Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
di Pasqua
3a Domenica
(22 aprile
2007)
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At 5,27-42; sal 29;
Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
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La liturgia
celebra evidentemente la Parola in funzione nostra: la Parola è per noi. Ora,
se potessimo riassumere in una espressione la vicenda degli apostoli descritta
dalla liturgia pasquale, dovremmo citare il passo: “Con grande forza gli
apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù” (At
4,33). Da dove deriva loro quella forza, quella ‘potenza’ dell’essere e
dell’agire? Quella forza, che la stessa celebrazione vuole comunicare anche a
noi?
In modo
insolito, possiamo oggi partire dal brano di vangelo per spiegare le altre
letture. Lì rinveniamo la radice di quella ‘potenza’ che la lettura degli Atti
degli apostoli e dell’Apocalisse mostrano in azione. Gesù sembra scegliere, per
manifestarsi dopo la sua risurrezione, gesti usuali, già noti, in modo che i
discepoli possano riconoscerlo e comprenderne il mistero in tutta la sua
densità. Viene narrata una pesca miracolosa, un convenire a mensa, un colloquio
assolutamente speciale. Fermiamoci solo sul colloquio con Pietro. Il discorso
tra Gesù e Pietro, come tra Gesù e l’anima, è tutta una questione di toni. Gesù
non accusa Pietro; glielo aveva predetto che l’avrebbe rinnegato e subito
l’aveva perdonato perché sapeva che il suo cuore voleva stare con lui. Pietro
non si era giustificato, aveva pianto e avrebbe desiderato forse parlare ancora
a Gesù, protestargli il suo amore, ma non aveva più potuto. Questa è la prima
volta che ritorna sull’argomento, dolcemente invitato dallo stesso Gesù. Il
tono di Gesù è pacato, gli parla dopo aver mangiato insieme e gustato
un’intimità sognata. E anche Pietro, tutto preso da quell’intimità, non se ne
accorge quasi e risponde tranquillo: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. La
seconda volta, forse con lo stesso tono, si mostra ancora tranquillo: “Certo,
Signore, tu lo sai che ti amo”. Ma la terza volta, il tono non è più lo stesso.
Pietro ha capito, si fa piccolo, torna alla sua mente la scena del tradimento,
il pianto, lo sguardo di Gesù e, con un filo di voce, appena sussurrando:
“Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Signore, non sono degno del tuo
amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai
che ti ama. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena
sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di
pretesa: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente
dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore
è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore:
“Pasci le mie pecorelle”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e
di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui
amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del
suo interessamento per tutti perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù
può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta non sarà più
insidiata, come è avvenuto per Gesù.
Il brano degli
Atti degli Apostoli mostra in atto gli effetti di quella rivelazione di
intimità. Ne dice la condizione e ne fa vedere il segno inequivocabile.
Anzitutto la condizione: l’obbedienza. “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che
agli uomini” (At 5,29); “E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito
Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32). Nel testo
greco i termini ‘obbedire’ e ‘sottomettersi’ sono espressi dallo stesso verbo.
Si tratta di un accogliere la rivelazione di Dio in totale apertura di cuore,
riconoscendo l’amore suo per l’uomo che in Gesù si manifesta in tutta la sua
radicalità. Significa riconoscere che in Gesù il Padre compie il suo disegno di
amore per l’uomo. La sottolineatura non è tanto sull’obbedire, ma sull’intimità
di un’obbedienza che è vissuta dentro un legame di vita inscindibile, nel dono
di un amore per il quale non ci si sente assolutamente degni ma di cui si
riconosce la letizia che porta al cuore. E la letizia è proprio il segno
inequivocabile dell’agire in potenza nello Spirito. Si tratta di quella letizia
di cui parla Giacomo: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando
subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2); quella che qui viene descritta: “lieti di
essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). A dire il vero,
l’ultima frase andrebbe resa più precisamente: ‘lieti di essere resi degni di
essere oltraggiati’, con l’allusione al fatto che la letizia nella persecuzione
rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che si esprime nel suo splendore
quando gli altri la calpestano e non viene meno.
La lettura
dell’Apocalisse, con la scena dell’adorazione dell’Agnello in atto di aprire il
libro sigillato, rivela il perché di quella letizia: “Cantavano un canto nuovo”
(Ap 5,9). Chi è capace di un canto nuovo può disporre di quella letizia perché
ormai partecipe dell’unica e definitiva rivelazione degna del cuore dell’uomo:
Dio ha salvato i suoi figli tramite Gesù. Quella rivelazione svela la dignità
dell’uomo davanti a Dio, la nuova dignità, quella dei tempi nuovi. Il che non
significa ‘dei tempi che verranno’, ma del tempo di Dio che entra nella nostra
storia e la rende aperta al suo Regno. È il tempo celebrato nella Liturgia. In
effetti, quando si celebra l’Eucaristia è come udire il Signore che invita:
“Venite a mangiare”. E nessuno gli chiede “Chi sei?” perché tutti sanno bene
che è il Signore, per quanto questo ‘sapere’ a volte sia così sbiadito che non
sembra parlare al nostro cuore. Ma se potessimo udire, di fronte alle infedeltà
che non possiamo dimenticare nei suoi confronti, il suo invito, come a Pietro:
“Simone di Giovanni, mi ami?”, il cuore avrebbe ancora un soprassalto e
potrebbe ricevere la predizione della sua fedeltà fino alla testimonianza
suprema della vita, vivere cioè della dignità e della letizia dei tempi nuovi.