Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
Ordinario
5a Domenica
(4 febbraio
2007)
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Is 6,1-8; sal 137;
1 Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
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Luca descrive i
primi passi della predicazione di Gesù e si premura subito di indicare come
Gesù si sia associato alcuni discepoli, quelli che lo seguiranno ovunque,
nonostante le loro manchevolezze e che verranno a loro volta inviati
(=apostoli) come testimoni del loro Signore. Il brano di oggi evidentemente
verte sulla ‘vocazione’ di Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tirate le barche a
terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. La pesca miracolosa è funzionale al
racconto della vocazione dei discepoli. Solo Luca, a differenza di Marco e
Matteo, riferisce della pesca miracolosa. Ritroviamo quel racconto anche nel
vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando Gesù, risorto, si manifesta agli
apostoli. Si tratta di due episodi diversi o della diversa interpretazione di
uno stesso episodio? Nella prospettiva degli evangelisti la domanda è del tutto
secondaria. La domanda principale è la seguente: cosa ha comportato per i
discepoli la manifestazione di Gesù? O, ancora più precisamente: cosa ha
comportato per i discepoli la decisione di Gesù di manifestarsi a loro? Perché
di questo essenzialmente si tratta: Gesù si manifesta e ‘succede’ qualcosa. Sia
agli inizi della vita pubblica di Gesù sia dopo la risurrezione l’evento è
della stessa natura.
C’è un particolare assolutamente
eloquente che si richiama nei due racconti di Luca e di Giovanni. Davanti
all’evento prodigioso della pesca abbondante Pietro è colto da profonda
emozione: “Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù,
dicendo: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. L’apparizione
della ‘gloria’ di Dio suscita sempre timore. Ma il contenuto di quel ‘sono
peccatore’, nel cuore di Pietro, si cristallizza attorno al suo rinnegamento,
che Gesù, dopo la sua risurrezione, evoca dolcemente al suo apostolo quando gli
chiede per la terza volta se lo ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di
Gesù e di stringerle mentre dice di non essere degno di stare così alla sua
presenza, corrisponde il sussurro di Pietro, addolorato: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio
bene” (Gv 21,17).
Se è vero, allora, che il racconto di
Luca tende a presentare la vocazione degli apostoli, il contesto che giustifica
tale vocazione è però la ‘manifestazione’ di Gesù ai discepoli con l’episodio
della pesca miracolosa. La liturgia correla i due aspetti facendoci leggere,
come prima lettura, il brano della vocazione del profeta Isaia. Il profeta si
trova nel tempio, ha una visione ‘esaltante’ e ‘terribile’: partecipa alla
liturgia celeste davanti al trono di Dio (le parole udite da Isaia sono quelle
che ripetiamo ancora oggi nella liturgia eucaristica: “Santo, santo, santo è il
Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”) e si sente
perduto perché peccatore, ma viene purificato (la tradizione ha visto
nell’immagine del carbone ardente che purifica la realtà della comunione
eucaristica) e successivamente inviato: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo
dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io
abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.
La domanda di
fondo che sorge può essere questa: perché la manifestazione della gloria di Dio
ha sempre a che fare con una missione? ‘Vedere’ Dio non può non comportare la
partecipazione ai suoi segreti, i quali non sono che i segreti dell’amore suo
per gli uomini. ‘Vedere’ Dio non può non comportare allora l’invio agli uomini
perché la sua promessa di Bene e di Vita sia condivisa da tutti e la Sua gioia
sia piena. I passaggi sarebbero perciò questi: Dio manifesta la sua gloria -
l’uomo confessa il suo peccato e viene purificato – si è inviati ai fratelli.
La tensione interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale
all’intensità della ‘visione’ di Dio. E la ‘visione’ di Dio è direttamente
proporzionale alla confessione del proprio peccato. Questo perché l’azione
dell’uomo risulti pulita e non si appropri la gloria di Dio. E’ per questo che
il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito
dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana
dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione
comporta la condivisione di un ‘compito’ di intimità col proprio Signore finché
la sua gloria risplenda e si manifesti. Quando la liturgia ci fa pregare: “Dio
di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre
fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo” ci
invita non tanto ad essere pieni di zelo da andare in tutto il mondo, ma a
ripetere l’esperienza di Isaia e di Pietro che ‘vedono’ la gloria del Signore e
non possono non disporsi all’opera di Dio, in modo tale che un’esperienza del
genere risulti così radicale e fondante per la vitalità del nostro cuore da
diventare unica sorgente del nostro agire. Di questa ‘esperienza’ la missione
vive e gli uomini ne attendono gli effetti.