Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
di Pasqua
4a Domenica
(29 aprile
2007)
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At 13,43-52; sal 99;
Ap 7,9-17; Gv 10,27-30
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Dal
riconoscimento del Risorto l’attenzione si sposta sui discepoli che lo
riconoscono, sul fatto che i discepoli costituiscono la comunità del Risorto.
Queste ultime domeniche del tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità
dei discepoli unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa
dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla
fine dei tempi.
La
liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore. Il
canto al vangelo ne definisce il nucleo: “Io sono il buon pastore, conosco le
mie pecore e le mie pecore conoscono me”, frase ripresa da Gv 10,14. Come Gesù
descrive le ‘sue’ pecore? “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco
ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e
nessuno le rapirà dalla mia mano”. Gesù sta rispondendo a coloro che stentano a
riconoscerlo e che alla fine gli daranno dell’impostore. Il suo ragionamento,
sulle prime, ci appare strano. È come se dicesse: voi non credete a me perché
non siete mie pecore e non siete mie pecore perché non credete, eco di altri
simili ragionamenti presenti nelle Scritture (ad es., Is 29,9: siete ciechi e
non potete vedere, ma il Signore vi ha accecati perché non vediate). Che
significa? Gesù descrive le sue pecore in tre passaggi: 1) le mie pecore sono
quelle che ascoltano la mia voce. Non semplicemente che ascoltano quello che
dico, ma che riconoscono che quello che dico viene da Dio, come lui stesso
confermerà poco dopo dicendo che lui e il Padre sono una cosa sola. Le sue
pecore sono quelle che, ascoltando la voce di Dio, riconoscono in lui
l’Inviato, il Testimone, l’Agnello e perciò sentono nelle sue parole la Parola
di Dio, anzi, riconoscono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le
parole della Scrittura e ne svelano il mistero; 2) ‘io le conosco’: vedendo
l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono ‘conosciute’, cioè amate e
cercate da lui, perché le mette a parte dei segreti di Dio. Ma questo movimento
di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò quel ‘io le conosco’
comporta questa sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella conoscenza
che rende condivisibili i segreti di Dio e fa godere l’intimità con lui sono
capaci solo quelle pecore che si lasciano raggiungere, portare in spalla, come
la parabola della pecorella perduta dirà. È conosciuto chi si lascia portare in
spalla. Ne consegue che chi non accetta questo, si trova come escluso dalla sua
conoscenza e proprio perché escluso non può farsi conoscere; 3) ‘esse mi
seguono’: anche qui occorre cogliere la sfumatura di senso data dal fatto che
le pecore possono seguire il pastore perché lui dà loro la vita, che è la sua
(il suo Spirito) e non possono che andare dietro a lui in quanto solo lui può
mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e bellezza. In gioco è
sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca nell’accogliere il mistero
di accondiscendenza di Dio per l’uomo in Gesù, rivelatore del Volto del Padre.
Il che non significa rendere Dio più comprensibile (Dio custodisce tutta la sua
trascendenza e inafferrabilità) ma dire Dio senza allontanarsi dall’uomo.
Ma
c’è di più. Quando le pecore non fanno come gli ascoltatori che ricevono il
rimprovero di Paolo e Barnaba: “Era necessario che fosse annunziata a voi per
primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della
vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani”, si ritrovano nel gregge di Dio.
Ognuno, singolarmente preso, si gioca il destino nel non ritenersi ‘indegno’
del dono di Dio, ma la vita in Dio si gioca insieme. Il mistero dell’amore di
Dio rivelato in Gesù è quello di riunire insieme i figli di Dio dispersi (cfr
Gv 11,52): insieme, nel senso di una cosa sola con Gesù e nel senso di un corpo
solo con Gesù. Il che vuol dire che la confessione di fede nel Signore Gesù non
può farsi che coralmente, fraternamente, come canta il salmo responsoriale:
“noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”. Evidentemente, non significa
solo che noi siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che
siamo coloro che hanno in Lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità
nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori. Il salmo 99 lo proclama in acclamazione:
“Riconoscete che il Signore è Dio; egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo
popolo e gregge del suo pascolo”. In quel ‘egli ci ha fatti’ c’è tutta la
nostra ‘dignità’, quella dignità che è riservata a tutti e che tutti
condivideranno nel regno dei cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del
Signore custodiscono per sé e difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è
basata sull’uomo, ma chi ne ha conosciuto per esperienza di fede il segreto, in
Gesù, è chiamato a custodirla per tutti finché a tutti venga svelata. Il gregge
del Signore che noi siamo ha la responsabilità, in questo mondo, di far
risplendere la bellezza di questa dignità.