Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
Ordinario
29a Domenica
(21 ottobre
2007)
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Es
17,8-13; Sal 120; 2 Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
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La liturgia di
oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è
Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di
Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli
unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o
no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè
aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro
tremendo pericolo: l’attacco degli
Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che trovano
un nemico sulla loro strada. L’angoscia del popolo, questa volta, sembra
sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la salvezza
del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto però che
Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti e al
popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Tutto il popolo prega
con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede nel Dio di Israele perché
un’altra volta il loro Dio li salvi. E quella preghiera potente non ottiene
solo la vittoria in quella battaglia ma soprattutto che Dio dichiari
solennemente, a favore del popolo, la sua ostilità perenne nei confronti degli
amaleciti fino alla loro completa distruzione (che però non avviene mai
completamente, a simboleggiare la perenne presenza dell’irriducibile avversario
del giusto in questo mondo).
Tutti i testi
salmici di questa liturgia alludono a quella situazione drammatica. La vita
dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da
afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite
si può precludere la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per
il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di
speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto di ingresso (sal 16,6.8)
descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il
giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel
pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile
alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in
schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio); il canto al vangelo
(sal 129,5) esprime la speranza come frutto della grazia del perdono, ma
davanti all’angoscia per le colpe commesse; l’antifona alla comunione (sal 32)
invita alla confidenza in Dio perché il piano del Signore, che è il piano del
suo amore per gli uomini, che Gesù mostra nel suo splendore, sussiste per
sempre.
Ecco allora il
punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da
attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla
della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo
a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta
nasce da due domande precedentemente poste:
1) il regno di Dio si può vedere?
2) il Figlio dell'Uomo sarà
riconosciuto?
Se il regno di
Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà imparare
a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’Uomo “è necessario che soffra molto e venga ripudiato”,vale a dire: non
si vedrà come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a
sentirne la presenza, a percepirne la bellezza e la potenza. Ma come? Con la
perseveranza nella preghiera. Lo dice espressamente Luca nell'introdurre la sua
parabola del giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere
giustizia: "Disse loro una parabola
sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi". I discepoli che
subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda?
Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma
perché si deve fare così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine?
Ecco, la parabola risponde a queste domande angosciose.
Se accostiamo la
nostra parabola a quella, similare, dell'amico importuno (cfr. Lc 11,5-8),
soprattutto alla sua conclusione: "Se
dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto
più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!"
(Lc 11,13), allora si apre una comprensione più profonda delle parole di Gesù.
Dio esaudisce 'prontamente', senza fare aspettare, ogni richiesta di Spirito
Santo, vale a dire l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che
provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l'incontro, l'intimità con Lui.
Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di perseguire il bene, quando non
riesce a sopportare un'ingiustizia, quando è tormentato da persecuzioni
interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a rendergli soddisfazione così come
se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede lo Spirito del suo Figlio perché il
suo cuore non si allontani da Lui comunque, perché non venga meno l'anelito
alla Sua compagnia, perché si rafforzi la sua fede, cioè la sua visione di Lui.
Come dice Gesù alla fine della parabola: "Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.
Senza quella costante perseveranza nella preghiera la fede non potrà durare.
Perché dobbiamo 'pregare sempre'? Perché il regno di Dio non lo vediamo e
perché il Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. La preghiera o,
meglio, la perseveranza costante nella preghiera è l'unica porta che ci fa
accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Un’antica tradizione
ebraica rileva nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne
benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che misticamente fa
sussistere il mondo.