Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Tempo
di Natale
Santa Famiglia
(31 dicembre
2006)
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1Sam 1,20-28; sal 83;
1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
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Celebrare la
festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di
sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per
porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata
genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse
divine ma intessuta anche di peccato e di miserie umane ed assume pure la
struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia. Per
l’uomo, venire al mondo significa ritrovarsi in una famiglia senza la quale non
si troverebbe garantito nel suo diritto a vivere e a crescere. Anche per Gesù,
che è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per
crescere e scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non
solo con il bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il
fatto che Gesù abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto
assumere la realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua
realtà umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta.
Nel racconto del
ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio
rivelatore. A suo padre e a sua madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme
di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle
cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù risponderà con questo tono a
sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua madre e i suoi fratelli, egli
dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio
e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di
nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Che ho da fare
con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda
continuamente, da dentro gli affetti familiari, ad una dimensione ancor più
profonda che costituisce la radice stessa di quegli affetti e la garanzia più
sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’, di cui ogni affetto parla, al quale ogni
affetto rimanda e nel quale ogni affetto trova la sua radice più appropriata ed
il termine verso il quale ogni affetto anela. Significa allora allargare gli
orizzonti, un continuo andare oltre la cronaca e la ‘materialità’ degli eventi,
ma nello stesso tempo comporta la necessità e la difficoltà di un superamento
continuo di quello che si pensava ovvio, di quello che si credeva. Tutti i
genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per
i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a
realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere, almeno
all’inizio. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che
la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di
questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia,
misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la
consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata,
ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Sua madre serbava tutte
queste cose nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio non
significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose, che
vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di
comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti
famigliari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame
tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e non invece con Colui che di quel legame è la
Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto
superiore rischia di soffocare.
Forse non è
inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca
è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori:
“Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce,
prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46);
oppure, prima dell’ascensione: “E io manderò su di voi quello che il Padre mio
ha promesso…” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto
ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la
radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal
quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza
questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su
se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In
altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la
seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi
comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in
noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In altri termini, osservare i comandamenti
risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel
quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente
tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché
il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è
stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi
tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro affetti senza sottrarre
loro quel vigore e quello slancio che li apre ad aneliti sempre più profondi e
veritieri, dentro un’umanità così larga di orizzonti da sentire tutti della
stessa famiglia.