Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
Ordinario
24a Domenica
(16 settembre
2007)
_________________________________________________
Es 32,7-14; Sal 50; 1 Tm
1,12-17; Lc 15,1-32
_________________________________________________
Oggi viene
proclamato il capitolo 15 di Luca, il vangelo della misericordia in parabole.
Le parabole della pecorella smarrita e del padre misericordioso che si rallegra
del ritorno del figlio prodigo sono forse tra quelle che più hanno segnato
l’immaginario interiore cristiano. In esse la coscienza cristiana ha colto
qualcosa di potente dell’assoluta verità di Dio. È evidente che Gesù, con
queste parabole, vuol rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta:
«Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I
farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con
loro"». Non si tratta però tanto di giustificare la condotta di Dio verso
gli uomini, ma di svelare il mistero della sua Persona, il mistero del suo
cuore, sul quale è modellato il mistero anche del nostro cuore.
La liturgia ci
introduce in quel mistero con due annotazioni particolari. Il canto al vangelo,
riprendendo due versetti della prima lettera di Giovanni (4,16 e 3,20),
annuncia sicuro: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per
noi: se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e
conosce ogni cosa”. Annuncio, che va abbinato alla supplica della preghiera
dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo
e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo
santo Spirito”.
I due versetti
della lettera di Giovanni sono parole potenti, che fanno intuire la differenza
tra una conoscenza per sentito dire e una conoscenza diretta, tra una
benedizione solo attesa o rivendicata e una benedizione goduta. Tutta la
lettera come del resto tutto il suo vangelo è un inno “all'amore che Dio ha per
noi”, ma la sfumatura di significato è la seguente: noi, che abbiamo accolto il
Figlio che ci ha rivelato l’amore del Padre, godiamo del suo amore che è
diventato in noi radice di dignità e di vita. L’amore di cui parla Giovanni è
sempre da mettere in relazione con la conoscenza del Figlio, il quale ci fa
vivere per averci infuso il suo amore. È per questo che, per quanto il nostro
cuore si ritrovi come schiacciato dai peccati e fatichi a ritrovare la sua
dignità, l’amore di Dio, in Gesù, lo sopravanza, lo sovrasta e lo ingloba.
Quando la Chiesa supplica il Padre, alla fine della messa, perché in noi non
prevalga il nostro sentimento, ma l’azione del suo Spirito, allude proprio a
questo mistero dell’amore di Dio che ingloba il nostro cuore, allude alla fede
nel suo amore che non si tiene lontano da noi peccatori, ma ci viene a cercare
con immensa tenerezza fino a conquistarci.
Le parabole
esemplificano la dinamica tipica dell’amore di Dio che vince ogni resistenza e
del presunto giusto e del peccatore perduto. Ciò che le parabole sottolineano,
come la ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita
l’amore di Dio, è una cosa sola: la letizia di Dio nel suo essere
misericordioso. Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro) ma va in
cerca dell’uomo peccatore e la sua letizia sta proprio nella compagnia
dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Il padre della
parabola esprime la sua gioia nel veder il figlio prodigo ritornare al quale fa
festa e il desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui
alludono queste parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore
che non può non essere amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Su
quell’amore è costruito l’universo, in quell’amore consiste la gioia di Dio e
non in altro.
Ne scaturisce
una conseguenza ‘terribile’ per la nostra coscienza. Qual è la giustizia
gradita davanti a Dio? Qual è il criterio della rettitudine? Il principio di
rettitudine è la condivisione dei sentimenti di Dio, è la condivisione della
sua letizia nell’amore agli uomini. Come riporta la prima lettura, la grandezza
di Mosè come intercessore sta tutta qui. È vero, come dice Gesù: "Dio può
far nascere figli ad Abramo anche dalle pietre" (cfr. Lc 3,8). Dio lo
proclama a Mosé: “Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla
dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li
distrugga. Di te invece farò una grande nazione” (Es 32,9-10). Come a dire: è
vero che siamo degni di ira, che Dio può far nascere altri figli perfino dalle
pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio
preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di
cui continua ad avere premura. Qualcuno, però, come Mosè, ha interceduto e Dio
ha abbandonato il proposito di nuocere al suo popolo (cfr. Es 32,14). Sembra
paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo cuore! Gesù, morto
e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà. Così, per noi, si
tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo amore di Dio che viene a
cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sè a noi, a perdonarci, noi, la sua
gioia! Spesso, però, il nostro cuore, irretito nelle illusioni del peccato, è
più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica
condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento
di ricordare al nostro cuore che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce
esce dalla sua solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi
fiducioso a quell'amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano
il mistero e la tipica realtà di cui siamo invitati a fare esperienza.