Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
Ordinario
15a Domenica
(15 luglio
2007)
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Dt 30,10-14; sal 18;
Col 1,15-20; Lc 10,25-37
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Il brano di
vangelo conferma l’affermazione del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti
ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te….Anzi, questa parola è
molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in
pratica”. La parola del Signore, il suo comandamento è “vicino” a noi. Vuol
dire due cose: è accessibile a noi, non è qualcosa di complicato o assurdo o
inarrivabile; nello stesso tempo, è adatto a noi, corrisponde al nostro cuore,
nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. Ma allora
perché facciamo così resistenza al suo comandamento nella nostra vita?
Già il testo del
Deuteronomio lo sottolinea: la parola del Signore ti è vicina, “perché tu la
metta in pratica”. Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se
non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza
col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il
gusto di quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita.
Il brano di
vangelo riprende lo stesso concetto. Il testo di Luca, come quello parallelo di
Matteo, pone la domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa.
Il dottore della legge vuole mettere alla prova Gesù. Il brano parallelo di
Marco invece sottolinea la buona fede del dottore della legge. Noi possiamo
interpretare così. Ammettiamo che la domanda del dottore della legge: “Maestro,
che devo fare per ereditare la vita eterna?” nasconda un tranello per Gesù.
Comunque la domanda è ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna?
La comprensione segue sempre la pratica. Quando però Gesù fa dire a lui stesso
in cosa si riassuma la Legge, lo scriba risponde bene: amerai Dio e il tuo
prossimo. Allora lo scriba rincalza: e chi è il mio prossimo? Visto che non ha
potuto cogliere in fallo Gesù con la prima domanda, ne pone una seconda. Ma
questa volta la domanda è posta male e tradisce la sua cattiva intenzione.
Chiedere chi sia il prossimo vuol dire ammettere che l’uomo può fare
distinzioni, che l’uomo si pone al di sopra di Dio e così facendo non potrà più
conoscere in verità il volto di Dio. Ammettiamo invece che la domanda del
dottore della legge sia posta in buona fede. La prima domanda è sempre posta
bene. Ma quando Gesù gli fa rispondere che la legge consiste nell’amare Dio e
il prossimo, lui si chiede: ma allora perché non gusto ancora quella vita
eterna che cerco? Cosa mi manca? Non agisco ancora secondo l’ottica di Dio? E
pone la seconda domanda: chi è il mio prossimo? Domanda posta male, ma per
conoscere in verità ciò che Dio pensa. E Gesù narra la sua parabola, la
parabola del buon samaritano. La conclusione della parabola restituisce al
dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: non si tratta di sapere chi
sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma agire da prossimo con
chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”,
come il buon samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito
sulla strada.
La parabola però
non finisce qui, almeno quanto al suo significato. Ogni parabola è
un’illustrazione dell’agire di Dio, una raffigurazione dei sentimenti e
dell’agire di Gesù, venuto a rivelare l’amore di Dio agli uomini. Il buon
samaritano è Lui stesso, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed
è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa
ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo e ne
svela al nostro cuore la bellezza. L’esito del comandamento dell’amore al prossimo
non è semplicemente di far star bene il prossimo, se possibile, ma di ottenerci
la rivelazione del volto di Dio, compimento dei desideri del nostro cuore.
Qui sta anche
racchiusa la legge dell’intelligenza spirituale delle Scritture. La parola di
Dio non è pronunciata perché la si capisca, ma perché la si metta in pratica.
Sarà la pratica a portare quella conoscenza che il cuore desidera. La parola
suggerisce una possibilità di pratica che porterà alla comprensione, la quale
poi farà ritornare con più desiderio alla parola per vedervi nuove possibilità
di pratica e così via. Così, davanti alla parola, al comandamento, è mal posta
la domanda: cosa vuol dire? Dovremmo dire: qual è il mistero che nasconde di
cui diventare partecipe mettendola in pratica? E allora comprenderemmo dal di
dentro la benedizione di Gesù per i discepoli che immediatamente precede il
nostro brano: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti
profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e
udire ciò che voi udite, ma non l’udirono”. E’ la benedizione per chi cerca la
vita eterna e la gusta. Allora le parole del salmo 18 suoneranno con
un’intensità tutta nuova: ho scoperto che la legge del Signore è perfetta
perché rende perfetti rinfrancandoci, che è verace perché rende veri in
sapienza, che è giusta perché ci fa giusti in letizia, che è limpida perché
rende puro il cuore e gli occhi luminosi, ecc.