico è
dato dal fatto che questa doppia apertura non riguarda semplicemente la vicenda
di Gesù, come se si trattasse semplicemente di riconoscerlo nelle Scritture, ma
anche la predicazione a tutte le genti della conversione e del perdono dei
peccati. I discepoli sono testimoni di tutto questo. Il senso della festa di
oggi si colloca proprio in quello spazio di testimonianza che l’ascensione
inaugura. Gesù è sottratto agli sguardi dei discepoli, ma i discepoli se ne
tornano a Gerusalemme ‘con grande gioia’. Come mai? La sparizione di una
persona cara non è fonte di gioia! Spiega Agostino: “Disparve agli occhi
mortali perché noi ritornassimo al cuore e trovassimo il Cristo”. In effetti i
discepoli hanno visto il fenomeno fisico dell’ascendere al cielo di Gesù (il
testo usa il verbo greco ‘blepo’) ma hanno anche intravisto la portata mistica
del fenomeno (il testo usa il verbo ‘theaomai’). Il che significa che lo
sparire di Gesù dalla vista dei loro occhi permetteva di coglierlo presente nel
loro cuori, come Lui stesso aveva promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”,
versetto con il quale si chiude il vangelo di Matteo.
Il
rimprovero degli uomini in bianche vesti: “perché
state guardare il cielo?” significa che il cielo non è il cielo fisico, ma
il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove abita se non nei cuori, dove
può essere adorato? Così, per il cuore, ormai le cose stanno in questi termini:
dove bisogna guardare? Alla fraternità (il testo annota che se ne tornarono con
grande gioia e che stavano insieme). È ai fratelli che bisogna guardare se si
vuole trovare il Cristo. Ma che cosa si deve vedere? Il Cristo, che ha fatto
risplendere l’amore di Dio per gli uomini e che ingloba anche noi nella
rivelazione di quell’amore lungo la storia fino a che tutto di noi e tutti con
noi possiamo godere della stessa gioia. La predicazione alle genti non riguarda
semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per gli uomini, ma anche il
far vedere, il mostrare che tale annuncio si è tradotto in splendore di vita e
che torna a essere bella la vita che gode della presenza con noi del nostro
Dio. Questo significa la ‘conversione e il perdono dei peccati’ che deve valere
prima di tutto per chi annuncia.
Tutto
questo però ha a che fare con ‘una potenza dall’alto’, con una ‘gioia
dall’alto’, con una ‘forza’ che non proviene dall’uomo. Ecco allora la promessa
di Gesù: ‘sarete rivestiti di potenza dall’alto’, la promessa dello Spirito
Santo, il cui invio celebreremo domenica prossima con la festa della
Pentecoste. È caratteristica, nel racconto degli Atti, la menzione dello
Spirito Santo insieme al frutto della gioia. La gioia è la forza di un amore,
esperito a tal punto di intimità e profondità, che nessun evento e nessun
avversario ti può smorzare; è partecipazione alla vita di Gesù, il Vivente,
contro il quale la morte non ha alcun potere. La tensione apostolica della
testimonianza e della missione, che vive sotto il segno della benedizione che
Gesù costituisce per l’umanità, respira di quella gioia e di quell’amore. Il
vangelo di Luca termina con l’annotazione di quel Gesù benedicente che si
sottrae allo sguardo fisico dei discepoli. Se gli occhi non vedranno più la
mano benedicente, sentiranno però nel cuore la potenza di quella benedizione
perenne che Lui costituisce, sigillo ultimativo della volontà di bene di Dio
per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo
impegno di responsabilità di fronte al mondo.
DOMENICA
DI PENTECOSTE, ANNO C
At
2,1-11; sal 103; Rm 8,8-17; Gv 14,15-26
Nella settimana che precede la
festa, la chiesa ha fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre la potenza dello
Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per testimoniarla con
amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci
trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo perché
possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta giovedì).
L’invocazione allo Spirito Santo è
finalizzata all’adesione alla volontà di Dio. Perché e cosa significa questo?
Ce lo rivela Gesù nel vangelo: lo Spirito “vi guiderà alla verità tutta
intera… dirà tutto ciò che avrà udito”. Lo Spirito, ottenutoci dalla
passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il
Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il
Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto
questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così
conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo,
che in Gesù si è fatto ‘evidente’, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci
farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò
che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).
Delle due immagini caratteristiche
della Pentecoste, le lingue che compaiono sul capo degli apostoli e il fuoco di
cui si prega “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in
essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime appunto la cifra di quel
colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore.
Collegare l’invio dello Spirito alla volontà di Dio significa far percepire che
quella volontà è essenzialmente una volontà di bene per l’uomo, significa
ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità del fuoco dell’amore di
Dio che a lui arriva tramite Gesù. Significa poter conoscere il mistero del
Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo,
nella condivisione del suo segreto. Se tale è la percezione del cuore, allora
il cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e estenderlo a tutti,
fino ai confini della terra. Qui si collega la responsabilità della
testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come
sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i cuori fino a che tutta la sua
verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di
uno splendore, non di un impegno!
Qui si innesta anche la comprensione
dell’immagine delle ‘lingue’. E’ un fatto assolutamente evidente sulla faccia
della terra: gli uomini sono tra loro diversi, sono dispersi in ogni angolo e
parlano lingue differenti. E’ un bene o un male? La Scrittura dà del fatto due
spiegazioni: una, positiva: dopo il diluvio Dio ha voluto che gli uomini
abitassero la terra secondo la loro diversità (Gen 10); una, negativa: Dio ha
condannato gli uomini alla diversità per evitare che si coalizzassero contro di
Lui (Gen 11, racconto della torre di Babele). Ci sono due modi per far
fronte alla diversità, percepita come una minaccia: o quello di esercitare un
dominio da rendere irrilevante la diversità, e questo corrisponde alla volontà
dell’uomo, che genera però schiavitù (l’esperimento di Babele comportava la
costituzione di un dominio del più forte contro tutti gli altri per
assoggettarli e Dio sarebbe stato negato come Padre); o quello di aprire la
diversità alla comunione, lasciando alla diversità la sua consistenza e
invitando ogni diversità a dare il proprio apporto a un mondo comune (e questo
corrisponde alla volontà di Dio, che di tutti è Padre). Lo Spirito di Dio è
definito così “Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto
unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Quando, a Pentecoste, compaiono
sul capo degli apostoli le lingue, la proclamazione evidente è: ormai tutti
possono percepire che è l’opera di Dio a unire gli uomini. E l’opera di Dio è
la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e
accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica tanto
che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (=ogni
lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed
unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando
li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e
facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i
cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver
ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può
che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio
per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quando gli apostoli, davanti ai
persecutori, preferiscono la carità di Gesù, non scelgono solo di stare dalla
parte di Gesù, ma anche dalla parte degli uomini che della sua carità devono
poter vedere lo splendore in atto.
SANTISSIMA
TRINITA’, ANNO C
Pro
8,22-31; sal 8; Rm 5,1-5;
Gv 16,12-15
L’antifona di
ingresso definisce bene la prospettiva nella quale accostare il mistero della
Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito
Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al mistero
di Dio è perché Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre che è
indicato come amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della cui vita
d’amore lo Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione
stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”,
Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al
Padre, come la preghiera stessa della Chiesa lo sottolinea. Ad esempio, nel
saluto del celebrante all’inizio della liturgia eucaristica: “La grazia del
Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito
Santo sia con tutti voi”; oppure, nella colletta della festa odierna: “Ti
glorifichi, o Dio,
Se lo Spirito è
detto 'Consolatore, Spirito di verità', lo è in rapporto alla verità che è
Gesù, cioè farà vedere il vero volto di Dio nella persona di Gesù, rivelatore
del Padre, pieno di amore per gli uomini. Non per nulla Gesù ‘emise’ lo Spirito
dalla croce rivelando quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e abilitando
l’uomo a vivere del suo stesso Spirito. Lo splendore di quell’amore manifestato
da Gesù diventa così, per la potenza del suo Spirito, radice di vita in coloro
che ne accolgono la testimonianza. Come dice Giovanni nel prologo del suo
vangelo: “A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a
quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne,
né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E quando Gesù dice che lo Spirito guiderà
alla verità tutta intera non allude tanto alla comprensione dei vari aspetti
del mistero di Dio ma piuttosto al fatto che quella verità di rivelazione del
vero volto di Dio di cui Lui è il Testimone risplenda in tutto il suo
splendore, che quella verità conquisti i cuori interamente, che quella verità
convinca i cuori della grandezza dell’amore di Dio, che l’esperienza di
quell’amore ci sveli i suoi segreti. Segreti, che attingono all’origine stessa
della creazione, di cui ne costituiscono il fondamento e lo scopo, come la
lettura del capitolo 8 del libro dei Proverbi suggerisce. Un’espressione è
particolarmente suggestiva: “…allora io
ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo
davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponendo le mie
delizie tra i figli dell’uomo”. Il Padre trovava delizia nel Figlio, la
Sapienza (possiamo rammentare le espressioni evangeliche al battesimo e alla
trasfigurazione di Gesù: ‘questi è il Figlio mio prediletto…’) e il Figlio trovava delizia nei figli dell’uomo. Come
a dire che il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio verte sulla salvezza
dell’uomo, per il quale il mondo è creato, colloquio che lo Spirito svelerà al
nostro cuore rendendocene partecipi (anche a questo allude la promessa di Gesù:
lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera…). E la partecipazione avverrà
stando sottomessi a tutti nel nome di Cristo, che rivela l’amore di Dio, perché
la sottomissione ha a che fare con la ‘delizia’ della Sapienza che presiede
alla creazione per amore dell’uomo.
Se è Gesù che
rivela compiutamente il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio e
compie il desiderio di comunione con Dio da parte degli uomini, allora ne
deriva che la fonte della nostra dignità procede proprio dal fatto che Dio ha
reso l’uomo degno dei suoi misteri. Il salmo 8 proclama: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te
ne curi?”. In cosa consiste la cura di Dio per l’uomo? Nel passo parallelo
del salmo 144, v. 3, le antiche versioni greca e latina riportano: ‘Signore, che cos’è l’uomo, perché ti sia a
lui fatto conoscere?’ (Domine, quid est homo, quoniam innotuisti ei?). La
tradizione ha colto bene in cosa consiste la cura di Dio per l’uomo: Dio l’ha
elevato alla sua conoscenza. Lo ricorda l’antifona alla comunione: “Voi siete
figli di Dio: egli ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che
grida: ‘Abbà, Padre’ ”. Non viene detto in generale: siamo tutti figli di Dio.
Lo si proclama in senso ‘speciale’, secondo il significato del vangelo di
Giovanni: A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio. Allude all’essere trovati in Cristo; allude a coloro
che sono stati resi partecipi della ‘delizia’ della Sapienza. E se tutti gli
uomini sono figli di Dio lo sono in quanto tutti sono chiamati alla stessa
esperienza, tutti sono destinatari della stessa offerta, tutti portano la
‘vocazione all’umanità’ secondo quel Figlio di Dio, che riceve tutte le
compiacenze del Padre perché in Lui tutti siano riuniti nella stessa delizia.
SS.
CORPO E SANGUE DI CRISTO, ANNO C
Gn
14,18-20; sal 109; 1 Cor 11,23-26; Lc 9,11-17
La
colletta della festa di oggi esprime assai bene il timbro eucaristico di tutta
l’esperienza cristiana: “Dio, Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea
per celebrare il sacramento pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci
il tuo Spirito, perché nella partecipazione al sommo bene di tutta la Chiesa, la
nostra vita diventi un continuo rendimento di grazie, espressione perfetta
della lode che sale a te da tutto il creato”. Il mistero dell’eucaristia, dal
punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua
azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. Più la
nostra vita diventa un continuo rendimento di grazie perché trova sempre più il
suo senso nella comunione con Dio e con tutti, del cui splendore l’eucaristia è
la celebrazione stessa, più il desiderio di vita che ci abita e ci muove trova
il suo fondamento e la sua realizzazione nella tensione al convito eterno, di
cui l’eucaristia è l’anticipazione. Lo dice la preghiera dopo la comunione,
quando chiede che l’intimità di vita con il Signore e l’unità con i fratelli
siano godute finalmente in pienezza, senza ombre: “Donaci, o Signore, di godere
pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto
pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.
L’eucaristia ci implica nella dinamica
stessa del Signore Gesù, che io riassumerei in questo modo. Poco prima della
sua passione, nel racconto di Giovanni, Gesù è definito come colui che ha il
compito di ‘riunire insieme i figli di
Dio che erano dispersi’ (Gv 11,52), mentre di se stesso dice: ‘viene il principe di questo mondo; egli non
ha nessun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e
faccio quello che il Padre mi ha comandato’ (Gv 14,30-31). Ma perché il
demonio non ha alcun potere su di lui, se proprio contro di lui esercita tutto
il suo potere? Il demonio non ha potere su Gesù perché in lui non trova nulla
che leda o impedisca l’unità dei figli di Dio dispersi. È questa la volontà del
Padre e Gesù si muove secondo questa volontà: riunire i figli di Dio dispersi,
mostrando quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini che li vuole commensali
alla mensa del suo amore. Ma è dall’eternità che questa volontà presiede a
tutta la creazione. Nel libro dell’Apocalisse si trova un versetto assai
misterioso. Si tratta di Ap 13,8, che
La natura
di questo ‘sacrificio’ è prefigurata dall’offerta di pane e vino di Melchisedek
(re di giustizia), sacerdote del Dio Altissimo e re di Salem (re di pace). Il
sacerdozio di cui Gesù è investito, come recita il salmo 109, ripreso da Eb 7,
è ‘secondo l’ordine di Melchisedek’, non secondo l’ordine di Aronne, come a
dire: Dio non vuole più vittime, dal momento che la vittima è Lui. Un
bellissimo inno di Efrem canta: “L’Agnello di verità sapendo rigettati gli
antichi sacrifici diviene il sacerdote e il principe dei sacrificatori. Il
nostro sacrificatore, fattosi vittima, abolisce le vittime col suo sacrificio,
lui stesso sacerdote e vittima”. Con l’indicazione del pane e del vino si
allude non tanto al sacrificio, quanto al convito, ma si tratta del convito in
cui l’Amore si è sacrificato perché l’energia della sua vita passasse agli
uomini e diventassero tutti suoi commensali. Il miracolo della moltiplicazione
dei pani per sfamare la folla nel deserto, con tutte le allusioni all’Israele
sfamato nel deserto dalla manna, guidato e sorretto dal suo Dio che gli rinnova
il suo amore, è preceduto dal parlare di Gesù del Regno, dalla sua potenza di
guarigione che indica la vicinanza del Regno e dal ‘mistero del convito’ ancora
incompreso. Gesù sa che la gente non comprende il senso di quel suo gesto, ma
lo comprenderà poi, a dramma concluso, quando i cuori si apriranno alla
conoscenza del mistero della sua persona. Quando celebreranno l’eucaristia e
lasceranno che la loro vita sia inglobata in quel movimento di rivelazione
dell’amore di Dio per gli uomini, uniti al ‘sacrificio di amore’ del loro
Signore, allora non potranno che vivere favorendo con tutto se stessi quella
rivelazione perché a tutti arrivi e tutti insieme si renda grazie finalmente
per la benedizione che quella rivelazione comporta.
SS.
CUORE DI GESU’, ANNO C
Ez
34,11-16; sal 22; Rm 5,5-11;
Lc 15,3-7
I testi
della liturgia di oggi parlano della ‘immensa carità’ del Cuore di Gesù,
alludendo evidentemente al ‘cuore trafitto’ che il prefazio (‘dalla ferita del
fianco effuse sangue e acqua’) e l’antifona alla comunione (‘un soldato
trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua’) esaltano. I
brani delle letture invece illustrano l’amore divino secondo l’immagine del
pastore, un pastore che raccoglie le sue pecore, che le conduce in ottime
pasture, che le fa riposare, che cura quella malata, che non trascura quella
forte, e soprattutto che riconduce in spalla la pecora smarrita. Un bellissimo
commento di s. Ambrogio spiega: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora,
che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di
Cristo sono le braccia della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di
quel nobile patibolo ho trovato riposo… Egli è dunque un pastore ben provvisto,
perché tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà. Ma Egli possiede
le greggi innumerevoli degli Angeli, possiede quelle degli Arcangeli, delle
Dominazioni, delle Potestà, dei Troni e di tutti gli altri che ha lasciato al
sicuro sui monti. E poiché sono creature spirituali, non a torto gioiscono per
la redenzione degli uomini”.
Il mistero della parabola riguarda
non semplicemente l'amore di Dio, ma l'esperienza che fa il nostro cuore
dell'amore di Dio. Con le sue parabole Gesù vuol rispondere alle
mormorazioni del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi
fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio, non riesce più a
percepire il cuore di Dio. Per noi, in effetti, si tratta solo di 'riconoscere'
e 'credere' a questo amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a
fare dono di Sé a noi, a perdonarci, noi, la sua gioia! Ma il nostro
cuore, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di
Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi,
rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Non è che manchino nella vita motivi
di sfiducia, ma la vita dell’uomo si gioca proprio nella fiducia a Qualcuno che
è riconosciuto come Colui che ‘si perde’ per noi e ci ridà dignità. È vero che
Dio può far nascere altri figli perfino dalle pietre, ma è ancora
più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce
sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui
continua ad avere premura. Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo
ultimativo di quella Volontà e il suo ‘Cuore trafitto’ è l’emblema più
suggestivo di quella Volontà di Bene per noi.
L’antifona d’ingresso cantava: “Di
generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore, per salvare dalla
morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove
proclama: “Il Signore annulla i disegni
delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore
sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il
piano del Signore è la determinazione all’amore per l’uomo senza lasciarsi
vincere dalla sua diffidenza e dalla sua cattiveria. Il Cuore di Gesù svela
questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti i cuori, perché è da sempre, ancor prima
della fondazione del mondo, anzi, motivo della stessa fondazione del mondo,
perché è perenne, definitivo, sempre nuovo, perché risponde al desiderio e alla
gioia di Dio e perché risponde al desiderio e al riposo dell’uomo.
La cosa straordinaria è che Dio
fonda la sua giustizia nel condividere la sua gioia. "Così, vi dico, ci sarà più
gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non
hanno bisogno di conversione" (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri
pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli altri,
feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile
Del resto, chi sono i giusti?
Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui
monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e
lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando
un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di
discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli
stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del
fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di
un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende
intimi di Dio. E se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come
'sente' Dio, è perché è chiamato ad imitarlo. E l'imitazione consiste
nell'impegnare la propria carità fino alla gioia, senza
pretenderla comunque per sé. Non che la cosa risulti ovvia, ma se il
nostro cuore si è sentito trafitto guardando al Cuore trafitto dalla lancia del
soldato, allora qualcosa dei segreti di Dio si comunica a noi e proprio questo
rende capaci di vivere nello splendore di quella rivelazione.
TO XI, C2
2Sam
12,7-13; Sal 31; Gal 2,16-21; Lc 7,36-8,3
Sono due
gli episodi narrati nei vangeli che riguardano una unzione di Gesù da parte di
una donna: quello di Luca, nella casa di un fariseo, per mano di una donna
peccatrice che piange sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli e li
cosparge di olio profumato insieme ai suoi baci e quello narrato dagli altri
evangelisti, a Betania, poco prima della passione: Matteo e Marco riferendo di
una donna che versa sul capo di Gesù un olio profumato in casa di Simone il
lebbroso; Giovanni, invece, riferendo di
Maria, sorella di Lazzaro, che unge con nardo genuino i piedi di Gesù,
suscitando la reazione dei discepoli, che gridano allo spreco.
Fermiamoci
sull’episodio narrato da Luca; le sue accentuazioni sono assolutamente
particolari. Diciamo subito che quello che è avvenuto nel cuore di quella donna
non possa essere meglio descritto se non con le parole di Paolo: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo
nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”
(Gal 2,20). La peccatrice perdonata non avrebbe potuto ancora esprimersi così,
ma l’esperienza del cuore là la conduce. A tal punto l’amore ha toccato il
cuore da non consentirgli più di vivere se non dentro quell’amore. Non però
dell’amore che procede dalla donna o da Paolo, ma dell’amore che a loro è stato
mostrato, al quale hanno acconsentito, del quale si sono lasciati inondare. In
effetti, il centro della scena non è dato dalle espressioni di amore della
donna, pur così tenerissime e espresse come se il mondo attorno non esistesse
nemmeno tanto era rapito il suo cuore, ma dal comportamento di Gesù che
accoglie quelle manifestazioni, le difende, le interpreta e ne svela il
dinamismo segreto. Il centro è data dalla grazia dell’ amore ricevuto, dell’
amore risanante, dell’ amore di Gesù che non disdegna nessun gesto affettuoso
della donna peccatrice perché espressioni di un anelito che Lui stesso aveva suscitato,
come dice il canto al vangelo: “Dio ci ha
amati per primo e ha mandato il suo figlio come vittima di espiazione per i
nostri peccati” (1Gv 4,10). Ma proprio questo è la scoperta della vita! La
donna peccatrice ne ha fatto esperienza viva e tutti i suoi gesti, semplici e
splendidi, rivelano proprio quell’esperienza.
Gregorio Magno annota che quella
donna non doveva avere alcuna vergogna esteriore tanto era assorta nella sua
vergogna interiore. Il fariseo non interviene per allontanarla perché non infastidisca
l’ospite, in quanto si è reso conto dell’accondiscendenza silenziosa e mite di
Gesù verso di lei. Lei non vede nessun altro se non Gesù, anzi, vede solo i
suoi piedi, si è rannicchiata ai suoi piedi, piange e asciuga e bacia e unge di
profumo i suoi piedi. In quei gesti passa tutta la sua anima; non ha bisogno di
alcuna parola, di alcun sguardo: sente il cuore di Gesù come Lui sente il suo.
La scena è così potente che s. Ambrogio può interpretarla come immagine della
Chiesa che risponde all’amore del Cristo. Nell’offerta del suo amore la Chiesa
è peccatrice non perché ‘semper reformanda’, ma perché come Cristo assume
l’aspetto del peccatore, così la Chiesa prende la figura della peccatrice. Così
è la Chiesa che ama in quella donna; è la Chiesa che ama in Paolo, che ama in
Pietro, che ama nei suoi santi.
Quando Gesù racconta la sua parabola
per illustrare al fariseo l’agire di Dio, è come se ricordasse che l’uomo non
può dare in cambio a Dio qualcosa per saldare il suo debito. Non può dare
nulla, ma il suo amore sì. E l’amore è più grande tanto più grande è la
coscienza del proprio debito, perché Dio condona proprio tutto il debito. Tra
l’altro, l’episodio sembra rispondere all’accusa verso Gesù che è ‘un beone e
un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori’. Sì, si tratta di quel
‘beone e mangione’ ma che conosce i segreti di Dio, che attende i cuori al
varco e che svela a tutti la misericordia perdonante di Dio, perché questa è la
sua gloria: vedere l’uomo riconciliato con Lui, convinto dal suo amore.
L’esperienza appare sicuramente desiderabile, ma non è affatto scontata, tanto
è vero che i pensieri del cuore degli uomini sembrano muoversi in altre
direzioni. Tutto il racconto del vangelo mostra la difficoltà per gli uomini di
accogliere la via di Dio. Ma non esiste un’altra via di Dio; la via è proprio
Gesù, perché svela in verità il volto di Dio, dandoci la Sua vita, che è tutta
la nostra vita.
Vale la pena di raccogliere ancora
un’altra suggestione di s. Ambrogio. Solo l’episodio raccontato da Luca riporta
il particolare delle lacrime: “Proprio per questo , forse, Cristo, non ha
lavato i propri piedi, affinché noi glieli laviamo con le lacrime. Lacrime
benedette, che non soltanto possono lavare la nostra colpa, ma anche bagnare i
piedi del Verbo celeste, affinché i suoi passi abbondino dentro di noi”. Le
lacrime non parlano soltanto della vergogna del nostro peccato, ma del
desiderio di Dio che ha toccato il nostro cuore; parlano della bellezza del
nostro cuore che è fatto per Dio e per rispondere al suo amore. Quando il mondo
scompare, quando anche l’io non è più ingombrante, allora il cuore sta solo con
il suo Signore e sa che può star lì perché il Signore si è fatto solidale con
la nostra umanità peccatrice. Ed è per questo che quando ritorna alla vita
quotidiana, un cuore siffatto non custodisce semplicemente in sé la grazia
dell’incontro, ma si fa memoria vivente di quell’amore misericordioso per il
mondo.
NATIVITA' DI S. GIOVANNI BATTISTA (24 GIUGNO)
Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66
Giovanni Battista è l'unico santo di
cui la Chiesa festeggia, come per Gesù e
Il nome Giovanni significa 'il
Signore fa grazia' : indica il dono fatto ai genitori con questa
nascita, il dono dello Spirito che riempie Giovanni fin dal seno della madre,
il dono accordato ai figli di Israele di essere ricondotti al Signore loro Dio
tramite la sua predicazione, il dono della grazia fatto al mondo intero tenendo
conto che in Giovanni usciamo dal cerchio della semplice discendenza
carnale di Abramo ed entriamo in quello che la Promessa aveva di universale :
"e in te si diranno
benedette tutte le famiglie della terra"
(Gen 12,3). Il nome di Giovanni allude a tutta la grazia dell'economia del
Vangelo che lui avrebbe annunciato, indicando la presenza nel mondo dell’Agnello,
del Figlio di Dio, per il quale fu donata al mondo questa grazia, come richiama
l’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo.
La definizione più espressiva del
mistero della sua nascita l’ascoltiamo dalla bocca di suo padre, Zaccaria, il
quale, sciolto dai vincoli che l’avevano imprigionato per la sua incredulità
all’annuncio dell’angelo, proclama a gran voce: “E tu, bambino, sarai chiamato
profeta dell' Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le
strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione
dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui
verrà a visitarci dall' alto un sole che sorge” (Lc 1,76-78). ‘Darà al suo popolo la conoscenza della
salvezza’: non si tratta solo di ‘far sapere’ che il Salvatore è venuto, che
Dio ha fatto visita al suo popolo. La conoscenza di Dio non si risolve
semplicemente nella conoscenza di certi eventi, ma nella conoscenza del senso
della nostra storia con Dio, della nostra vita e delle nostre persone. Si
tratta di una conoscenza che ‘impegna’ la vita come risposta alla rivelazione
di senso del nostro destino in una storia più grande di noi. La straordinaria
‘potenza’ di questa conoscenza si vede dalla vita stessa del Battista, che però
non viene narrata dai vangeli ma che noi vediamo riassumersi nella forza
trascinante della sua predicazione potente: ‘il regno dei cieli è vicino,
convertitevi!’. La sua persona stessa si era fatta eco vivente di quella
‘Parola fatta carne’ di cui si era rallegrato fin nel seno materno quando
Maria, che portava in grembo Gesù, saluta sua mamma. Nel deserto, quando
predica, lui è la voce, ma la Parola è un altro. E la grandezza di Giovanni,
elogiata da Gesù, sarà proprio quella di dar voce alla Parola, di prestare la
lampada alla Luce.
E Gesù, quando Giovanni si avvede
che non si muove come lui si sarebbe aspettato e gli manda a dire se si deve
aspettare qualcun altro, pone la firma in calce alla vita ed alla persona del
Battista con l'affermazione 'beato chi non si scandalizza di me'.
Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra i nati di
donna. Nell'ordine della grandezza della rivelazione di Dio, il Battista non è
più solo un profeta, il cui compito è quello di annunciare. Lui è più che un profeta
perché ha indicato presente fra gli uomini Colui di cui tutti gli altri profeti
avevano annunciato il mistero e
Quando l’evagelista Giovanni, nel suo
prologo, risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…” per arrivare ad
annunciare: “E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv
1,1.14), il Battista è il primo testimone di quella ‘gloria’ che via via
apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a
noi, fino alla fine del mondo. La sua testimonianza è ancora tesa a dissipare
le incertezze, i dubbi: ‘io non sono…’. Il Battista non è né il Messia né Elia
né il Profeta. Condivide con la gente l’attesa del Messia, senza poter
specificare oltre ma avrà la ‘capacità’ profetica di riconoscerlo presente nel
mondo. Toccherà allo stesso Messia dire poi chi sia, mostrarsi nel suo mistero;
sarà Lui ad amministrare appunto il battesimo in Spirito, mentre il Battista,
con il suo battesimo di acqua, ne prepara solamente la manifestazione. Ma è esattamente
il suo titolo di grandezza, per il quale la Chiesa lo celebra al di sopra degli
angeli e dei santi.
TO XIII, C2
1 Re 19,16-21;
sal 15; Gal 5,13-18; Lc 9,51-62
Con il brano evangelico di oggi
inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme (9,51-19,28). Nella
descrizione di Luca il momento è così rivelativo del mistero della persona di
Gesù che la narrazione assume toni solenni e del tutto speciali anche nel
linguaggio. Noi leggiamo: “Mentre stavano
compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse
decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri … non vollero
riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme”. Letteralmente invece
suona: “Mentre si compivano i giorni
della sua assunzione (termine che può indicare sia la morte che
l’ascensione di Gesù), indurì il suo
volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli
angeli … non vollero riceverlo, perché il suo volto stava seguendo il cammino
verso Gerusalemme”.
Per Gesù è arrivato il momento di
salire a Gerusalemme per dare compimento alla sua missione. Aveva già
preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con
l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo
della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui
si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di
Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. Il racconto di Luca fa
risuonare le parole del profeta Isaia: “Il
Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia
faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso” (Is 50,7) e quelle
del profeta Malachia: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via
davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l'
angelo dell' alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli
eserciti” (Ml 3,1).
È singolare che, nel cammino di Gesù
verso Gerusalemme, il primo rifiuto venga dai samaritani, proprio loro che avevano
accolto e creduto a quel profeta (cfr Gv 4,39-42), proprio loro che, nelle
parabole di Gesù, sono sempre considerati con un occhio di riguardo.
Evidentemente i discepoli, che avevano preso la decisione di Gesù di andare a
Gerusalemme come l’inizio di una marcia di ‘conquista’ per l’instaurazione del
regno di Dio, mal sopportano che il loro Maestro venga trattato in quel modo e
vorrebbero dar loro una lezione. La risposta di Gesù a Giovanni e Giacomo è la
medesima che a Pietro (cfr. Mt 16,23), netta e tagliente: non capite nulla,
venitemi dietro e basta, altrimenti non vi troverete dalla parte di Dio. Chi
cerca di cambiare la via di Dio assomiglia a Satana, fa il gioco di Satana. Il
‘rimprovero’ che Gesù rivolge ai discepoli è dello stesso tono del rimprovero
che indirizza ai demoni (cfr. Lc 9,42). Quello che Luca più avanti dirà del
Figlio dell’Uomo che è venuto per salvare (cfr. 19,10) equivale a quello che
Matteo dice di Gesù definendolo mite e umile di cuore (Mt 11,29). Se questa è
la via di Dio, allora scegliere altre vie significa allontanarsi da Dio. Dire
che Gesù ‘indurì la sua faccia’ significa sottolineare la totale fedeltà di
Gesù al volere del Padre, che così, con quel che avverrà a Gerusalemme, con la
passione e la croce, ha voluto mostrare tutto il suo amore agli uomini. Fedeltà
così ‘dura’, cioè incrollabile, da non lasciarsene distogliere da nulla e da
nessuno.
Se le cose stanno così per Gesù,
possono stare diversamente per i discepoli? Quando Gesù esige dai discepoli
certe condizioni per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della
sua stessa fedeltà che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai
giunto, cioè urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio
(perché in questo consiste la missione degli apostoli). Di fronte alla scoperta
di tale segreto, non c’è bene o valore umano che possa prevalere. La condizione prima è accettare il modello di
Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. Una
bellissima espressione di s.
Così, l’espressione del salmo: ‘sei
tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene’, va letta come dichiarazione
di un amore: posso avere tante cose, ma se non ho te, che vale la vita?
L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’. È il senso
profondo della vita come relazione, come amore, amore che costituisce il valore
di riferimento e di criterio per tutti i beni della vita, il segreto condiviso
tra Dio e l’uomo. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e
della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si
lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano
e finalmente ci si possa riposare.
TO XIV, C2
Is 66,10-14;
sal 65; Gal 6,14-18; Lc 10,1-20
Il profeta Isaia
aveva annunciato la ‘prosperità’ di Gerusalemme, aveva descritto l’invasione di
consolazione che l’avrebbe sommersa, eco del salmo 65: “Stupende sono le tue
opere”. Ma di quale consolazione parlava? Quella che annuncia il canto al
vangelo: “Dio ha riconciliato il mondo in Cristo, affidando a noi la parola
della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). ‘Ha riconciliato il mondo’: i
discepoli inviati sono settantadue (o settanta, secondo alcuni codici), il
numero delle nazioni secondo la tradizione ebraica.
Il brano evangelico di oggi è la
continuazione del testo della scorsa domenica. Chi sono quei settantadue
discepoli che il Signore invia davanti a sé nel suo cammino verso Gerusalemme?
Sono coloro che, avendo incontrato Gesù, al pari di Lui, non fanno riposare il
loro capo se non nel volere di Dio che cerca la salvezza degli uomini; sono
coloro il cui riposo consiste nella pace che portano nel nome del Signore. Non
per nulla Gesù li invia due a due e non individualmente. Come possono
annunciare la pace del Regno se non la fanno vedere come compiuta nella loro
relazione fraterna? Come possono invitare a condividere insieme a loro la pace
del Signore che si fa nostro prossimo se quella pace non è diventata radice di
benevolenza tra loro, segno dello splendore di Dio in mezzo a loro? In effetti,
quello che traduciamo con ‘affidando a
noi la parola della riconciliazione’, letteralmente andrebbe reso: ‘ponendo in noi la parola della
riconciliazione’. Non però la parola da dire, ma la parola come fondamento
dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore della realtà di quella
pace ottenuta che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e
tutto. È la parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come
rivelazione del segreto della felicità nel godere quel ‘suo far grazia di Sé a
noi’ in modo da renderci capaci, ormai solidali con i suoi sentimenti, di
estendere a tutti la condivisione di questo ‘segreto’.
Se questo è vero, vuol dire che Dio
ritiene l’uomo suo compagno ("Siamo
infatti collaboratori di Dio", 1Cor 3,9). È una cosa straordinaria!
Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, il supremo desiderio di
Dio di stare dalla parte degli uomini, possiamo scorgere all'opera nel mondo le
segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di annuncio
evangelico, di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa
opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: «Il
Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la
riconciliazione in Gesù, nostra pace ("Egli
infatti è la nostra pace", Ef 2,14). I discepoli di Gesù sono chiamati
a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo
imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo
scopo divino. Tra l’altro, imparare a diventare coscienti di questa realtà
significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare
compagni di Dio.
Il segnale della partecipazione a
quell’opera, è la letizia, come annota il vangelo a proposito dei discepoli
tornando dalla loro missione. Essi credono di attribuire la loro letizia al
fatto di aver soggiogato i demoni, ma Gesù li corregge e conferma la loro gioia
perché “i vostri nomi sono scritti nei
cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto fare cose
straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi di godere
del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire, di godere la letizia
del Regno. L’annuncio si gioca infatti sulla potenza del contagio della letizia
di cui fanno esperienza i discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione: i
vostri nomi sono scritti nei cieli, avete parte al ‘far grazia di Sé all’uomo
da parte di Dio’, partecipate al suo amore per gli uomini che non si dà pace
finché tutti e ciascuno non ne possano godere, per sempre. I discepoli
impareranno l’estensione e la natura di quella letizia nel seguire il loro Maestro
che sta andando a Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s. Paolo
nella seconda lettura di oggi quando proclama: “Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del
Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato
crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). La letizia evangelica è una
letizia esigente. Ma la vera radice di quella letizia è rivelata da Gesù quando
firma la gioia dei discepoli con la sua esultanza: “Io ti rendo lode, Padre, Signore
del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e
le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto” (Lc 10,21). ‘Così è piaciuto a te’: l’uomo può solo
accogliere e ritrovarsi nell’offerta di Dio. È a quella
esperienza, all’intimità di quella rivelazione che il discepolo attinge per
fondare le ragioni di un vivere che funzionino come radici di umanità nuova.
Potesse l’anima essere ancora toccata dalla benevolenza persuasiva delle parole
di Gesù: “Non temere, piccolo gregge,
perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,32)!
TO XV, C2
Dt 30,10-14;
sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
Il brano di vangelo conferma
l’affermazione del Deuteronomio: “Questo
comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da
te….Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore,
perché tu la metta in pratica”. La parola del Signore, il suo comandamento
è “vicino” a noi. Vuol dire due cose: è accessibile a noi, non è qualcosa di
complicato o assurdo o inarrivabile; nello stesso tempo, è adatto a noi,
corrisponde al nostro cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli
aneliti profondi. Ma allora perché facciamo così resistenza al suo comandamento
nella nostra vita?
Già il testo del Deuteronomio lo
sottolinea: la parola del Signore ti è vicina, “perché tu la metta in pratica”.
Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non
lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non
lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di
quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita.
Il brano di vangelo riprende lo
stesso concetto. Il testo di Luca, come quello parallelo di Matteo, pone la
domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa. Il dottore della
legge vuole mettere alla prova Gesù. Il brano parallelo di Marco invece
sottolinea la buona fede del dottore della legge. Noi possiamo interpretare
così. Ammettiamo che la domanda del dottore della legge: “Maestro, che devo
fare per ereditare la vita eterna?” nasconda un tranello per Gesù. Comunque la
domanda è ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna? La
comprensione segue sempre
La parabola però non finisce qui,
almeno quanto al suo significato. Ogni parabola è un’illustrazione dell’agire
di Dio, una raffigurazione dei sentimenti e dell’agire di Gesù, venuto a
rivelare l’amore di Dio agli uomini. Il buon samaritano è Lui stesso, che ha
lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora
(l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna
perché assimila a Dio, rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore
Qui sta anche racchiusa la legge
dell’intelligenza spirituale delle Scritture. La parola di Dio non è
pronunciata perché la si capisca, ma perché la si metta in pratica. Sarà la
pratica a portare quella conoscenza che il cuore desidera. La parola suggerisce
una possibilità di pratica che porterà alla comprensione, la quale poi farà
ritornare con più desiderio alla parola per vedervi nuove possibilità di
pratica e così via. Così, davanti alla parola, al comandamento, è mal posta la
domanda: cosa vuol dire? Dovremmo dire: qual è il mistero che nasconde di cui
diventare partecipe mettendola in pratica? E allora comprenderemmo dal di
dentro la benedizione di Gesù per i discepoli che immediatamente precede il
nostro brano: “Beati gli occhi che vedono
ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò
che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono”.
E’ la benedizione per chi cerca la vita eterna e
Gen 18,1-10; sal
14; Col 1,24-28; Lc 10,38-42
La
lettura della Genesi ed il brano di Luca sono accomunati da un atteggiamento di
fondo caratteristico: la sollecitudine. Abramo 'corre incontro', 'va in
fretta', 'corre' per onorare i suoi ospiti; Marta, presa dalla stessa
sollecitudine, è tutta indaffarata nei molti servizi per un'ospitalità degna
dell'illustre Ospite, mentre Maria, con lo stesso atteggiamento di
sollecitudine anche se in modalità differente dalla sorella, è tutta presa
dall'Ospite dal quale non stacca occhi e orecchi.
Da dove
scaturisce quella sollecitudine? Senza cogliere la radice di quella
sollecitudine, difficilmente possiamo avvertire il mistero che questi testi
illustrano. Partiamo dal brano evangelico. Gesù intesse l’elogio di Maria per
rimproverare Marta? Dopo l’intervento della sorella e la risposta di Gesù,
Maria avrà continuato a stare ai piedi di Gesù? La finale del brano riporta: “Maria si è scelta la parte migliore, che non
le sarà tolta”. Cosa significa: ‘non le sarà tolta’? Semplicemente, che
Gesù l’avrebbe lasciata stare ai suoi piedi e non l’avrebbe comunque
importunata invitandola ad aiutare la sorella nel servizio? Il vangelo non
riporta semplici annotazioni di cronaca quotidiana. In effetti, tutto il ‘peso’
dell’episodio sta appunto in quel ‘non le sarà tolta’, in quanto rivela la
ragione del fatto che la scelta di Maria è migliore (nel testo: ‘Maria ha
scelto la parte buona’). L’allusione è al desiderio profondo del cuore
dell’uomo che è fatto per Dio e di cui brama vedere il Volto. Ciò che sazia il
cuore dell’uomo è la ‘conoscenza’ del suo Dio. L’elogio di Gesù si riferisce ad
un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò
che non verrà mai meno e di cui si potrà godere in assoluto, quello è la parte
buona, l’unica cosa necessaria, quello di cui c’è bisogno. In primo piano c’è
Dio che viene incontro all’uomo, Dio che compie i desideri dell’uomo, Dio che
ristora l’uomo. La figura di Maria ai piedi di Gesù apre a quella visione. Ma
quella visione è percepibile se il cuore avverte la natura del suo ‘ascoltare’,
tutto teso a godere la verità dell’amore del suo Dio che la nutre e la ristora.
Così, la sua figura è figura di ogni discepolo, la figura di ogni
lettore/ascoltatore della Parola di Dio.
Quando
Gesù fa l’elogio di Maria, rivela la natura vera del servizio di Marta. L’unica
cosa necessaria non è l'opera migliore fra tante altre; è di altra natura: il
possesso di quell'unica cosa necessaria rende 'fruttuosa' ogni opera di
servizio. Fruttuosa, vale a dire capace di far sbocciare l'opera eseguita in
frutto di intimità. Come a dire, ancora, che il frutto dell'agire bene non è
semplicemente la virtù, ma la visione: aprire gli occhi del cuore alla
conoscenza del Signore, all'unione con il Signore che davvero ristora il nostro
cuore. E se il cuore è ristorato, allora, nel suo servizio ai fratelli, lascerà
intravedere 'quanto è buono il Signore', quanto è desiderabile il suo possesso.
In realtà, il senso stesso della sollecitudine del servizio consiste nel
permettere agli altri di desiderare l’intimità col Signore, che di quel
servizio è motivo e scopo.
Quando di
Abramo si descrive la sua sollecitudine per gli ospiti, in primo piano non sta
la sua virtù, ma la promessa di Dio che viene incontro all’uomo e lo rende
degno della sua accondiscendenza. Quello che il testo vuol far vedere è
l’accondiscendenza di Dio per il suo servo, capace di tener fede alle sue
promesse e di garantire al suo servo la verità della sua conoscenza, per lui e
per i suoi discendenti. Le antiche leggende ebraiche non fanno che sottolineare
questo aspetto nella fantasia dei particolari del racconto. Abramo è visitato
da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, segno dell’obbedienza al suo
Dio, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun
viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo molto
triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna ospitalità. Dio stesso decide allora di fargli visita e
non vuole che nemmeno si alzi per venirgli incontro perché era sofferente,
dicendogli, anzi, che i suoi discendenti, già all’età di quattro o cinque anni,
staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà. Ma quando
arrivano gli angeli in veste di uomini, Abramo supplica il Signore di
permettergli di andare loro incontro per offrire ospitalità, preferendola alla
compagnia stessa della Sua Presenza. Tutti particolari che rivelano l’estrema
accondiscendenza di Dio, percepita come la benedizione perenne sul popolo che
da Abramo prende discendenza.
La
colletta della liturgia di oggi coglie bene la natura della sollecitudine che
fa da radice sia all’agire che all’ascoltare: “Padre sapiente e misericordioso,
donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che
risuona ancora nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e
servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli”. Poter avere un cuore
umile e mite significa poter partecipare all’umanità di quel Figlio che di sé
dice: ‘Venite a me voi tutti… che sono mite e umile di cuore’ (cfr. Mt 11,29).
E partecipare alla sua umanità significa poter godere dell’intimità del Figlio
con il Padre e poter esprimere nel proprio agire tutta l’accondiscendenza di
Dio per l’uomo, radice della nostra sollecitudine per i fratelli. Così, quando
nella preghiera sulle offerte, diciamo: “…e ciò che ognuno di noi presenta in
tuo onore giovi alla salvezza di tutti” si sottolinea lo stesso mistero: ciò
che è gradito a Dio è solo ciò che porta alla salvezza di tutti. Il che
equivale a dire: quando sono rapito nell’ascolto, incontro il Dio che vuole la
salvezza di tutti, non solo mia; quando sono indaffarato nel servizio, incontro
il Dio che si fa accondiscendente a tutti, perché da tutti Lui sia conosciuto e
benedetto. Marta e Maria costituiscono così le due facce della stessa
sollecitudine per la conoscenza del Signore, supremo Bene del cuore dell’uomo.
XVII TO, C2
Gen 18,20-32;
Sal 137;
Oggi la liturgia
introduce al mistero della preghiera. Nel brano evangelico non è detto
espressamente, ma è volutamente sottolineata la concomitanza della preghiera di
Gesù e la richiesta dei discepoli: “Signore,
insegnaci a pregare”. Cosa hanno visto i discepoli in Gesù che pregava?
Cosa li ha affascinati tanto da indurli a desiderare anche per loro lo stesso
tipo di preghiera? Se Gesù risponde con l’insegnamento della preghiera del
Padre Nostro, allora vuol dire che ciò che rendeva ‘singolare’ la preghiera di
Gesù era l’intensità di intimità con quel ‘Padre’ di cui custodiva i
comandamenti, di cui annunciava la prossimità, di cui svelava il volto, di cui
mostrava la verità nell’amore all’uomo e di cui suscitava la nostalgia in
questo mondo.
La profondità di tale rivelazione è
svelata dalla preghiera di intercessione di Abramo, che osa intervenire presso
il suo Signore pur sentendosi polvere e cenere. Evidentemente, la possibilità
di intervento di Abramo presso il Signore non dipende tanto dalla sua
giustizia, ma dall’alleanza che il Signore ha stabilito con lui. Il tipo di
‘confidenza’ di tale alleanza, che mostra tutta l’accondiscendenza di Dio per
Abramo e per quanti da lui discenderanno, è messa in risalto dal modo di pensare
di Dio stesso: “Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare,
mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno
benedette tutte le nazioni della terra?”. Abramo si fa avanti osando richiamare il Signore alla sua dignità di
giustizia e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che non
erano bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (al tempo del
diluvio, si salvano nell’arca Noè e
quelli della sua famiglia, che sono appunto otto).
Abramo perciò nella sua intercessione si ferma a dieci giusti: se ci fossero
dieci giusti nella città, come potrà il Signore distruggerla, proprio per
riguardo a quei dieci? Ma l’umanità non ha dieci giusti, ne ha uno solo: quel
Figlio di Dio fatto uomo, l’unico Giusto. Sarà per riguardo a Lui che Dio non
distrugge l’umanità. Per riguardo a quel Giusto Dio abbandona la sua
‘giustizia’ per mostrare la sua ‘misericordia’. Ogni preghiera si fa forte
presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe Dio alla misericordia.
Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del Padre.
Nella Tradizione si sottolinea
costantemente che se una nostra richiesta a Dio non può essere ricondotta ad
una domanda del Padre Nostro, non sarà esaudita. E tutte le richieste confluiscono
in una sola, come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente:
“Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli,
quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo
chiedono!” Oppure, in altra
traduzione: “… a coloro che lo pregano”. Cosa dunque
cercare nella preghiera? Una cosa sola: lo Spirito Santo. Raramente abbiamo
coscienza nella nostra preghiera che questa è la domanda essenziale.
Probabilmente, perché non abbiamo né coscienza dell’urgenza che ci agita dentro
né della confidenza di cui ci è dato l’accesso. Gesù conclude la sua parabola
dicendo: “vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a
dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza”. Il termine che si traduce per ‘insistenza’, in realtà
significa ‘svergognatezza’: non avere alcun ritegno, alcuna vergogna. È
l’atteggiamento della donna Cananea, che alla fine è lodata per la sua fede
(cfr. Mt 15). A quell’atteggiamento si riconduce la vedova che importuna il
giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8), passo che andrebbe letto
insieme al brano odierno. Dire che Dio esaudisce ‘prontamente’ le suppliche dei
suoi eletti, quando la verità della storia è lì a provare il contrario, come
tutti ne facciamo amaramente esperienza, significa riconoscere che solo la
richiesta di Spirito Santo sarà esaudita. Vale a dire, sarà esaudito l'anelito
del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca
proprio Dio, l'incontro, l'intimità con Lui. Sarà esaudita la fede in Lui. E la
fede è volontà di compagnia di Dio, come tutta la preghiera del Padre Nostro
insegna. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si
tratta di affidamento. Non possiamo pregare se non da dentro quell’alleanza di
benevolenza di cui ci è stato fatto dono. Fare la volontà di Dio significa
prima di tutto fidarsi del proprio Dio, dare credito al suo amore e cercare di
stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non
c'è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici, non
semplicemente 'consumatori', 'utenti', 'fruitori', 'clienti', termini che ben
si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose. Così, la logica della
preghiera è questa: non, ottieni ciò che chiedi, ma se chiedi; non, trovi
quello che cerchi, ma se cerchi. La drammaticità di tale logica, che è la
drammaticità di una relazione d’amore, della vita stessa, è espressa proprio
dalla preghiera del Figlio, di quel Giusto di cui viene detto: “Proprio per
questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con
forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per
la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l' obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,7-8). È per tale drammaticità che Gesù, quando
insegna a pregare, lo fa per sottolineare la necessità di pregare sempre. Senza
preghiera non si può vivere o perlomeno non si può vivere l’alleanza con Dio.
XVIII TO, C2
Qo 1,2; 2,21-23;
Sal 94; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
La
risposta di Gesù all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per
ottenere giustizia da sua fratello in una questione di eredità svela
l’intenzione nascosta di tante nostre domande: posso ottenere giustizia? Come
devo fare per ottenere giustizia? Tale domanda è una domanda evangelica? È fin
troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale
‘giustizia’ assicura il vivere bene? La riflessione sapienziale della prima
lettura, tratta dal libro del Qoelet, lo evidenzia molto bene: tutto è vanità.
Proprio tutto?
Come
sempre, le risposte di Gesù fanno riformulare le domande al cuore dell’uomo in
modo più pertinente. Che tipo di giudizio formula? Il suo giudizio non riguarda
questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo, come
illustra anche la seconda lettura. L’uomo cerca i beni di questo mondo per
vivere bene, ma – ricorda Gesù – il vivere bene non dipende dai beni di questo
mondo. La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo
significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi
evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o
muore? (cfr Lc 9,25). Più o meno risponde a quel buon senso che, se pure è
necessario per vivere, non è però sufficiente ad assicurare quella ‘pienezza’
di vita che il cuore dell’uomo cerca. In questo, non viene dato nessun giudizio
sui beni di questo mondo. La discriminante è altrove. Non si tratta di
scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia o
l’avarizia e la solidarietà o la generosità: “Così è di chi accumula tesori per
sé, e non arricchisce davanti a Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire davanti a Dio? Che ne
nasconde un’altra, più misteriosa, ma ancor più rivelativa delle parole di
Gesù: chi è il ricco?
Per
cogliere il senso del brano in tutta la sua profondità andrebbe letto fino al
v. 32. La rivelazione di Gesù procede per due passaggi: prima risponde alla
folla, poi ai discepoli. Rispondendo alla folla indica come la discriminante
per la giustizia in questo mondo gradita a Dio risulti dal fatto di essere
solidale con l’umanità. Alla domanda: come ci si arricchisce davanti a Dio, la
Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero. Si leggano i passi di Pr
3,27 e Is 58,7. La solidarietà con chi è nel bisogno renda la vita ‘degna’ di
essere vissuta. Allora chi è il ricco? È colui che assomiglia a Gesù “il quale, pur essendo di natura divina, non
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…” (Fil
2,6-7). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde questa rivelazione.
Gesù
continua a spiegarsi con i discepoli e aggiunge: perché affannarsi per i beni
di questo mondo? “Non cercate perciò che
cosa mangerete e berrete, e non state con l' animo in ansia: di tutte queste
cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete
bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in
aggiunta”. È ciò che suggerisce il
canto al vangelo: ‘il regno dei cieli è vicino, convertitevi e credete al
vangelo’. Dietro questo invito sta la domanda: qual è la radice della
confidenza nella vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta
nell’alleanza con Dio, la cui fruizione permette quel ‘vivere bene’ che il
nostro cuore cerca, a volte troppo affannosamente solo nei beni di questo
mondo. Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si
sottolinea che il bene che permette ai beni di questo mondo di farci godere la
vita è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che
in Gesù si fa manifesta. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di
tutto la compagnia di Dio.
Il
segreto di questa rivelazione, però, è svelato nel v. 32: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi
il suo regno”. La possibilità della felicità non è conquista umana, ma
accoglienza, intimamente condivisa, di questa offerta amorosa: a Lui è piaciuto
così! Lo annuncia il salmo responsoriale quando ci fa ripetere: ‘Fa’ che
ascoltiamo, Signore, la tua voce’. È la voce che dice: al Padre è piaciuto
darvi il regno! Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione: al
Padre è piaciuto darvi il regno. Qui si radica quella ‘confidenza’ capace di
aprire la vita, capace di aprirci alla vita. Qui si radica l’opposto di quella
cupidigia e avarizia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una
battaglia persa per la felicità. Qui si concentra tutta la consolazione per il
cuore dell’uomo. Così, prima di ascoltare le parole di quella voce, occorre
imparare a percepire la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il
cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa.
Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo
in quella ‘voce’ quelle ragioni trovano quiete.
XIX TO, C2
“Non temere, piccolo gregge,
perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”: è il punto di
verità che costituisce la rivelazione di Gesù e la consolazione del nostro
cuore. Rivelazione e consolazione che la colletta fa pregare perché si compia
per ciascuno di noi: “Dio onnipotente ed eterno, che ci dài il privilegio di
chiamarti Padre, fa’ crescere in noi lo spirito di figli adottivi, perché
possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso”. E che il salmo 32
sottolinea con le espressioni potenti: “beato il popolo che appartiene al
Signore… beato il popolo che si è scelto… che spera nella sua grazia”. La
ragione? “Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo
cuore per tutte le generazioni”, come ripete nel v. 11 sempre il salmo 32.
Quei pensieri che valgono per tutte le generazioni si riassumono proprio nel
versetto evangelico: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è
piaciuto di darvi il suo regno”. Esso aveva costituito l’orizzonte di senso
rispetto al problema dell’uso dei beni di questo mondo, come nel brano di
domenica scorsa. Oggi si aggiunge un particolare ancora: i beni di questo
mondo, non solo vanno condivisi, nell’ottica di quella ‘confidenza’ con Dio che
è caratteristica dell’annuncio evangelico, ma è anche possibile lasciarli del
tutto, distribuirli, cederli. L’esperienza della possibile ‘consolazione’ del
Regno può risultare così significativa per il cuore da indurlo a lasciare tutto
per vivere di quel Regno, seguendo Colui che lo rivela, perché tutti ne possano
condividere la consolazione. È la logica della scoperta della perla preziosa,
del tesoro nascosto, per cui non ci si perde più dietro alcun altro bene né
proprio né altrui, che anzi si danno via per tenersi soltanto e far gustare a
tutti quell’unico Bene.
Le parabole sulla vigilanza
rimandano a quell’esperienza, che è tipica degli apostoli. La vigilanza
evangelica parla del mistero che ha toccato il cuore nella rivelazione del
Figlio di Dio: se al Padre è piaciuto darvi il suo regno nel Figlio che lo
rivela, allora tutto va giudicato in funzione di quella verità. E tanto più
quella verità parla al cuore, tanto più il cuore vivrà di quella verità. Come a
dire: tanto più il cuore vedrà la bellezza del Figlio di Dio, tanto più la
vedrà nei figli degli uomini per cui si metterà a servirli. Gesù proclama
‘beata’ la vigilanza dei suoi discepoli perché la vigilanza è espressione della
‘beatitudine’ del cuore che vede, che sente, che è rapito dalla presenza del
suo Signore che viene. In tal senso, le parabole non servono a istillare la
vigilanza per quando il Signore verrà come giudice alla fine dei tempi; le
parabole alludono più direttamente al mistero della rivelazione del Figlio di
Dio che si compie nella storia, alludono al Signore che viene a preparare
tavola ai suoi, a condividere i suoi segreti quanto all’amore di Dio per
l’uomo, motivo di beatitudine per il cuore dell’uomo. Il fatto di presentare
una parabola con la figura di un padrone che si mette a servire i suoi
servitori, cosa che non ha nulla di usuale nella vita, allude proprio alla
singolarità della rivelazione di Gesù, alla condivisione del segreto di Dio.
Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli
nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni “Se
uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel
gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal
versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al
Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. E corrisponde, nella
ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo
il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunziata ai
nostri padri, perché sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon
animo”. La fede, che diventa ‘una colonna di fuoco, come guida in
un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè della nostra vita, sta tutta
nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”, scoperto in
Cristo. In quella volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà
manifestata in Gesù, sta il segreto della vigilanza evangelica, come anche
della fatica apostolica.
A ricordarci che non si tratta di una beatitudine
‘beata’, ma ‘angosciosa’, ‘lavorata’, ‘paziente’, sta l’esempio di Abramo
riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha potuto vedere solo di
lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti, avendoli visti
realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è certa, l’attuazione
è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono non significa ancora
che si compiono in verità in noi. Non per nulla le parabole sulla vigilanza
parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli, con l’insidia
dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di cuore rispetto
all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento però,
nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire
(faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono
così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È
l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai
la qualità dell’agire.
Ap 12,1-10; Sal 44; 1 Cor 15,20-26; Lc
1,39-56.
Cosa proclamiamo nella festa di oggi
riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo
corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo,
partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando
quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto
che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è
‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo
transito. Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua
maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato
il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai
concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime
dalla morte”. E un altro tropario canta: “ Tomba e morte non hanno trattenuto
la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza
con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui
che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora”.
La liturgia latina, più sobria,
mostra in certo modo le ragioni della potenza di intercessione della Vergine,
celebrata come Regina del cielo, Regina dell’universo. La dignità speciale
della Vergine risiede tutta nella sua divina maternità: ha dato alla luce il
Figlio di Dio fattosi figlio dell’uomo. Ora, i doni di Dio sono totalmente
gratuiti e questa grazia speciale per lei rivela l’estremo amore di Dio per gli
uomini che ha mandato il suo Figlio Unigenito nel mondo perché essi abbiano la
vita e l’abbiano in abbondanza. Ma se è vero che i doni di Dio sono gratuiti,
non sono però elargiti a caso. La lode della donna in mezzo alla folla che
esalta la mamma di Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui
hai preso il latte”, fa rispondere a Gesù: “Beati piuttosto coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano”, come proclama il vangelo della
vigilia della festa. Il vangelo della festa riprende quella lode e la mette in
bocca ad Elisabetta: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle
parole del Signore”. Elisabetta proclama beata Maria perché 'ha
creduto nell'adempimento delle parole del Signore" dette a lei.
Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica
quello che Dio dice. E' assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio
racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al
mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare
in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi
compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore?
Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di
vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte
dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile.
Vince
La Vergine è beata perché, avendo
accolto la parola di Dio in modo così radicale e totale, ha generato nella sua
anima il Verbo di Dio ed ha permesso alle promesse di Dio per i figli degli
uomini di compiersi finalmente. E’ la sua fede nella promessa di Dio che
permette alla potenza di Dio di rivelarsi, di tradursi in opera, di farsi
prossimità di amore per gli uomini nel suo figlio Gesù. E quando lei stessa
magnifica il Signore non fa che esaltare la grandezza e la misericordia
infinita per gli uomini che si celava nelle promesse di Dio e che in lei si
sono compiute. La festa di oggi fa vedere tutto l’arco di sviluppo di quelle
promesse in favore degli uomini ed è sempre la Vergine colei che ne mostra il
compimento, in attesa che diventino effettive e compiute anche per noi tutti.
Ma in questa attesa la Vergine è colei che più di tutti e sopra tutti è la
fautrice di quel compimento per ciascuno, intercedendo e proteggendo proprio
perché la sua gioia si compia e tutti, come lei ed insieme a lei, possano
magnificare i grandi prodigi di Dio.
Nella sua lettera ai Corinzi Paolo
ricorda il dato della fede nella risurrezione. Se Cristo non fosse risorto vana
sarebbe la nostra fede. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine
del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e
drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo
della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno
di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa
va vista nel suo 'succedersi' temporale in ciascuno di noi oltre che nella
storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di
questo 'potere' di Cristo che riduce a nulla il 'potere' della morte che ci
assilla e ci impasta. E man mano che questo 'potere' di Cristo prevale, la vita
sgorga fluente e incontenibile.
Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in
fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. E' compiuto. E siccome è
compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che
la salvezza operata da Dio comporta. Quando i credenti guardano alla Vergine
gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla 'primizia e immagine
della Chiesa ... un segno di consolazione e di sicura speranza'. In lei possono
magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da
Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi
intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche
comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre
di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci
da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".
TO XX, C
Ger 38,4-10; Eb
12,1-4; Lc 12,49-57
Il punto focale della liturgia di
oggi è costituito dal v. 49 di Luca 12 :"Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come
vorrei che fosse già acceso!". La luce che si sprigiona da
questa parola fa comprendere anche gli altri versetti sulla divisione che Gesù
sarebbe venuto a portare e sui segni dei tempi che occorre saper decifrare.
Nei vangeli sono rari i momenti in cui Gesù apre il suo
cuore mostrando il suo vissuto interiore. Questa sua frase fa vedere cosa vive
dentro di Lui. E' consumato da un fuoco interiore, dal fuoco di quello Spirito
di cui era stato mostrato ricolmo al momento del battesimo nel Giordano e in
forza del quale si era avviato risoluto a compiere fino in fondo la missione di
rivelatore e testimone supremo dell'amore del Padre agli uomini. Lui sa che
quel fuoco lo porterà ad un altro battesimo, quello della sua passione e morte
e risurrezione, battesimo che otterrà a tutti noi il dono del suo stesso
Spirito e che condurrà anche noi ad essere consumati dallo stesso fuoco. Questo
fuoco che lo rode dentro è lo stesso che vuole partecipare a noi.
Nel libro del Deuteronomio 4,24 Dio
era definito 'fuoco divorante' o, secondo un'altra traduzione 'fuoco
divoratore'. La stessa definizione è ripresa dalla lettera agli Ebrei 12,29.
Cosa significa?
Una prima spiegazione può essere
data da queste parole di Gregorio Magno: "Dio è indicato come fuoco perché
da Lui è erosa la ruggine dei peccati. Di questo fuoco la Verità dice: Sono
venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che divampi?
La terra indica infatti il cuore dei mondani che accumulando in sé senza sosta
pensieri malvagi finiscono calpestati dagli spiriti maligni. Il Signore però
manda il fuoco sulla terra quando accende col soffio dello Spirito santo il
cuore di chi vive secondo
E' suggestiva l'immagine del nostro cuore che diventa
terra in quanto è calpestato dagli spiriti maligni. La terra calpestata non
produce nulla. Il fuoco è come se 'soffiasse' questa terra, la rende di nuovo
capace di vita, di accogliere e far fiorire i semi che la parola di Dio vi
deporrà.
Ma c'è un'altra
spiegazione che ci introduce più addentro nel mistero del fuoco che è il nostro
Dio. Nel vangelo apocrifo di Tommaso si riporta una frase suggestiva che
antichi Padri ed esegeti moderni pensano essere propria di Gesù: "Chi è
vicino a me, è vicino al fuoco e chi è lontano da me, è lontano dal regno".
La spiegazione è data da Origene. L'uomo che, dopo il battesimo, torna a
peccare, per essere purificato, deve avvicinarsi a Gesù, il cui amore tormenta
il cuore dell'uomo fino a sciogliere con l'ardore del suo fuoco tutto ciò che
lo oppone a Lui e ai suoi fratelli. Ma se l'uomo, con il suo peccato, chiuso
nella sua vergogna o, per meglio dire, nella sua presunzione, sta lontano da
Gesù, allora per lui il Regno risulta inaccessibile e non troverà né libertà né
vita.
Ma c'è ancora un'ulteriore spiegazione.
Quando i due discepoli, in cammino verso Emmaus, incontrano Gesù risorto non
dicono “Non ci ardeva
forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci
spiegava le Scritture? ” (Lc 24,32) ? Ed il profeta Geremia,
sedotto dal'incontro con il suo Signore, non dice forse "Mi dicevo: “Non penserò più a
lui, non parlerò più in suo nome! ”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco
ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non
potevo" (Ger 20,9) ? Anche di questo tipo è il fuoco del
nostro Dio. E questo ci aiuta a comprendere più a fondo il fatto che del fuoco
di Dio si dice che è 'divorante', 'divoratore'. Dio è geloso, non sopporta di
essere preso soltanto in parte, di essere preso in 'coabitazione' con altri. Il
fuoco di Dio è divoratore delle divisioni del nostro cuore, divisioni che
causano dispersione, duplicità, menzogna, chiusure e quant'altro c'è di cattivo
nel cuore che gli impediscono di essere tutto unito e compatto, teso ad un
unico desiderio, capace di essere solidale con il suo Dio e con i suoi
fratelli, con ogni energia libera per essere impiegata a tale
scopo. Il cuore si unifica col fuoco: questa è
Ma tutto questo esige un
contraccolpo. Ed è quello che dice Gesù: "Pensate
che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la
divisione" (v. 51). Se il fuoco di Dio distrugge le divisioni
nel nostro cuore, allora vuol dire che il cuore non deve più temere le altre
divisioni, sebbene dolorose e non volute. Non è possibile tenere insieme tutto.
E il cuore deve sentire che, per restare compatto in ciò che ha di più
essenziale, non può disperdere tale compattezza in ciò che risulta meno
essenziale o addirittura occasionale. E' un discorso duro e non per nulla Gesù
parla anche di essere venuto a portare la spada, simbolo appunto delle
divisioni. Ma è inevitabile. E' la legge dell'amore, del fuoco che arde dentro.
Solo l'esperienza ci farà capire fino in fondo che solo così viene
salvaguardata la libertà e la gratuità dell'amore. Come a dire: la carità non
equivale ad una buona intesa; è disposizione al martirio. Lo è stato per Gesù,
lo sarà di noi. Ed è una legge di vita. Anzi, la divisione che sembrerà opporti
agli altri non è che l'esplicitazione della disponibilità al sacrificio, per
amore degli altri, ormai partecipi del mistero della carità divina, del fuoco
divino. E anche ogni amore umano degno di questo nome resta attizzato da una
scintilla di questo fuoco divino.
La stessa cosa vale per il
riconoscimento dei segni dei tempi. Non si tratta tanto di discernere dove va
la nostra storia, del resto imprevedibile, ma di scoprire la parte di storia
sacra nella nostra storia personale. Discernere i segni dei tempi
significa scoprire l'azione di Dio nella nostra storia. E se siamo lambiti da
quel fuoco divino, come non discernere che ogni evento può essere vissuto come
introduzione al Regno, come apertura del Regno?
TO XXI, C
Is 66,18-21; Eb
12,5-13; Lc 13,22-30
Sembra che il Signore disattenda
molte domande degli uomini. Abbiamo letto nel vangelo: “Un tale gli chiese:
“Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Leggiamo negli Atti 1,6
“Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? ”.
Oppure, anche l'altra: “Chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29) o ancora, di
Pietro a Gesù: “Signore, e lui?” (Gv 21,21). Il fatto è che
facciamo spesso domande inutili, devianti, illusorie. Ma il Signore è sempre
pronto a ricondurci alla verità del cuore, alla verità del suo insegnamento,
alla verità semplicemente.
Parto dall’espressione finale del brano del vangelo di oggi: “Ed ecco, ci
sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno
ultimi”. Se Gesù non risponde a domande mal poste, nemmeno noi dobbiamo
cercare di comprendere le sue risposte a partire dalle nostre domande mal
poste. L’espressione non si riferisce dunque ai pochi o ai tanti che si salvano
né pretende far sapere chi siano i preferiti. Si riferisce invece al fatto che
davanti all’offerta di salvezza da parte di Dio non c’è distinzione di persone;
tutti siamo ugualmente destinatari di quell’offerta e guai a chi ritiene di
avere un titolo speciale da avanzare perché non verrà riconosciuto. In primo
piano, all’inizio della nostra storia come alla fine, davanti a me come davanti
a tutti, ora e sempre, è lo sconfinato amore di benevolenza di Dio che vuole che
ciascuno e tutti siano salvi. Chi si concepisce in riferimento ad altro si
condanna. L’espressione è anche da mettere in riferimento alla prima risposta
di Gesù: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Se è inutile
indagare sul numero degli eletti, se non può valere alcun titolo di pretesa o
di rivendicazione, l’unica cosa da sapere è per dove passare e ottenere la
salvezza.
Due sono allora gli elementi da considerare nella risposta di Gesù: il
movimento e il punto di passaggio. Lo ‘sforzatevi’ allude a quello che poi s.
Paolo chiamerà il combattimento della fede, a quello che i nostri padri
chiameranno la lotta spirituale, la battaglia dello spirito. Senza questa
‘tensione’ interiore non si arriva a nulla, non si porta nulla a compimento. Ma
di quale compimento in realtà si tratta? Della nostra ‘nascita dall’alto’, per
il dono dello Spirito, fino a poter dire con Paolo: “Sono stato crocifisso
con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella
carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me” (Gal
2,20). E’ la nascita al Regno, descritto da Gesù come un banchetto, per
sottolineare il mistero della pienezza e dell’intimità dell’amore che hanno
conquistato il cuore. L’immagine ha una valenza escatologica, non tanto però
per indicare quello che avverrà alla fine dei tempi, ma per mostrare che quella
‘fine’ dei tempi è venuta a visitare il cuore e a far assaporare la densità dei
misteri di Dio. L’altro elemento è il punto di passaggio, la porta stretta.
Quella ‘tensione’ interiore si rivela in tutta la sua potenza proprio nel punto
di passaggio che permette l’accesso al regno. E il punto di passaggio non può
essere che lo stesso Signore Gesù. Lui è la porta stretta attraverso la quale
dobbiamo passare. E’ detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra,
perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza
del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al
sentire della nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della
vita, proprio come per un bambino che, per nascere, deve passare per la porta
stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a
partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla
quale aneliamo sconfinatamente.
Il luogo di passaggio è indicato anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente,
là dove dice:”con le loro opere e i loro propositi. Io verrò a radunare tutti i
popoli e tutte le lingue”, reso invece, secondo un’altra traduzione: “Io sarò i
loro atti e i loro pensieri…”, “Sono io che motiverò i loro atti e i loro
pensieri…”, intendendo: quando Dio diventa la fonte di ogni nostro atto e di
ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso quella porta stretta che
conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno per il nostro uomo
esteriore, è descritta sempre dal profeta così: “Su chi volgerò lo sguardo?
Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito, su chi teme la mia parola” (Is
66,2). Ma scegliere l’umiltà ed il cuore contrito significa scegliere il
Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed
oppressi e io vi ristorerò. Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29).
TO XXII, C
Sir 3,17-29; Sal 67; Eb 12,18-24; Lc
14,1.7-14.
Un invito a pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti
insospettati per i suoi ospiti. La liturgia fa presagire il clima ‘misterioso’
di quel banchetto introducendo il brano con il canto al vangelo: “Il Signore mi
ha mandato ad annunziare ai poveri la buona novella, a proclamare ai
prigionieri la liberazione”. L’uditorio in realtà è particolare: sono tutte
persone ragguardevoli, con una certa importanza, persone che - annota
l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno
di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ad un certo punto, un
commensale, colpito dalle parole o dal modo di parlare di Gesù, esclama
apertamente: “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!”. Quello che
Gesù diceva agli invitati e al suo ospite di riguardo l’aveva indotto a sognare
il banchetto messianico. Gesù, rispondendo con la parabola del banchetto
disertato dagli invitati e offerto invece ai poveri raccolti dentro e fuori la
città, ad indicare Israele e le nazioni pagane, svela il mistero dell’agire di
Dio, che costituisce il criterio di riferimento per comprendere le parole dette
prima. Così, per cogliere il senso vero del brano proclamato oggi dalla
liturgia, cioè Lc 14,7-14, bisognerebbe leggerlo fino al v. 24.
È appunto il riferimento al banchetto messianico che apre la comprensione del
brano. Le parole di Gesù: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno non
metterti al primo posto …”; “Quando offri un pranzo non invitare i tuoi
amici …invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da
ricambiarti”, vanno comprese in quell’ottica, sulla base del principio: “chiunque
si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Ma dove sta il
valore dell’umiltà? Perché l’umiltà è così determinante agli occhi di Dio?
Perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza solamente sogna? Due sono i
passaggi da notare: primo, in rapporto all’agire dell’uomo e secondo, in rapporto
all’agire di Dio. Consideriamo l’agire dell’uomo. In rapporto a chi si pone
colui che, invitato, cerca i primi posti? In rapporto all’ospite che l’ha
invitato o agli altri commensali? Evidentemente, cerca i primi posti per
distinguersi dagli altri, per far valere la sua importanza. Ma così facendo non
cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero
dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi amici, ai
suoi pari, non va oltre l’interesse di ricevere altrettanto e sempre
nell’ordine di un riconoscimento, esibito e ricercato, di una qualche grandezza
condivisa. Il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in
gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà
non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una
furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da
non sentirsene degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma
sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più
vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. E’ questo
l’atteggiamento che apre le porte dei cieli, che attira all’anima i doni
celesti, i doni della vita in abbondanza, di cui il banchetto è l’immagine.
Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri e
sugli altri, allora vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui
che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo, tanto piccolo.
A quella ‘piccolezza’ è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro
che siedono alla mensa di Dio.
La cosa è vera perché corrisponde all’agire di Dio. Dio
è tanto grande (nella sua misericordia) che non ha bisogno di elevarsi al di
sopra di nessuno, ma la sua grandezza si gioca nell’accondiscendenza verso
tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a
qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e
ciechi è perché Dio fa lo stesso. ‘Siate perfetti come è perfetto il Padre
vostro’… La ragione risiede nella coscienza che davanti a Dio nessuno gode di
qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo
suo, offerto a tutti. La beatitudine deriva proprio dal fatto di godere della
sua offerta senza averne titolo e dal fatto di solidarizzare con tutti perché
tutti raggiunti dalla stessa offerta.
E la beatitudine è compresa nei termini che annuncia il brano del Siracide,
sebbene occorrerebbe leggerlo secondo l’aggiunta di alcuni manoscritti greci e
dell’ebraico che, dopo il versetto: “Quanto più sei grande, tanto più
umìliati, così troverai grazia davanti al Signore” proclamano: “Molti
sono alteri e gloriosi, ma i suoi segreti li rivela agli umili, poiché grande è
la misericordia di Dio, agli umili svela il suo segreto”. E’ il segreto di
quella ‘compiacenza’ di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da
Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione
di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. E se l’uomo si
attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé
o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora
conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di
Dio. E chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non può ancora dirsi umile.
Il superbo è sempre indaffarato in sogni di grandezza che persegue nel
confronto con gli altri e non si accorge dell’onore che gli è fatto dalla
benevolenza di Dio che a lui si appressa. I sogni di grandezza dell’uomo
trovano però compimento solo nei segreti di Dio, che sono svelati agli umili.
Così la preghiera pressante che scaturisce dalla
liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, come fosse
una tra altre, ma quella di imparare a percepire così intensamente la grandezza
del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra
cosa, specie ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma
salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della
propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il
giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra
della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato
il Salvatore.
TO XXIII, C2
Sap 9,13-18;
Sal 89; Fm 9-17; Lc 14,25-33
Gesù affascina ma non inganna. Le
parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non odia
suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la
propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e
non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. La liturgia, con il
salmo 89, fa pregare: ‘Donaci, o Dio, la sapienza del cuore’, mentre la prima
lettura riporta la solenne preghiera di Salomone per ottenere la sapienza.
Emerge allora la domanda: può l’uomo
accogliere le parole di Gesù senza che la sapienza dall’alto abbia raggiunto il
suo cuore? Perché la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura
del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore
del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto
risulta sbarrato, ostico. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla
stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di
Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la
natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela
il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e
ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di
oggi, suona tanto ostico alla nostra natura? Qui si cela il dramma e la gloria
dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma non ha in sé il criterio di
discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano
buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma
chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché
mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono” (Mt 19,17) ebbe a dire
Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione
all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita
sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così,
quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali,
intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da
criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il
cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se
stessi in modo pieno. Portare la croce significa morire al mondo per accedere
per davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita, in Gesù. La
sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo
passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le
radici della vita. E questo è il motivo per cui la ‘scoperta’ della sapienza,
del ‘tesoro’ nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che
ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto.
In effetti, il brano di oggi termina
con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi,
non può essere mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che
contraddistinguono il discepolo di Cristo secondo l’evangelista Luca, questa è
la prima: il discepolo perfetto rinuncia a tutti i suoi averi (le altre due
sono: il discepolo perfetto perdona condividendo la gratuità dell’amore
misericordioso di Dio e resta fedele nelle prove, vivendo nella pazienza la
pace sperimentata). Gli averi sono tutto ciò che sostenta la vita, beni e
affetti, che non sono più vissuti a partire da se stessi, ma nella più totale
confidenza con Colui che ne è il Dispensatore. Sottrarre confidenza ai beni
significa godere della confidenza nella vita. Non è immediata la costatazione,
ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si perde confidenza con la vita;
guadagnando confidenza con la vita, si godono i beni. La vita però è quella che
Gesù rivela e promette al suo discepolo; è quella che Lui stesso vive e che
comunica al suo discepolo; è quella che proviene dal vivere il compimento della
vocazione all’umanità che in Lui acquista tutto il suo splendore perché a Dio
rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che domandiamo conduce là.
E se è vero che la sapienza fa capolino nel cuore
quando ci accorgiamo che non siamo eterni e che passiamo presto, come dice il
salmo, può però entrare nel cuore quando risuonano vere per noi le parole: “si
manifesti ai tuoi servi la tua opera e la tua gloria ai loro figli”, frase
che acquista tutto il suo significato davanti a Gesù, riconosciuto come lo
splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Alla visione della fede, nel
mistero dell’obbedienza, si accorda la sapienza, come suggerisce s. Francesco
di Assisi nella sua terza ammonizione: “Dice il Signore nel Vangelo: Chi non
avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo (Lc
14,33); e: Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona
tutto quello che possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che
totalmente si affida all’obbedienza nelle mani del suo superiore, e qualunque
cosa fa o dice e che egli stesso sa che non è contro la volontà di lui, purché
sia bene quello che fa, è vera obbedienza”. Affidarsi all’obbedienza significa
vivere della visione della fede, in quella ‘compagnia’ di vita con Colui di cui
abbiamo imparato a riconoscere l’amore salvatore e di cui finalmente ci fidiamo
perdutamente.
Oggi viene proclamato il capitolo 15
di Luca, il vangelo della misericordia in parabole. Le parabole della pecorella
smarrita e del padre misericordioso che si rallegra del ritorno del figlio
prodigo sono forse tra quelle che più hanno segnato l’immaginario interiore
cristiano. In esse la coscienza cristiana ha colto qualcosa di potente
dell’assoluta verità di Dio. È evidente che Gesù, con queste parabole, vuol rispondere
alle critiche dei farisei sulla sua condotta: «Si avvicinavano a lui tutti i
pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano:
"Costui riceve i peccatori e mangia con loro"». Non si tratta
però tanto di giustificare la condotta di Dio verso gli uomini, ma
di svelare il mistero della sua Persona, il mistero del suo cuore, sul
quale è modellato il mistero anche del nostro cuore.
La liturgia ci introduce in quel
mistero con due annotazioni particolari. Il canto al vangelo, riprendendo due
versetti della prima lettera di Giovanni (4,16 e 3,20), annuncia sicuro: “Noi
abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi: se il nostro cuore
ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”.
I due versetti della lettera di Giovanni sono parole
potenti, che fanno intuire la differenza tra una conoscenza per sentito dire e
una conoscenza diretta, tra una benedizione solo attesa o rivendicata e una
benedizione goduta. Tutta la lettera come del resto tutto il suo vangelo è un
inno “all'amore che Dio ha per noi”, ma la sfumatura di significato è la
seguente: noi, che abbiamo accolto il Figlio che ci ha rivelato l’amore del
Padre, godiamo del suo amore che è diventato in noi radice di dignità e di
vita. L’amore di cui parla Giovanni è sempre da mettere in relazione con la
conoscenza del Figlio, il quale ci fa vivere per averci infuso il suo amore. È
per questo che, per quanto il nostro cuore si ritrovi come schiacciato dai
peccati e fatichi a ritrovare la sua dignità, l’amore di Dio, in Gesù, lo
sopravanza, lo sovrasta e lo ingloba. Quando la Chiesa supplica il Padre, alla
fine della messa, perché in noi non prevalga il nostro sentimento, ma l’azione
del suo Spirito, allude proprio a questo mistero dell’amore di Dio che ingloba
il nostro cuore, allude alla fede nel suo amore che non si tiene lontano da noi
peccatori, ma ci viene a cercare con immensa tenerezza fino a conquistarci.
Le parabole esemplificano la dinamica tipica dell’amore di Dio che vince ogni
resistenza e del presunto giusto e del peccatore perduto. Ciò che le parabole
sottolineano, come la ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che
merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la letizia di Dio nel suo essere
misericordioso. Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro) ma va in
cerca dell’uomo peccatore e la sua letizia sta proprio nella compagnia
dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Il padre della
parabola esprime la sua gioia nel veder il figlio prodigo ritornare al quale fa
festa e il desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui
alludono queste parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore
che non può non essere amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Su
quell’amore è costruito l’universo, in quell’amore consiste la gioia di Dio e
non in altro.
Ne scaturisce una conseguenza ‘terribile’ per la nostra coscienza. Qual è la
giustizia gradita davanti a Dio? Qual è il criterio della rettitudine? Il
principio di rettitudine è la condivisione dei sentimenti di Dio, è la
condivisione della sua letizia nell’amore agli uomini. Come riporta la prima
lettura, la grandezza di Mosè come intercessore sta tutta qui. È vero, come
dice Gesù: "Dio può far nascere figli ad Abramo anche dalle pietre"
(cfr. Lc 3,8). Dio lo proclama a Mosé: “Ho
osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora
lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece
farò una grande nazione” (Es 32,9-10). Come a dire: è vero che
siamo degni di ira, che Dio può far nascere altri figli perfino dalle
pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i
figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che
rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Qualcuno, però, come Mosè, ha
interceduto e Dio ha abbandonato il proposito di nuocere al suo popolo (cfr. Es
32,14). Sembra paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo
cuore! Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella
Volontà. Così, per noi, si tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo
amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sè a noi,
a perdonarci, noi, la sua gioia! Spesso, però, il nostro cuore, irretito
nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di
salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una
condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordare al nostro cuore che Dio è
più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si umilia e
ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell'amore di
misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero e la tipica
realtà di cui siamo invitati a fare esperienza.
Il brano di vangelo odierno, quello
dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone, sembra a prima vista
comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla disonestà?
Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte paragonati nel
vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa? Fermiamoci sulla lode
del padrone: “Il padrone lodò quell' amministratore disonesto,
perché aveva agito con scaltrezza”. La lode verte sul fatto che è stato
scaltro, accorto. Sicuramente non si trattava di un amministratore imbecille,
se era stato capace di quel comportamento; piuttosto, era stato avido e
l’avidità gli aveva fatto perdere il posto. Se paragoniamo questa parabola a
quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della
differenza tra i due: il primo è accorto, il secondo stolto; il primo riesce a
organizzarsi secondo i suoi interessi, il secondo vaneggia. Per ambedue la
domanda decisiva è la medesima: cosa fare? Mentre lo stolto fantastica, l’accorto
dispone. La loro azione si gioca in rapporto al futuro: mentre il primo si
immagina cosa fare e resta chiuso in se stesso, il secondo sa cosa deve fare e
si apre agli altri. Il punto allora è esattamente questo: ‘sapere cosa fare’ in
rapporto al futuro.
La parola di Gesù illustra proprio
quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In gioco è l’uso dei beni
di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone della parabola è Dio che
affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà
conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa
temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi
possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato
incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la felicità, l’accortezza
consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata:
invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà
nella condivisione con tutti. In particolare, la scaltrezza si giocherà nel
fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché il nostro
ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il
condonare i debiti ai fratelli. La parabola può essere letta come
un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri
debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.
A questo punto si aprono nuovi
livelli di comprensione della parabola, ulteriormente spiegata dalle parole di
Gesù sulla distinzione tra ‘proprio’ e ‘altrui’, tra ‘molto’ e ‘poco’. Si
tratta di ‘comprare’ ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere il
molto con il poco. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci
appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che
davvero cerchiamo e dunque è calcolato come poco. Eppure, non abbiamo altra
possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le cose non
nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo con
tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria
definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle
persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in
origine’. Questo è il molto, quello che ci definisce, quello che ci struttura.
È nostro l’essere ‘figli dell’Altissimo’, è nostra quella ‘somiglianza’ con il
Signore Gesù che è venuto a ristabilire.
Non per nulla il canto al vangelo
introduce questa parabola con la citazione di 2Cor 8,9: “Gesù Cristo, da
ricco che era, si fece povero, per arricchire noi con la sua povertà”, da
raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi
sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se
stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e
alla morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare solidali con
l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità
che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel
Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli uomini
potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro ‘vero Bene’. Ed è
caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo,
segua l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata
per la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa
uguaglianza tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei
frutti della carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità
con Dio, simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.
Un’ultima osservazione
sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo dire: ‘so che
cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto
e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell' amore dimora
in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione
che Gesù indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non
sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).
Am 6,1-7; 1 Tm 6,11-16;
Lc 16,19-31.
Tutto l’insegnamento di Gesù nel
capitolo 16 di Luca riguarda il buon uso delle ricchezze. La parabola di oggi
illustra in negativo quello che la parabola dell’amministratore disonesto
illustrava in positivo: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza,
perché, quand' essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”.
Possiamo leggere la parabola a tre livelli:
1) la storia è narrata in chiave speculare a suggerire
il ribaltamento delle situazioni. Qui il ricco gode e il povero soffre, ma
lassù il povero godrà e il ricco soffrirà. Come qui il povero chiede pietà al
ricco ma non la trova, lassù il ricco chiederà pietà ma non la troverà.
Quell’abisso che si era stabilito in vita tra il ricco e il povero,
ricomparirà, ormai definitivo, tra il povero e il ricco. Come qui il povero ha
bisogno del ricco, lassù il ricco avrà bisogno del povero. Il ribaltamento
delle situazioni allude al giudizio di Dio che toglierà ogni illusione. Si
tratta dell’illusione della ricchezza come garanzia di vita.
Evidentemente, in gioco non è
affatto la condanna delle ricchezze e l’esaltazione della povertà. In gioco è
la solidarietà nella vita per garantirsi insieme la felicità, donata da Dio ai
suoi figli che condividono i suoi sentimenti, i suoi giudizi. Se il ricco è
ricco di beni materiali, dovrà arricchirsi presso Dio con il condividerli con i
poveri, perché presso Dio la sua ricchezza sarà costituita dai poveri che
intercederanno per lui. È come dire che la vita si gioca nell’amore e l’amore
risulterà dalla dignità di tutti, custodita e favorita con ogni mezzo.
Se Gesù rivela in questa parabola il giudizio di Dio
sull’uomo, intende far conoscere il pensiero di Dio all’uomo perché questi si
muova in conseguenza. La forza del racconto non sta nel deterrente di paura (il
racconto usa toni pacati e familiari) ma nello svelamento del segreto della
vita. In gioco è la fede nel Salvatore che ‘convince’ alla fraternità nella
comunione col proprio Dio.
2) la parabola, con particolari precisi, illustra la
posta in gioco nella vita e il modo di giocarla bene. Ci sono come dei punti
nevralgici nel racconto che ci aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non
porti nessun nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa ‘Dio
aiuta’. Senza Dio l’uomo si confonde con ciò di cui si serve e che finisce per
servire. Non dice il profeta: “Maledetto l' uomo che confida nell' uomo, che
pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore”
(Ger 17,5)? Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e
misconoscere il fratello. Il ricco non è presentato come cattivo, ma più
semplicemente e più drammaticamente come uno che nemmeno s'accorge del povero
tanto vive nella sua illusione. A tale riguardo, la prima lettura del profeta
Amos celebra l'intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del
disincanto, come la cessazione dell'illusione. Quella classe nobile che
sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del suo bene verrà
spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in
schiavitù.
Lazzaro, nel paradiso, è descritto
con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo.
La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo
fianco che può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine
dell’affermazione: gli ultimi sono i primi.
Ma il particolare che, secondo me, è
assolutamente rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi che ‘alzò gli
occhi e vide’. Non aveva mai ‘alzato’ gli occhi durante la sua vita e perciò
non aveva mai ‘visto’ nulla di vero. Esprime lo stesso sentimento del figlio
prodigo quando, ormai disilluso, incomincia a vedere la verità della vita: “allora
rientrò in se stesso e disse…” (Lc 15,17). Questo particolare esprime il
movimento del cuore che prelude al riconoscimento della verità della vita.
Quello che viene indicato avvenire là nell’inferno, nel giudizio della
parabola, è proprio quello che ci si esorta ad assumere adesso nella nostra
vita.
3) Le parole conclusive della parabola lasciano
intravedere allusioni misteriose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti,
neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. Lazzaro, fratello
di Marta e Maria, sarà poi risuscitato da Gesù, ma il miracolo non risulterà
convincente per coloro che erano ostili verso Gesù. Gesù stesso risusciterà, ma
di per sé nemmeno questo convincerà. Occorre prima dar credito alla parola di
Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola. Declinerei in due tempi la
portata di questa affermazione:
a) Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può
aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però
condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è
quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così
essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.
b)non si può cogliere la portata del mistero di Gesù,
compimento della promessa di Dio per l’umanità, se non riferendosi a tutte le
parole della Scrittura, perché tutte di Lui parlano. Da interpretare nel senso
dell’espressione di Paolo a Timoteo: “ti scongiuro di conservare senza
macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore
nostro Gesù Cristo…” . Ogni parola va custodita e accolta, integra e viva,
perché praticandola ci sveli il volto del Signore che si è fatto nostro
prossimo, vicino a noi e raggiungibile nel nostro vicino.
Ab 1,2-3; 2,2-4 // 2 Tm 1,6-14 // Lc 17,5-10
Il tema della liturgia di oggi è
Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la
nostra fede! ”. Non è una richiesta in generale. La
circostanza precisa, a partire dalla quale scaturisce la richiesta degli
apostoli, è data dai versetti precedenti: "Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si
pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte
ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai”. Così tanto, in modo così
nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: 'tu
gli perdonerai'! E' alla portata dell'uomo perdonare la prima, la seconda,
forse anche la terza volta ad un suo fratello, ma perdonare indefinitivamente,
sempre, non appartiene al cuore dell'uomo. Eppure il cuore dell'uomo sa e sente
che non può riacquistare l'innocenza perduta se non nella riconciliazione, nel
perdono offerto e ricevuto, costantemente. Qui si radica l'esperienza di Dio
per ogni cuore: ognuno sente che non potrà avere accesso all'Amato a meno che
Lui stesso apra le porte del Suo cuore; che non riuscirà credibile nell'offerta
del suo amore se l'amore dell'Altro non lo accoglie prima, non gli riverserà
in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti perché
diversamente ci sentiremmo eternamente condannati alla solitudine. L'unica cosa
che ci viene richiesta è la schiettezza, il riconoscimento del nostro peccato,
la non giustificazione davanti ai nostri peccati, tutti atteggiamenti che
rivelano quanto il nostro cuore non ha più paura di Dio. Non ci si illuda: il
compito del perdonare, del vivere da riconciliati, se da una parte esige la
coscienza viva del nostro essere peccatori, dall'altra comporta l'esperienza
della confidenza con Dio e quindi si tratta di un compito dall'estensione
divina. Ed è per questo che nel perdonare si gioca la sincerità dell'aver
incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i nostri
fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice
ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire
respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.
La domanda di fede degli apostoli va in questa
direzione. E va osservato che la risposta di Gesù non riguarda la 'quantità'
della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta. Si basa sulla
sua natura, sul fatto di averla 'schietta', 'limpida', 'vitale', 'viva',
proprio come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad
essere albero. “Se
aveste fede quanto un granellino di senapa" non vuol dire
'basta che ne abbiate un pochino, grande come un granellino di senapa', ma
piuttosto 'è sufficiente quella che avete, basta che sia genuina e viva come un
seme, che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Dobbiamo ricordare
la parabola di Luca 13,18-19 "Diceva
dunque: “A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È
simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto; poi
è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra
i suoi rami”. Nell'interpretazione dei Padri, gli uccelli che
vengono a posarsi tra i suoi rami sono tutti i nostri pensieri che sono
attratti e trovano riposo in quella Parola che è stata seminata nel nostro
cuore e che alla fine ha inglobato tutto di noi contagiandoci con quell'energia
divina, insopprimibile, che racchiudeva.
Anche qui, quello che ci è richiesto, non è il poco o
il tanto, ma la sincerità, la schiettezza, la verità del cuore.
A questa schiettezza, sincerità, si
attiene il servo e non chiede altro. Quanto è facile cadere nella
rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene,
di quello che ci si deve! Atteggiamento più sbagliato non potremmo assumere! La
vita non si allea con chi avanza titoli di pretesa. Il Signore nemmeno, per
quanto aspetti alle porte del nostro cuore in attesa che impariamo
semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente a dare e non a
pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci venga fatto. E
questo sarà possibile quando ci accorgeremo che non vale la pena cercare
qualcosa, ma solo Qualcuno, anzi, che Qualcuno ci ha trovati, è venuto a
servirci; che non avremo mai titoli a sufficienza per farci ammirare,
ma ci ritroveremo belli solo nella grazia di Chi ci ama; che essere servi,
nell'esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla,
di esibire nulla, di imporci in nulla perché avremo trovato quello che il nostro
cuore cerca, cioè l'intimità con Chi ci ha amato e ci muove da dentro ad
amare a nostra volta. Il vero 'servo' è proprio Gesù, che nella confidenza più
totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa
confidenza. La forza del suo amore deriva dalla forza di quella intimità. La
stessa cosa vale per noi, suoi discepoli, suoi servi. 'inutili' non perché
non facciamo nulla, ma perché, per quanto facciamo, non possiamo meritarci
la stima e l'amore del Padrone e perché non aggiungiamo nulla alla ricchezza
del Padrone. Inutili equivale a 'poveri', 'semplici', 'semplicemente' servi e
nulla di più, ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non
voler essere e avere altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per
noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei
confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. Quando
il profeta proclama: "Ecco,
soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua
fede" (Ab 2,4) vuol dire proprio questo: chi non avanza
pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non
sarà in contesa con gli uomini; l'intimità con Lui lo custodirà nella libertà
di un cuore che ormai non ha più bisogno di dimostrare ed esibire
nulla perché ha trovato ristoro e diventerà a sua volta fonte di vita
per tutti.
Risuona tremenda, e consolante al tempo stesso,
l'affermazione di Paolo ai Romani : "tutto
quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato" (Rom
14,23), affermazione che potrebbe qui essere ripresa a suggello degli stessi
insegnamenti di Gesù. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla
paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che
stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio,
con le cose.
§ * * * * * *
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
28a
Domenica
(14
ottobre 2007)
_________________________________________________
2 Re
5,14-17; Sal 97; 2 Tm 2,8-13;
Lc 17,11-19
_________________________________________________
Non è la prima
volta che Luca nel suo racconto presenta la guarigione di lebbrosi. In Lc
5,12-14, parallelo a Mc 1,40-45 e a Mt 8,1-4, troviamo che Gesù guarisce un
lebbroso che gli si era avvicinato. Ma si tratta appunto solo di un miracolo di
guarigione. Il testo non indugia su altro. Nel brano di oggi invece il testo
sembra come sorvolare sull’evento del miracolo di guarigione per insistere su
altro. Lo rivela il colloquio di Gesù con il samaritano lebbroso guarito che è
tornato a ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato. Tra l’altro,
anche il racconto del lebbroso guarito secondo il vangelo di Matteo, è
collocato in un contesto assolutamente speciale. Gesù era appena disceso dal
monte delle beatitudini sotto l’impressione potente da parte degli ascoltatori
che la sua ‘autorità’ di insegnamento fosse unica: costui parla non come gli
altri rabbi, parla non semplicemente a nome di Dio, ma direttamente dalla parte
di Dio. Appena sceso, guarisce un lebbroso toccandolo, togliendo così la
divisione tra puro e impuro come segno della sua missione.
Ritorniamo al
brano di Luca e partiamo dal contesto. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e
l’annotazione di Luca mette in risalto il fatto che ciò che avviene deve essere
compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del
mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci
lebbrosi segue la domanda dei farisei sul regno di Dio: “Quando verrà il regno
di Dio?”. Ciò che è in gioco nel brano dei dieci lebbrosi è appunto la
questione del Regno di Dio che viene. Come non vederlo? Eppure, non sembra così
facile vederlo.
Dieci lebbrosi,
tormentati dalla malattia che comportava l’esclusione dalla comunità (“gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali,
fermatisi a distanza, alzarono la voce”, in ottemperanza alla legge di Lev
13,46), gridano al Signore il loro tormento e chiedono di essere guariti. Tutti
e dieci sono sinceri e tutti e dieci hanno fiducia in Gesù perché credono alla
sua parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino
si ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno
solo torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua
vera portata. Non si tratta del racconto di un miracolo, ma della rivelazione
che consegue. I nove che proseguono (effettivamente, sono così obbedienti e
devoti che vogliono eseguire fino in fondo il comando di Gesù e non tornano
indietro?) non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito
in loro la parola del profeta: “Ecco,
faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is
43,19). E difatti non fanno nulla degno di menzione; di loro si perdono le
tracce, sono paghi di quel che hanno ricevuto. Uno, lo straniero, il
samaritano, torna indietro, vuole ritornare a vedere Colui le cui parole sono
state così potenti da sanarlo.
Una prima
osservazione. Dio non lesina i suoi doni, anche se gli uomini spesso
interpretano questi doni come atti dovuti. Se Dio è Dio, perché non mi può dare
questo o quest'altro? Me lo deve dare, mi spetta! (quante accuse a Dio di
fronte agli eventi della nostra vita!). Ma questo atteggiamento si perde nel
nulla, non produce nulla degno di menzione, non viene lodato da Dio. Perché?
Perché tutto ciò che riceviamo e abbiamo, tutti i doni di Dio comportano
un'intenzione segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero
che Gesù fa ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello, la
cecità di fronte a questa intenzione segreta di Dio. L'uomo si confonde con il
dono che ottiene e si richiude su di sé. E' rimasto sordo, non ha visto di cosa
si trattava realmente.
Quando invece
prorompe la lode, la riconoscenza ("tornò
indietro lodando Dio ... si gettò ai suoi piedi per ringraziarlo"), il
cuore ha percepito l'appello, ha sentito l'intenzione segreta di Dio.
L’incontro che seguirà non interesserà più soltanto un bisogno, ma tutto il
proprio cuore; non più soltanto una cosa, ma tutta la propria vita. L'incontro
fa accedere ad una nuova visione (Alzati:
ha scoperto che Colui che l'ha guarito nel corpo, l'ha toccato nel cuore e lo
rende capace di sentire le cose in modo diverso) e ad una nuova condotta (e va’
: l'uomo diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà ormai
cammino sicuro di umanità, di un'umanità aperta, solidale, trasfigurata).
"La tua fede ti ha salvato" : è il
tutto della vita vissuto a partire da un punto, il punto di quell'incontro con
il Salvatore che irradierà tutta la vita perché sono state toccate le radici
del cuore.
Se nel racconto
del miracolo della guarigione dei lebbrosi venivano usati i verbi ‘purificare’,
‘guarire’, ora viene usato il verbo ‘salvare’, ora si fa riferimento alla
‘fede’. Fede, che dà accesso al mistero di Dio che viene in soccorso dell’uomo
e lo salva introducendolo nel suo regno che in Gesù si rivela.
Un’ultima
annotazione. Quando Gesù accoglie il samaritano che torna a ringraziarlo dice:
“Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”.
‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo
dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in altri termini, diciamo di
essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è che la sincerità ha a che
fare con il dire quello che sentiamo, mentre la verità ha a che fare con quello
che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non significa solo esprimere la propria
riconoscenza ma prendere atto della benevolenza dell’altro che ci fa
sussistere. Dire la verità implica sempre la responsabilità del nostro essere
di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è
risultato così determinante per la conversione del samaritano.
§ * * * * * *
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* * * * * § * * * * * * §
Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
29a
Domenica
(21
ottobre 2007)
_________________________________________________
Es 17,8-13; Sal 120;
2 Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
_________________________________________________
La
liturgia di oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita:
se Dio è Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo
di Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia
negli unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì
o no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè
aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro
tremendo pericolo: l’attacco degli
Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che
trovano un nemico sulla loro strada. L’angoscia del popolo, questa volta,
sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la
salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto
però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti
e al popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Tutto il popolo
prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede nel Dio di Israele perché
un’altra volta il loro Dio li salvi. E quella preghiera potente non ottiene
solo la vittoria in quella battaglia ma soprattutto che Dio dichiari
solennemente, a favore del popolo, la sua ostilità perenne nei confronti degli
amaleciti fino alla loro completa distruzione (che però non avviene mai
completamente, a simboleggiare la perenne presenza dell’irriducibile avversario
del giusto in questo mondo).
Tutti
i testi salmici di questa liturgia alludono a quella situazione drammatica. La
vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da
afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite
si può precludere la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per
il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di
speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto di ingresso (sal 16,6.8)
descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il
giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel
pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile
alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in
schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio); il canto al vangelo
(sal 129,5) esprime la speranza come frutto della grazia del perdono, ma
davanti all’angoscia per le colpe commesse; l’antifona alla comunione (sal 32)
invita alla confidenza in Dio perché il piano del Signore, che è il piano del
suo amore per gli uomini, che Gesù mostra nel suo splendore, sussiste per
sempre.
Ecco
allora il punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in
modo da attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù
parla della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta
salendo a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che
racconta nasce da due domande precedentemente poste:
1) il regno di Dio si può
vedere?
2) il Figlio dell'Uomo sarà
riconosciuto?
Se
il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si
dovrà imparare a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’Uomo “è necessario che soffra molto e venga
ripudiato”,vale a dire: non si vedrà come ci si aspetta di vederlo,
occorrerà imparare a riconoscerlo, a sentirne la presenza, a percepirne la
bellezza e la potenza. Ma come? Con la perseveranza nella preghiera. Lo dice
espressamente Luca nell'introdurre la sua parabola del giudice iniquo e della
vedova che lo importuna fino ad ottenere giustizia: "Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza
stancarsi". I discepoli che subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo
si chiedono: perché Dio tarda? Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi
aiuterà contro il peccato, ma perché si deve fare così tanta fatica? Sarà
possibile resistere fino alla fine? Ecco, la parabola risponde a queste domande
angosciose.
Se
accostiamo la nostra parabola a quella, similare, dell'amico importuno (cfr. Lc
11,5-8), soprattutto alla sua conclusione: "Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri
figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che
glielo chiedono!" (Lc 11,13), allora si apre una comprensione più
profonda delle parole di Gesù. Dio esaudisce 'prontamente', senza fare
aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l'anelito del cuore che
non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio,
l'incontro, l'intimità con Lui. Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di
perseguire il bene, quando non riesce a sopportare un'ingiustizia, quando è
tormentato da persecuzioni interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a
rendergli soddisfazione così come se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede
lo Spirito del suo Figlio perché il suo cuore non si allontani da Lui comunque,
perché non venga meno l'anelito alla Sua compagnia, perché si rafforzi la sua
fede, cioè la sua visione di Lui. Come dice Gesù alla fine della parabola:
"Ma il Figlio dell’uomo, quando
verrà, troverà la fede sulla terra?”. Senza quella costante perseveranza
nella preghiera la fede non potrà durare. Perché dobbiamo 'pregare sempre'?
Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il Figlio non si manifesta
secondo le nostre attese. La preghiera o, meglio, la perseveranza costante
nella preghiera è l'unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed
al sentore del Regno. Un’antica tradizione ebraica rileva nelle braccia alzate
di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm
6,24-27, benedizione che misticamente fa sussistere il mondo.
§ * * * * * *
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
30a
Domenica
(28
ottobre 2007)
_________________________________________________
Sir 35,12-18; Sal
33; 2 Tm 4,6-18; Lc 18,9-14
_________________________________________________
Con
la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del
mistero della preghiera. Nel tempo della storia, stando davanti a Dio, gli
uomini non si possono suddividere tra giusti e peccatori, ma necessariamente
soltanto tra quanti presumono di ritenersi giusti e quanti si ritengono
peccatori. Il giudizio dei cuori spetta a Dio e la parabola illustra proprio la
verità di quel giudizio. Uscendo dal tempio, soltanto il pubblicano sarà
‘giustificato’, vale a dire soltanto la sua preghiera è stata giudicata gradita
davanti a Dio. Non è però detto il motivo e se non lo cogliamo resteremo
identificati sentimentalmente con il pubblicano, ma in realtà ci muoviamo
sempre come il fariseo.
Il
brano del Siracide ci offre indicazioni preziose. Il passo tratta delle offerte
al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al Signore ‘vittime
ingiuste’, sottolineando che “il Signore
è giudice e non v’è presso di lui preferenza di persone (letteralmente: la
gloria della persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può offrire ‘vittime
ingiuste’ in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza
impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al
povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima
difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da
nessuna gloria esteriore.
Quando
il fariseo proclama la sua ‘giustizia’, non dice cose false, ma non è retto il
suo cuore perché interpreta la sua giustizia come una gloria da esibire e Dio,
per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può accogliere la sua
offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.
Ma
la ragione più profonda della non accoglienza della sua preghiera è un’altra.
Basta mettere a confronto la preghiera del fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…”, con quella di Gesù, che il canto al vangelo
fa intravvedere: “Benedetto sei tu, o
Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i
misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze
vistose: la preghiera di Gesù prorompe da un'intimità goduta, esprime
solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e non l'uomo. Quella del
fariseo è appiattita sull'esteriorità esibita, fa rimarcare la separazione,
celebra l'uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù Dio è benedetto come
Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca, è proprio la
proclamazione della sua paternità.
Nella
preghiera del Padre Nostro, tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una
: " ... come noi li rimettiamo ai nostri debitori". A questa
richiesta che ci fa Dio rimanda la frase di Gesù a conclusione della parabola:
“chi si esalta sarà umiliato e chi si
umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Chi è profondamente consapevole del suo
peccato e chiede a Dio il perdono, come dice il pubblicano: "O Dio, abbi pietà di me peccatore",
non avverte nemmeno che qualcuno sia in difetto verso di lui. Ed è solo a
partire da questa consapevolezza che, risalendo all'indietro nella preghiera
del Padre Nostro, chiede di nutrirsi del Pane di vita, accoglie come
desiderio e criterio supremo di condotta
del suo cuore il mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, si fa guidare
dallo Spirito e ne cerca il regno, vive in maniera che il Nome di Dio sia
costantemente glorificato ed allora, come Gesù, può chiamare Dio 'Padre'.
Questo, il fariseo, non lo può fare. Ma se non fa questo, come può essere
gradita la sua preghiera? In realtà la preghiera non tende ad altro se non a far
sì che sia rivelata al nostro cuore la verità di Dio, cioè che è 'Padre'.
Un’ultima
considerazione. Il movimento della preghiera non è quello di esibire qualcosa
per convincere Dio a venire da noi (questo significa non aver ancora accolto
Dio come il nostro salvatore) ma quello di confidare nella sua offerta di
salvezza. Un passo del profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su
chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola” (passo, che la
versione greca rende con: “Su chi volgerò
lo sguardo? Sull’umile e sul mite…” (Is 66,2). E non è Gesù colui che di sé
dice: “Venite a me, voi tutti, che siete
affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e
imparate da me, che sono mite e umile di
cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29)? Così, se
Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, allora non c’è alcun bisogno di
esibire alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di
separarci dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di
Dio. Tanto che, più un uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che
coltiva; più un uomo si distingue e si separa dagli altri, meno conosce la
salvezza di Dio.
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Solennità e feste
Tutti
i Santi
(1
novembre 2007)
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Ap 7,2-14; Sal 23;
1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12
_________________________________________________
L’immagine
di fondo che caratterizza la liturgia di oggi è quella della comunità umana
unita come famiglia di Dio, nella lode e nell’adorazione dell’unico Dio e
Salvatore, in una gioia perfettamente condivisa tra gli uomini, gli angeli e
Dio stesso. Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di
fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una
visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana, quella
tipica della celebrazione eucaristica in cui, nel Corpo di Cristo presente
sull’altare, i fedeli si riconoscono membri della comunione dei santi
comprendente tutti coloro che, in ogni epoca, hanno creduto e vissuto in
Cristo. Parla di realtà ultima ma vicina, più ‘reale’ delle cose di tutti i
giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore
degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle
tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.
Penso
all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena quando l’enorme pala (tre
metri per cinque) della Maestà di
Duccio da Buoninsegna fu scortata dalla bottega dell’artista alla cattedrale in
trionfo, tra gli applausi della cittadinanza e posta sull’altare. La visione di
tutti quei santi schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la
natura umana viene rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del
Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi
della loro compagnia e del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più
l’attrazione del cielo allo stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice
quell’attrazione, è ancora necessaria per vivere e cogliere il senso della
nostra vita.
Per
noi, oggi, la comunità dei santi attorno all’Altissimo, riuniti nella stessa
lode e nella stessa gioia, fornisce come le coordinate di senso alla
responsabilità della vita terrena. Non abbiamo altro modo di sconfinare
nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo
spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà
degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi,
noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora
rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili
a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Quello che siamo, siamo
chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana. Così, mentre
vediamo delinearsi, anche solo per tratti sfumati, la gloria della santità
compiuta nel Regno, che la liturgia celebra solennemente, ci accorgiamo che
quegli stessi tratti caratterizzano la via per lambire la santità anche qui,
nella nostra storia, con il percorso che segue il nostro cuore per arrivare
all’evidenza dell’amore di Dio, motivo di purità per il nostro cuore, realtà di
pacificazione e di riconciliazione con tutti i nostri fratelli, figli di Dio
allo stesso titolo nostro, decisi a non perdere l’amore quando l’afflizione ci
opprime. È la santità del Regno che poco a poco conquista il cuore, come
l’insieme delle beatitudini mostra:
beati
i poveri: beati coloro che non fanno consistere la
loro ricchezza che nell'essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al
mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l'amore grande di Dio per
l'umanità
beati
gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più
amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall'agire come figli di
Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della
solidarietà con Dio e con gli uomini
beati
i miti: beati coloro che con pazienza
sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli
di Dio, fin tanto che la terra del loro cuore sarà tutta diventata cielo
beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati
coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all'essere
figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li
consoli
beati
i misericordiosi: beati coloro che, avendo
sperimentato quanto è grande l'amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua
sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale
esperienza aprendo il loro cuore al perdono
beati
i puri di cuore: beati coloro che avranno
sperimentato la luce dell'amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella
luce e poter vedere tutto in questa luce.
beati
gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di
Dio, vivono nella dinamica dell'amore di Dio per gli uomini che vuole tutti
riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di
perseguire questa pace ottenutaci dal Figlio di Dio
beati
i perseguitati per causa della giustizia: è l'ottava
beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la
condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire , non vi turbi e non vi
distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del
Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che
indica.
Ci
ritroveremo così nel Cristo, nostro ‘riposo’, come canta il versetto al
vangelo. Ma quel ‘riposo’ allude alla creazione del riposo da parte di Dio nei
giorni della creazione e che Dio riverserà in pienezza alla fine dei tempi.
Dopo aver creato tutte le cose, il libro della Genesi dice: “Il settimo giorno
Dio terminò la sua opera”. Ma non era più logico attendersi che avesse
terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso
evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa
è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità,
la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa
né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia, vita eterna.
Quella che il Signore Gesù farà gustare: “Venite
a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò sollievo” (Mt
11,28).
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
31a
Domenica
(4
novembre 2007)
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Sap
11,22-12,2; Sal 144; 2Ts 1,11-2,2;
Lc 19,1-10
_________________________________________________
L’ultimo
incontro di Gesù, prima di arrivare a Gerusalemme, è quello con Zaccheo, l’esattore
delle tasse di Gerico, malvisto e odiato da tutti. La gente, che fa ala al
passaggio di Gesù, non gli lascia nemmeno un varco per sbirciare tanto che
dovrà correre avanti e salire su di un sicomoro se vorrà vedere che faccia
abbia quel famoso maestro. Non poteva certo prevedere l’esito dell’incontro, ma
sicuramente il suo cuore era già mosso da un’aspettativa misteriosa. Un uomo
della sua importanza non poteva certo esporsi al ridicolo per un motivo futile.
Gesù, che guarda ai cuori, ‘sente’ il suo desiderio e gli si fa incontro. Come
non si lascia distogliere da nulla nel suo cammino per Gerusalemme, così non si
lascia intimorire dal brusio generale di disapprovazione pur di far toccare con
mano, a Zaccheo come a tutti, il Regno che viene con la sua presenza.
Il
racconto gioca appunto sulle attese dei cuori. Sia Zaccheo che la folla, per
motivi diversi, non riescono a vedere ancora Gesù nella sua realtà di
Salvatore. Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, aveva scoperto di non poter
più restare dov'era; le ricchezze di cui si faceva forte nel confronto con gli
altri, per cui gli altri lo temevano, non soddisfano i desideri del suo cuore.
Vuole vedere Gesù (motivo, questo, che ricompare diverse volte nei
vangeli). Anche la folla, di curiosi o
simpatizzanti, vuole vedere il Maestro ma – i loro pensieri lo rivelano - non
sa capacitarsi del mistero di Dio che incontra l'uomo. Questa folla siamo noi
quando cerchiamo di fare il bene, senza però che questo bene porti il frutto
desiderato, vale a dire la conoscenza del Signore, la comunione di sentimenti e
di desideri con il nostro Dio. È
un bene esibito, un bene imposto, tirato, rivendicatorio, distante da
quell'intimità a cui dovrebbe aprire l'accesso.
Quando
nella colletta abbiamo pregato: "... porta a compimento ogni nostra
volontà di bene...", è come se avessimo domandato: fa' che il bene che
operiamo si risolva nella visione di Te. Desiderare il bene non comporta solo
il fatto di muoversi a farlo, ma di farlo in modo tale che si riveli al nostro cuore
il Volto di Dio. Fare il bene comporta sempre un incontrare il nostro Dio, che
vuole la salvezza di tutti. Così, quando Gesù arriva sotto l'albero dove è
salito Zaccheo e lo invita a riceverlo nella sua casa, in realtà non è Gesù che
va nella casa di Zaccheo, ma Zaccheo che viene nella casa di Gesù. La decisione
di Zaccheo di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro
volte tanto il maltolto, esprime la gioia di trovarsi ormai nella casa di Gesù,
nel mistero cioè di quella fraternità che svela il Volto di Dio agli uomini. Il
bene che così si compie non ha più nulla di esibito, di rivendicatorio, di
ricattatorio, ma procede e si risolve interamente in quella intimità ritrovata
con il proprio Dio. La folla non è ancora entrata nella casa di Gesù, anche se
lo accompagna.
L’espressione
del libro della Sapienza: “Tu ami tutte
le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato…” allude allora al
Bene di Dio per noi scoperto e sperimentato proprio nel nostro disporci a
condividere i sentimenti di Dio nei confronti dei nostri fratelli. Il
ritornello al salmo responsoriale: “la gloria di Dio è l'uomo vivente” va
completato con il seguito della citazione, presa da Ireneo di Lione (Contro le eresie, lib. IV, 20, 7): “e la
vita dell’uomo è visione di Dio”. L’uomo ‘vivente’ non indica semplicemente
l’uomo che è in vita, ma l’uomo che vive per Dio condividendo i suoi
sentimenti. L’uomo non è figlio di Dio semplicemente perché creatura di Dio, ma
perché invitato a godere della rivelazione di Dio, a vedere il Volto di Dio
come Padre, nel Figlio suo Gesù Cristo. Figlio, che, come riferisce il canto al
vangelo (“Dio ha tanto amato il mondo da
dare il suo Figlio Unigenito”), è dato a me perché possa conoscere il Volto
di Dio e scoprire tutto l'amore di Dio per l'uomo. È l'invito a saziarsi di bellezza e di amore in quel Figlio
che rivela il Padre così vicino agli uomini e che con il Suo Spirito permette
all'uomo di vivere la fraternità con gli uomini come sacramento della paternità
di Dio.
E
ritornando ancora alla prima lettura, se è vero che “tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia”, allora
possiamo pregare: di fronte alla visione di Te, tutto è come polvere, nulla
attira i desideri del cuore se non Te solo; se Tu “hai compassione di tutti ...non guardi ai peccati degli uomini”,
allora i nostri cuori sono così desiderosi di Te da riferirci a tutti in modo
da non separarci dal tuo amore, da non guardare al peccato di nessuno per non
essere separati dai nostri fratelli, da amare chiunque perché tutti facciano
esperienza di quanto è buono il tuo amore.
E
se Gesù dice a Zaccheo: "oggi, devo fermarmi ...", vuol dire che ogni
momento della nostra storia è il momento adatto per farla diventare storia
sacra, e lo diventa appena si fa strada nel cuore il desiderio di vedere chi
sia Gesù. E vuol dire anche che in ogni situazione, in ogni circostanza, in
ogni peccato, possiamo sentirci dire "scendi in fretta, perché devo
fermarmi". Nulla impedisce al Signore di invitarci nella sua casa e di sciogliere
i nostri lacci per vivere finalmente una fraternità che riveli il Volto di Dio.
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
32a
Domenica
(11
novembre 2007)
_________________________________________________
2Mac 7,1-14; Sal 16;
2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
_________________________________________________
“E non osavano più fargli alcuna domanda”
(Lc 20,40): così finisce il brano di vangelo che abbiamo proclamato nella
liturgia odierna. Gesù è ormai entrato a Gerusalemme; il rapporto con i capi
del popolo, che mettevano in discussione l’autorità di Gesù, si è
definitivamente rotto quando questi si sono sentiti implicati nella parabola
dei vignaioli assassini; con la
discussione sulla risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei
farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei capi con Gesù. Gesù
continua a parlare a Gerusalemme, la gente va ad ascoltarlo, ma le sue parole
ormai riguardano il giudizio imminente.
Gesù
risponde ai sadducei citando il passo di Es 3,6: “Che poi i morti risorgono, lo
ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di
Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per
lui”. La nota fondamentale di questa citazione riguarda il nome di Dio che non
rinvia mai semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che
Dio è sempre 'Dio di': Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Ma ora,
con la venuta di Gesù e con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione,
Dio oramai sarà il ‘Dio di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore
per noi nel modo più radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù,
diventato nella confessione di fede ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non
ha più potere, ma ha reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna,
quella vita sulla quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione. Così,
confessare la fede nella risurrezione significa contemporaneamente confessare
la risurrezione di Gesù e il dono della vita che da Lui scaturisce.
Siamo
invitati a prendere possesso di una eredità, a diventare coeredi di Cristo (Rm
8,17), Lui il Risorto sul quale la morte non ha più potere; a diventare quelli
che siamo: figli della risurrezione. La risposta di Gesù ai Sadducei non
riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno.
Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che la accolgono figli
della risurrezione. Che significa tutto ciò?
Nelle
beatitudini è detto: 'beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati
figli di Dio' (Mt 5,9). E Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli
di Dio. Allora figli della risurrezione sono i 'pacifici' intendendo: chi vive
nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con il dono del
suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo: "Dio ha perdonato a
voi in Cristo", espressione che secondo il verbo greco dovrebbe essere resa
con 'Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo'. È l'esperienza profonda del suo perdono, di questo suo farsi
grazia a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel
suo amore, in fraternità. Ma questa è
proprio l'opera del suo Spirito, quello che sulla croce Gesù ha reso al Padre
perché venisse effuso su di noi. È
quello Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un
unico corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli
di Dio sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto
l'azione dello Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto
quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da
parte di Dio agli uomini in Cristo per
la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi
dell’intera Tradizione: “ciò che
devono desiderare sopra ogni cosa è di
avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.
Ora,
essendo i figli di Dio figli della risurrezione, vuol dire che la vita vissuta
nel segno di questo fare grazia di Sé a noi in Cristo e di questo fare grazia
di noi a tutti in Cristo, è una vita non toccata dalla morte, non più toccata
dal veleno della divisione e della separazione. E se il peccato porta la morte,
vuol dire che il peccato non è che la resistenza, l'ostacolo, a vivere in
totalità la 'fraternità' operata dallo Spirito, ostacolo che ci vela il volto
di Dio e ci impedisce di conoscerlo come Padre.
Allora,
l'espressione del canto all'alleluia: 'chi crede in me non morirà in eterno'
significa: chi vive di me, chi è mosso dal mio Spirito, chi non esce dalla
volontà di compiere quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, di
rispondere all'appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione
con gli uomini, non accorderà il benché minimo spazio all'odio e alla tristezza
nei confronti di qualcuno e perciò non uscirà mai dalla vita che proviene da
Dio. E il Dio che gli infonde questa vita sarà oramai il suo Dio, proprio come
lo è stato di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La morte è la rinuncia a questa
'proprietà' di relazione con Dio. Si realizzi anche per noi quello che Origene
chiede per sé: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco,
Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di
Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
33a
Domenica
(18
novembre 2007)
_________________________________________________
Ml 3,19-20; Sal 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19
_________________________________________________
L’anno
liturgico volge al termine e la Chiesa si confronta con gli eventi che
caratterizzeranno la fine della storia. Le parole di Gesù nel vangelo sembra
alludano appunto a quegli eventi quando tratteggiano, in una visione d’insieme
volutamente complessa, avvenimenti storici come la distruzione di Gerusalemme,
come guerre e catastrofi naturali, come le persecuzioni subite dalla comunità
cristiana e avvenimenti metastorici come i segni terrificanti nel cielo che
preludono alla fine. L’aspetto però più curioso di questo brano è il contrasto
tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si
premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura…”
(Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel
tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo
avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è
stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.
In
realtà, il senso del brano evangelico è un’introduzione al mistero della
fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da una sapienza goduta e che si gioca
in una vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia.
Perché la storia è piena di tormenti, ma i tormenti non sono per la morte, ma
perché si svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima
lettura tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la
suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella tradizione cristiana, è
l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da cerniera con i vangeli.
Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma nell’ottica della salvezza
di coloro che hanno fatto memoria della parola del Signore, tanto che si
realizza la promessa di Dio: ‘Essi diverranno
mia proprietà’, espressione tipica per definire l’elezione del popolo di
Israele, da intendersi: finalmente potranno gustare l’alleanza di Dio in tutta
intimità e riposo (“Avrò compassione di
loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve. Voi allora vi
convertirete e vedrete la differenza fra il giusto e l' empio, fra chi serve
Dio e chi non lo serve”). Tale profezia i vangeli mostrano realizzata in
Gesù, per cui la conversione a lui introduce negli eventi della fine,
intendendo: in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo, in lui si
vede finalmente la differenza tra il giusto e l’empio. E stando in lui (“Come il Padre ha amato me, così anch' io ho
amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti,
rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e
rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la
vostra gioia sia piena”, Gv 15,9-11) ci si accorgerà di quello che
significa essere ‘proprietà’ di Dio, secondo la definizione del profeta
Malachia.
Se
ritorniamo ora al brano evangelico, non saremo più colpiti dalle ‘predizioni’
dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva dall’attraversarli in compagnia di
Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio e l’attenzione cade su tre
frasi assolutamente rivelatrici: “Questo
vi darà occasione di rendere testimonianza … Ma nemmeno un capello del vostro
capo perirà … Ma con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”. In
gioco, nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha
scoperto essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per
noi è diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere
contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che
nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere
del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. Di questa
‘tensione’ dell’amore ha a che fare la ‘perseveranza’, che non è semplicemente
la durata nel tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle
prove. Forse, si potrebbe tradurre meglio con ‘pazienza’ intendendo pazienza
come l’atteggiamento di chi sta bene in ogni situazione perché è custodito. Nel
vangelo di Matteo, l’espressione è resa: “ma
chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22) dove ‘fine’ non
concerne semplicemente la fine della vita, ma finché il fine della vita non si
sveli pienamente al cuore, vale a dire finché non compare al cuore il volto
misericordioso del Signore. Così, perseveranza o pazienza ha sempre a che
vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto a noi, pur
nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci impedisce di
intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione all’umanità.
Se
nemmeno un capello del nostro capo perirà, non è per invitarci alla speranza,
vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i
tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire
contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di
noi, nella sua passione e morte.
La
liturgia di oggi, nel contrappunto alle letture con le varie antifone e
preghiere, non ha di meglio per sottolineare la fedeltà a Dio nel tempo da
parte dei credenti che di presentarla secondo l’ottica della letizia, della
letizia nel servizio. La letizia in effetti parla di un cuore sinceramente
convertito a Dio, che ha trovato cioè nel suo Dio la radice del suo vivere e
del suo morire.
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Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo Ordinario
34a
Domenica
N.S.
Gesù Cristo Re dell’universo
(25
novembre 2007)
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2Sam 5,1-3; Sal 121;
Col 1,12-20; Lc 23, 35-43
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“C'era anche una scritta, sopra il suo capo:
Questi è il re dei Giudei”: è l’annotazione di Luca dopo il racconto degli
scherni sotto la croce da parte dei capi e dei soldati. Scritta, che le
generazioni cristiane poi hanno interpretato come Questi è il re della gloria. La liturgia di oggi sovrappone le due
‘visioni’ mostrando come la chiesa contempla il suo Signore crocifisso.
L’antifona di ingresso lancia lo sguardo in avanti e vede il suo Signore
crocifisso come ‘agnello immolato e glorioso’ al quale tutto è sottomesso (Ap
5,12 e 1,16), immagine che viene ripresa anche dal prefazio. Il canto al
vangelo ritorna con lo sguardo indietro e vede il Signore che entra trionfante
in Gerusalemme (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore, benedetto il
suo regno che viene”) quando il tripudio della folla dei discepoli sovrastava
ogni cosa e nessuno si accorgeva di cosa si stava preparando. Il vangelo
presenta la crocifissione di Gesù secondo i possibili modi di contemplarlo
incarnati dai vari personaggi. Troviamo la folla, che l’aveva accompagnato, un
po’ in disparte e che alla fine se ne torna via percuotendosi il petto,
confusamente consapevole che qualcosa di ingiusto era stato perpetrato in nome
della legge che riconoscevano come propria; ci sono i discepoli e le donne che
seguono da lontano, impotenti e angosciati. Più direttamente, sotto la croce,
ci sono i capi di Israele che avevano esigito la condanna di Gesù e che ora lo
scherniscono, coloro ai quali l’evangelista attribuisce la colpa del misfatto
perpetrato; ci sono i soldati, che lo prendono in giro crudelmente
comportandosi come bambini scanzonati, simbolo della nazione pagana che non può
prendere sul serio un re del genere, ad eccezione del centurione che intravede
nel comportamento di quel condannato la sua assoluta innocenza. Al centro, ci
sono i due malfattori, che riassumono le due possibili ‘visioni’: il malfattore
‘empio’ e il malfattore ‘pio’, uno arrabbiato e l’altro pacificato, uno
disperato e ingiurioso, l’altro benevolo e fiducioso.
Cosa
ha visto quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come
colui che in paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, per indurlo a
pregare quel condannato: “Gesù, ricordati
di me quando entrerai nel tuo regno?”. Deve aver visto qualcosa di strano,
di assolutamente speciale. Forse lo splendore di un’innocenza che si irradiava
da Gesù e che lui, così vicino, poteva vedere bene. Il fatto è che, di fronte a
quell’uomo ingiustamente condannato eppur così mite, vede la propria storia
rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino,
accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Con
la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è
splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore
perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore,
proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne
faccia la radice della sua vita e del suo tormento.
Quando
Paolo proclama nella lettera ai Colossesi: “piacque
a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza”, allude proprio alla pienezza
della carità di Dio che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore nel
senso di rivelare a noi ciò che Dio è e nel senso di permettere a noi, nella
nostra umanità, di godere della comunione con lui Quella carità, per noi, si
traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia, e parla della
pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro
cuore diventa cielo dove Dio è adorato e goduto e condiviso. In questo senso si
avvera la profezia rivolta a Davide, che costituisce la caratteristica del
regno messianico come ripreso dalle acclamazioni che accompagnano l’entrata trionfante
di Gesù in Gerusalemme: “tu pascerai
Israele mio popolo” (2Sam 5,2). Il Signore pasce il suo popolo nella carità
svelata dal Figlio morto e risorto, carità che, accolta, lo fa contemplare come
re della gloria. È un re del genere
che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e che serve.
L’immagine
del buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero
di Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia
degli uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente
quella che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto
da farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo.
Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni
a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova
incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione
della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno
scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo,
ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli
si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella
prospettiva alta della felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia
dell’amore.