Secondo
ciclo
Anno
liturgico C (2006-2007)
Solennità
e feste
N.S. Gesù Cristo Re
dell’universo
34a Domenica del Tempo Ordinario
(25 novembre
2007)
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2Sam
5,1-3; Sal 121; Col 1,12-20;
Lc 23, 35-43
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“C'era anche una scritta, sopra il suo capo:
Questi è il re dei Giudei”: è l’annotazione di Luca dopo il racconto degli
scherni sotto la croce da parte dei capi e dei soldati. Scritta, che le
generazioni cristiane poi hanno interpretato come Questi è il re della gloria. La liturgia di oggi sovrappone le due
‘visioni’ mostrando come la chiesa contempla il suo Signore crocifisso.
L’antifona di ingresso lancia lo sguardo in avanti e vede il suo Signore
crocifisso come ‘agnello immolato e glorioso’ al quale tutto è sottomesso (Ap
5,12 e 1,16), immagine che viene ripresa anche dal prefazio. Il canto al
vangelo ritorna con lo sguardo indietro e vede il Signore che entra trionfante
in Gerusalemme (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore, benedetto il
suo regno che viene”) quando il tripudio della folla dei discepoli sovrastava
ogni cosa e nessuno si accorgeva di cosa si stava preparando. Il vangelo
presenta la crocifissione di Gesù secondo i possibili modi di contemplarlo
incarnati dai vari personaggi. Troviamo la folla, che l’aveva accompagnato, un
po’ in disparte e che alla fine se ne torna via percuotendosi il petto,
confusamente consapevole che qualcosa di ingiusto era stato perpetrato in nome
della legge che riconoscevano come propria; ci sono i discepoli e le donne che
seguono da lontano, impotenti e angosciati. Più direttamente, sotto la croce,
ci sono i capi di Israele che avevano esigito la condanna di Gesù e che ora lo
scherniscono, coloro ai quali l’evangelista attribuisce la colpa del misfatto
perpetrato; ci sono i soldati, che lo prendono in giro crudelmente
comportandosi come bambini scanzonati, simbolo della nazione pagana che non può
prendere sul serio un re del genere, ad eccezione del centurione che intravede
nel comportamento di quel condannato la sua assoluta innocenza. Al centro, ci
sono i due malfattori, che riassumono le due possibili ‘visioni’: il malfattore
‘empio’ e il malfattore ‘pio’, uno arrabbiato e l’altro pacificato, uno
disperato e ingiurioso, l’altro benevolo e fiducioso.
Cosa ha visto
quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come colui che in
paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, per indurlo a pregare quel
condannato: “Gesù, ricordati di me quando
entrerai nel tuo regno?”. Deve aver visto qualcosa di strano, di
assolutamente speciale. Forse lo splendore di un’innocenza che si irradiava da
Gesù e che lui, così vicino, poteva vedere bene. Il fatto è che, di fronte a
quell’uomo ingiustamente condannato eppur così mite, vede la propria storia
rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino,
accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Con
la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è
splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore
perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore,
proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne
faccia la radice della sua vita e del suo tormento.
Quando Paolo
proclama nella lettera ai Colossesi: “piacque
a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza”, allude proprio alla pienezza
della carità di Dio che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore nel
senso di rivelare a noi ciò che Dio è e nel senso di permettere a noi, nella
nostra umanità, di godere della comunione con lui Quella carità, per noi, si
traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia, e parla della
pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro
cuore diventa cielo dove Dio è adorato e goduto e condiviso. In questo senso si
avvera la profezia rivolta a Davide, che costituisce la caratteristica del
regno messianico come ripreso dalle acclamazioni che accompagnano l’entrata trionfante
di Gesù in Gerusalemme: “tu pascerai
Israele mio popolo” (2Sam 5,2). Il Signore pasce il suo popolo nella carità
svelata dal Figlio morto e risorto, carità che, accolta, lo fa contemplare come
re della gloria. È un re del genere
che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e che serve.
L’immagine del
buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero di
Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia degli
uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente quella
che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto da
farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo.
Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni
a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova
incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione
della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno
scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo,
ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli
si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella
prospettiva alta della felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia
dell’amore.