Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
di Pasqua
Ascensione
(20 maggio
2007)
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At 1,1-11; sal 46;
Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53
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La liturgia ci
introduce nel mistero dell’ascensione del Signore Gesù servendosi dei racconti
di Luca (Atti e vangelo) e di Matteo (canto al vangelo). Luca aveva introdotto
la scena dell’ascensione ricordando come Gesù, dopo la sua risurrezione, fosse
apparso più volte ai discepoli parlando loro del Regno di Dio e promettendo
l’invio dello Spirito Santo. Ora, questo parlare del Regno di Dio corrisponde a
quello che lo stesso Luca riporta della percezione dei discepoli di Emmaus
quando si dicono l’un l’altro: ‘non ci ardeva il cuore quando ci spiegava [ci
apriva] le Scritture?’, insieme al passo che precede immediatamente il racconto
di oggi: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse…”.
Aprire le Scritture al cuore e aprire il cuore alle Scritture è far entrare nel
regno di Dio. L’aspetto però caratteristico è dato dal fatto che questa doppia
apertura non riguarda semplicemente la vicenda di Gesù, come se si trattasse
semplicemente di riconoscerlo nelle Scritture, ma anche la predicazione a tutte
le genti della conversione e del perdono dei peccati. I discepoli sono
testimoni di tutto questo. Il senso della festa di oggi si colloca proprio in
quello spazio di testimonianza che l’ascensione inaugura. Gesù è sottratto agli
sguardi dei discepoli, ma i discepoli se ne tornano a Gerusalemme ‘con grande
gioia’. Come mai? La sparizione di una persona cara non è fonte di gioia!
Spiega Agostino: “Disparve agli occhi mortali perché noi ritornassimo al cuore
e trovassimo il Cristo”. In effetti i discepoli hanno visto il fenomeno fisico
dell’ascendere al cielo di Gesù (il testo usa il verbo greco ‘blepo’) ma hanno
anche intravisto la portata mistica del fenomeno (il testo usa il verbo
‘theaomai’). Il che significa che lo sparire di Gesù dalla vista dei loro occhi
permetteva di coglierlo presente nel loro cuori, come Lui stesso aveva
promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”,
versetto con il quale si chiude il vangelo di Matteo.
Il rimprovero
degli uomini in bianche vesti: “perché state guardare il cielo?” significa che
il cielo non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E
dove abita se non nei cuori, dove può essere adorato? Così, per il cuore, ormai
le cose stanno in questi termini: dove bisogna guardare? Alla fraternità (il
testo annota che se ne tornarono con grande gioia e che stavano insieme). È ai
fratelli che bisogna guardare se si vuole trovare il Cristo. Ma che cosa si
deve vedere? Il Cristo, che ha fatto risplendere l’amore di Dio per gli uomini
e che ingloba anche noi nella rivelazione di quell’amore lungo la storia fino a
che tutto di noi e tutti con noi possiamo godere della stessa gioia. La
predicazione alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha
operato per gli uomini, ma anche il far vedere, il mostrare che tale annuncio
si è tradotto in splendore di vita e che torna a essere bella la vita che gode
della presenza con noi del nostro Dio. Questo significa la ‘conversione e il
perdono dei peccati’ che deve valere prima di tutto per chi annuncia.
Tutto questo
però ha a che fare con ‘una potenza dall’alto’, con una ‘gioia dall’alto’, con
una ‘forza’ che non proviene dall’uomo. Ecco allora la promessa di Gesù:
‘sarete rivestiti di potenza dall’alto’, la promessa dello Spirito Santo, il
cui invio celebreremo domenica prossima con la festa della Pentecoste. È caratteristica,
nel racconto degli Atti, la menzione dello Spirito Santo insieme al frutto
della gioia. La gioia è la forza di un amore, esperito a tal punto di intimità
e profondità, che nessun evento e nessun avversario ti può smorzare; è
partecipazione alla vita di Gesù, il Vivente, contro il quale la morte non ha
alcun potere. La tensione apostolica della testimonianza e della missione, che
vive sotto il segno della benedizione che Gesù costituisce per l’umanità,
respira di quella gioia e di quell’amore. Il vangelo di Luca termina con
l’annotazione di quel Gesù benedicente che si sottrae allo sguardo fisico dei
discepoli. Se gli occhi non vedranno più la mano benedicente, sentiranno però
nel cuore la potenza di quella benedizione perenne che Lui costituisce, sigillo
ultimativo della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si
radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte
al mondo.