Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
Ordinario
7a Domenica
(18 febbraio
2007)
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1 Sam 26,2-23, sal 102;
1 Cor 15,45-49; Lc 6,27-38
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Gesù continua a
parlare ai suoi discepoli illustrando la potenza e l’estensione della dinamica
che l’incontro con lui ha messo in moto. Fa vedere la qualità di vita per
coloro che possono godere della beatitudine loro promessa: “Amate i vostri
nemici … fate del bene a coloro che vi odiano …”. In questo brano c’è però un
problema di traduzione. Così come lo leggiamo nel testo italiano qualcosa ci
sfugge e qualcosa di essenziale. Rilevo alcuni particolari.
L’espressione
‘fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite in modo che
risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’ non è complemento
oggetto ma avverbio.
‘Benedite coloro
che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di quanti vi
maledicono’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in pace la
maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle
parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole
insolenti, non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole irose
chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per
la persona che l’ha calpestato.
E ancora:
‘pregate per coloro che vi maltrattano’ andrebbe reso: ‘pregate per coloro che
vi calunniano’ (come l’antica versione latina riportava: orate pro
calumniantibus vos) ad indicare la risposta al male più subdolo che produce
tristezza. È l’ultima tentazione contro la carità: si può sopportare l’attacco
diretto del nemico, si può tacere di fronte a chi ti insulta, ma resistere alla
tristezza che ti invade quando sei calunniato per malevolenza e invidia (questo
è infatti il significato del verbo greco usato da Luca) sembra sovrumano;
allora, solo la preghiera sincera può salvare il tuo cuore.
L’espressione
però caratteristica dell’intero brano è un’altra: ‘Se amate quelli che vi
amano, che merito ne avrete?’ Così tradotta la frase non esprime la rivelazione
che comporta sulle labbra di Gesù. In effetti, l’espressione andrebbe resa con
‘se amate quelli che vi amano, quale grazia avete?’ oppure ‘…qual è la vostra
grazia?’ (come sottolinea l’antica versione latina, fedele al testo greco:
‘quae vobis est gratia?’). L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce
la discriminante tra il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di
che cosa? Questo è il punto. Ed è l’interrogativo di fondo di tutto il brano:
quale grazia risplende nel vostro agire? Grazia rivela un tipo di esperienza,
quella che procede dalla beatitudine promessa da Gesù e che il discepolo
condivide con Lui. Quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in
lui la prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà
Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta
visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo
la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo…” (1 Gv 1,1-4). È l’esperienza, in
Gesù Salvatore, della benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono
ricevuto, della dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti dal di dentro.
Esperienza che ha segnato così alla radice il nostro cuore da non poter più
vivere se non nella dinamica di essa. Ma così vivendo non si fa che condividere
la stessa vita del Figlio di Dio, rivelatore del Padre ricco in misericordia. È
da dentro quell’esperienza che scaturisce l’energia di un amore che non si
lascia limitare o soffocare da niente e da nessuno. E quando quell’amore
risplende non si può non domandare: “quale grazia rivela? Di quale grazia è
l’espressione?”. Le situazioni limite addotte da Gesù (amare i nemici, benedire
chi ti maledice, pregare per chi ti maltratta…) rivelano la ‘normalità’ di un
cuore ormai conquistato alla dinamica divina e per questo significative del
discepolo di Cristo.
Così, anche
quando Gesù invita a non giudicare per non essere giudicati, a perdonare per
essere perdonati, ad usare una misura abbondante per i fratelli (gli aggettivi
‘pigiata, scossa e traboccante’ alludono alla misura di capacità quando il
recipiente, riempito fino all’orlo, è schiacciato e scosso per farcene stare
ancora un po’ e aggiungerne fino a ottenere un piccolo colmo in superficie) per
ricevere con abbondanza a nostra volta in cambio da Dio, non fa che riprendere
la logica di quella stesa dinamica: nessuna cosa, sia oggetto o affetto, sia
motivo di divisione e di tristezza con i nostri fratelli perché su tutto
prevalga l’amore che il Signore ci ha fatto conoscere in Cristo Gesù. Allora la
richiesta insistente a Dio, nella preghiera della chiesa, non è tanto quella di
avere un cuore generoso, di avere un amore per tutti, ma piuttosto quella che
il Suo Volto si riveli al nostro cuore per essere attratti a vivere nello
splendore di quell’amore che ci ha toccati.