Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
di Pasqua
5a Domenica
(6 maggio
2007)
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At 14,21-27; sal 144; Ap
21,1-5; Gv 13,31-35
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Il salmo
responsoriale proclama: “Benedirò il tuo nome per sempre, Signore”, a scandire
il salmo 144 che commenta ed esprime la vicenda pasquale di Gesù in favore
degli uomini. La benedizione è quella del riconoscimento, da parte della prima
comunità cristiana formata da ebrei, dell’insondabile mistero di Dio nel suo
amore agli uomini che ha voluto aprire anche ai pagani la porta della fede
(cfr. At 14). Si realizza così quella ‘gloria’ di cui aveva parlato Gesù a
proposito del suo sacrificio pasquale: “Io, quando sarò elevato da terra,
attirerò tutti a me” (Gv 12,32) e che il vangelo di oggi richiama con
l’espressione: “Ora il Figlio dell' uomo è stato glorificato, e anche Dio è
stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà
da parte sua e lo glorificherà subito”. Nella nuova Gerusalemme, secondo la
visione dell’Apocalisse, non ci sarà più alcuna distinzione tra gli uomini ma
tutti saranno il suo popolo: “Udii allora una voce potente che usciva dal
trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi
saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio - con – loro’”. L’unica differenza
tra quaggiù e lassù è costituita dal fatto che quaggiù le lacrime abbondano
mentre lassù ogni lacrima verrà asciugata.
Un particolare è
assolutamente rivelatore di quello che Gesù intende parlando della sua pasqua.
Lo possiamo notare con una domanda: perché Gesù abbina il comandamento
dell’amore alla menzione della sua gloria? Il capitolo 13 di Giovanni è il
capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha lavato i piedi anche
a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho dato infatti l'
esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Gesù ha
chiara la percezione dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza
dei discepoli che non comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo
quando Giuda se ne è andato e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può
aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come
io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire: l’amore
di cui vi faccio comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi gli uni
gli altri, senza distinzioni di sorta tra buoni o cattivi, perché in gioco è la
rivelazione del segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi rendo
partecipi: la ‘gloria’ del suo amore deve risplendere in tutta la sua bellezza.
Tra l’altro, è singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli di amare
lui, mentre il comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto. Quando
allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se mi
amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui
invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché? Credo che qui si
comprenda il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole
non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù;
l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il cuore dell’uomo e non
dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto diretto all’esperienza
della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei suoi confronti. Le
tribolazioni che la lettura degli Atti ci ricorda essere necessarie nel nostro
cammino riguardano la fede e non l’amore o, meglio, l’amore nel suo radicamento
nella fede: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno
di Dio”. Così l’azione dell’uomo deve parlare di Dio e non di se stesso; solo
allora la sua ‘gloria’ risplende e il cuore dell’uomo sarà saziato da quella
gloria che allora esprimerà tutta l’intimità di amore che lega l’uomo al suo
Dio.
Possiamo allora
anche comprendere in cosa consista la novità del comandamento dell’amore
annunciata da Gesù in funzione di tre cose. Anzitutto in funzione della radice
che lo origina. L’amore di Gesù deriva dalla intimità della vita, del volere e
dei sentimenti con il Padre. Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla
partecipazione a quella stessa intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare
i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo segreto con il Padre,
segreto che a nessuno è dato di cogliere se non a coloro che credono nel
Figlio. Circondarsi la vita con l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come
vestito della divinità, mistero di quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge
l’uomo nel suo cuore più segreto, là dove l’uomo può imparare la lingua stessa
di Dio. In secondo luogo è in funzione della potenza che lo sottende, la
potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla croce.
Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei nostri
cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce se non a
poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello Spirito
Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la terza
preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue
del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in
Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in funzione della dinamica
che lo anima e che lo muove verso un unico punto di convergenza,
contemporaneamente termine e scopo della storia stessa: che il regno di Dio si
sveli in tutta la sua bellezza e in tutto il suo splendore, per tutti i cuori,
per tutto il mondo, per tutti i tempi, regno che altro non è se non la
condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino a che sia partecipato a tutti.