Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(28 ottobre 2007)

 

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Sir 35,12-18; Sal 33;  2 Tm 4,6-18;  Lc 18,9-14

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Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del mistero della preghiera. Nel tempo della storia, stando davanti a Dio, gli uomini non si possono suddividere tra giusti e peccatori, ma necessariamente soltanto tra quanti presumono di ritenersi giusti e quanti si ritengono peccatori. Il giudizio dei cuori spetta a Dio e la parabola illustra proprio la verità di quel giudizio. Uscendo dal tempio, soltanto il pubblicano sarà ‘giustificato’, vale a dire soltanto la sua preghiera è stata giudicata gradita davanti a Dio. Non è però detto il motivo e se non lo cogliamo resteremo identificati sentimentalmente con il pubblicano, ma in realtà ci muoviamo sempre come il fariseo.

Il brano del Siracide ci offre indicazioni preziose. Il passo tratta delle offerte al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al Signore ‘vittime ingiuste’, sottolineando che “il Signore è giudice e non v’è presso di lui preferenza di persone (letteralmente: la gloria della persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può offrire ‘vittime ingiuste’ in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da nessuna gloria esteriore.

Quando il fariseo proclama la sua ‘giustizia’, non dice cose false, ma non è retto il suo cuore perché interpreta la sua giustizia come una gloria da esibire e Dio, per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può accogliere la sua offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.

Ma la ragione più profonda della non accoglienza della sua preghiera è un’altra. Basta mettere a confronto la preghiera del fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…”,  con quella di Gesù, che il canto al vangelo fa intravvedere: “Benedetto sei tu, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze vistose: la preghiera di Gesù prorompe da un'intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e non l'uomo. Quella del fariseo è appiattita sull'esteriorità esibita, fa rimarcare la separazione, celebra l'uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca, è proprio la proclamazione della sua paternità.

Nella preghiera del Padre Nostro, tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una : " ... come noi li rimettiamo ai nostri debitori". A questa richiesta che ci fa Dio rimanda la frase di Gesù a conclusione della parabola: “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Chi è profondamente consapevole del suo peccato e chiede a Dio il perdono, come dice il pubblicano: "O Dio, abbi pietà di me peccatore", non avverte nemmeno che qualcuno sia in difetto verso di lui. Ed è solo a partire da questa consapevolezza che, risalendo all'indietro nella preghiera del Padre Nostro, chiede di nutrirsi del Pane di vita, accoglie come desiderio  e criterio supremo di condotta del suo cuore il mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, si fa guidare dallo Spirito e ne cerca il regno, vive in maniera che il Nome di Dio sia costantemente glorificato ed allora, come Gesù, può chiamare Dio 'Padre'. Questo, il fariseo, non lo può fare. Ma se non fa questo, come può essere gradita la sua preghiera? In realtà la preghiera non tende ad altro se non a far sì che sia rivelata al nostro cuore la verità di Dio, cioè che è 'Padre'. 

Un’ultima considerazione. Il movimento della preghiera non è quello di esibire qualcosa per convincere Dio a venire da noi (questo significa non aver ancora accolto Dio come il nostro salvatore) ma quello di confidare nella sua offerta di salvezza. Un passo del profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola” (passo, che la versione greca rende con: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e sul mite…” (Is 66,2). E non è Gesù colui che di sé dice: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29)? Così, se Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, allora non c’è alcun bisogno di esibire alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Tanto che, più un uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si distingue e si separa dagli altri, meno conosce la salvezza di Dio.