OMELIE PER LE DOMENICHE E LE FESTE
LITURGICHE.
CICLO B.
AVVENTO.
PRIMA
DOMENICA
Is
63,16-19; 64,1-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9;
Mc 13,33-37
Con l’Avvento, tempo liturgico di
preparazione al Natale del Signore nostro Gesù Cristo, inizia un nuovo ciclo
per la liturgia della chiesa. La nota dominante sarà la vigilanza: “Vegliate!
Badate bene! State attenti!...”. Perché e in cosa consiste il vigilare, a quale
scopo vigilare?
Tutto l’Avvento prende significato
dall’esortazione di s. Paolo ai Corinzi, che egli descrive fervorosi e vivaci
nella fede, ai quali non manca nessun dono di grazia e che restano “in attesa della manifestazione di Cristo”.
L’espressione normalmente è considerata nella tensione dei credenti al ritorno
glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante
svelerà tutta
La vigilanza alla quale la chiesa così
fortemente richiama i suoi figli è la tensione a entrare nel processo della
manifestazione del Signore al nostro cuore, nella nostra storia, manifestazione
di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata.
Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di
evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una
‘memoria’ calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole
che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella
percezione della sua presenza. Ed è nello splendore di quella presenza percepita
che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a
far risplendere il mondo della luce di Dio.
Solo
ai pastori che vegliavano nella notte è giunto l’annuncio degli angeli, solo a
loro il cuore si è aperto alla letizia per la nascita di Gesù. La vigilanza è
il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del
ritorno del loro padrone. Ma se intendiamo il ‘ritorno del padrone’ nel senso
proclamato dal profeta Isaia, allora la vigilanza si risolve nel domandare al
Signore di conquistarci con la sua benevolenza, di permetterci di accoglierlo,
di riconoscere i suoi doni, la sua opera, il suo volto. E tutta la liturgia ha
come scopo di ravvivare ‘la memoria’ del Signore, tanto da supplicarlo di
occupare tutto lo spazio del nostro cuore perché risplenda dell’amore di cui è
assetato, di cui ha nostalgia e di cui impara a diventare soggetto e testimone.
Così la manifestazione del Signore al nostro cuore diventa anche il criterio di
discernimento per riconoscere se il bene compiuto è stato operato secondo Dio,
in modo gradito a Dio. Anche in tal modo va vissuta la vigilanza: la cosa buona
che ho fatto, l’evento che ho vissuto, quale aspetto del ‘volto’ del Signore mi
ha portato a vedere? Quale frutto di manifestazione del Signore ha svelato al
mio cuore?
SECONDA DOMENICA
Is 40,1-5.9-11;
sal 84; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8
La figura
del Battista è tutta protesa all’annuncio, preparato da secoli, della venuta
del Messia. “E’ vicino, è alle porte, preparatevi!”. La sua vocazione, perno
della sua stessa identità, si confonde con l’annuncio che ha contrassegnato la
sua vita: “Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Ha
preparato la strada al Messia per il suo cuore, ha preparato la strada per il
cuore dei suoi fratelli: il battesimo di acqua che impartisce, un battesimo di
pentimento, di conversione, prepara al riconoscimento della venuta del Messia,
per lui come per tutti; prepara all’accoglimento del disegno di salvezza di Dio
che si manifesta nell’invio del suo Figlio, fatto uomo, testimone della verità
dell’amore di Dio per gli uomini. Questo deve rivelarsi ai cuori, in questo i
cuori potranno “vedere la salvezza del loro Dio”.
L’annuncio
del Battista si situa nello spazio che intercorre tra il desiderio di Dio di
inseguire l’uomo volendolo per Sé e la rivelazione della gloria dell’amore di
Dio che finalmente conquista l’uomo e ne compie l’umanità. Il desiderio di Dio
risuona nelle parole del profeta: “Consolate,
consolate il mio popolo”, riecheggia nell’esortazione della lettera di
Pietro: “il Signore usa pazienza”,
mentre la manifestazione della gloria dell’amore di Dio avverrà con il
battesimo nello Spirito Santo, che soltanto il Messia potrà effondere
sull’umanità. Tutta la storia di salvezza è compresa in quello spazio e tutta
la nostra vita si gioca in quello stesso spazio. La conversione, il
riconoscimento del nostro essere peccatori, il pentimento, consistono appunto
nella percezione netta, forte, di quel desiderio di Dio per l’uomo, in attesa
che quella percezione trasformi tutto il nostro cuore e lo apra stabilmente
all’azione dello Spirito del Signore, fino a diventare principio di vita eterna
che zampilla nell’intimo, come promesso da Gesù.
Ciò che si oppone alla conversione è l’insensibilità a
quella percezione. Quando Pietro esorta a vedere la ‘pazienza’ di Dio è come se
esortasse a diventare sensibili al desiderio di Dio di vivere in compagnia
dell’uomo (che con il natale di Gesù acquisterà una densità ed una concretezza
impensabili prima), a vedere in quella percezione la possibilità per l’uomo di
vedere il mondo e la vita nel loro segreto, a vivere la propria vocazione
all’umanità in tutto il suo splendore. Diversamente, il cuore è ghermito da
quell’aria pesante che fa dire: “Dov’è
la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli
occhi tutto rimane come al principio della creazione”,
non potendo più scorgere alcun splendore. La ‘pazienza’ di Dio delude il
peccatore, ma se il peccatore riconosce i suoi peccati vuol dire che ha
cominciato a percepire il desiderio di Dio per l’uomo, allora benedice ed
esalta la pazienza di Dio per lui e ne fa ragione di comportamento verso gli
altri. Così, in qualche modo, ognuno contribuisce a preparare le strade al
Signore; ognuno vive, in qualche aspetto, la vocazione del Battista, vocazione
che si traduce nel far percepire una benevolenza di fondo verso tutti, nella
ricerca della verità senza infingimenti, nella testimonianza di una via di vita
percorribile, nel suscitare il fascino di un’esperienza desiderabile. Alla fin
fine non si risolve in questo la missione della Chiesa nel mondo: ‘aprite le
porte al Signore che viene’?
Il salmo
84 lo dichiara in tutta chiarezza: “misericordia
e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Come a dire: se
l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il
riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se
l’esperienza è autentica, allora, come continua il salmo: la riconciliazione
ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare
l’unica ‘giustizia’ degna del cuore dell’uomo. Il salmo prosegue ancora: “la verità germoglierà dalla terra”, vale
a dire: da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la
grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora; “e la giustizia si affaccerà dal cielo”, cioè: Dio dimorerà tra di
noi, la presenza di Dio tornerà a risplendere nel mondo. Così si compie la
profezia di Isaia: “Allora si rivelerà la
gloria del Signore e ogni uomo la vedrà” [espressione che il testo ebraico
rende con: ‘tutti gli esseri di carne insieme vedranno’]. L’azione di Dio che
si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si
compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti
insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste
altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore
se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.
IMMACOLATA CONCEZIONE
Gn
3,9-15.20; sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
Quella
‘benedizione’ che Paolo implora ed annuncia nell’esordio alla sua lettera ai
Filippesi ha ricoperto e intriso in modo singolare
Quella
benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da
renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come
proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine
hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte
di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per
sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La
sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e
purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità
siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché
anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo
tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la
dimora di Dio in mezzo a noi.
A
differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli
degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata
duramente provata nella sua umanità; con l’offerta della sua umanità ha
permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto
la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza
umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non
ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha
compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato
L’uomo,
invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la
compromissione con la ribellione, mentre la sofferenza della nostra umanità
svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Se rifacciamo a ritroso
il tragitto delineato dal colloquio nel giardino tra Dio e Adamo e Eva dopo la
trasgressione, ci ritroveremo nuovamente in una umanità condivisa e goduta
insieme a Dio e a tutti i fratelli. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la
donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità
dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda
la nostra umanità che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non
potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede
all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde,
va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista,
da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini
che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai
paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di
innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere quella paura di Dio
allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più
forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare
l’invito di Dio che continuamente bussa al suo cuore senza tener conto della
sua paura: “dove sei?’, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo
Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine.
La Vergine è proprio Colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo
della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità perché l’esperienza di cui
è stata gratificata ridiventi, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a
ciascuno. Quando di lei dice che è la serva del Signore allude proprio a quel
desiderio della dimora di Dio che si compie nel mondo, di cui tutto il suo
essere è espressione e testimonianza e intercessione per l’umanità intera.
TERZA DOMENICA
Is
61,1-2.10-11; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28.
Anche in
questa domenica il personaggio di riferimento è il Battista, il testimone del
Messia di cui ci prepariamo a celebrare il Natale. Ma questa volta il brano è
tratto dal vangelo di Giovanni. Come Marco e a differenza di Matteo e Luca,
Giovanni non narra l’evento della nascita di Gesù a Betlemme. Il suo sguardo si
spinge oltre, fino ai confini della storia, oltre
La
chiesa, però, sulla base della sicura testimonianza del Battista, intravede già
l’azione del Messia, che riassume in un unico movimento, quello della letizia. Il Messia, il Cristo Signore,
è la ‘letizia’ del mondo. Tutta la liturgia di oggi ne è la celebrazione; è un
assaggio di quello che sarà rivelato al mondo con la nascita dell’Emmanuele, il
Dio con noi. L’antifona di ingresso risuona gioiosa: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il
Signore è vicino”. La colletta fa pregare: “Guarda, o Padre, il tuo popolo, che
attende con fede il Natale del Signore e fa’ che giunga a celebrare con
rinnovata esultanza il grande
mistero della salvezza”. Il brano di Isaia descrive ‘il lieto annunzio’ di cui è portatore l’Inviato di Dio. Il salmo
responsoriale fa gridare: “la mia anima esulta
nel mio Dio”. Paolo esorta: “State
sempre lieti…”.
Qual è la
radice di tale letizia? E’ la domanda che trapela da tutta
E quando
Paolo, nella prima lettera ai Tessalonicesi, esorta i credenti: “State sempre lieti, pregate incessantemente,
in ogni cosa rendete grazie”, vuole illustrare la fede nel Signore Gesù
come esperienza di letizia. Chi ha sperimentato ‘la volontà di Dio in Cristo
Gesù’, vale a dire: chi ha provato l’amore di benevolenza di Dio sul mondo di
cui Gesù è il Testimone e il Rivelatore, vive nella letizia, perché può stare
sempre lieto, è capace di intimità (segno di una relazione forte e goduta,
prima con Dio, poi con se stessi, il prossimo e le cose, perché guarito e
liberato; qui si cela il mistero della preghiera), sa rendere grazie in ogni
cosa (all’intimità si accompagna l’umiltà come la capacità di accogliere la
vita nel suo splendore, senza rivendicazioni e senza pretese). Il legame tra
queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere
anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto
guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che
sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà presto la
libertà interiore per stare lieto e rendere comunque grazie. Chi è davvero
lieto non può non pregare incessantemente e vivere la vita in ‘eucaristia’, in
rendimento di grazie. Così tutta la vita del credente sarà vissuta nel segno
della ‘letizia’, la letizia perché il nostro Salvatore si è rivelato nel mondo
e perché la luce di quella rivelazione ha toccato il nostro cuore. In vista di
tale esperienza di rivelazione della letizia la chiesa si prepara alla festa
del Natale.
QUARTA DOMENICA
2
Sam 7,1-16; Sal 88; Rm 16,25-27;
Lc 1,26-38
Il canto
di ingresso esprime il grido della chiesa, grido accorato e dolce insieme, con
le parole del profeta Isaia: “Stillate
dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si
apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8). Anche il salmo 85, più volte ripreso nella liturgia dell’avvento:
“La sua salvezza è vicina a chi lo teme e
la sua gloria abiterà la nostra terra. Misericordia e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia
si affaccerà dal cielo. Quando il Signore elargirà il suo bene, la nostra terra
darà il suo frutto” ripete la stessa speranza, con la stessa forza e la
stessa dolcezza. Il Natale di Gesù è alle porte, la speranza si fa certezza, la
certezza si traduce in esperienza per ciascuno e per il mondo: tutta la
preghiera della chiesa vuole affrettare la gioia di quel ‘compimento’.
Non
‘ogni’ terra però fa germogliare il Salvatore. E qual è la terra che lo farà
germogliare? Troviamo la risposta nel brano evangelico:
Lo stesso tema della ‘dimora’ percorre il
brano del secondo libro di Samuele, che riferisce del desiderio di Davide di
costruire una degna dimora a Dio. Sarà invece Dio a costruire una casa a
Davide, a dargli quella discendenza da cui scaturirà il Salvatore, dimora di
Dio in mezzo agli uomini, luogo della presenza di Dio che risplende tra gli
uomini. Quel ‘Verbo’ che era presso Dio, come proclama il prologo del vangelo
di Giovanni, essendo Dio, ora è anche presso gli uomini, essendo Uomo, nato
dalla Vergine Maria. Il che significa che la creazione ritrova il suo splendore
perché il cielo riflette la terra e la terra riflette il cielo. L’illusione di
essere ‘piccoli dèi’ è finita; il sogno dell’uomo può rivelarsi in tutta la sua
grandezza: essere ‘come Dio’. E’ il tema della ‘obbedienza alla fede’ di cui
parla Paolo nella sua lettera ai Romani. Come la Vergine, tutta la nostra
umanità è chiamata ad ‘acconsentire’ al sentire di Dio, all’operare di Dio,
allo splendore di Dio in questo mondo perché la sua gioia si compia e la sua
gioia illumini i nostri volti. Sarà la gioia del Natale di Gesù allorquando la
gioia di Dio potrà essere goduta dalla nostra umanità che così viene guarita
dalla sua tristezza e esaltata nella sua dignità. L’obbedienza alla fede non
può che comportare la condivisione del disegno di Dio per l’uomo, condivisione
che si traduce nell’esperienza di una gioia inaccessibile all’avversario, al nemico,
perché tutto e tutti ormai sono visti come destinatari e fruitori possibili di
quell’unica gioia. La gioia come mistero di intercessione per l’intera umanità.
NATALE DEL SIGNORE
Messa
della notte: Is 9,1-6; Tt 2,11-14; Lc
2,1-14
Messa
dell’aurora: Is 62,11-12; Tt 3,4-7; Lc
2,15-20
Messa
del giorno: Is 52,7-10; Eb 1,1-6; Gv
1,1-18
La
liturgia del natale del Signore si distende tradizionalmente su tre formulari
di messe (la messa della notte, dell’aurora e del giorno) che sottolineano i
vari aspetti della celebrazione. La chiave celebrativa è data dal canto
all’alleluia nelle tre messe, tratto dall’annuncio e dall’invito degli angeli
ai pastori: “Vi annunzio una gioia grande … Gloria a Dio e pace in terra …
Venite tutti ad adorare il Signore”. È l’esultanza che percorre la chiesa per
la nascita del Salvatore, esultanza che si estende a tutta la terra e si
traduce nell’esperienza della luce e della pace, così caratteristica delle
tradizioni natalizie anche in chi ha ormai illanguidito la sua visione del
mistero. Quella gioia ci tocca perché ci riguarda, è un dono per noi. Caso mai,
il problema nasce nel come trattenerla, come farla propria, come farle
attraversare tutta la nostra vita per illuminarla.
I brani
evangelici delle messe natalizie ci presentano tre testimoni dell’evento: gli
angeli, i pastori, l’apostolo. E una figura di accompagnamento d’eccezione: la
Vergine.
L’annuncio della gioia tocca gli angeli (messa della
notte), a sottolineare che quella gioia è un’offerta, un dono celeste. La formulazione
però dell’annuncio è più misterioso di quanto crediamo. Le parole messe in
bocca agli angeli sono già frutto di una lunga esperienza di compagnia con quel
Figlio, che ora è visto bambino, ma che il racconto evangelico testimonierà
essere presso Dio prima della creazione del mondo, essere venuto a rivelare il
vero volto di Dio, essere venuto a morire e risorgere per dare la vita agli
uomini. E quando proclamano “gloria a Dio
nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” esprimono
la verità del mistero a lungo contemplato e adorato; si tratta dell’esultanza
dell’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo. Nel suo amore per l’uomo Dio
trova la sua gloria che è appunto lo splendore del suo amore di
accondiscendenza per l’uomo (e gli angeli sono coloro che adorano Dio in modo
puro perché esultano per un mistero che li trascende: non celebrano Dio per
l’amore verso di loro ma verso gli uomini, creature a loro inferiori. Ricorderà
poi Gesù che non si può adorare Dio cercando la propria gloria!) e sempre in
quell’amore l’uomo trova la sua pace, ritrova il senso e la gioia del vivere,
perché di quell’amore è intriso il mondo e di quell’amore respira il cuore
dell’uomo.
Poi intervengono i pastori (messa dell’aurora). Sono
coloro che accolgono l’invito all’esultanza, coloro che sanno che non possono
trovare in se stessi il motivo di gioia ma semplicemente lo accolgono, vanno a
verificare, fino a riconoscere in quel Bambino, ‘nato per noi’, la radice della gioia della vita. Tornano
alla vita di prima, ma ‘esultanti’, capaci di affascinare altri con il racconto
della loro esperienza. Il segreto di quell’esultanza va rinvenuto non tanto nel
fatto di aver partecipato a un evento eccezionale, ma nel fatto di aver
lasciato attraversare la propria storia dalla luce della letizia di
quell’evento. Esattamente quello che la chiesa oggi invita tutti a compiere.
Alla fine interviene l’apostolo (messa del giorno),
colui che ha potuto dire, dopo un’intensa compagnia col Signore: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, come gloria di unigenito dal
Padre, pieno di grazia e di verità”. E di nuovo ci domandiamo: che ‘gloria’
ha visto? La gloria dello splendore dell’amore di Dio per gli uomini, che sulla
croce ha avuto la sua icona più luminosa tanto da denominare il crocifisso ‘re
della gloria’. E quell’amore non è sopraggiunto ad un certo momento della
storia, ma per la sua infinitezza e densità è tale che da sempre ha
contrassegnato Dio, ha presieduto al movimento stesso della storia e continua
ad attraversarla con tutta la sua luminosità. Gesù ne è il rivelatore: “io sono la luce del mondo” (Gv 8,12).
La visione del mistero si fa manifesta, come dice Paolo
a Tito (‘è apparsa la grazia di Dio…si sono manifestati la bontà di Dio,
salvatore nostro e il suo amore per gli uomini…’) quando, come la Vergine,
‘serbiamo ogni cosa meditando nel cuore’. Vale a dire: come trattenere in cuore
la letizia? Facendo rimbalzare tra loro (questo è il significato della parola
‘meditare’) le parole ascoltate, gli eventi narrati e vissuti, le attese e gli
aneliti del cuore. È in tale atteggiamento di ‘meditazione’, di
‘accompagnamento’ al mistero per i suoi figli che la Vergine è raffigurata
nelle icone della natività. È collocata nella parte centrale del quadro, ma non
guarda il suo Bambino; guarda altrove, guarda al mistero, al mondo per il quale
il mistero è destinato, agli uomini per i quali intercede al fine di ottenere
che finalmente il mistero risplenda agli occhi di tutti. In questa sua
intercessione si rivela tutta la tenerezza per l’umanità. La sua preghiera è
per il cuore degli uomini che, come recitano alcuni versi, ‘è fatto di luce ma
s’annega nel buio e l’uomo non sa che fango di cielo è la terra del cuore’.
La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il
vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore.
Buon Natale a tutti
MADRE DI DIO
Nm
6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7;
Lc 2,16-21
L’inizio
del nuovo anno, che cade nell’ottava del Natale, è celebrato con la festa della
maternità divina di Maria che, dando alla luce il suo bambino, Verbo fatto
uomo, ha irradiato sul mondo la ‘benedizione’ di Dio, il suo Figlio Unigenito.
Tutto il nuovo anno è posto sotto quella benedizione che il Signore ha rivelato
a Mosè: “Ti benedica il Signore e ti
protegga…” (Nm 6,22-27) e che si è compiuta con la nascita di Gesù dalla
Vergine Maria. È la stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del
Padre nostro, benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la
nostra storia, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. Si
tratta di una benedizione larga, onnicomprensiva, che copre tutte le cose e
tutto di ogni cosa, oltre la quale non c'è più nulla di significativo per il
cuore, il quale non sopporta che qualcosa possa sussistere fuori di essa. E la
missione che Gesù affida ai suoi apostoli mira a rivelare, a rendere
percepibile, a far gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino
in essa e non possano più vivere se non a partire da e dentro di essa.
Come
canta l’antifona di ingresso “Oggi su noi splenderà la luce, perché è nato per
noi il Signore; Dio onnipotente sarà il suo nome, Principe della pace, Padre
dell’eternità: il suo regno non avrà fine”, intendendo: su di noi splende la
luce della gioia di Dio che manifesta il suo amore agli uomini; così ci appare
il nostro Dio: onnipotente nell’amore, amore che costituisce la nostra pace, un
amore che viene dall’eternità e che non verrà
Quando
Gesù proclamerà ai discepoli: “Così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere
buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” alluderà proprio a quella
‘benedizione’ che si compie nel mondo. Il bene è frutto di quella benedizione.
E la benedizione è quel Figlio prediletto, nel quale il Padre ha tutto il suo
compiacimento e che rivela il suo amore immenso per gli uomini. Le opere sono
buone quando fanno risplendere quel Figlio, quando rivelano l’amore di Dio
all’umanità, quando portano al cuore la conoscenza di quel Figlio, quando
l’amore di quel Figlio ha conquistato tutta la mia umanità. L’opera buona che
rende gloria a Dio, cioè che fa conoscere Dio nella sua paternità, è il Figlio
fatto carne. Lo sapeva l’anima della Vergine e perché si compisse quel mistero
di Dio ha consegnato tutta se stessa. In quella consegna è celata tutta la
potenza di intercessione per l’intera umanità perché anche per l’umanità non
vale altro mistero, non esiste altro compimento. Lo dice anche il salmo a
commento del brano del libro dei Numeri: “su
di noi faccia splendere il suo volto, perché si conosca sulla terra la tua via”.
L’umanità conoscerà la via di Dio, conoscerà la paternità di Dio accogliendo
quel Figlio venuto a rivelare il vero volto di Dio. Della soddisfazione di
questa attesa dell’umanità la comunità dei credenti è responsabile.
San
Paolo, nella sua lettera ai Galati, rivela che il Figlio nella carne è venuto ‘nella pienezza del tempo’. L’espressione
non si riferisce solamente all’evento della nascita di Gesù dopo una lunga
preparazione. L’esperienza della conoscenza del Figlio rende l’uomo capace di
accogliersi come figlio di Dio, di sentirsi guardato dallo sguardo di
predilezione di Dio per ogni uomo, al di là del tempo, solidale con l’umanità
di tutti perché formiamo un’unica cosa con l’umanità di quel Figlio prediletto.
Proprio questa esperienza ci fa vivere in pienezza il tempo, ci fa capaci di
scoprire e di portare tutta la grazia del tempo dato, percependo ogni istante
dentro quella pienezza di tempo. Non c’è più motivo di angosciarsi per il
nostro tempo, per il tempo che passa, per le ferite del tempo, quando la
percezione del tempo è vissuta a partire da quella ‘benedizione’ che attraversa
la nostra vita e ne costituisce il tesoro di senso.
EPIFANIA
Is 60,1-6; Sal 71;
Ef 3,2-6; Mt 2,1-12
“Il Verbo
si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”
è il ritornello della liturgia natalizia. Il mondo non si è accorto di nulla ma
chi ha ricevuto la grazia di poter vedere non ha potuto frenare la gioia e in
quella gioia ha sentito tutta la grandezza dell’amore di Dio, tutta la bellezza
della creazione, il senso e lo scopo di tutta la storia umana. La storia
dell’uomo è oramai visibilmente storia di Dio, storia divina. Se davvero l’uomo
è fatto su Dio e per Dio, allora l’argomentazione dell’evangelista Giovanni nel
prologo del suo vangelo suona stringente: “Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”.
Lui è la Verità su Dio e Dio ormai non è che il Padre del Signore Gesù Cristo e
se vogliamo accedere a tale Padre, il Figlio è
Con
l’adorazione dei Magi il mistero è rivelato alle genti, perché a loro
appartiene. La tradizione ha fissato il simbolismo dei tre doni: l’oro al Re,
l’incenso al Sommo Sacerdote eterno, la mirra per la sua sepoltura. E Leone
Magno, nelle sue bellissime omelie sull’Epifania, attualizza così il
significato simbolico dei tre doni: chi viene al Cristo, offre l’oro dal tesoro
del suo cuore quando lo riconosce re di tutte le creature, offre la mirra
quando crede che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto una vera natura di uomo
ed offre l’incenso quando lo confessa uguale al Padre.
Quanti particolari del racconto evangelico si aprono
come finestrelle di luce su quello stesso mistero! I Magi, persone colte e
osservatrici degli astri, vedono sorgere una stella, fenomeno che interpretano
come l’arrivo di un grande re in Giudea e decidono di venire a cercarlo. La
strada per la Giudea la conoscono ed il testo non dice che la stella li
guidava. Solo dopo aver ricevuto la conferma della profezia da Israele che un
re sarebbe nato a Betlemme, ricompare la stella e li precede fin là. E quando
devono ritornare indietro, cambiano strada. Intanto notiamo il contrasto: i
Magi si sono mossi, senza sapere bene dove andare, mentre Israele conosce la
profezia riguardo al bambino che deve nascere, ma non si muove; i Magi sono
nella gioia, Gerusalemme nel turbamento. I Magi sono partiti perché spinti dal
cielo, ma si affidano alle Scritture di Israele per conoscere il luogo di
nascita del nuovo re e solo dopo essersi affidati alla parola rivelata
ricompare la stella del cielo che conferma loro la profezia; dopo aver
riconosciuto il nuovo re, ritornano al loro paese, ma per altra strada, come ad
indicare che nulla è più come prima, si ritorna alle stesse cose ma non è più
la stessa cosa. Come per i pastori che, dopo aver udito e visto, glorificano e
lodano Dio tornando a casa loro, a sottolineare che un cuore convertito al
Signore possiede una luce e un sapore prima sconosciuti. Non è forse la stessa
situazione dell’uomo di fronte al desiderio di infinito che porta dentro? Se va
a cercare
BATTESIMO DEL SIGNORE
Is
55,1-11; Sal: Is 12,2-6; 1 Gv 5,1-9;
Mc 1,7-11
Il
mistero del battesimo di Gesù faceva parte della celebrazione della festa
dell’Epifania. L’antifona al Benedictus della liturgia delle ore lo ricordava
stupendamente: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si
unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e
l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.
Il venire di Gesù al Giordano a farsi
battezzare dà inizio alla sua vita pubblica, avvia il compimento di quello per
cui è stato mandato: la salvezza degli uomini. Si tratta di una volontà
precisa, è arrivata la sua ora. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua
missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui, l’Innocente,
l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i peccatori per
ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Lui non ha bisogno del
battesimo. Perché allora viene a farsi battezzare? Viene per celebrare il suo
‘sposalizio’: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare
unita a Lui e godere, come Lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul
suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo
Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno
ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore
per lasciare posto a Lui, al Suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito.
Si potrà vedere allorquando, compiuta la sua missione, avendo patito per gli
uomini, morto e risorto, lo effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli.
Vedere lo Spirito Santo significa poter penetrare nei cieli ormai aperti,
significa aver sperimentato in tutta la sua potenza quel ‘compiacimento’ che la
voce proclama da parte di Dio su Gesù.
Al
momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il
Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. E’ la funzione della
parola di Dio che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: “Voi scrutate le
Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse
che mi rendono testimonianza” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in
quel ‘Figlio prediletto’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da
incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture dove si parla di ‘figlio
prediletto’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio
chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora nella parabola
dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo
figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il
raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela
la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di
sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di
Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne
faranno scempio. Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri ….
L’aggiunta “in te mi sono compiaciuto” rivela tutta la profondità del
mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto
l’Amore del Padre è per il Figlio e tutto l’Amore del Figlio è per il Padre. Ma
attenzione: ‘in te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al
Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto
perché in Lui si può contemplare tutta
l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente
il suo sogno sulla creazione e sull’umanità. Così, in quel ‘perfetto’ è già
compreso anche tutto quello che la nostra umanità, unita a quella del Signore
Gesù, compirà, secondo il senso di quel che dirà san Paolo: “Perciò sono lieto
delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca
ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è
Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si
compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo ed in Gesù
questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. E se noi stiamo in
Cristo, allora anche in noi la volontà del Padre si compie, perfetta, perché
anche in noi il Suo amore risplenderà. E questo risplendere del suo amore non
deriva forse dall’essere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e
che ci ha effuso nella Pentecoste? Come s. Francesco dice della perfezione o
della santità: “avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, pieno
compimento del nostro battesimo.
DOMENICHE DEL TEMPO ORDINARIO, ANNO
B
DOMENICA II
1Sam
3,3-10; Sal 39; 1Cor 6,13-20;
Gv 1,35-42
Durante il tempo natalizio, abbiamo
avuto modo di ascoltare più volte il brano evangelico di oggi. L’accento cadeva
sulla testimonianza del Battista che annunciava al mondo la presenza del Figlio
di Dio, Verbo fatto uomo, Agnello innocente, splendore dell’amore del Padre per
gli uomini. Ora l’accento è posto sulla testimonianza dei discepoli che
incontrano il Messia. Il brano racconta cosa è successo loro, ma non
semplicemente a modo di cronaca, come farebbe un cronista. La pagina evangelica
è immensamente più densa e misteriosa del semplice racconto di un fatto
accaduto, anche se l’estrema precisione dei dettagli evoca evidentemente
l’intensità di una esperienza indimenticabile. Sembra logico supporre che
l’altro discepolo, quello non nominato, sia lo stesso evangelista Giovanni che,
dopo molti anni, alla fine della sua vita, scrivendo il suo vangelo, ritorna a
quell’episodio di giovinezza che ha cambiato tutta la sua vita: “Che
cercate?” … “Dove abiti?” … “Venite e vedrete” … “Andarono dunque e videro dove abitava”.
Quando Giovanni, nel prologo del suo
vangelo, annuncia che il Verbo si è fatto carne, aggiunge subito dopo: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14).
Ha incominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno,
alle quattro del pomeriggio, quando, sull’invito del suo maestro, il Battista,
va da Gesù con Andrea. Per inciso, non va dimenticato che il verbo greco
tradotto con ‘abitare’ è lo stesso verbo che Gesù userà con insistenza nel
discorso all’ultima cena a proposito della vite e dei tralci quando dirà: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). È
come se Gesù rispondesse ancora alla domanda dei suoi discepoli “dove abiti?” e
dicesse: siete venuti da me, avete visto dove io dimoro (nell’amore del Padre)
e così voi, ora, rimanete nel mio stesso amore. È a questa esperienza che
Giovanni allude quando annota ‘andarono e videro dove abitava’. Il racconto ha
il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una
radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha
sconvolto tutta la sua vita.
Il ritornello responsoriale al salmo
39 proclama: “Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà”. Non esiste
commento più adatto all’obbedienza del giovane Samuele, nel tempio, al profeta
Eli, obbedienza che la chiesa legge e interpreta riferendola al Verbo fatto
uomo che rivela al mondo quanto sia grande l’amore di Dio per gli uomini. E’
l’obbedienza come spazio di intimità, come luogo di tale comunione da attirarci
dentro tutto e tutti. E’ la stessa obbedienza che caratterizza i discepoli del
Verbo di Dio fatto uomo, che non hanno altro principio di essere e di azione se
non quella ‘comunione’ con il Figlio e con il Padre che investe il mondo della
sua grazia. Quando Giovanni e Andrea, sull’invito del loro antico maestro, il
Battista, seguono Gesù, non hanno domanda più vera e pressante da esprimere:
“Dove abiti?”. E quella domanda costituisce già, nell’intensità del desiderio
che comporta, una risposta all’interrogazione di Gesù: “Che cercate?”. Gesù
aveva visto il cuore dei futuri suoi discepoli; aveva visto che non avevano
altro desiderio se non quello che esprime il salmo 39, di compiere cioè il
volere di Dio. In altri termini, il desiderio dei loro cuori può essere letto
così: che la volontà di Bene di Dio ci raggiunga; che possiamo esprimere nelle
opere tutto quel Bene per tutti; che possiamo vivere dentro quel Bene in modo
che nessun male ce lo veli o ce lo porti via perché quel Bene risplenda su
tutto. E Giovanni ricorda quel desiderio giovanile quando ormai ne aveva
conosciuta tutta l’estensione e la profondità, avendo seguito il Maestro,
essendo stato reso partecipe dei suoi segreti, attratto ormai dal e al Suo
volere senza più resistenze. L’intimità che aveva goduto gli aveva permesso di
ritrovarsi in una storia che era immensamente più grande di lui, ma adatta a
lui,
Dietro la volontà di seguire il Signore,
di osservare i suoi comandamenti, di compiere il volere di Dio, c’è sempre la
domanda del cuore dell’uomo: “Ma dove
abiti?”, così come dietro ogni rivelazione di Dio al nostro cuore c’è
sempre l’esperienza del “videro dove
abitava”. E’ il desiderio di intimità, di comunione col proprio Dio, il
desiderio di vedere Colui che il proprio cuore ama, il desiderio di trovare un
luogo ove tutti si possa abitare in pace. Sebbene, a volte, la domanda sia così
assillante che tutto l’accento sembra posto sul ‘ma’, perché ancora non si è
scoperto nulla, perché il fascino e la gloria della rivelazione del Signore
rimangono nascosti, come impenetrabili. Ma il Signore Gesù è venuto proprio a
rendere accessibile quella rivelazione, a tutti, nessuno escluso. Perché non
ritenerci raggiungibili dal suo invito?
DOMENICA
III
Gio 3,1-10; Sal 24; 1Cor
7,29-31; Mc 1,14-20
Gesù
inizia la sua predicazione con le stesse parole del Battista: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è
vicino; convertitevi e credete al vangelo” (cfr Mt 3,2). Non c’è proprio
differenza tra i due annunci? Gesù prosegue semplicemente l’opera del Battista?
Il Battista ‘esorta’, mentre Gesù ‘mostra’: qui sta
Il canto
al vangelo della liturgia ci introduce direttamente nella ‘novità’
dell’annuncio di Gesù: “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, ci conceda
lo spirito di sapienza, perché possiamo conoscere qual è la speranza della
nostra chiamata”. La conversione è in funzione di una sapienza, e di una
sapienza che viene dall’alto; non solo, ma anche in funzione del godimento di
una promessa che si traduce in speranza, fermento di vita nuova nel Cristo che
ci ha svelato i segreti del Regno. Quando nella colletta abbiamo pregato: “Dio
onnipotente ed eterno, guida i nostri atti secondo la tua volontà”, abbiamo
chiesto di convertirci al Cristo, di agire in modo che nella nostra vita
risplenda il Cristo, perché in Lui troviamo tutto il Bene che da Dio proviene
per l’uomo. Il volere di Dio è che conosciamo il suo Cristo, il suo diletto
Figlio!
Forse non ci rendiamo conto del tesoro che costituisce
per il nostro cuore la rivelazione del Cristo. Percepire Cristo come ‘il
tesoro’ del nostro cuore significa percepirsi dentro la sapienza di Dio che ci
precede, ci ingloba e ci accompagna. Significa percepire a nostro favore quello
che il libro di Giona descrive a proposito degli abitanti di Ninive: ‘Dio si impietosì’. Cogliersi a partire
da una sapienza significa supporre la precedenza di un’iniziativa che fa da
riferimento fondante alla nostra esistenza. Nessuno di noi sceglie di venire al
mondo né sceglie da chi, dove e quando venire al mondo. L’unico modo possibile
per vivere ‘bene’ la propria esistenza è quello di viverla da dentro
un’alleanza che ci precede, da dentro una relazione di confidenza, da dentro
un’intimità che riempie e dà senso, al di là delle ferite e delle oppressioni
che ci affliggono. E chi svela le ‘intenzioni’ di Dio per il mondo, chi ci
rende raggiungibili dalla promessa di vita di Dio per l’uomo è proprio il
Cristo. E quando lui annuncia il regno e porta al nostro cuore l’invito di Dio
alla conversione non fa che svelarci quelle intenzioni, per farci sentire la
pressione di un amore che ci fa vivere nella speranza, per noi e per tutti, per
me come per il mondo.
Del resto
è assai caratteristico che nel vangelo la ‘conversione’ sia espressa
dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non
parla di ‘seguire’, ma più direttamente di ‘andare dietro’, di ‘stare dietro’,
di ‘mettersi dietro’ a Gesù. In questo, ascolto ancora l’eco delle parole di
Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle. Quando Gesù chiama i suoi
apostoli, li invita a porsi dietro a lui, a stare dietro a lui. E quando
Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà
di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro,
non volere stare davanti! (cfr Mc 8,37). Quando, alla fine del vangelo di
Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per
lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel ‘venire dietro a’, in
quel ‘porsi dietro’, in quel ‘camminare dietro a’ sta il godimento della
promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il
Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore
dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca
in speranza di vita.
In tale
ottica, le parole di Gesù acquistano tutta un’altra potenza. ‘Il tempo è
compiuto’, vale a dire: non esiste tempo che non sia raggiunto dalla promessa
di Dio, dalla rivelazione dell’amore di Dio. La stessa espressione di Paolo ai
Corinzi: ‘il tempo si è fatto breve’ significa: è tale la gioia della scoperta
del tesoro che tutto il resto passa in secondo piano. Non c’è tempo per gustare
in verità nient’altro, in quanto tutte le cose hanno un unico scopo: farmi
gustare quella verità. E se non mi portano a quella verità, il mio cuore non le
riconosce degne di attenzione. Ma se quella verità è gustata, tutto è degno di
onore e fonte di benedizione. ‘Il regno di Dio è vicino’: lo potete toccare, lo
potete vedere, lo potete gustare in me. ‘Convertitevi’: lasciatevi invadere
dalla fiducia nella promessa di Dio che si compie per voi. ‘Credete al vangelo’:
ritenete Dio sufficientemente potente per compiere la sua promessa in voi e
capace quindi di soddisfare gli aneliti del vostro cuore. Tutto questo dobbiamo
imparare a percepire nell’annuncio di Gesù.
DOMENICA IV
Dt
18,15-20; sal 94; 1Cor 7,32-35;
Mc 1,21-28
Il canto
al vangelo ci introduce al tipo di esperienza a cui oggi la liturgia invita:
“Un grande profeta è sorto tra noi: Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16).
Gesù è presentato come ‘il profeta’, preannunciato, che parla con autorità e
che ha potere sui demoni. Dio aveva promesso di inviare profeti al suo popolo
perché parlassero a nome suo (vedi la prima lettura del Deuteronomio) ma la
promessa era formulata in termini così densi da far pensare, dentro la stessa
tradizione ebraica, alla figura di ‘un profeta speciale’, ad un personaggio che
sarebbe passato come ‘il profeta’ inviato da Dio. L’affermazione del canto al
vangelo è il commento stupefatto di coloro che avevano assistito al miracolo di
Gesù allorquando risuscita un morto, il figlio della vedova di Nain.
Nell’Antico Testamento solo di due profeti si dice che abbiano risuscitato
morti, di Elia e del suo discepolo Eliseo. Attribuendo a Gesù l’aggettivo
‘grande’, l’evangelista vuole presentarlo come colui che costituisce davvero
‘il profeta’ e la sua grandezza appare, non tanto nel fatto che ha il potere di
risuscitare i morti, come i suoi due grandi predecessori, ma nel fatto che quel
potere, datogli da Dio, testimonia la ‘visita’ di Dio al suo popolo, visita che
esprime tutta l’accondiscendenza di Dio al suo popolo, tutto l’amore di Dio al
suo popolo, tutta la rivelazione di Sé al suo popolo. Quel ‘Dio ha visitato il
suo popolo’ corrisponde all’espressione giovannea ‘Dio ha posto la sua tenda’
(Gv 1,14), tenda nella quale risplende tutta la gloria di Dio, tutto il suo
mistero di grazia e di verità a favore dell’uomo. Quando i vangeli parlano di
Gesù come profeta alludono alla densità di questa realtà.
L’evangelista
Marco allude a quella realtà sottolineando che Gesù ‘parla con autorità’ e ‘ha
potere sui demoni’. E’ tipicamente l’autorità non di chi parla a nome proprio,
per quanto grande sia, ma l’autorità di chi ha tutto il potere e la capacità di
svelare il volto di Dio, di rivelare i segreti di Dio. Proprio come dice
Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”
(Gv 1, 18). Ha potere sui demoni nel senso di sottrarre alla loro influenza gli
uomini e di rimetterli nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di
‘guarigione’, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i
peccati, come descriverà Marco nell’episodio della guarigione del paralitico
(Mc 2). Potere, che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato
all’uomo, come Dio ami gli uomini di un amore tanto grande e quale sia ‘la
verità e la grazia’ da parte di Dio a favore dell’uomo.
Ma allora
perché Gesù, di fronte al riconoscimento della sua ‘grandezza’ da parte dei
demoni, ingiunge a questi con forza di tacere? Perché gli uomini che vedevano
Gesù agire in tal modo non avrebbero potuto far tesoro di quanto i demoni
dichiaravano tanto apertamente tramite i loro ‘posseduti’? L’uomo della
sinagoga di Cafarnao dichiara: “io so chi tu sei: il santo di Dio” (Mc 1,24);
“tu sei il Figlio di Dio” (Mc 3,11) dicevano gli spiriti immondi; l’indemoniato
di Gerasa, in terra pagana: “Gesù, Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7). Le
dichiarazioni suonavano forse come un principio di tentazione per Gesù, come
quando era stato tentato nel deserto, da rifiutarle in modo così perentorio?
Nonostante le spiegazioni esegetiche che si possono addurre, la cosa risulta
misteriosa. Dopo il capitolo quinto, Marco narra ancora miracoli e guarigioni,
ma i demoni non parlano più. E sarà Gesù a subire, in un certo senso, l’attacco
dei demoni, ma proprio quell’attacco (la sua passione e morte) svelerà al mondo
intero il Suo segreto: Dio ama gli uomini a tal punto, l’amore Suo risplende a
tal punto e tocca gli uomini a tal punto da sanarne le radici, da rinnovarli
come figli di Dio, non più schiavi dei demoni, ormai vinti. La vittoria di Dio,
però, non corrisponde a quanto gli uomini si sarebbero sognati e forse per
questo Gesù, fin tanto che non ha mostrato fino in fondo quale fosse la via di
Dio, non ha voluto ‘riconoscimenti’ di sorta.
Un altro
particolare è denso di significati. Presentare Gesù come profeta, come colui
che ha autorità e potere sui demoni, allude al mistero dell’intimità tra Lui e
il Padre. Sul Tabor, al momento della trasfigurazione, la voce dalla nube
dichiara: “Questi è il Figlio mio
prediletto; ascoltatelo!” (Mc 9,7). Gesù introduce poco a poco i suoi
ascoltatori a questo suo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume e
mostra la sua potenza. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e
percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da
mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni
azione da lui compiuta, si apre l’accesso all’intimità da lui goduta. Dire che
Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni equivale
a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli
partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore.
Gb 7,1-7; Sal 146; 1Cor 9,16-23; Mc
1,29-39
Il canto
al vangelo proclama: “Le tue parole, o Signore, sono spirito e vita; tu hai
parole di vita eterna” (Gv 6,63.68). Introducono il brano evangelico di Marco
che racconta di un Gesù che guarisce, che caccia demoni e che è assillato dall’ansia
di raggiungere tutti con la sua predicazione.
Le parole
del canto al vangelo sono prese dalla bocca stessa di Gesù che, di fronte al
rifiuto della sua persona da parte di molti, pur dopo il grandioso miracolo
della moltiplicazione dei pani e la rivelazione del mistero dell’eucaristia,
ribadisce: “le mie parole sono spirito e
vita”. Anche i discepoli più stretti sono assaliti da un’atroce
perplessità, ma quando Gesù chiede loro se vogliano abbandonarlo, Pietro
risponde: “Tu hai parole di vita eterna…
noi abbiamo creduto e conosciuto…”. Se entriamo nell’ottica dei discepoli
che riconoscono al loro maestro il ‘potere’ di dare vita, di dare vita eterna,
allora il brano di Marco acquista risonanze insospettate.
Ci sono
almeno tre particolari da notare. Anzitutto, la natura dei miracoli. Dietro
l’agire di Gesù, sta un segreto da cogliere. Il miracolo delle guarigioni e la
cacciata dei demoni non sottolineano tanto l’onnipotenza, il potere divino di
Gesù, ma l’accondiscendenza di Dio, la prossimità di Dio in Gesù all’uomo. E
questa ‘dimostrazione’ è in funzione dello svelamento del segreto di Dio per
l’uomo, della rivelazione del suo immenso amore al mondo tramite il Figlio,
amore che costituisce la gioia sua e la gioia dell’uomo. Il ‘bisogno’, l’urgenza
di questa rivelazione è accentuata dal fatto che l’uomo versa in condizioni
misere, precarie, di sbandamento, di oppressione, di angoscia, di violenza. Il
brano di Giobbe lo mostra in tutta la sua drammaticità. Le malattie e
l’ingombrante presenza dei demoni presentate dal vangelo riprendono quella
drammaticità, che costituisce come lo
sfondo nero su cui si staglia la luce del Signore Gesù che raggiunge l’uomo e
lo risana dal di dentro per collocarlo di nuovo in uno spazio di luce che
genera la gioia dell’amore condiviso. Gesù è proprio il segreto di Dio per
l’uomo. Viene accennato nel battesimo dalla voce misteriosa: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi
sono compiaciuto” (Mc 1,11); ribadito dalla stessa voce sul monte della
trasfigurazione: “Questi è il Figlio mio
prediletto:ascoltatelo” (Mc 9,7); ripreso direttamente dalla viva voce,
sofferente e angosciata, di Gesù nel Getsemani: “Abbà, Padre…non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Il
secondo particolare è l’ansia di Gesù di raggiungere tutti. E’ cercato, ma si
sottrae; si è fatto conoscere a qualcuno, vuol farsi conoscere ad altri. Questo
particolare imprime una forte accelerazione di movimento a ciò che viene
raccontato. Si tratta di un doppio movimento: una tensione verso tutti, ma
anche una tensione per arrivare a Gerusalemme; una tensione per l’allargamento
della sua predicazione, ma contemporaneamente la tensione per lo svelamento del
suo segreto, in modo che appaia al mondo quanto davvero sia grande l’amore di
Dio per gli uomini in quel Figlio prediletto, compimento che risulterà in tutto
il suo splendore proprio sulla croce. Il movimento può essere colto anche da
parte dell’uomo che ascolta il racconto, che si vede invitato a scoprirsi
dentro il racconto perché quel segreto si sveli anche al suo cuore, cioè che
possa gustare, perché arrivata fino a lui, tutta l’immensità della predilezione
del Padre per il Figlio riconosciuto come tale. In quell’ansia di Gesù, nel suo
doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli,
sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.
Il terzo
particolare è l’annotazione della ricerca di solitudine da parte di Gesù per
pregare. Tre volte Marco parla di Gesù che prega: nel nostro passo, dopo il miracolo
della moltiplicazione dei pani (Mc 6,46) e nel Getsemani. Solo per la preghiera
nel Getsemani è fatto conoscere il contenuto. Nulla è detto a proposito degli
altri due momenti di preghiera di Gesù. E’ però caratteristico il fatto che
l’evangelista Marco collochi la preghiera di Gesù in rapporto alla sua ansia di
raggiungere tutti e di svelare tutto il suo segreto. La preghiera non ha forse
a che fare con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio prima
ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia
di Dio? Se gli uomini non percepissero l’eco di quel desiderio di Dio,
potrebbero mai pregare davvero? Potrebbero mai riconoscere in quel Figlio
l’Inviato di Dio e farsi raggiungere dal Suo amore tanto da essere rinnovati
totalmente? La preghiera ha sempre a che fare con l’ansia di Dio di stare in
comunione con gli uomini finché tutto il suo segreto di amore si sveli
finalmente.
Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc
1,40-45
L’evangelista
Marco riassume lo stupore della gente nell’ascoltare Gesù e nel vederlo agire
con l’annotazione: “una dottrina nuova insegnata con autorità; comanda agli
spiriti immondi”. L’autorità che gli è riconosciuta è il ‘potere’ con cui parla
e agisce, potere che si esprime nel suo cacciare i demoni. Ma i demoni sono
dichiarati essenzialmente ‘immondi’, cioè capaci di rendere immondi, impuri. Ma
immondi rispetto a che cosa? Questa è la domanda di fondo, che incomincia a
delinearsi nel racconto evangelico con la guarigione del lebbroso e che viene
ulteriormente specificata dalla successiva guarigione del paralitico, che
costituirà la lettura evangelica di domenica prossima.
Il
lebbroso aveva un terribile statuto particolare. Dice la Legge: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà
vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando:
Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà
solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46). Davanti al lebbroso
che si fa avanti e si presenta a Gesù contravvenendo alla legge, antichi codici
riportano la lezione: ‘sdegnato’, invece che la lezione ‘mosso a compassione’.
Le nostre traduzioni leggono: “Se vuoi, puoi guarirmi!”, “Lo voglio,
guarisci!”, ma letteralmente il testo suona: “Se vuoi, puoi mondarmi”, “Lo
voglio, sii mondato”. Nel caso del lebbroso, la sua malattia comportava
direttamente una ‘immondezza’ tanto da venir separato dalla comunità. Oltre il
peso sociale dell’esclusione, la lebbra comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso
alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla
vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio. Quando Gesù guarisce il
lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la
condizione interiore del malato restituendolo ad una vita ‘santa’. Proprio qui
si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di là di quella guarigione.
La vita in funzione della santità di Dio non è più definita secondo i termini
della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono
radicalmente cambiati. In quel “Lo voglio” proferito da Gesù non è da leggere
soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e schiacciato, ma
l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore
di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa risplendere in modo
nuovo l’umanità che li sostanziano. E’ come se dicesse: ‘ardo dal desiderio di
mostrarvi quanto è grande l’amore del Padre’, ‘bramo che il suo amore vi raggiunga’,
‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la sua luce’. Nel suo ‘volere’
va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli
uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era
il segno per eccellenza. Tanto che quando il
Signore Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, sono le
parole del profeta a risuonare, accorate ma tremende "non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non
splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo
dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la
faccia ..." (Is 53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il
Signore si è addossato i nostri mali da portarne tutto l'orrore, come un
lebbroso.
Se
nell’antifona d’ingresso abbiamo cantato: “Sii per me difesa, o Dio, rocca e
fortezza che mi salva, perché tu sei mio baluardo e mio rifugio”, l’immagine di
fondo presente all’anima è l’attacco che i demoni le sferrano. Ed essendo i demoni
immondi, non possono che attaccare la purità del cuore. Ma come definire la
purità? La colletta ci fa pregare: "Risanaci, o
Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci
avviliscono". Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della
malattia della lebbra. Chi ne era affetto era allontanato dal consorzio degli
uomini perché 'immondo', capace cioè di contagiare col suo male. I peccati
nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i
rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri,
separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo
il peccato è 'orribile': rende la vita paurosa e temibile.
Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio che torna
a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il Padre è
visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più
l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette
all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.
Quando il
lebbroso guarito, nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare
il bisogno di annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “cominciò a proclamare e a divulgare il fatto”.
In realtà però il testo dice semplicemente: “cominciò a proclamare e a divulgare la parola”. E’ la parola di
Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti
che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la
Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui
porta testimonianza chi annuncia.
Is 43,18-25; Sal 40; 2Cor 1,18-22; Mc
2,1-12
Non è
usuale nei vangeli che coloro i quali si appressano a Gesù per ottenere
qualcosa tacciano. Del paralitico e dei suoi portatori non si riporta alcuna
parola né prima né dopo
Nel brano
di Marco risulta fondamentale l’annotazione: “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: ‘Figliolo, ti sono
rimessi i tuoi peccati’ ”. Evidentemente l’evangelista vuole attirare
l’attenzione dell’ascoltatore oltre l’apparenza. E’ chiaro che il paralitico è
stato portato per ottenere il miracolo della guarigione e tutta la scena è
costruita sulla ‘decisione’ dei suoi amici di arrivare allo scopo, fino a
scoperchiare perfino il tetto (lascio immaginare la sorpresa e la costernazione
del proprietario della casa!) pur di far arrivare il loro protetto davanti a
Gesù. Ma Gesù non risponde subito a quell’urgenza. Ne rivela invece un’altra,
inaspettatamente, e di questa parla la fede che Gesù aveva notato. Noi però non
riusciamo più a cogliere quello che si era scatenato a partire da ciò che Gesù
aveva visto e che aveva permesso anche a lui di mostrarsi nella sua verità.
Se ci
rifacciamo alla prima lettura, al brano del capitolo 43 di Isaia, possiamo
accostarci meglio al segreto di quella scena. Il profeta descrive il Signore
nel suo amore per Israele: “…Il popolo
che io ho plasmato per me…Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me
non ricordo più i tuoi peccati”. Tutto il capitolo è attraversato dalle
manifestazioni di un affetto intenso e intramontabile di Dio per il suo popolo
(Dio dice al suo popolo: ‘sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, io ti
amo, io sono con te…’). Quell’amore si esprime proprio nel ‘cancellare’ i
peccati, nel ‘non ricordare’ le colpe. Non si vuol dire però che il suo amore è
tanto grande da dimenticare i peccati, ma che il fatto di non ricordare i
peccati è il segno che quell’amore ci raggiunge, ce ne comunica l’intensità, ci
rapisce nella sua dinamica di vita. In effetti, quando il testo parla di
‘popolo che ha plasmato’ intende ‘popolo che ha riconciliato’, popolo che
continuamente conquista al suo amore, popolo che vuol far vivere nel suo amore
e del suo amore. L’antica versione greca dei LXX traduce il passo sopra citato
enfatizzando quel significato: “Io sono,
Io sono, proprio colui che cancella le tue trasgressioni…”. Dio in se
stesso, almeno per quello che l’uomo può cogliere, è semplicemente e totalmente
il Dio che è dalla parte dell’uomo, il Dio che è a favore dell’uomo, il Dio che
ama l’uomo al punto da non stancarsi mai di volerlo far vivere proprio in e a
partire dal Suo amore. Dio non ha mai bisogno di riconciliarsi con l’uomo; è
l’uomo che va riconciliato con Dio e Dio non può avere la sua gioia se non nel
vedere l’uomo riconciliato con Lui. Questo spiega la corsa di Dio verso
l’umanità, di cui tutte le Scritture parlano. E Gesù, nel brano del paralitico
guarito, agisce proprio nell’ottica di quel ‘Dio che plasma il suo popolo’. Il
canto al vangelo lo sottolinea fortemente: “La tua parola, Signore, è verità:
consacraci nel tuo amore”, espressione tratta dalla preghiera di Gesù al Padre
nell’ultima cena: “Consacrali nella
verità. La tua parola è verità” (Gv 17,17). E’ la verità di Dio che ha
raggiunto l’uomo con il suo amore e che fa vivere l’uomo a partire e dentro
quell’amore. La lode che l’uomo tributa a Dio, dopo che è stato guarito, è la
lode per l’amore che l’ha toccato e sanato, è la lode come prosecuzione,
intensificazione e irradiamento di quell’amore che è diventato radice di vita
per sé e per il mondo. E sarà proprio Gesù, il Figlio dell’uomo, a far vedere
al mondo quell’amore di Dio che ‘plasma’ l’uomo.
Nel salmo
responsoriale, il primo versetto canta: “Beato
l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”,
che l’antica versione greca rende con: “Beato
colui che ha intelligenza del povero e del misero…”. Il
‘debole’ non è solo il fratello malato, bisognoso, che dovrà essere portato sul
lettuccio da noi fino a Gesù, ma è proprio il 'Figlio dell'uomo', che ha
sacrificato ogni potere e grandezza per invitare tutti e ciascuno alla
comunione con Lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta
pur quando è rifiutato, che non si stanca di ‘plasmare’l’uomo. E noi, se di
quell'Uomo abbiamo premura, allora la Sua presenza ci fa attraversare ogni
sventura nel senso che non c'è sventura che possa separarci da Lui e dai nostri
fratelli. Qui tende l’agire di Dio nel mondo, a
questo punta l’azione di Dio di ‘plasmare’ l’uomo in Cristo.
Os 2,16-22; Sal 102; 2Cor 3,1-6; Mc 2,18-22
Il
comportamento di Gesù, in qualche modo, inquieta sempre; non è così facilmente
omologabile. D’altro canto, non lo si può nemmeno semplicemente condannare. Il
suo agire fa trasparire qualcosa d’altro, qualcosa di più misterioso, capace di
accendere la discussione, di scombinare le convinzioni, di suscitare domande,
di interessare la sensibilità dei cuori, di aprire orizzonti insospettati. Nel
brano di oggi il pretesto del confronto con lui è desunto dalla pratica del
digiuno. Sembrava ovvio che il digiuno fosse una pratica gradita a Dio, ma lui
non induce i suoi discepoli a osservarla. Tutti vedono questo e si domandano il
perché. Come sempre, la risposta di Gesù allude al mistero della sua persona e
non verte affatto sul contenzioso legale, come se Gesù dovesse giustificarsi
davanti ai cultori della legge o dovesse pronunciarsi sul fatto che la pratica
del digiuno fosse o meno raccomandabile. E’ evidente che il digiuno sia cosa
buona. Ma allora perché lui non lo fa praticare?
Il nostro
brano è da leggere in rapporto diretto alla pericope che lo precede allorché
Gesù, dopo aver chiamato Levi il pubblicano (il futuro apostolo ed evangelista
Matteo), va a mangiare a casa sua insieme ai pubblicani, tanto da far discutere:
“Come mai egli mangia e beve in compagnia
dei pubblicani e dei peccatori?”. In quell’occasione Gesù risponde: “Non sono i sani che hanno bisogno del
medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori”.
Quando il vangelo riporta di Gesù che è ‘venuto per’ intende alludere al fatto
che è stato inviato da Dio per, che quello che sta dicendo è voluto
espressamente da Dio, che quello che va illustrando rivela il disegno di
salvezza di Dio che si compie, che in quello che va svelando si gusta l’amore
sconfinato di Dio per l’uomo. E’ poi estremamente significativo che Gesù riveli
qualcosa di sé in rapporto al Padre in un contesto di banchetto, in casa, a
tavola. Molte volte Gesù illustra i misteri del Regno a tavola, mentre si
mangia (dal primo miracolo alle nozze di Cana fino al discorso dell’Ultima
Cena); e molte volte usa l’immagine del banchetto nuziale, dello sposo che
invita al banchetto.
Gesù è lo
sposo per il quale si imbandisce il banchetto a cui tutti siamo invitati. Dire
che Gesù è lo sposo significa dire che Dio si sposa con l’umanità, e cioè che
Dio compie la sua gioia tenendosi unita a lui tutta l’umanità e che l’umanità
realizza i suoi desideri nella comunione con il suo Dio. Il fatto è così
tremendamente e potentemente reale che tutto cambia, tutto si rinnova, tutto
non può più stare come prima, la vita acquista una potenza tale da rinnovare
totalmente coloro che ne diventano portatori. Qui si innesta la discussione sul
digiuno e l’osservazione che il nuovo non può stare nel vecchio. Non però nel
senso che con Gesù il digiuno sarebbe allora abolito (poverini, i santi, povera
chiesa che ha sempre consigliato il digiuno!!!) e che il vecchio, la legge,
deve far posto al nuovo, lo Spirito. Esprimeremmo solo presunzione, non novità
di vita! Si tratta, più semplicemente e più potentemente, di far posto
all’amore di Dio che irrompe nella nostra umanità e seguirne le dinamiche, i
misteri, le rivelazioni, per realizzare appunto la nostra ‘vocazione’
all’umanità, di cui solo Dio custodisce il segreto. Ogni pratica devota tende a
godere della presenza dello Sposo e non si può godere la sua presenza che
insieme a tutti gli altri invitati.
Se
riprendiamo la lettura di Osea in questa prospettiva, riusciamo ad afferrare
tutta la portata di quella realtà. Il profeta parla di Dio che vuole attirare
la comunità del suo popolo, vuole renderla sposa sua, vuole che lei lo conosca.
I termini che usa il profeta non suonano semplicemente affettuosi come la
traduzione italiana cerca di rendere; sono termini ‘amorosi’, tipici della
relazione amorosa tra un uomo e una donna, termini che rivelano la passione e
l’intimità goduta. ‘Attirare’ va reso con ‘sedurre’; ‘parlare al cuore’ va reso
con ‘parlare sul cuore, in un rapporto di intimità’; ‘là canterà’ va reso con
‘là risponderà, là si concederà, come una donna si dà al marito’. La cosa poi
più straordinaria è data dal fatto che i termini usati si addicono al rapporto
di un uomo con una donna vergine e non con una donna che sia già stata sposata.
Questo particolare rivela la singolarità, così umanamente desiderabile, ma
tipica in assoluto solo dell’amore di Dio per l’uomo. L’amore di Dio rende
‘vergine’ chi non lo è più. Quando cancella i peccati, rende ‘nuovi’, tanto
sconfinato e potente è il suo amore. Solo Dio può fare questo e l’uomo, che
anela all’innocenza perduta quando ama, sente rinnovata la sua umanità fin
nelle radici e capisce che lo deve solo alla iniziativa di Dio. E’ il ‘nuovo’
che Gesù porta; non il nuovo che scalza il vecchio, ma il nuovo capace di far
‘nuovi’; il nuovo come dinamica di vita che scaturisce direttamente da Dio e
trasfigura, compiendola, l’umanità; il nuovo come nuova capacità di amare, in
Cristo. Lo sottolinea il canto al vangelo preso dalla lettera di Giacomo 1,18:
“Nella grandezza del suo amore il Padre
ci ha generati con una parola di verità, perché fossimo primizia delle sue
creature”.
Gn 9,8-15; Sal 24;
La prima
parola della liturgia quaresimale, l’antifona di ingresso del mercoledì delle
ceneri, canta: “Tu ami tutte le tue
creature, Signore…tu perdoni, perché sei il Signore nostro Dio” (Sap
11,23-26). L’accompagna l’invito di Paolo a tutti, per tutto il mondo, sempre e
in particolare ai credenti, all’inizio del cammino quaresimale: “lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor
5,20).
Quando
Gesù esorta i suoi discepoli a praticare le opere buone, non davanti agli
uomini, ma nel segreto, per ricercare la ricompensa presso il Padre (cfr. Mt
6,1-6.16-18), allude proprio a quel ‘segreto’ di Dio manifestato agli uomini:
non temete, non avete bisogno di tirare dalla vostra parte il Signore, perché
non ci si può fare grandi in nome suo; Lui è già tutto dalla vostra parte e se
voi vi accorgete del suo amore per voi, se voi vi lasciate inondare dal suo
dinamismo di amore per voi, il vostro cuore si sazierà e non potrà ricercare e
condividere nient’altro che quella sazietà. Se vogliamo farci grandi è perché
tutto è visto in funzione di noi stessi, divoratori di un mondo in cui
cerchiamo affannosamente l’affermazione di noi senza accorgerci che divorando
il mondo produciamo, per noi e gli altri, solo angoscia di morte. Se
l’esperienza dell’amore è così affascinante ma contemporaneamente drammatica è
perché intuiamo che l’amore costituisce la risposta al bisogno di affermazione
di sé ma che viverlo in verità comporta la rinuncia più totale a quel dinamismo
perverso dell’affermazione di sé incondizionata. L’invito alla conversione del
cammino quaresimale si colloca qui. Conversione a che cosa, a chi? Conversione
da che cosa?
La
liturgia quaresimale modula in infinite maniere il mistero della conversione.
Benché immediatamente intuibile, non sembra però così semplice da declinare in
pratica, nella vita quotidiana, quel mistero. La chiesa invita a praticare
opere buone, a fare le opere della penitenza, che tradizionalmente si esprimono
nella preghiera, nel digiuno, nell’elemosina. Ma contemporaneamente ribadisce
che “all’osservanza esteriore corrisponda un profondo rinnovamento dello
spirito”. Quanto alle opere buone bisogna come ingannare il mondo, insegna
Gesù, al di là dell’affermazione di se stessi. Digiuni? E tu mostrati più
allegro. Fai elemosina? Nessuno lo noti, neanche tu stesso. Preghi? Non ha
valore se ne valuti il prezzo. Ciò che conta è che, attraverso le opere buone,
tu possa godere della rivelazione del Padre, cioè possa fare esperienza di
quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini tanto da vivere la tua umanità
come vocazione all’amore, rinunciando a vivere nel mondo e il mondo in funzione
tua.
Quando,
come nel brano evangelico di oggi, Gesù inizia la sua predicazione e proclama:
“Convertitevi e credete al vangelo”, il significato è illustrato dalla colletta
che ci fa pregare di poter crescere nella conoscenza del mistero di Cristo. Ma
qual è il mistero di Cristo se non la rivelazione dello splendore dell’amore
del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale,
nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne
novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò
che il mondo può produrre, è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore
di Dio nell’umanità. Dio si coglie nell’umanità, l’umanità si compie aprendosi
al mistero dell’amore che viene da Dio, svelato nel Figlio dell’Uomo, vero
Figlio di Dio. Nell’umanità risplende la presenza di Dio. Le opere quaresimali sono
opere ‘penitenziali’ solo quando e se portano a liberare il cuore da ogni
intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si
esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la
presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore
dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore
dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la
preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato
dalla luce di Dio. Quando preghiamo, nell’orazione dopo la comunione: “…ci
insegni ad aver fame di Cristo”, preghiamo di venire innestati e trascinati in
quel dinamismo di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, che si è
compiuto in Cristo e che attende di compiersi nel mondo. Il senso della
testimonianza dei discepoli di Cristo nel mondo sta tutto qui. La forza di
questa testimonianza non è in funzione della grandezza delle opere ma della
potenza di quel dinamismo di amore che pacifica e rende solidali i cuori.
SECONDA DOMENICA QUARESIMA
Gn 22,1-18; Sal 115; Rm 8,31-34; Mc
9,2-10
E’ appena
iniziato il cammino quaresimale e la chiesa, seguendo la pedagogia evangelica,
già sente il bisogno di rassicurare i suoi figli, timorosa che l’asprezza del
cammino paralizzi invece che consolidare l’anima. Se l’antifona di ingresso
canta: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate
il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”, il brano evangelico oggi
ci mostra il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima, un volto
‘bellissimo’. Come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere l’oltre
della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile bellezza e
profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Eppure, nulla si svolge secondo
la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero sprofondati nella
contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i
discepoli ‘atterrati’, come scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un
Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con
la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma
il testo continua dicendo che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono
accanto a Gesù Elia e Mosè in atto di conversare con lui, ma, come specifica
l’evangelista Luca, il tema della conversazione era la morte di Gesù. Perché
questi accostamenti drammatici?
Nel
vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del
suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio
di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè
avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva
ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si
immaginassero di seguire un’altra via: “Se
qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”.
E aveva ancora aggiunto: “Vi sono alcuni
qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con
potenza”, quella ‘potenza’ che unanimemente la tradizione afferma essere
stata vista dai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, sul Tabor. Ma i discepoli
Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto
sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani. I discepoli hanno
visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo
nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma
come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto
sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze.
Perché? Quale il senso?
Credo che
la risposta vada cercata nella inevitabile dimensione drammatica dell’amore.
Troppo beatamente e irrealisticamente ci immaginiamo l’amore in termini
‘beatificanti’. E’ come un voler vivere l’amore a parte dalla vita, senza la
vita, come un sognare l’amore senza viverlo. Dio si mostra invece come un
amante così implicato nella vita da non rifuggirla mai, da assicurarcela sempre,
in totale abbondanza. Se su Gesù risiede tutta la compiacenza del Padre, come
dice la voce a sigillo della visione sul Tabor, è perché lui farà vedere
l’amore del Padre per gli uomini con tale radicalità e assolutezza da implicare
tutta la sua vita fino alla morte, morte che segnerà proprio il trionfo
dell’amore come sorgente di vita per chiunque lo riconoscerà. Il dramma nostro
invece è dato dal fatto che neppure davanti a Lui ci lasciamo convincere che
l’amore di Dio è per noi, che l’amore suo è vita vera per noi, che l’amore
diventi vita vissuta. Vorremmo che Dio con il suo amore ci beatificasse senza
dover spendere la vita in amore per tutti perché il Suo amore risplenda. Quale
stoltezza! Il cammino quaresimale, con l’invito alla conversione, punta proprio
a renderci permeabili dall’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita,
misura di vita.
Risuona
potente il grido dell’apostolo: “Se Dio è
per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio,
ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”.
Ma risuona vero nel nostro cuore? Ha fatto il nostro cuore un’esperienza così
vera della visione dell’amore del Signore Gesù da poter ritrovarsi, davanti
alle rivendicazioni che innalza nella vita, alle afflizioni che lo
attanagliano, nella stessa certezza dell’apostolo?
Quando cerchiamo di seguire Gesù mettendo in pratica le
sue parole è come se entrassimo anche noi nella stessa compiacenza che gode da
parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di
una vita che è diventata tutta amore, tanto che non si vuole altra vita se non
quella che provenga e conduca ad un amore capace di far risplendere il volto
degli uomini. Ma se si vede risplendere quella luce, allora Dio è con noi, il
mondo può risplendere della sua presenza.
Es 20,1-17; Sal 18; 1 Cor 1,22-25; Gv
2,13-25
“I miei occhi sono sempre rivolti al Signore…”
canta l’antifona di ingresso. E’ un invito al cuore a cogliere il senso della
liturgia a partire da quella prospettiva. I nostri occhi sono rivolti al
Signore per cercare in ogni evento la traccia del suo passaggio al fine di
seguirlo e poterlo conoscere; per cercare in ogni pensiero la scintilla divina
che attiri a Lui e apra uno spazio di visione del suo volto. Il fatto che i
nostri occhi siano rivolti al Signore esprime la tensione del cuore che non si
perde nelle cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i suoi
pensieri, ma li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità.
Il canto
all’alleluia “Dio ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito (amatissimo)” (cfr Gv 3,16) esprime bene il
contenuto dell’esperienza che siamo chiamati a fare. Se nelle parole o nei
comandamenti che Dio ci rivolge, noi non riusciamo a percepire la sua tensione
di amore nei nostri confronti, non riusciamo a cogliere il Dono di Sé, quel
‘suo far grazia di sé a noi’, come potremo osservarli con gioia? E se non
percepiamo che tutte le sue parole, tutti i suoi comandamenti, sono espressione
del Dono di Sé che nel Figlio Gesù il Padre ci fa, come potremo aprirci alla
sua gioia? Come potremo vivere la nostra umanità in modo che risplenda di
quell’amore divino di cui tutti i comandamenti parlano?
Nel brano
dell’Esodo, dove viene presentata la serie dei dieci comandamenti, delle dieci
‘parole’, Dio inizia il suo discorso dicendo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto,
dalla condizione di schiavitù”. Parla da dentro un legame già noto, già
riconosciuto, da dentro un’alleanza che ha già fatto conoscere al popolo
l’amore suo di benevolenza. Ed è da dentro quell’esperienza che le parole
risuonano e possono arrivare al cuore. Appena quell’esperienza si affievolisce,
le parole si stemperano e il cuore fatica a riconoscerle vere, presto le
abbandonerà. Ma se quell’esperienza si mantiene forte (e qui dovrebbe
appuntarsi tutto lo sforzo del coltivare il proprio cuore), allora avverrà
quello che celebra il salmo responsoriale: “La
legge del Signore è integra, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è
verace, rende saggio il semplice…”. Da interpretare in senso intensivo e
dinamico: Dio che è integro, rende integri; Dio che è verità, rende veritieri;
Dio che è rettitudine, rende retti. Con la conseguenza di trovare forza perché
integri, saggezza perché veritieri, gioia perché retti e in ciò partecipare
alla stessa vita di Dio.
A
quell’esperienza alludeva la costruzione del tempio. Là si poteva rinnovare
quell’esperienza. Ma Gesù, che di quell’esperienza rappresenta la testimonianza
più vivida, freme al vedere come ormai il tempio non risponda più allo scopo,
consapevole, da parte di Dio, che è venuto il tempo di indicare il ‘nuovo’
tempio, quello definitivo, non costruito dalle mani dell’uomo, dove la presenza
di Dio in mezzo al suo popolo potesse risplendere con un sigillo di radicalità
e di definitività non più passibile di cambiamenti. Gesù scaccia dal tempio
venditori e cambiavalute a sottolineare la rivelazione che di lì a poco
porterà: il nuovo tempio sarà il suo stesso corpo, dove non c’è mercato di
sorta perché nulla è richiesto all’uomo se non l’accoglienza dell’offerta del
Suo amore, sigillato dalla sua morte ‘gloriosa’, come dichiarerà l’evangelista
Giovanni. Si tratta del suo corpo in umanità, tanto che oramai, in Lui,
l’umanità sarà la sede della presenza di Dio nel mondo. Dio risplende
nell’umanità. E tutti i comandamenti sono in funzione di far risplendere quella
umanità. L’amore di Dio per l’uomo è così radicale da far rivelare la Sua gloria
solo a partire da e dentro l’umanità. Qui è racchiuso tutto il mistero
dell’amore di Dio e della salvezza dell’uomo.
In tal
senso si comprende come oramai il cuore dell’uomo sia il luogo dell’adorazione
del Dio vero, perché da lì può risplendere l’umanità. Le azioni buone
provengono dallo splendore del cuore e lo splendore del cuore proviene dal
riconoscimento dell’amore di Dio per noi. Solo così il nostro cuore non è più
luogo di mercato, dove prevalgono interessi
e contraffazioni. Solo così il cuore percepisce che i comandamenti di
Dio alludono al compimento della gioia dell’amore allorquando l’amore di Dio e
quello dell’uomo si fa comune e la gioia dei due si assomma. Sebbene tale
‘somma’ non sia poi tanto agevole da realizzarsi, per quanto desiderabile. Lo
illustra il brano di Paolo ai Corinzi dove presenta il ‘dramma’ della
conoscenza e della vita parlando di stoltezza e di debolezza, del Cristo
crocifisso, che però è potenza e sapienza di Dio. E’ il dramma dell’uomo che si
trova posto continuamente tra la fiducia e la presunzione, la fiducia nel suo
Signore e la presunzione di sé. Però, senza l’esperienza dell’amore del Signore
che si rivela al nostro cuore, sarà mai possibile abbandonare la miriade di
presunzioni e rivendicazioni che ci tormentano nella vita e che impediscono
alla nostra umanità di risplendere? Per questo dico al mio cuore: “i miei occhi sono sempre rivolti al Signore…”.
2 Cr 36,14-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv
3,14-21
Il perno
attorno a cui ruota la liturgia di oggi è ancora dato dal canto all’alleluia: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito”. La solenne affermazione è tratta dal brano del colloquio
di Gesù con Nicodemo, che proprio oggi viene proclamato. Per coglierne tutto il
valore, occorre coniugare l’espressione con l’altra affermazione categorica
dello stesso brano: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo
che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Con queste ultime parole Gesù introduce il
paragone del serpente di bronzo innalzato nel deserto da Mosé narrato nel libro
dei Numeri 21,4-9. Se teniamo conto dello sguardo della liturgia, come traspare
dalla colletta (“…concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e
generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”), allora comprendiamo come le
affermazioni sopra indicate siano porte di accesso al mistero della Pasqua.
Come il
serpente di bronzo innalzato nel deserto recava guarigione a coloro che
l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù
sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al mistero
dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo
definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. Possiamo soffermarci solo
su di un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba
essere innalzato. Questo particolare nasconde la ‘modalità’ della rivelazione
di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella rivelazione. E’ da
quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in
tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con
Lui che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché
quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?
Spesso
gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI=
Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. E’ la
gloria dell’innalzamento, la gloria che l’altezza procura. E’ la gloria di un
amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando dal basso viene
vilipeso e calpestato. E’ la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono
proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “nessuno è mai
salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. Da interpretare
oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento della
croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi
all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E
proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta
la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità
che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni
ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro
modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché
risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta
letizia allude proprio a questo mistero.
La
rivelazione dell’umanità come luogo dello splendore di Dio in questo mondo non
può che venire dall’alto. Quello che Giovanni chiama ‘dall’alto’, Paolo, nella
sua lettera agli Efesini, chiama ‘per grazia’. ‘Dall’alto’ e ‘per grazia’
rivelano il fatto che in Gesù Dio ha fatto grazia di Sé, ha fatto dono di Sé
all’uomo e in quel dono l’uomo può ritrovare la potenza della sua umanità. In
tal senso acquista particolare risonanza l’altra espressione che usa
l’evangelista Giovanni: “Chi opera la
verità viene alla luce”. Operare la verità è un’espressione semita che si
riferisce al fatto di mettere in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura
essenziale di significato risulta ormai questa: i comandamenti non sono causa
di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie,
la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci
aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che
costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio
risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare
senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo
splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare
da ingiustizie o malvagità. Ma dovrà avere lo sguardo fisso su Colui che di
quell’amore, ferito e appassionato, è il testimone per eccellenza, in umanità.
QUINTA DOMENICA
QUARESIMA
Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv
12,20-33
Nella narrazione del vangelo di Giovanni il brano evangelico di oggi è situato
nell'ultima settimana di vita di Gesù. Gesù era appena entrato trionfante in
Gerusalemme, la notizia della risurrezione di Lazzaro correva sulla bocca di
tutti e tutti accorrevano per vedere l'uno e l'altro. Era prossima la festa di
pasqua. Si trovavano a Gerusalemme ebrei e 'greci', cioè pagani simpatizzanti,
vicini alla religione ebraica, venuti per partecipare al pellegrinaggio
pasquale, desiderosi di adorare il vero Dio. La loro richiesta: "vogliamo
vedere Gesù", introduce l'ora del Figlio dell'uomo. Tutti, ebrei e pagani,
ora, potranno 'vedere' la salvezza, potranno entrare in quella nuova,
definitiva, alleanza di Dio con gli uomini annunciata fin dalla fondazione del
mondo con l'immagine dell'Agnello immolato. Vedere Gesù vuol dire vedere il
Salvatore, vedere il Dio che salva, vedere il Regno di Dio venire con potenza,
vedere lo splendore dell'amore di Dio che tutto intride e porta a compimento.
Quando Gesù, commentando la richiesta dei pagani di vederlo, annuncia la sua
ora arrivata, parla della sua morte come della sua gloria e rivela la comunanza
di destino con i suoi discepoli: "dove sono io, là sarà anche il mio
servo". Non vuol dire semplicemente: io soffro, anche voi soffrirete; io
sono ripudiato dal mondo, anche voi lo sarete; io muoio sulla croce, anche voi
avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono nell'amore del Padre, anche voi
lo sarete; io sono il testimone del suo amore in questo mondo, anche voi lo
sarete; io risplendo della gloria dell'amore del Padre, anche voi risplenderete
dello stesso amore; e tanto più quanto più sopporto l'ingiustizia e la violenza
senza venir meno alla potenza dell'amore, come anche voi; per questo amore, per
la rivelazione di questo amore, perché questo amore porti vita a tutti sono
venuto al mondo e così sarà di voi, se state con me. E dicendo 'quando
sarò elevato da terra, attirerò tutti a me', allude evidentemente alla sua
morte in croce, ma anche al destino dei suoi discepoli perché anche per loro
varrà la stessa dinamica di salvezza: quando saranno 'elevati' con il loro
Signore crocifisso, quando cioè subiranno il martirio per Lui, sotto qualsiasi
forma avvenga, allora risplenderà la loro vita, allora gli uomini capiranno
cosa i loro cuori portavano dentro e si sentiranno attratti dal loro stesso
amore.
Come accedere allora a questa
'visione' di Gesù? Come vederlo Salvatore? Ce lo rivela il profeta Geremia:
"Questa sarà
l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il
Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora
io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni
gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal
più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro
iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. 'Tutti lo
conosceranno' .... 'perché io perdonerò la loro iniquità' : ecco i due passaggi
nevralgici. Quel 'perché' dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo
conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati
solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro
essere peccatori, più profonda sarà l'esperienza del perdono e più rigenerante
l'incontro con il Signore, finalmente 'conosciuto' nel suo amore per noi. E per
non cadere nell'illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la
coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte
all'ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se
davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci
offenderemo, non resteremo contrariati od oppressi o intristiti, perché non
vogliamo perdere l'esperienza di quell'amore di perdono che costituisce il vero
tesoro di vita del nostro cuore. Allora l'alleanza conclusa da Dio con noi è
scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo 'innalzati' con il nostro
Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i
nostri fratelli.
Vangelo dell'ingresso a Gerusalemme:
Mc 11,1-10
Is 50,4-7; Sal21; Fil 2,6-11; Mc 14,1
- 15,47
La
liturgia della domenica delle palme si compone di due momenti ben distinti: con
la processione accompagniamo festosi l'ingresso di Gesù in Gerusalemme e con la
lettura solenne della passione del Signore entriamo, commossi, nel mistero
dell'Ora del Figlio dell'uomo, 'dato per noi'.
Due diversi ritornelli scandiscono i due momenti:
1) 'Benedetto
colui che viene nel nome del Signore ...'
2) 'Per noi Cristo si è fatto obbediente
fino alla morte e alla morte di croce'.
L'acclamazione
della folla che accompagna la discesa trionfante di Gesù a Gerusalemme è la
stessa che ogni giorno cantiamo nel Sanctus della Messa. Dopo esserci uniti al
canto degli angeli secondo le parole del profeta Isaia 6,3 : "Santo, santo, santo il Signore Dio
dell'universo ...", aggiungiamo le nostre voci a quelle di tutti
coloro che dall'ingresso di Gesù in Gerusalemme riconoscono e benedicono in
Colui che viene (nella celebrazione eucaristica, sotto il segno del pane e del
vino) il Figlio di Davide, il compimento di tutte le promesse, il 'Dio con noi'
finalmente svelato nel suo Volto. Durante la processione viene cantato il salmo
23: " ... alzatevi,
porte antiche ed entri il re della gloria. Chi è questo re della gloria? Il
Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia". Il
nostro re della gloria è il Signore crocifisso, quello sopra il cui capo, come
si può notare in molte raffigurazioni antiche del Crocifisso, viene riportato
non l'iscrizione di condanna I.N.R.I, ma il titolo 're della gloria'. La forza
e potenza di questo re della gloria stanno tutte nello sconfinato amore per
noi, rivelazione dell'amore del Padre per i suoi figli, amore che non teme la
battaglia contro il principe di questo mondo perché sa che è proprio da questa
battaglia che risulterà in tutto il suo splendore l'amore di Dio per l'uomo che
tutto redime e salva. Alzino allora i nostri cuori le loro porte, lascino
entrare questo re della gloria, il 'loro' re della gloria!
Ciò che
colpisce è la solitudine di Gesù nel quale si concentra tutto il mistero nel
suo peso e nel suo splendore. Questa solitudine comincia con l'ingresso
trionfale in Gerusalemme. Gesù aveva da poco resuscitato Lazzaro; il prodigio
aveva suscitato l'entusiasmo della gente e l'illusione di vedere finalmente
realizzati i propri sogni messianici. Nessuno si accorge però di quello che in
realtà sta avvenendo. L'evangelista lo fa rimarcare, ma come da fuori campo: la
risurrezione di Lazzaro ha scatenato gli eventi della passione di Gesù, alla
quale volontariamente si consegna. Di ciò Gesù è consapevole, ma Lui solo. E la
liturgia, mentre commemora gli eventi della passione del Signore, ci invita ad
accompagnarlo, suggerendoci le porte di accesso per la loro comprensione.
E' singolare che nel rito ambrosiano la liturgia della
domenica delle Palme comporti due celebrazioni distinte: la messa dell'ingresso
trionfale e la messa del giorno con il brano del servo sofferente di Isaia ed
il vangelo dell'unzione a Betania di Maria. A Betania l'ammirazione per Gesù
domina la scena; nessuno si avvede ancora di ciò che si va preparando. Soltanto
una donna, nella tenerezza del suo amore, intuisce il mistero di Gesù. Spezzare
quel vasetto di unguento assai prezioso (se la stima di Giuda è realistica, il
costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio), ungere
i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in quella casa
senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua
solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad
accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime, tutto
l'amore che quel corpo 'dato per noi' significa ed esprime.
I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su
Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna
tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti
estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s.
Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama 'profumo di Cristo', allude
proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può chiamare
il pentimento per i nostri peccati - e che, riversandosi sul mondo, lo potrà
conquistare perché tutto ormai parla dell'amore di Dio.
La
liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione,
alla compagnia, amorosa e partecipante, con l'uomo dei dolori, con l'uomo
umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo
Quando la
colletta ci propone Gesù come modello intende sì porci davanti agli occhi il
Gesù fatto uomo e umiliato, e fino a che punto umiliato!, ma non per suggerirci
un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché se vogliamo
realizzare la nostra vocazione all’umanità, se vogliamo vivere la nostra
umanità in tutta l’estensione della sua potenzialità, non possiamo non rifarci
a Lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele
in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini,
dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui,
sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per
lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua
bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha
tremendamente ed urgentemente bisogno.
PASQUA DI RISURREZIONE
La settimana
santa veniva introdotta dalla colletta: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità
sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione
del tuo unico Figlio”, perché “tu solo hai compassione di noi peccatori”. Una
compassione che si è fatta evidenza per il cuore, nella celebrazione dei riti
del triduo sacro, quando abbiamo rimirato ‘colui che abbiamo trafitto’, quando
è diventato evidente anche sensibilmente che “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi”
(Rm 8,32).
Il
racconto della passione nel vangelo di Giovanni inizia con una mirabile
espressione: “dopo aver amato i suoi che
erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Non vuol dire
l’evangelista semplicemente che Gesù ci ha amati fino alla fine della sua vita,
ma fino a che lo scopo per cui egli era venuto, mandato dal Padre, si fosse
rivelato in tutta la sua potenza e in tutto il suo splendore, fino a che
l’amore di Dio per l’uomo si fosse rivelato in tutto il suo splendore. Così
l’accento non è posto tanto sulla prova di coraggio e di dedizione di cui Gesù
ci ha dato testimonianza, ma sull’incommensurabile amore di Dio che finalmente
conquista i cuori alla vita tramite Gesù. L’antifona di ingresso del mercoledì
santo è particolarmente illuminante. Riprendendo il passo di Fil 2,8-11, lo
assembla in questo modo: “…Gesù si è
fatto obbediente fino alla morte, alla morte di croce: per questo Gesù Cristo è
il Signore, a gloria di Dio Padre”.
Gesù è Signore perché si è fatto obbediente fino a morire in croce. Gesù
è stato esaudito dal Padre perché ha fatto risplendere il suo amore senza
limiti per gli uomini. Beato allora colui che in quell'uomo sofferente, di cui
i riti della settimana santa commemorano la passione gloriosa, vede il Figlio
di Dio, il Testimone dell'amore del Padre. Beato colui che lo scandalo della
croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini. Beato colui
che ha l'intelligenza spirituale allenata e vivida per cogliere nella passione
gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di Dio per gli uomini e la dinamica di
vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito. Perché la
sofferenza, perché la morte? Perché tutto quel dolore in Lui e tutta quella
ostinazione in noi a non voler vedere? Quella sofferenza e quella morte ci
appartengono, come ci appartengono l'ostinazione e la durezza di cuore,
l'ingiustizia e il tradimento. Gli eventi narrati e celebrati segnano la nostra
storia perché ne rivelano il senso e soprattutto perché mostrano le dinamiche
di vita che toccano le radici del nostro cuore.
L’esultanza
del giorno della risurrezione è tanto più potente quanto più l’obbedienza
all’amore è totale. Come a dire: vivere nel Signore risorto ormai significa
vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi
radice di vita, criterio di discernimento del bene, scopo supremo dell'essere e
dell'agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua
'potenza' preferendo la debolezza. (cfr Fil 2,8 ). Ma questa debolezza di Dio
non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche il desiderio
profondo dell'uomo, il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua
umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua
umanità, non può non guardare a questa 'debolezza' di Dio. Tutto ciò che è
fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma
sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà
rabbia e non riposo.
Tutto è assoggettato a questa divina debolezza, a
questa divina povertà. Non si trova vita al di fuori di essa. Beato colui che
ne ha compreso il mistero. Cadano le illusioni, anche il nostro cuore sia
toccato profondamente da questa rivelazione della debolezza di Dio e riceva vita,
quella vera che non perisce mai. E la gioia non si allontanerà dalle radici del
nostro cuore. Il Signore è risorto; è davvero risorto!
At 4,32-35; 1 Gv 5,1-6; Gv 20,19-31
Per tutta l’ottava di Pasqua il
canto al vangelo ci ha proclamato: “Questo è il giorno fatto dal Signore:
rallegriamoci ed esultiamo”. Cambia la percezione del tempo. Con la
risurrezione di Gesù la nostra storia si dilata nella storia di Dio, il
Vivente. Dire che ‘questo è il giorno del Signore’ non vuol significare
soltanto che l’oggi della risurrezione non poteva che essere creato da Dio, ma
soprattutto che quel giorno sovrasta e ingloba tutti i giorni dell’uomo, che
tutti i nostri giorni procedono e fioriscono in quell’unico giorno eterno che
non verrà
La colletta della messa di oggi
prega perché Dio ‘accresca in noi la grazia che ci ha dato’ con l’avvenimento
della risurrezione di Gesù. Qual è questa grazia? E’ la grazia della
rivelazione dell’immenso amore del Signore per noi che a tal punto ci ha amati
da morire per noi e farci condividere la sua stessa vita, la vita di Colui che
è proclamato ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non ha più potere. Non si
tratta di una semplice affermazione dogmatica che riguarda la natura della
persona di Gesù, ma dello svelamento di una possibilità di ‘vita divina’
concessa all’uomo che, guardando a ‘Colui che è stato trafitto’, lo riconosce suo
Signore e suo Dio, come Tommaso, in totale confidenza.
Se Luca descrive la prima comunità
cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne
rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto,
che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è
Quella
vita scaturisce dalla beatitudine che Gesù rivela a Tommaso: “beati quelli che pur non avendo visto
crederanno”. Non penso che Gesù voglia dire che si deve credere e basta,
senza vedere, quasi che fosse riservato un premio speciale alla fede. E’ tipico
invece della fede aprire gli occhi alla visione. Solo che la visione non
precede, non può servire di giustificazione alla fede. Sarà la fede a
introdurre alla visione. Quando Tommaso protesta la sua
incredulità non è per mancanza di fede, ma perché si è trovato così coinvolto
nella vicenda di Gesù, al quale aveva aderito con tutto il cuore (Tommaso non è
un pavido, un insicuro; le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di
Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con
Gesù) che non vuole illudersi. Il suo dubbio procede da un cuore che ha
preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice
di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi,
di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora
riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne
professione di fede del vangelo di Giovanni. In
quel 'mio' c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua esperienza di Lui, anche
se non ne capiva il parlare e non poteva accettare i suoi propositi di andare
incontro alla morte, ma di cui condivideva la strada; in quel 'Signore e Dio',
c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore. E con quella professione di fede
gli è scesa in cuore quella 'pace' che Gesù aveva dato agli apostoli comparendo
davanti a loro. Nella vicenda terrena di Gesù, la pace sigilla l'inizio e la
fine, rivelazione e dono del Dio misericordioso verso gli uomini. Al presepio
di Betlemme gli angeli annunciano la pace; nel discorso all'ultima cena, Gesù
promette la sua pace; dopo
TERZA DOMENICA DI
PASQUA
At 3,13-19; Sal 4; 1 Gv 2,1-5; Lc
24,35-48
I
racconti della risurrezione non mirano soltanto a mostrare la verità della
risurrezione di Gesù, verità che non apparteneva all’orizzonte mentale dei
discepoli, ma anche ad aprire l’intelligenza delle Scritture, che con la
risurrezione di Gesù acquista tutt’altra densità e definitività.
Il canto
al vangelo di questa domenica esprime bene la condizione interiore che prelude
al riconoscimento del Risorto sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù,
facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cfr. Lc
24, 32). E’ la confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver
riconosciuto il Risorto nello spezzare il pane mentre era a tavola con loro, si
commentano a vicenda l’accaduto e si confidano i sentimenti profondi del cuore.
Quando, nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con
bontà, o Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e
guidalo alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare
professione di fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel
Credo, ma più specificamente allude alla possibilità di partecipare alla
potenza della risurrezione, denominata ‘gloria’, fin da quaggiù, imparando a
riconoscere il Risorto, a vivere in sua compagnia (“Ecco, io sono con voi tutti
i giorni, fino alla fine del mondo”, Mt 28,20), ad assimilare lo stesso
principio di vita che ha guidato Gesù, testimone dell’amore del Padre agli
uomini, contro il quale la morte non può nulla. La bontà di Dio nei confronti
degli uomini ha che fare essenzialmente con il dono della partecipazione alla
potenza della risurrezione, in Gesù, morto e Risorto, ormai il Vivente, capace
di dare la vita non più soggetta alla morte. Pregare il Signore che ci guidi a
quella partecipazione significa che il percorso non è scontato e soprattutto
che non è percorribile da soli, sulla base delle proprie intuizioni e forze.
E’ qui
che si innesta la questione dell’intelligenza delle Scritture e della
conversione, come accesso alla potenza della risurrezione. Ce lo richiama
l’apostolo Pietro nel suo discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del
paralitico alla porta Bella del tempio, come riportato nella prima lettura. Il
punto essenziale del suo discorso non è costituito dal fatto di ricordare che
il miracolo è avvenuto nel nome di Gesù risorto, di cui lui e gli altri
apostoli sono testimoni, ma nel fatto di legare il pentimento e la conversione
al riconoscimento dell’agire di Dio in quell’Uomo che è stato rinnegato,
condannato, messo a morte e ora glorificato. Nel riconoscere che Gesù è stato
condannato e messo a morte c’è tutta l’ammissione di colpevolezza nei confronti
di Dio di cui si è disprezzato l’amore e perciò il cuore si addolora
profondamente (risuona allora con tutt’altro significato il versetto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno
trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi al riconoscimento che l’amore di Dio è
davvero grande e poter dire, davanti al ‘crocifisso’: questi è davvero il re
della gloria, il testimone dello splendore dell’amore di Dio che salva e nella
cui energia anche noi possiamo ora vivere. A questo punto la rivelazione del
Risorto ci partecipa la potenza della sua risurrezione. In effetti, è guardando
con dolore e tenerezza a Colui che è stato trafitto che possiamo specchiarci e
ritrovare la nostra verità: di uomini peccatori, che non hanno voluto tener in
conto l’alleanza di Dio, che hanno disprezzato il suo amore e
contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente vedono l’amore di Dio
riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di esistenza.
In funzione
di tale intima percezione, per provocarla e per convalidarla, la chiesa legge
le Scritture, le proclama in tutte le sue liturgie, le vive come guida alla
partecipazione della potenza della risurrezione. E’ assolutamente significativo
che solo di Gesù Risorto si dica che “allora
aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45), quando
tutto ciò che lo riguardava fu portato a compimento. Prima le Scritture non
potevano essere totalmente aperte. E anche ora, benché in Lui siano aperte, in
qualche modo restano pur sempre velate perché ancora non sono compiute tutte le
cose riguardo al Corpo di Cristo, capo e membra insieme. Mancano ancora le
‘sofferenze’ di coloro che nel suo nome testimoniano l’amore di Dio agli uomini
e quindi manca ancora qualcosa all’irraggiamento dello splendore dell’amore di
Dio sugli uomini e perciò manca ancora qualcosa all’intelligenza delle
Scritture, che di quell’amore sono
Un ultimo
particolare. Gesù, per mostrare la veridicità del suo corpo glorioso, mangia
perfino una porzione di pesce arrostito davanti ai discepoli esterrefatti. Il
corpo glorioso ingloba nella sua dimensione ciò di per sé appartiene ad
un’altra. Il cibo terreno non porta alla dimensione terrena il corpo che lo
assume in uno stato di gloria. Pur fatte le debite distinzioni, questo è
appunto il mistero dell’eucaristia. Quando l’uomo mangia il pane eucaristico,
non è lui a inglobare il corpo di Cristo, ma è il Corpo di Cristo che assimila
l’uomo che lo mangia. E’ il Vivente che assume in Lui noi vivi, ma ancora
corruttibili, fino a portarci alla sua dimensione, fino a farci vivere dello
splendore di quell’amore che viene da Dio che non devia più dal suo scopo,
quello cioè di attrarre tutti e tutto in esso.
QUARTA DOMENICA
DI PASQUA
At 4,8-12; Sal 117; 1 Gv 3,1-2; Gv
10,11-18
In questo
periodo liturgico pasquale, la chiesa continua a meditare sulla realtà del
risorto come il Vivente, come Colui che, essendo venuto perché abbiamo la vita e
l’abbiamo in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci fa vivere della sua stessa vita.
L’immagine del buon pastore ci dice proprio questo. Ma, come sempre, la parola
di Dio è assai più densa di significati, più misteriosa di quanto possa
sembrare a prima vista.
Gesù si
presenta come il buon pastore e fa consistere la sua ‘bontà’ nel fatto che ha
dato la vita, seguendo il comando del Padre, che per questo lo ama. Sembra
questa la concatenazione logica dei pensieri. Ma la realtà è più misteriosa. Il
comando del Padre sembra riguardi non tanto il fatto di dare la vita, ma di
poterla dare e di poterla riprendere di nuovo. Cosa significa? Sul dare la vita
non è detto semplicemente che dà la vita, ma che dà la sua anima, la sua
persona, se stesso e non semplicemente che la dà a qualcuno, ma per qualcuno.
Gesù unisce strettamente le due dinamiche del conoscere e dell’amare nel fatto
di dare
L’amore
del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui
riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello
stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue
pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore
del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione
che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore
possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la
bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la
vita, solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo
perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. Non solo, ma che per noi
uomini l’esperienza dell’amore risulta possibile a condizione di percepirlo
come dono di vita, vita di Dio per noi e vita di noi per il prossimo. Gesù è
Colui che dal punto di vista di Dio ci rivela qual è la dinamica dell’amore e
dal punto di vista dell’uomo ne svela la profondità e
Quando dice che può dare la vita e riprenderla e che
questo è il comando del Padre suo allude al fatto che dà se stesso senza
arrogarsi nessun altro diritto che non sia quello di testimoniare l’amore del
Padre agli uomini e così la vita che vive è vita eterna, perennemente vitale,
capace di attraversare ogni movimento di morte. E questo corrisponde al volere
di Dio per l’uomo, che è chiamato ‘comando’. Quando in effetti la riprende, con
la sua risurrezione, è per darla a tutti coloro che in lui vedono il mistero
della fedeltà di Dio all’uomo, è per far prevalere il volere del Padre che
vuole la vita per gli uomini. E perciò noi possiamo avere la vita in
abbondanza, cioè la vita secondo quella stessa dinamica di amore di Colui che
ce l’ha data. Vale lo stesso effetto anche per noi: per accrescere la vita,
occorre darla. Non semplicemente darla a qualcuno, ma darla perché l’amore di
Dio per gli uomini torni a risplendere e l’opera di Dio in Gesù si faccia
sperimentabile e abbordabile per l’umanità, nostra e degli altri.
Naturalmente,
l’accento della liturgia di oggi non è posto su quello che potremmo chiamare la
nostra ‘responsabilità’ di discepoli del Signore, ma sulla stessa opera di Dio
che in Gesù e tramite Gesù ci viene incontro, ci ingloba, si fa afferrabile,
dandoci la possibilità di toccare il suo mistero e il mistero dell’uomo. Non
esiste accrescimento automatico della vita. Solo l’accoglienza del dono della
vita (=il far grazia di sé) accresce la vita perché ci dà coscienza della relazione
che ci costituisce e ci struttura, relazione che è principio della nostra
gioia, gioia che nessuno ci può rapire (cfr Gv 16,24). Così l’anima può
cantare: “Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua
misericordia” (sal 117,1).
At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv
15,1-8
La vite è
l’immagine di riferimento del capitolo 15 di Giovanni, brano che viene letto
oggi e domenica prossima. Le parole di Gesù sono tratte dal suo lungo discorso
all’ultima cena. Aveva appena lavato i piedi agli apostoli, aveva rivelato loro
l’imminente tradimento, aveva conversato sulla rivelazione del Padre e
sull’invio dello Spirito Consolatore. Con l’immagine della vite mostra agli
apostoli la profondità del legame che li unisce e offre una chiave di lettura
del mistero della vita sua e della sua persona, indicando contemporaneamente a
quale ‘dignità’ di vita chiama i suoi discepoli.
Due
elementi strutturano tutto il capitolo: il tono confidenziale con cui Gesù
parla e la particella ‘come’ che ritorna più volte nel discorso a sottolineare
la dimensione di una radice dall’alto, la natura di un mistero che,
immensamente più grande di noi, ci ingloba però nella sua realtà. Lasciamo
l’analisi della particella ‘come’ alla prossima domenica, perché appartiene al
testo che segue il brano di oggi.
Le parole
di Gesù attorno all’immagine della vite (lui è la vite, noi i tralci…) non sono
una semplice esortazione, quasi Gesù ci supplicasse, nel suo amore per noi e
consapevole delle prove che si abbatteranno sui suoi, a restare uniti a lui.
Sono una confidenza, la comunicazione di un segreto che i discepoli
comprenderanno nel suo significato e nella sua portata solo più tardi, ma di
cui incominciano a percepire di essere i fruitori proprio dal tono,
estremamente confidenziale, con cui Gesù parla loro. Loro sono i destinatari di
un’offerta incredibile, di una ‘gratuità d’amore’ assolutamente immeritata. In
quella offerta si riassume tutta l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele,
tutta la rivelazione di Dio all’uomo, tutta la verità della salvezza che il
Signore guadagna al suo popolo. Con quanta fatica, purtroppo, nelle parole
della Scrittura, riusciamo a percepire la persona e il cuore che le pronunciano
e l’amore con cui le pronunciano.
In quel
tono, le parole di Gesù acquistano ben altre sfumature. Parla anzitutto di
potatura, un’operazione del tutto naturale per un viticultore perché la vite
faccia frutti abbondanti. Riferita ale persone, che cos’è una potatura? In
greco, potare, purificare, essere puro o mondo, sono significati che si
rapportano ad una stessa radice. Illuminante la spiegazione di Gesù: “Voi siete già mondi, per la parola che vi ho
annunziato”. E’ la parola di Gesù che ha il potere di rendere puri. Che
significa? Accogliere la parola di Gesù significa accogliere la rivelazione del
mistero della sua persona, manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo che lo
vuole in comunione con sé perché possa vivere in verità la sua vocazione
all’umanità. Gli apostoli incominciano a comprendere che in Gesù sta il segreto
di Dio per l’uomo e, nello stesso tempo, il segreto del loro cuore che anela a
Dio. Il segreto di Dio ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo. In
effetti, parlando della vite, della potatura della vite, il discorso cade
evidentemente sul frutto che la vite dà nei tralci che da lei prendono vigore.
Ma qual è il frutto? Si vedrà meglio nel seguito del brano che verrà letto
domenica prossima, ma già si intravede da oggi. Il frutto è che il Padre sia
glorificato, cioè che l’amore tra gli uomini risplenda a tal punto da rivelarlo
Padre di tutti. Gesù è Colui che rivela il mistero di Dio in tutta la sua
bellezza per l’amore agli uomini che lo divora, fedele in questo all’amore del
Padre fino alla fine sia all’amore del Padre che in Lui aveva posto tutto il
suo compiacimento e all’amore per il Padre nella fedeltà alla sua volontà di
benevolenza per gli uomini. Partecipare a tutta la bellezza di quell’amore
significa ‘dimorare’ in Gesù, come l’immagine della vite sottolinea. E si
dimora quando non si attingono altrove motivazioni di vita e di azione, in
nessuna circostanza.
Il portar frutto allude anche alla comprensione,
all’intelligenza delle Scritture che vengono colte nella loro capacità di
rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per
l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che
fare con la vocazione dell’uomo, come sopra dicevo. E il frutto per l’uomo sta
proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto
comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità,
ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti comunica
un’esperienza, che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura,
data la sua radice dall’alto, di indirizzarsi a tutti, di condividerla a tutti.
At 10,25-48; Sal 97; 1 Gv 4,7-10; Gv
15,9-17
La realtà
che Gesù aveva illustrato con l’immagine della vite e dei tralci (brano della
domenica scorsa) ora la descrive direttamente. Tutto il discorso però si
impernia su di un’unica particella, sul ‘come’, assolutamente determinante per
cogliere il senso delle sue parole. Quel ‘come’ introduce al mistero della sua
rivelazione, della condivisione del segreto di cui mette a parte i discepoli.
Per il nostro discorso quotidiano, le frasi di Gesù suonano piuttosto strane.
Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa ciò che gli comanda
l’altro oppure unire l’amare al fatto di essere comandati, senza aggiungere che
le concatenazioni (servo-amico-scelta-frutto-preghiera) che Gesù usa non sono
immediatamente comprensibili. In questo intensissimo brano, come del resto in
molti altri testi evangelici, si aprono continuamente nuovi livelli di
comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La
complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale
da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per
accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.
Gesù
intesse il suo discorso su tre ‘come’: “Come il Padre ha amato me… come io ho osservato i comandamenti del Padre
mio… come io vi ho amati” (vv. 9,10,12). Sgombriamo subito il campo da un
equivoco. Il ‘come’ non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui
come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui
nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime
uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Il
‘come’ allude sempre a una rivelazione dall’alto, ad una offerta di alleanza da
parte di Dio all’uomo, ad una partecipazione al suo stesso dinamismo. “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho
amato voi”. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la
compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla
trasfigurazione) io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare
sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura
dall’eternità e lungo tutta
Si può
procedere ancora oltre. L’aspetto di rivelazione delle parole di Gesù è da
cogliere nel fatto che tale dinamica di amore di cui Gesù ci fa partecipi
corrisponde all’intima struttura del cuore dell’uomo. Un uomo siffatto è un
‘vero’ uomo nel senso che vive secondo la vocazione all’umanità che il nostro
essere uomini comporta. Per questo Gesù potrà dire che la gioia che tale
dinamica ottiene non potrà essere rapita da nessuno perché si situa ad un
livello di profondità dove nessuno ha accesso, nemmeno i demoni e costituisce
l’eredità della vita. E l’uomo scoprirà che le radici di quella gioia
appartengono a Dio, di cui condividerà i sentimenti.
At 1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20
Il
mistero dell’ascensione è presentato dalle Scritture e dalla liturgia in due
registri: un registro dogmatico, secondo l’enunciato della fede e un registro
narrativo, secondo i ricordi degli apostoli. Il ‘fatto’ dell’ascensione di
Gesù, vale a dire della sua sparizione agli occhi degli apostoli mentre sale al
cielo è narrato dalla prima lettura, secondo il resoconto che l’evangelista
Luca presenta nel primo capitolo degli Atti; l’enunciato dogmatico, vale a dire
che Gesù fu assunto in cielo e ora siede alla destra del Padre, lo troviamo nel
vangelo di Marco. I due registri vanno tenuti insieme.
La gioia
della colletta: “Esulti di santa gioia
Procediamo con ordine. Consideriamo prima il fatto.
Gesù si sottrae alla vista dei discepoli. Non potrà più essere visto da loro.
Due i particolari strani nei racconti: primo, l’intervento degli uomini in
bianche vesti, la cui funzione è di sottolineare che non serve stare con il
naso per aria, con lo sguardo perso verso il cielo e che il cielo non è più in
alto ma là dove è Gesù, cioè con i suoi discepoli, in terra, lungo la storia
fino a che si realizzi definitivamente il suo Regno, il regno del Padre;
secondo, l’annotazione della grande gioia, che contrasta con il fatto che ormai
i discepoli non vedranno più il loro Maestro. Ciò significa che l’evento nella
percezione degli apostoli è colto come un dono di presenza, come
un’interiorizzazione di rapporto che non solo non perde nulla della sua realtà
con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista una profondità e
intensità insospettate. Se potessi riassumere con mie parole la sensazione
degli apostoli direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia
assolutamente dinamica, una gioia capace di allargare i confini del cuore e le
energie corrispondenti in maniera illimitata. L’ascensione di Gesù è posta
perciò in rapporto diretto con la missione degli apostoli e con la predicazione
del vangelo al mondo quanto all’agire, e con l’esperienza della presenza
‘potente’ di Gesù con loro quanto all’essere. Anche il comando di Gesù,
proclamato nel canto al vangelo e ripreso da Matteo (“Andate e ammaestrate tutte le nazioni. Ecco: io sono con voi tutti i
giorni, fino alla fine del mondo”) acquista una particolarissima sfumatura.
Gli apostoli sono invitati non semplicemente a istruire, ad ammaestrare, ma più
propriamente a far sì che tutti possano riconoscere e accogliere con amore lo
stesso Maestro, perché anche in loro si faccia sentire quella gioia e possano
godere della sua presenza potente (ammaestrare, in greco, allude al fatto di
essere trovati discepoli).
Nel racconto di Luca Gesù che sale a cielo è visto
nell’atteggiamento benedicente, come a dire che ormai la benedizione di Dio
sull’umanità è proprio Lui e ognuno è chiamato a godere sotto quella
benedizione. Lo ricorda Pietro nel suo discorso dopo Pentecoste: “Voi siete i
figli dei profeti e dell' alleanza che Dio stabilì con i vostri padri, quando
disse ad Abramo: Nella tua discendenza
saranno benedette tutte le famiglie della terra. Dio, dopo aver
risuscitato il suo servo, l' ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la
benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità” (At 3,25-26). E lo riprende anche l’autore della
lettera agli Ebrei: “Perciò può salvare
perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli
sempre vivo per intercedere a loro favore”.
Proprio qui si innesta l’enunciato
di fede: Gesù è alla destra del Padre, cioè nell’atteggiamento di Colui al
quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra per ottenerci
Mi
piace sottolineare un altro particolare. Nella presentazione del mistero
dell’ascensione in Marco, quello che colpisce è una specie di forza dinamica
che muove tutto, il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo, come anche
il desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto
solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di
Dio. Così, quella presenza ‘potente’ di Gesù con i suoi non va vista in funzione della capacità di
fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel passo
precedente, ma in funzione ‘predicante’, vale a dire nella sua capacità di
riempire il cuore che parla a tutti della Sua presenza viva senza che il mondo
lo soffochi o lo distolga. E l’anima di questa potenza è lo stesso desiderio di
salvezza degli uomini da parte di Dio che si comunica ai cuori e che attraversa
instancabilmente il mondo. Allora la gioia dell’ascensione è colta in tutta la
sua estensione.
At 2,1-11; sal 103; Gal 5,16-25; Gv
15,26.27; 16,12-15
Nella settimana che precede la festa, la chiesa ha fatto pregare: “Venga su di
noi, o Padre la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua
volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o
Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi
un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà”
(colletta giovedì).
L’invocazione allo Spirito Santo è finalizzata all’adesione alla volontà di
Dio. Perché e cosa significa questo? Ce lo rivela Gesù nel vangelo: lo Spirito
“vi guiderà alla verità tutta intera… dirà tutto ciò che avrà udito”. Lo
Spirito, ottenutoci dalla passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il
colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo,
il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per
gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà
partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di
Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto ‘evidente’, a noi accessibile, per la
fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici,
perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv
15,15).
Delle due immagini caratteristiche della Pentecoste, le lingue che compaiono
sul capo degli apostoli e il fuoco di cui si prega “Vieni, santo Spirito,
riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il
fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto
capace di far ardere il cuore. Collegare l’invio dello Spirito alla volontà di
Dio significa far percepire che quella volontà è essenzialmente una volontà di
bene per l’uomo, significa ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità
del fuoco dell’amore di Dio che a lui arriva tramite Gesù. Significa poter
conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione
dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto. Se tale è la
percezione del cuore, allora il cuore non potrà che vivere nell’onda di
quell’amore e estenderlo a tutti, fino ai confini della terra. Qui si collega
la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come
impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i cuori
fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza
è in funzione di uno splendore, non di un impegno!
Qui si innesta anche la comprensione dell’immagine delle ‘lingue’. E’ un fatto
assolutamente evidente sulla faccia della terra: gli uomini sono tra loro
diversi, sono dispersi in ogni angolo e parlano lingue differenti. E’ un bene o
un male? La Scrittura dà del fatto due spiegazioni: una, positiva: dopo il
diluvio Dio ha voluto che gli uomini abitassero la terra secondo la loro
diversità (Gen 10); una, negativa: Dio ha condannato gli uomini alla diversità
per evitare che si coalizzassero contro di Lui (Gen 11, racconto della
torre di Babele). Ci sono due modi per far fronte alla diversità, percepita
come una minaccia: o quello di esercitare un dominio da rendere irrilevante la
diversità, e questo corrisponde alla volontà dell’uomo, che genera però
schiavitù (l’esperimento di Babele comportava la costituzione di un dominio del
più forte contro tutti gli altri per assoggettarli e Dio sarebbe stato negato
come Padre); o quello di aprire la diversità alla comunione, lasciando alla
diversità la sua consistenza e invitando ogni diversità a dare il proprio
apporto a un mondo comune (e questo corrisponde alla volontà di Dio, che di
tutti è Padre). Lo Spirito di Dio è definito così “Lo Spirito del Signore ha
riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap
1,7). Quando, a Pentecoste, compaiono sul capo degli apostoli le lingue, la
proclamazione evidente è: ormai tutti possono percepire che è l’opera di Dio a
unire gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per gli uomini che
in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste
acquista una rilevanza fisica tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio
nella sua lingua nativa (=ogni lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è
chiamato a proclamare la stessa ed unica cosa), è lo stesso miracolo che è
operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità,
aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene
proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare,
favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello
Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del
mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone
per eccellenza. Quando gli apostoli, davanti ai persecutori, preferiscono la
carità di Gesù, non scelgono solo di stare dalla parte di Gesù, ma anche dalla
parte degli uomini che della sua carità devono poter vedere lo splendore in
atto.
SANTISSIMA
TRINITÀ
Deut
4,32-40; Sal 32; Rom 8,14-17; Mt 28,16-20
La liturgia oggi, celebra la
confessione della fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Ora, la
confessione della fede non esprime semplicemente la convinzione dei credenti in
certi dati di verità, ma più propriamente esprime l’esperienza che ha permesso
la formulazione di quei dati. Il principio
della proclamazione del Credo nella liturgia, come di tutte le formule di
confessione della fede, si radica nella grande esperienza religiosa del popolo
di Israele: Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione.
Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza,
accogliendo l’iniziativa di Dio. Dire “io credo” significa prima di tutto dire:
benedico colui che ha fatto questo e questo per me, accetto di rispondere
all’alleanza che ha voluto offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e
fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione
liturgica sono percepite come ‘memoriale’ dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il
quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia che
diventa sacra, storia di salvezza.
Celebrare il
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo significa dunque riconoscere
l’azione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nel mondo, in me, azione
che essenzialmente è azione di salvezza, azione di rivelazione del loro amore e
della sua condivisione. Nel salmo responsoriale si canta: “Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore
per tutte le generazioni” (Sal 32,11). E’ il versetto che presiede al
commento al Padre nostro di s. Massimo il Confessore. Tutto quanto Dio ha da
dirci e tutto quanto Dio compie per noi si ritrova nella mirabile preghiera del
Padre nostro, sintesi del mistero della Trinità. Tramite Gesù e in Gesù
possiamo aprirci a quel mistero, restarne sopraffatti e stupiti e adoranti. Ed
è da dentro quello stupore e quella adorazione che possiamo ‘pretendere’ di
sfiorare la conoscenza del Volto di Dio, del suo amore immenso per noi. Quello
che a noi manca nel recitare/proclamare la preghiera è la profondità di
intimità con cui è stata proferita e insegnata da Gesù stesso. Ma solo guidati
da quella intimità arriviamo a Dio in verità.
Quando nella
lettera ai Romani Paolo proclama che i figli di Dio (= coloro che conoscono
Dio) sono coloro che lo Spirito di Dio guida, dobbiamo intendere: lo Spirito,
inviato da Gesù, ci guida a entrare nell’alleanza che Dio ci offre in Gesù, ci
guida a proclamare il ‘Padre nostro’ in piena verità per il nostro cuore,
condividendo secondo la capacità del nostro cuore la stessa intimità di vita e
di conoscenza del Signore Gesù con il Padre, nello Spirito. Solo così possiamo
sperare di osservare i comandamenti di Dio, come ci ricordava la prima lettura.
La pratica dei comandamenti presuppone l’esperienza della visione: per gli
israeliti, l’intervento di Dio nell’Egitto e la rivelazione sul Sinai; per i
cristiani, l’esperienza dell’intimità di conoscenza del Signore Gesù, percepito
presente e capace di soddisfare ogni desiderio, e dalla parte di Dio (ci fa
conoscere in verità il volto di Dio) e dalla parte dell’uomo (ne compie
l’umanità fino a farla risplendere in tutta la sua autenticità), come lui
stesso proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra… Ecco, io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. In effetti i
comandamenti di Dio non provengono da un imperativo morale, ma sono in funzione
di un’alleanza.
Ci aiuta a
collocarci nel clima interiore adatto a cogliere la qualità del mistero della
festa di oggi il passo evangelico:"Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate
ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal
Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il
Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a
me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il
mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre
anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt
11,25-30). Si tratta forse di uno dei passi più solenni e più intimi del
vangelo. Tutto deriva dalla benevolenza di Dio per l’uomo. A Lui è piaciuto
cercare l’uomo, volerlo compagno del suo amore. In Gesù l’ha trovato e in Lui
trova tutti noi. La compiacenza che il Padre ha espresso per Gesù al battesimo
e nella trasfigurazione (“Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono
compiaciuto”) è onnicomprensiva di tutti i figli degli uomini perché l’amore di
Dio risplenda e la gioia dell’amore sia condivisibile tra Dio e l’uomo. Proprio
quello che il mistero della Trinità proclama.
SS.
CORPO E SANGUE DI CRISTO
Es 24,3-8; sal 115; Eb 9,11-15; Mc
14,12-26
L’origine
di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il
possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si
sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel
sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di
Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo
nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella
diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di
Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.
Il
mistero dell’Eucaristia, presentato nelle letture scritturistiche, è celebrato
coralmente dagli inni di s. Tommaso d’Aquino (Pange lingua, Lauda Sion) e
soprattutto dai prefazi. E’ a questi che mi rifaccio per suggerire qualche
porta di accesso allo splendore di questa festa.
Il mistero dell’eucaristia, dal
punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua
azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. E la
ragione risiede nel fatto che con la celebrazione dell’eucaristia, vero punto
di convergenza di tutto l’agire della chiesa, viene aperta l’intelligenza delle
Scritture e si fa esperienza della presenza del Vivente nella chiesa,
intelligenza e esperienza che rimandano al mistero della fraternità. Intendo
‘mistero’, non nel senso di un qualcosa di non comprensibile per la mente
umana, ma nel senso di una realtà a cui siamo invitati a prendere parte, realtà
di cui siamo fatti partecipi.
Tre i verbi significativi che
ricorrono nei prefazi: “…a te per primo si
offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘fece
valere il suo amore fino in fondo’, ‘non preferì nulla all’amore che lo
consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per il Padre e per gli
uomini’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo
sacrificio quanto la potenza e l’ardore del suo amore per gli uomini, lo
splendore dell’amore del Padre che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo
Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il
suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al
fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci
capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare (è lo Spirito Santo
che in noi assume il Corpo e il Sangue di Cristo, rendendoci un tutt’uno con
quel Corpo – si veda la prima ammonizione di s. Francesco di Assisi) allude
alla potenza di trasfigurazione dello Spirito che ci fa vivere in Cristo e di Cristo
fino a che tutto di noi parli di Lui. La cosa straordinaria è che la tensione
del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno
inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando
preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo
di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la
fraternità tra gli uomini. Il segno più eloquente di quell’amore e dello spazio
nuovo di fraternità che ne deriva per gli uomini è la dicitura ‘re della
gloria’ posta sul capo del Crocifisso.
Sono tre i prefazi che possono
essere scelti per questa festa.
Il primo celebra il memoriale del
sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel
sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e
in esso rimanere.
Il secondo celebra l’eucaristia come
vincolo di unità e perfezione: “in questo
grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede
illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta
Il terzo celebra l’eucaristia come
pegno di risurrezione: “nell’eucaristia,
testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro
viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale
partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. E’ la
celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri
nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che
sarà e che non verrà mai meno, risposta agli aneliti dei cuori, va orientata la
nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque
dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del
Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore
in tutto il suo splendore.
VENERDÌ DOPO
Os 11,1-9; Is 12,2-6; Ef 3,8-19; Gv 19,31-37
Il simbolo più eloquente dell’amore
di Dio per l’uomo, almeno nella liturgia latina, è il ‘sacratissimo cuore di
Gesù’ che la lancia del soldato apre sul mondo, spalancando sull’universo il
segreto di Dio. L’antifona d’ingresso della festa del S. Cuore canta: “Di generazione in generazione durano i
pensieri del suo cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in
tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei
popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore
per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la sua determinazione
all’amore per l’uomo, una determinazione che non si lascia vincere da nessuna
diffidenza e cattiveria. Dio resta solidale con l’uomo comunque. Il Cuore di
Gesù svela questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti, a chiunque, per sempre.
Tuttavia, se considero il mio
proprio cuore, non posso non domandarmi: cosa non mi convince dell’amore di Dio
per noi? Perché resto così insensibile davanti alle prove del suo amore,
davanti al suo cuore spalancato? I
comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra
carne, non hanno spesso quella risonanza per la quale non ci sentiamo attirati,
ma come impauriti, respinti? Eppure,
come dice misteriosamente il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme
uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno
trafitto” (Zc 12,10) che Giovanni evangelista interpreta come figura della
morte in croce di Gesù. Ma il passo, nel testo ebraico e nel testo greco dei
LXX, è ancora più esplicito: “guarderanno
verso di me che hanno trafitto”. È proprio Dio che si lascia trafiggere e
la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto con altri occhi. Non c’è
altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o
sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma
solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso
nonostante la tua indegnità.
Lo rivela la testimonianza di
Giovanni. La sua annotazione da testimone oculare (“uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì
sangue e acqua”) non si riferisce semplicemente al fatto visto, ma al
significato del fatto, che corrisponde a quanto all’inizio del suo vangelo
aveva scritto: “noi vedemmo la sua
gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
Quel cuore squarciato illustra quella ‘gloria’ e il fatto viene narrato perché
anche chi legge possa ritrovarsi nella stessa esperienza del discepolo
prediletto. Non si tratta di una informazione di cronaca, ma dello svelamento
di un segreto capace di rinnovare tutta
Di s. Francesco di Assisi,
assimilato al Cristo anche per le sue stimmate, si riporta il sogno rivelatore
di due eretici, poi convertiti. Avevano visto il Signore Gesù chinarsi sul
petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ad un certo punto,
Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi apparve
perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro Signore;
poi Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco (FF 2547). Ma di
Francesco si dice che avesse costantemente davanti agli occhi il suo dolce
Gesù, crocifisso: “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come
ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di
Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore
discorreva con Lui. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre
nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle
mani, Gesù in tutte le altre membra (FF 522).
L’invito alla fede da parte di
Giovanni evangelista nel riportare l’episodio della lancia che squarcia il
costato di Cristo allude all’esperienza di ‘visione’ dell’amore di Dio per noi
che proietta la vita in spazi assolutamente nuovi, fino ad allora impensabili.
Non è che l’uomo abbia motivi così evidenti per amare Dio; ma se sosta in
preghiera quei motivi appaiono al cuore e tutti si riducono all’esperienza del
venir come ‘rinchiusi’ nel fianco aperto di Cristo, spalancato sul mondo, resi
ormai suoi compagni di testimonianza dello splendore dell’amore di Dio per
l’uomo.
DOMENICHE DEL TEMPO ORDINARIO, ANNO
B
DOMENICA XII
Gb
38,1-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
L’immagine
che collega i testi della liturgia è quella del mare in tempesta. I marinai
sanno, anche oggi che le navi sono assai più robuste e sicure di quelle di un
tempo, quanto sia terribile essere in balia delle onde quando il mare si fa
cattivo. L’immagine però non è riportata per descrivere quanto sia potente Dio
che domina anche il mare, pur così terribile. Se Dio parla di mezzo al turbine
a Giobbe, non è per fargli vedere la sua potenza (sarebbe troppo banale!) ma
per introdurlo al mistero di un incontro che apre al senso del vivere. La vita
è assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così, Gesù che fa
come finta di dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato dai
discepoli per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare.
Il passo
comporta più livelli di lettura. Si inserisce anzitutto nella storia dei
discepoli. Questi hanno accettato di stare con il loro Maestro, lo stanno
imparando a conoscere e Gesù si premura di introdurli poco a poco nel suo
mistero. Nella stessa giornata, i cui eventi coprono il racconto dei capitoli 4
e 5 di Marco, sono riunite sia la proclamazione delle parabole sul regno che la
realizzazione di alcuni miracoli. Quella parola di Gesù che illustrava la
realtà del regno di Dio nelle parabole e nelle spiegazioni private ai suoi
discepoli era la medesima che aveva il potere di calmare la tempesta, guarire
l’indemoniato e l’emorroissa, risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte a
quelle parole e a quella parola potente, i discepoli non possono non
domandarsi, profondamente toccati nel loro intimo: davanti a chi ci troviamo?
Chi è dunque costui? Cosa sta succedendo? È il primo significato del brano.
Ma il
brano si inserisce anche nella storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo
alla tempesta e viene svegliato dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha
semplicemente il sapore di cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più
profondo. Il mare in tempesta assume il valore simbolico delle potenze del male
che Dio domina. Quando Dio svelerà tutta la sua potenza contro il male? Quando
si addormenterà sulla croce e attraverso quel ‘sonno’ sconvolgerà il regno
degli inferi. La morte in croce di Gesù viene spesso percepita come un sonno
perché poi si sveglia, perché poi risuscita e su di lui la morte non avrà più
alcun potere.
C’è pure
un’allusione alla storia dei credenti, che si sentiranno molte volte oggetto
del rimprovero, amorevole, del Signore: “Perché
siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete
così paura del male? Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi
inganni? Gesù è amorevole nel fare il rimprovero perché sa che il cuore
dell’uomo, per quanto desideri la vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e
che occorre un lungo tragitto per collocarsi stabilmente nella fiducia. Basta
guardare gli apostoli. Hanno aderito a Gesù, lo ascoltano volentieri, assistono
sbalorditi ai suoi miracoli, ma non sono subito capaci di ‘credere’ a Lui fino
in fondo. La sincerità del loro cuore apparirà solo dopo la risurrezione di
Gesù, di fronte all’amore del loro Maestro che continuerà a crescere nei loro
cuori proprio per il fatto che, pentiti, riconoscono la loro codardia e la loro
poca fede.
Di fronte
alla scena evangelica, possiamo anche farci un’ulteriore domanda: perché i
discepoli hanno avuto paura? Quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo che
il male serpeggia dentro di noi e non è un problema, sappiamo che ci lambisce;
ma quando comincia ad avere la meglio su di noi? Un particolare del racconto ci
può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva ordinata
Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo
all’altra riva”. Tutto ciò che quella traversata comporta sta dentro il
comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente dimenticato che era
stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata, probabilmente non si
sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha fatti sentire soli, in
balia delle onde. La fede è appunto percezione di compagnia, una compagnia di
alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di fronte al male, ma se la vive
in compagnia del proprio Signore è tutt’altra cosa. Così è la nostra vita, una
traversata tra i marosi, all’interno e all’esterno. Vivere la vita dentro
un’obbedienza a un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore significa allora
non permettere al male di ghermirci, significa non essere in balia degli
inevitabili marosi.
DOMENICA XIV
Ez 2,2-5; Sal 122; 2 Cor 12,7-10; Mc 6,1-6.
La
meraviglia di Gesù fotografa bene l’atteggiamento dei nostri cuori: “E si meravigliava della loro incredulità”. Da dove proveniva nei suoi concittadini una
tale diffidenza nei suoi confronti? Gesù sembra liquidare la cosa con
l’allusione a un proverbio o a un detto delle Scritture (‘nemo propheta in
patria’) ma non ci sono riscontri in tal senso. Tutti i vangeli riportano
l’annotazione della incomprensione da parte dei suoi. Evidentemente l’episodio
di Nazaret è risultato significativo nella vicenda umana di Gesù, non tanto
quanto ai suoi sentimenti, quanto invece allo stile di predicazione. Il suo
progetto di rivolgersi alle folle era fallito; avrebbe allora cambiato stile e
si sarebbe dedicato più direttamente al gruppo dei discepoli, puntando
decisamente ad arrivare a Gerusalemme dove si sarebbe consumata la sua
missione. Resta comunque singolare la diffidenza dei suoi concittadini, diffidenza
che nel racconto degli evangelisti diventa emblematica dell’atteggiamento dei
cuori nei suoi confronti. Così la liturgia di oggi interpreta il passo
evangelico, che viene appunto introdotto dal canto al vangelo: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua
dimora in mezzo a noi. A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare
figli di Dio”. Sono le parole conclusive del prologo del vangelo di
Giovanni.
Almeno
due annotazioni si impongono. Primo, c’è l’assicurazione da parte di Dio che non
fa mancare la sua presenza, che mantiene la sua promessa di stare con il suo
popolo e dalla parte del suo popolo, che offre comunque la possibilità della
comunione con Lui, a tutti i costi, nonostante la diffidenza nei suoi
confronti. Secondo, non è così agevole scorgere tale presenza, non è scontata,
non è immediata ed evidente, come i profeti hanno sempre dichiarato: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). L’assicurazione da parte di Dio è
comprovata dal fatto che, se Gesù si meraviglia della incredulità dei suoi
concittadini, la sua meraviglia si traduce sempre in fantasia di prossimità per
l’uomo, alla ricerca di sempre nuove situazioni, occasioni, possibilità di
incontro e dunque di offerta di comunione. A differenza della meraviglia dei
suoi concittadini che da diffidenza si tramuta in ostilità tanto che Gesù dovrà
fuggire (cfr Lc 4,28-30).
Dire
che il Verbo ha posto la sua dimora in mezzo a noi non significa soltanto
affermare che Dio ci accompagna, ma anche che senza Dio la nostra umanità non
può risplendere, che senza Dio i nostri sogni perdono consistenza e grandezza,
si risolvono in illusioni e angosce. La ragione risiede nel fatto che questo
porre la sua dimora tra noi ha lo scopo di comunicarci il potere di diventare
figli di Dio, cioè di poter essere solidali con Gesù, Figlio di Dio, lungo
tutta la possibile traiettoria della vocazione all’umanità che caratterizza
tutto l’agire dell’uomo nella storia, umanità di cui Lui detiene il segreto, di
cui Lui mostra lo splendore, per cui Lui dà il potere di viverne l’orizzonte
infinito, su scala divina. Tanto che la diffidenza nei suoi confronti nasconde
sempre la diffidenza nei confronti della nostra stessa umanità, come se, per
paura, ci impedissimo di viverne tutti gli esiti possibili.
Così,
quando il salmo 122 proclama: “i nostri
occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi” si può
intendere: i nostri cuori anelano a scoprire la beatitudine della vita come
soltanto da Dio può essere svelato; all’inizio non vogliamo crederci, perché
colmi delle nostre illusioni e vanterie, ma poi, ormai sazi delle ferite
collezionate, ci decidiamo a rivolgerci a Colui che quelle ferite ha subito per
toglierci dall’illusione; lo supplichiamo allora perché la sua promessa di vita
ci raggiunga, perché quell’umanità che in Lui ammiriamo, piena dello splendore
di Dio, ci appartenga e così scopriamo di essere figli di Dio, poveri di noi
perché ricchi di Lui. Supplicare finché Dio abbia pietà di noi significa
appunto volgerci a Lui finché Lui non ci accordi la beatitudine della vita,
finché Lui non ci includa nel dono della Sua umanità.
In
questo senso si possono leggere anche le parole di Paolo ai corinti: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Ciò che costituisce
la nostra dignità, ciò che rende la vita desiderabile, ciò che fa risplendere
la nostra umanità è appunto la reale
possibilità, in Cristo, di diventare figli di Dio, solidali con Lui in tutto.
Non è più necessario far leva sulle proprie qualità, che spesso sono vissute
nel confronto con gli altri, creando quindi distanza tra gli uomini, perché ciò
che si è scoperto è immensamente più prezioso di tutto quello di cui ci
potremmo vantare e così bello che la vita ormai viene accolta come l’occasione
di condividere tale bellezza.
DOMENICA XV
Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13
Chi è il
profeta? Tanti possono parlare in nome di Dio agli uomini, ma la verità di Dio
la rivela e l’annuncia solo il profeta chiamato e mandato da Dio. Nella storia,
tanto d’Israele che della Chiesa e, a dire il vero, anche nella storia delle
varie religioni, l’umanità resterebbe preda delle sue illusioni se non
spuntasse ogni tanto qualche ‘profeta’ a ricordare la verità di Dio. Facilmente
l’uomo si forma una ‘religione’ a sua misura, secondo i suoi interessi, non
servendo più Dio ma servendosi di Dio per raggiungere i suoi obiettivi, troppo
terreni. Il profeta è colui che proclama l’assoluto di Dio, colui che svela le
aspirazioni dei cuori e ne mostra la via per i loro compimenti.
Da questo punto di vista il profeta
per eccellenza è proprio Gesù, Colui che rivela la verità del volto di Dio.
Così, quando Gesù, alla fine del vangelo di Matteo proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in
terra” (Mt 28,18), si riferisce ad un duplice potere: anzitutto, dalla
parte di Dio, al potere di rivelare il vero Volto di Dio, espresso dalle parole
di Giovanni che risuonano in tutto il loro realismo: “Dio nessuno l`ha mai visto: proprio
il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18); in tal senso Gesù è il Sigillo della
Verità e risponde alla ricerca di verità da parte dell’uomo. Gesù dà la vera
conoscenza di Dio e per questo spesso la sua parola risuona così radicale da
sembrare ostica. In secondo luogo, dalla parte dell’uomo, si riferisce al
potere di compiere i desideri dell'uomo, di soddisfare la sua fame di
conoscenza e di relazione in pienezza e verità; in tal senso Gesù è il Sigillo
del Bene e risponde al desiderio di vita da parte dell’uomo. Gesù dà la vita
per mezzo dello Spirito Santo.
La bellissima colletta di oggi
interpreta assai bene gli aneliti profondi dei cuori: "Donaci, o Padre, di
non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del
tuo amore e la vera dignità dell'uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo
annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere". È il desiderio che il
Volto del Signore si riveli nel suo splendore al nostro come al cuore di tutti.
E questo splendore è lo splendore dell'amore per noi, fonte della nostra dignità.
È dalla percezione di questa realtà gustata nel cuore che sale l'inno di s.
Paolo al Signore: "Benedetto sia
Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni
benedizione ..." (Ef 1,3). Si tratta di una benedizione larga,
onnicomprensiva, oltre la quale non c'è più nulla di significativo per il
cuore, il quale non sopporta che qualcosa possa sussistere fuori di essa. È la
stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del Padre nostro,
benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la nostra
storia, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. La missione che
Gesù affiderà ai suoi apostoli mira a rivelare, a rendere percepibile, a far
gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino in essa e non possano
più vivere se non a partire da e dentro di essa.
Chi vive dentro e di tale
benedizione ha potere sugli spiriti immondi; non permette cioè a nessuno di
rapirgli la pace che scaturisce da quella benedizione. Quando Gesù invita i
discepoli a scuotere di sotto ai loro piedi la polvere davanti a quelli che non
hanno raccolto l’invito a godere della pace di quella benedizione, non vuol
certo invitarli a una ripicca. È come se i discepoli dicessero: la pace che non
avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma
non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi,
se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi;
non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta
appunto in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. È quella pace
che guarisce, che ristora, che fa risplendere nel mondo la bellezza del volto
di Dio, la cui verità gli uomini desiderano. La responsabilità dei discepoli sta
appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa
apparire davvero desiderabile.
Nel salmo
responsoriale si canta: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e
pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è
disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi
debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo
amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con
l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere profeti, annunciatori di
quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del
cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù.
Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc
6,30-34
L’immagine
che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi è quella del pastore. Nel brano di
Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore
e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo
responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima:
“Il Signore è il mio pastore: non manco
di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù Colui che
adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’.
Partiamo
dal brano di vangelo. Come sempre i particolari sono misteriosi. Gesù si mette
a insegnare alla gente e per lungo tempo, dopo che ‘si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore’. In
quella commozione c’è tutta la compassione di Gesù per l’umanità, che è alla
radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. Il
brano fa parte del racconto della missione degli apostoli, racconto che era
iniziato proprio con l’annotazione che Gesù ‘sentì compassione’ (cfr Mt 9,36) e si chiude con l’annuncio
eucaristico, simboleggiato dal miracolo della moltiplicazione dei pani,
introdotto con la commozione di Gesù davanti alle folle. È in quella
'compassione' che prendono senso e valore tutti i gesti e le parole di Gesù per
noi, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra. Per il
nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire almeno gli echi di
quella compassione. E se Gesù prova compassione è perché sa
che può dire: "Venite
a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
carico leggero" (Mt 11,28-30). E ancora perché sa che se
il cuore dell'uomo cerca questo ristoro e se non lo trova è perché si illude di
cercarlo fuori di Lui. Così, quando Gesù, mosso dalla sua compassione, invita i
discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare
non solo perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli
che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Compassione nella quale
si riconosce l'amore del Padre. E gli operai che lavorassero in questa messe immensa
senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non
favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il
riflesso dell' amore e della compassione di Dio per gli uomini senza la
preghiera? Per questo Gesù fa pregare, trattiene in disparte gli apostoli, li
tiene in sua compagnia.
Un altro
particolare del brano apre orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in
disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. Il vangelo si
interessa forse della salute degli apostoli? L’accenno al ‘riposarsi’ è più
misterioso. Il termine è lo stesso che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e troverete ristoro per le
vostre anime”. Quel ‘ristoro’ corrisponde al movimento della sua
compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo, agitato, tormentato,
sfinito, finalmente si riposi. Ma quel ‘riposo’ pesca nel riposo di Dio il
settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo
responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione
anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La
‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà,
10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è
felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. E quando nel
salmo si proclama: “Il Signore è il mio
pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque
tranquille mi conduce” (sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di
‘menuchoth’. Identica allusione nelle parole del Signore Gesù quando dice ai
suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti,
che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra
di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro
per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”
? (Mt 11,28-31). Ristorerò = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace,
riposo. E quella umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della
luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello
sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.
Quando Gesù aveva inviato gli
apostoli in missione, li aveva forniti delle stesse sue prerogative: 'diede
loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di
malattie e d'infermità'. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo
proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo
proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono
la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il
discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato',
un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà
quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla sterminata, tema
della liturgia di domenica prossima.
2Re 4,42-44; sal 144,
Ef 4,1-6; Gv 6,1-15
Lo stesso
miracolo della moltiplicazione dei pani è narrato anche dai sinottici (Mt
14,13-21; Mc 6,30-44; Lc 9,10-17) ma la liturgia, invece che seguire il testo
di Marco, normalmente seguito nel corso dell’anno, preferisce il racconto di
Giovanni. Il testo di Giovanni non solo narra il miracolo, ma ne svela il suo
contenuto simbolico e lo commenta con un lungo discorso di Gesù, discorso che
la liturgia riprenderà per esteso nelle domeniche successive.
La figura
del buon pastore, applicata a Gesù, si arricchisce di nuove sfumature. Possiamo
accostarci al brano seguendo tre piste differenti: dal punto di vista dei
personaggi, dell’avvenimento e dell’esito finale. Consideriamo i personaggi in
gioco: la folla, gli apostoli, Gesù. La folla cercava Gesù, si spostava secondo
i suoi spostamenti, lo tallonava. Aveva visto i prodigi di guarigioni che Gesù
aveva compiuti e, come dice il canto al vangelo di oggi, aveva pensato: “Un
grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo”. Quando si
accorge del miracolo della moltiplicazione dei pani, ne coglie il valore
simbolico e si entusiasma e vuole proclamare Gesù re pensando “Finalmente i
nostri guai sono finiti. Ecco chi ci libererà e stabilirà il regno di Israele”.
Ma alla fine, quella stessa folla resterà delusa e abbandonerà quel Gesù di cui
si era entusiasmata. Perché è così difficile per l’uomo entrare nel progetto di
Dio e accogliere la Sua grazia? Seguire il Signore è diverso che desiderare il
Signore. Rammentando un altro passo del vangelo, potremmo dire che
effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che cerchiamo. Se
la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione dei nostri
desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri desideri.
Gli apostoli nella scena agiscono da intermediari. Sono ‘strumenti’ perché la
compassione del Signore raggiunga tutti e tutti siano sfamati. C’è l’allusione
al compito dei ministri della chiesa: spezzare il pane della Parola per
l’intelligenza della fede. E poi c’è Gesù. Sale sul monte (non dimentichiamo
che nel vangelo di Giovanni non si fa cenno al discorso delle beatitudini sulla
montagna), sfama la folla (moltiplica i pani, non li crea. Da ricordare
l’episodio della tentazione di Gesù nel deserto dove appunto è tentato di
trasformare le pietre in pani per dimostrare a tutti che lui è il Messia) ma
alla fine resta solo, deve, è costretto a star solo per non compromettere la
sua missione. Solitudine che sarà accentuata drammaticamente dall’abbandono dei
discepoli dopo il suo lungo discorso in chiave eucaristica a commento del
miracolo.
Se
consideriamo l’avvenimento, molti particolari proiettano una luce speciale.
Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta
erba, in occasione di un pasto, con una disposizione particolare dei
partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono tutte allusioni
all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco,
specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo
popolo. E’ lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane disceso dal
cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare
L’esito
però è drammatico. Tutti mangiano, tutti si entusiasmano ma nessuno in realtà
capisce e nessuno sa vedere l’opera di Dio. Gesù si darà da fare per cercare di
far capire, ma invano. Gli uomini potranno capire, ma dopo che avranno rimirato
Colui che hanno trafitto. Quel pane mangiato diventerà pane di vita solo quando
parlerà di quella passione d’amore di Dio per l’uomo. L’ amore di Dio per
l’uomo non lavora mai secondo il registro della potenza, così caro agli uomini,
i quali vorrebbero soddisfare i loro desideri servendosi di Dio, invece che
aprire i loro desideri a Dio e accoglierne
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE
Dn
7,9-14; Sal 96; 2Pt 1,16-19; Mc 9,2-10
Rispetto
al desiderio dell’anima “Di te dice il
mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”, il
brano evangelico oggi ci mostra il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima,
un volto ‘bellissimo’. Come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere
l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile
bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Eppure, nulla
si svolge secondo la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero
sprofondati nella contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai
dipinto la scena con i discepoli ‘atterrati’, come scaraventati a terra,
spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle
profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama
che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo che era come fuori
di sé dallo spavento. Compaiono accanto a Gesù Elia e Mosè in atto di conversare
con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema della conversazione era
la morte di Gesù. Perché questi accostamenti drammatici?
Il racconto della trasfigurazione
nasconde molti misteri. La verità della rivelazione che avviene in quel momento
(l’indizio che si tratti di una rivelazione e non semplicemente di un fatto
straordinario va visto nell’annotazione di Luca che l’evento avviene durante la
preghiera di Gesù sul monte!) è sottolineata proprio dalla tensione drammatica
che muove tutto il brano. Gli apostoli sono estasiati e tremanti, affascinati e
atterrati, rapiti e atterriti; compaiono Mosè e Elia a colloquio con Gesù,
perché di Lui la legge e i profeti hanno sempre parlato e Gesù svela anche a
loro qual è il segreto di Dio che lui custodisce e che loro hanno sempre
velatamente intravisto: Dio ha così amato il mondo da dare il suo Figlio, ha
così amato il mondo che il suo Figlio morirà perché il mondo abbia la vita e
possa far risplendere in tutto il suo splendore la grandezza e l’assolutezza di
quell’Amore. D’altronde, era a un colloquio del genere che anche Rublev, il
pittore della ‘Trinità’, si era riferito: di che cosa può parlare Dio nella sua
eternità se non dell’amore per l’uomo che in Gesù si manifesta come vita del
mondo?
“Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!”: riporta Mc 9,7. E Matteo: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto.
Ascoltatelo” (Mt 17,5). La voce sul monte Tabor designa così l’Inviato di
Dio e lo indica come il punto incandescente da cui tutto ha preso origine e
verso cui tutto si volge. Se Gesù è il prediletto non lo è evidentemente nel
senso che lui è l’amato e tutti gli altri no, ma nel senso che tutti sono amati
in lui, che da lui l’amore si riversa su tutti e tutti ingloba, che l’amore da
lui si riversa sul mondo per incendiarlo. E siccome in lui riposa tutto lo
sguardo di compiacimento del Padre, allora vuol dire che tutti in lui anelano a
riposare in quella compiacenza di Dio perché è su Gesù, Figlio di Dio fatto
uomo, che riposa la compiacenza del Padre e non semplicemente sul Figlio di
Dio. Così, ascoltare quel ‘Figlio prediletto’ non vuol semplicemente dire
ascoltare il Figlio di Dio (noi non lo conosceremmo se non l’avessimo
riconosciuto in Gesù), ma ascoltarlo nella concretezza
di quell’umanità che da Dio discende. Quell’ “ascoltatelo” riguarda perciò
tutta la Scrittura che di Lui parla e a Lui rimanda e che Lui illumina,
riguarda tutto l’arco della storia del popolo di Dio che in Lui si riassume e
si compie, perché ogni parola della Scrittura racchiude il desiderio di Dio di
stare in compagnia dei suoi figli, desiderio che Gesù ha mostrato compiuto nel
suo splendore (non c’era bisogno di costruire alcuna tenda da parte di
Pietro!...).
Se
consideriamo la liturgia delle Ore della festa di oggi, la consapevolezza del contenuto di rivelazione è tradotta con
le espressioni rivolte a Gesù: ‘Tu sei il re della gloria’; ‘Tu sei il più
bello tra i figli dell’uomo: sulle tue labbra fiorisce la grazia’; ‘Da Mosè fu
data la legge: da Gesù Cristo la grazia e la verità’. Ma di quale gloria si
tratta? Di quale grazia? Di quale bellezza?
E’ sempre
la tensione dinamica del racconto a svelarcelo. Bellezza, grazia e gloria si
riferiscono al segreto di Dio per l’uomo: il suo amore incandescente, tanto da
rendere il suo volto e le sue stesse vesti luminosissime, attira gli sguardi
del cuore dell’uomo ma solo e in quanto il cuore dell’uomo si disponga a vivere
della vita di quell’amore che viene da Dio e che è brillato in tutto il suo
splendore su un altro monte, il Golgota. Solo lì Gesù ha accettato di essere
proclamato ‘re della gloria’.
La
visione di Gesù trasfigurato (lo ricorda Pietro, che di quell’evento conserva
un ricordo indelebile, dicendo che è ‘conferma
migliore della parola dei profeti’), rispetto all’esperienza della
conoscenza del Signore Gesù nella fede, ha il valore di conferma, non di
esperienza come tale. Quando Gesù appare ai discepoli da risorto, porta i segni
della passione e della gloria, ma non è più né sfigurato come al Calvario né
trasfigurato come sul Tabor. Non è la visione del Tabor che induce gli apostoli
ad accogliere Gesù, ma il contrario: la loro accoglienza di Gesù si apre fino
alla visione, che però avrà bisogno, per tradursi in vera esperienza di
conoscenza, nella sequela di Gesù fino all’accettazione della sua morte e
risurrezione, in modo da vivere la loro stessa vita dentro e per quell’amore
che hanno visto risplendere nel loro Maestro. Così le testimonianze dei
profeti, cioè le Scritture e la visione del Tabor tendono entrambe a favorire
il sorgere nel cuore della visione di quel Volto che solo si conosce seguendo
il suo amore fino alla fine.
1 Re 19,4-8; sal 33; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51
Tutto il
lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere
letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere
i segreti di Dio. Gesù si premura di spiegare, di convincere, ma pochi cuori si
apriranno alla sua rivelazione. Eppure gli ascoltatori, nelle loro interrogazioni,
dimostrano di cogliere nel segno, sebbene non sappiano poi tirare le giuste
conclusioni. Nei versetti precedenti rispetto al brano proclamato oggi, davanti
all’offerta di un pane ‘speciale’ da parte di Gesù, tutti chiedono: ‘dacci
allora questo pane!’. Come la samaritana al pozzo, quando Gesù le parla di
un’acqua ‘speciale’, chiede di averla. Forse, la richiesta, qui come là,
nasconde una punta di ironia: sarebbe bello avere l’acqua, avere il pane, in
modo da non avere più sete o fame, in modo da non fare più fatica a procurarsi
il nutrimento, ma evidentemente non è possibile; chi promette quelle cose è un
imbonitore e basta. Tuttavia, il desiderio del cuore è pur sempre quello e
resta profondamente vero: il cuore cerca davvero un’acqua e un pane speciali,
che ristorino, che rigenerino, che fortifichino, che facciano gustare la vita.
Quando Gesù si presenta come ‘il
pane disceso dal cielo’, gli ascoltatori ancora una volta dimostrano di aver
capito che quel pane speciale deve per forza venire dal cielo, ma sono incapaci
di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Se di
Gesù conoscono padre e madre, se lo conoscono come il figlio di Giuseppe, come
può dire di essere venuto dal cielo? Quindi, è la conclusione, questi racconta
storie. Ma Gesù continua a rispondere al desiderio del cuore di vedere ‘colui
che discende dal cielo’ e, riferendosi alla profezia messianica del profeta
Geremia, annuncia che ‘tutti saranno ammaestrati da Dio: “Questa sarà l'
alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il
Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora
io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il
Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il
Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro
peccato” (Ger 31,33-34).
Perché Gesù cita quel passo? Già all’inizio del suo vangelo Giovanni l’aveva
proclamato: “Dio nessuno l' ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”
(Gv 1,18). Se è lui a rivelare il Padre, allora solo da lui può venire la
conferma di verità della volontà del Padre. E se lui dice che il Padre ha
voluto dare loro nella sua persona quel pane speciale, che tutti vogliono,
allora lui solo costituisce quel pane speciale. Vuol dire allora che i tempi
messianici sono compiuti; la verità di Dio, che noi attendiamo si riveli
finalmente, in lui risplende. Perché allora i cuori non riescono a vedere?
Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono?
Forse la
risposta va cercata proprio in quel movimento di ‘discesa’ che caratterizza
l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza
di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il
suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la
vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza
mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso,
dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di
innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove
risplende l’amore di Dio per l’uomo.
Lo afferma il
brano della lettera agli Efesini, che leggiamo tutte le settimane nell’ora di
compieta, al mercoledì: “Siate invece
benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come
Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli
carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato”.
Quello che qui è reso “perdonandovi a vicenda”, in greco è un verbo altamente
significativo. Non si tratta dell’usuale ‘perdonarsi’, ma di un verbo che alla
lettera si dovrebbe rendere “facendovi grazia gli uni gli altri come Dio ha
fatto grazia di sé in Cristo a voi. Diventate quindi imitatori di Dio”. Come
lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare
dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva
proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura.
Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza
e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una
rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche
voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare
che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro
cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo.
Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella
grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere
a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di
Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende
dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.
Ap 12,1-10; Sal 44; 1 Cor 15,20-26; Lc
1,39-56.
E' cosa buona e giusta celebrare il mistero della festa
di oggi con le parole del prefazio della Messa: "Oggi
Per introdurci alla visione della
gloria della Vergine Maria, possiamo collegare i due vangeli della vigilia e
del giorno della festa. Nella Messa della vigilia si legge il brano di Lc
11,27-28 dove una donna che ascoltava Gesù alza la voce per gridare: "Beato il grembo che ti ha
portato e il seno da cui hai preso il latte!". Come a dire:
beata tua madre! Nel vangelo della festa, quando Elisabetta risponde al saluto
della Vergine, proclama: "beata
colei che ha creduto all'adempimento delle parole del Signore".
Alla donna che esaltava sua madre, Gesù sembra spostare
l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa
consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima
di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, nel cuore,
perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e
osservata. La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i
credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e
osservare
Nella sua lettera ai Corinzi Paolo
ricorda il dato della fede nella risurrezione. Se Cristo non fosse risorto vana
sarebbe la nostra fede. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine
del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e
drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo
della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno
di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa
va vista nel suo 'succedersi' temporale in ciascuno di noi oltre che nella
storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di
questo 'potere' di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci
assilla e ci impasta. E man mano che questo 'potere' di Cristo prevale, la vita
sgorga fluente e incontenibile.
Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in
fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. E' compiuto. E siccome è
compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che
la salvezza operata da Dio comporta. Gli angeli, dice la liturgia,
l’accompagnano gioiosi, come tutte le icone mostrano. La loro gioia non si
riferisce tanto alla gloria della Vergine, ma allo splendore dell’amore di Dio
per l’umanità, la cui natura e vocazione, nella Vergine, si compiono finalmente
a rivelare proprio la grandezza dell’amore di Dio. La gloria della Vergine come
la gloria del paradiso non esprimono altro che lo splendore dell’amore di Dio
in assoluto. E quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in
cielo, non possono non considerarla 'primizia e immagine della Chiesa ... un
segno di consolazione e di sicura speranza'. In lei possono magnificare l'amore
di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi
si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei
rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane:
"Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non
disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni
pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".
Prov
9,1-6; sal 33; Ef 5,15-20;
Gv 6, 51-58
Continua
la proclamazione del cap. 6 di Giovanni. Ma oggi la liturgia ci addita una
particolare finestra di luce per cogliere il senso del discorso-rivelazione di
Gesù. ‘Non siate scemi’, ci ripetono la prima e la seconda lettura: “abbandonate la stoltezza” (Pro 9,6); “non siate inconsiderati” (Ef 5,17).
L’intelligenza della vita! Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è
segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari.
Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la
gradirebbe sempre.
In
particolare, la lettera agli Efesini sottolinea il punto esatto dove cercarla.
Si tratta di essere ‘intelligenti di Dio’; si tratta di essere ‘intelligenti
della volontà di Dio’. Non pensiamo però che si tratti prima di tutto di
scoprire cosa Dio vuole da noi; piuttosto, di scoprire quanto bene Dio ci
vuole, tutto il Bene che sta nascosto nelle sue parole, nelle sue iniziative,
nel suo Figlio che per noi si fa cibo e bevanda di vita. Per questo Paolo parla
di imparare a essere ‘pieni di Spirito Santo’ e indica tre vie: la preghiera,
il rendimento di grazie, lo stare sottomessi gli uni agli altri. “…siate ricolmi
dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali,
cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente
grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo.
Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,18-21). Purtroppo le edizioni moderne della
Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona
così: "...rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel
nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di
Cristo". Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di
imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie
esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare
sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro
più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il
tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è
boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno
che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere
continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare
sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando
pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri
difetti.
Dalla
prospettiva di questa ‘intelligenza di Dio’, le parole di Gesù suonano con
tutt’altro accento. A conclusione del suo discorso, Gesù riassume in tre
passaggi la rivelazione della volontà di Bene di Dio per l’uomo che in Lui si
compie: avere la vita, dimorare in lui, vivere per lui. Tutte realtà che
solamente coloro che accettano di mangiare la carne del Figlio dell’uomo
possono ereditare. Espressione più forte Gesù non poteva usare: ‘chi mangia la
mia carne…’. Tuttavia la rivelazione non è assurda. Nel capitolo precedente,
Gesù aveva discusso con i farisei a proposito delle Scritture: “Voi scrutate le
Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse
che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita” (Gv 5,39-40). Si leggono le Scritture per avere
Come
una parola mangiata resta nel nostro cuore, così chi mangia il Corpo del
Signore dimora in Lui. Sarà la logica della similitudine della vite (cfr Gv
15): lui dimora in me e io in lui, fino a poter dire con s. Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me” (Gal 2,20).
Dimorare
allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di
amore partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del
Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio. E così, se l’uomo vuole la vita
e dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti
quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo cuore
come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità,
principio di vita vera che riempie il suo desiderio.
Gs
24,1-18; Sal 33; Ef 5,21-32; Gv 6, 60-69
Gesù
termina il suo discorso nella sinagoga di Cafarnao. L’esito è drammatico; molti
lo abbandonano: ‘questo linguaggio è duro’.
Le attese riposte in quel Maestro sono andate deluse. Gesù, a dire il vero, non
si scompone e rilancia: “questo vi
scandalizza?” e, rivolto agli apostoli: “volete andarvene anche voi?”.
Ecco il
problema: l’uomo può scandalizzarsi di Dio; facilmente l’uomo si scandalizza di
Dio. Non è facile spiegare perché avviene, ma avviene facilmente. Forse la
ragione la svela la prima lettura tratta dal libro di Giosuè. Il popolo d’Israele
era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù
dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in
età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, la loro guida, ad eccezione
di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita
nella nuova condizione di libertà. Chi si deve servire? Nel linguaggio della
Scrittura ‘servire Dio’ allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta
le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione
del male. Quale dio servire? E’ la scelta del cuore dell’uomo, sebbene spesso
la scelta risulti come obbligata dall’inerzia stessa della vita: prendi quello
che risulta più comodo o più facile o più conveniente o più interessato. Ma il
‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta
per
Molto
bella la presa di posizione del popolo, dopo la confessione di fede di Giosuè e
della sua famiglia: “Perciò anche noi
vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio”. ‘Nostro’ non
tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi,
perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo
il riconoscimento della fede dei padri, ma soprattutto il riconoscimento
dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi. Verità ripresa dal ritornello
del salmo responsoriale: ‘il Signore è vicino a chi lo serve’, cioè il Signore
è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza
scandalizzarsi.
Lo
scandalo produce il tirarsi indietro, come nel brano di vangelo proclamato, che
letteralmente si dovrebbe tradurre come un venir meno, un andar via dallo star
dietro a Gesù e quindi un non voler più camminare insieme a lui. Anche Pietro e
gli apostoli non comprendono le parole di Gesù, ma non si scandalizzano;
continuano a andargli dietro. C’è ancora molta distanza tra la confessione di
Pietro e la confessione che farà Tommaso all’apparizione del Risorto: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28)
quando ormai tutto il mistero della persona di Gesù si era rivelato e aveva
convinto i cuori dal di dentro. Ma si trova sulla stessa linea.
Due particolari fanno riflettere. Di
fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio,
non ‘banalizza’ il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il
mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una
semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore
prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, ma
sul dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da dare il
suo Figlio unigenito…”. Ciò che è da cogliere è questa ‘intenzione’ di Dio, che
va diritta al cuore. Quando la moltitudine lo abbandona e Gesù si rivolge agli
apostoli: “Forse anche voi volete andarvene?”, Pietro risponde: “Signore,
da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso
che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della
Sua persona per il suo cuore perché intuisce che da qui viene la vita.
Ma c’è un secondo particolare, ancora più misterioso.
Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda, nonostante che la
scelta di Giuda sia stata fatta dallo stesso Gesù. Ecco la questione: se è Dio
ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del suo
rifiuto? E’ Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché
fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo
spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e
dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando,
per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché
gli appartenga.
La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato.
E’ il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come
pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la
nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che
quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro,
saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno
ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per
tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia
delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in
Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che comportano il
rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita
eterna, che non può provenire da noi stessi. E’ lo stesso spazio del dramma che
si trasforma nello spazio di una vita piena, intrisa di gioia inattaccabile,
allorché Dio e l’uomo si incontrano.
Deut
4,1-8; Sal 14; Gc 1,17-27;
Mc 7,1-23
Se, come
proclama il versetto responsoriale, ‘i
puri di cuore abiteranno nella casa del Signore’, perché stupirci di non
sentirci a nostro agio nella sua casa, di non riuscire mai ad esserci per
davvero o di non risiedervi stabilmente? Se Dio guarda il cuore, perché noi
invece ci perdiamo nell’illusione dei nostri meriti?
Potremmo
considerare da questo punto di vista le letture di oggi. Tutte richiamano il
valore fondante della parola di Dio, del suo comandamento, per la vita
dell’uomo. Nel libro del Deuteronomio Mosè avverte: “Ora dunque, Israele,
ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica,
perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri
padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne
toglierete nulla”. Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi,
il guaio proviene dal fatto che la nostra ‘pratica’ proviene spesso, non
dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri,
imposizioni, obblighi, impegni, esclusivamente ‘umani’, che comunque non hanno
a che vedere con il vero e proprio comandamento di Dio. Così, la promessa di
trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il
mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai.
Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad
altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione
umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore. Tutto il discorso di
Gesù verte appunto sulla contrapposizione: comandamento di Dio/tradizione umana
(“Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli
uomini”) e, di conseguenza, sulla purità o meno del cuore.
Ben a proposito, rispetto al
comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere, né togliere. Se è
abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non
lo è quando in qualche modo ci imponiamo un ‘comandamento’, quando cioè
crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica
ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva.
Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta
di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne
mangiassi, certamente moriresti”. Ma Eva al serpente risponde: “…del
frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete
mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” . Eva aveva
provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi
conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso
mangiare per avere la conoscenza…! Ed incontra
L’aspetto
misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela
la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza
la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della
parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla
parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di
comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al
mio cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in
pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire
per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso
che prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge
fidandomi del suo amore. E’ per questo che, continuando la lettura del brano
del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma guardati e guardati bene dal
dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore,
per tutto il tempo della tua vita”. L’accento è così posto sul fatto di ‘far memoria delle parole che si
sono viste’ (il testo dovrebbe essere tradotto infatti più letteralmente:
‘guardati bene dal dimenticare le parole che i tuoi occhi hanno visto’).
L’accento cade sulla sincerità del cuore che si trova dentro una storia d’amore
che lo precede e l’accompagna e a cui risponde e non sulla sua generosità. Cosa
significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto la parola per metterla in
pratica e avanzare in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la
prossimità di Dio. La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del
Deuteronomio, il salmo 14, il quale riassume la sincerità del cuore davanti a
Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare
il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i
nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti
né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur
grandiosa, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.
Is
35,4-7; sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37
Gesù non ha predicato ai pagani, ma ha attraversato le loro terre ed ha
compiuto alcuni miracoli a favore di persone pagane. Il brano di vangelo di
oggi riporta appunto il secondo di questi miracoli in terra pagana, la
guarigione di un sordomuto. Aveva appena guarito la figlia della donna
sirofenicia, quella che aveva saputo, nella sua disperazione e nella sua fede,
tenergli testa. Gesù le aveva detto: “Lascia prima che si sfamino i figli;
non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. E lei,
fiduciosa: “Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la
tavola mangiano delle briciole dei figli”. Se con questa donna Gesù aveva
agito con la potenza della sola parola, nel miracolo del sordomuto agisce con
la potenza dei suoi gesti: mette le dita negli orecchi, tocca con la sua saliva
la lingua del malato, gesti che la Chiesa ha conservato nella celebrazione del
sacramento del battesimo. La sua parola è potente, ma anche i suoi gesti sono
potenti, e perfino le sue vesti sono ‘potenti’ (pensiamo all’emorroissa, alla
trasfigurazione).
E’ singolare che questo, come altri
miracoli, non facciano risaltare tanto la guarigione, quanto la dinamica che la
guarigione comporta: si tratta di miracoli di ‘apertura’. Gesù non è un mago,
sebbene taumaturgo; non pronuncia parole magiche, ma semplicemente la parola
‘effata’, ‘apriti’. La sordità comporta spesso anche il disturbo della parola.
In effetti, il vangelo fa riferimento a un sordo che farfugliava, che parlava
confusamente, in modo incomprensibile. Guarire comporta allora l’apertura degli
orecchi, lo scioglimento della lingua, come per i ciechi l’apertura degli
occhi. Questo particolare, insieme ad altri, allude ad un significato più
profondo del miracolo: non si tratta solo di rivelare la potenza di guarigione
di Gesù, ma il fatto che quella potenza indica qualcos’altro, verso cui Gesù
vuol far convergere il cuore, nella fede. Il miracolo cioè è sempre in funzione
della rivelazione del mistero della Persona di Gesù in rapporto alla grandezza
dell’amore di Dio per gli uomini; è sempre segno dei tempi messianici ormai
compiuti in Gesù. Due particolari soprattutto fanno convergere lo sguardo verso
quel punto. La lode finale in bocca alla gente che aveva visto il miracolo
suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
Quando Dio, alla fine della creazione secondo il racconto della Genesi,
contempla ciò che ha fatto, esclama: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco,
era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’espressione della gente rivela che
siamo in presenza ormai della nuova creazione, quella dei tempi messianici,
quando Dio rinnova ogni cosa ridando a ciascuna cosa il suo splendore eterno
perché tutto torni a proclamare la gloria del suo amore. Il secondo particolare
è data dalla particolare espressione con cui viene designato il sordomuto: un
sordo che parlava confusamente. E quando viene guarito si dice che parlava
correttamente, distintamente. Ora la confusione del linguaggio è la conseguenza
della stoltezza degli uomini che vogliono competere con Dio per il dominio
della terra, come ben si vede nell’episodio della torre di Babele. Rinunciando
alla gloria di Dio gli uomini si troveranno estranei tra di loro tanto da non
capirsi più. La ‘guarigione’ avviene il giorno di Pentecoste quando la
comprensione è data nonostante la diversità delle lingue e la comprensione si
baserà proprio sul fatto che tutti riconosceranno le meraviglie di Dio,
ciascuno nella sua lingua. Una volta che gli orecchi possono ascoltare la
Parola, la lingua sarà libera di glorificare Dio perché in quella parola,
sanante, è riconosciuta la Presenza del Signore, presenza che non ci sarà mai
più tolta e che unifica tutti. Il salmo 45 che viene proclamato oggi può essere
letto come la descrizione dell’umanità che attende la salvezza, il compimento
cioè della promessa di vita, di bene, di felicità, inscritta nel suo intimo e
la cui nostalgia è acuita dalle ferite e dalle oppressioni del peccato
simboleggiato dalle varie ‘malattie’ elencate. E la salvezza riguarda tutti,
perché in Gesù, che ha tolto il muro di separazione (cfr. Ef 2,13-18), non c’è
più giudeo e pagano, trovando tutti la stessa consolazione e lode nello stesso
amore di Dio.
Is 50,59; sal 114-115; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
Con il brano di vangelo proclamato oggi siamo al centro della narrazione di
Marco. Gesù incomincia a rivelare direttamente la sua passione, a cui seguirà
subito dopo l’episodio della trasfigurazione. La liturgia indica come un
percorso per arrivare a cogliere la realtà del mistero della persona di Gesù.
Gesù era apparso ‘convincente’ per molti da indurre alcuni a seguirlo
totalmente e devotamente. Aveva operato segni straordinari e il suo dire, il
suo raccontare in parabole aveva catturato il cuore di tanti. Era forse il
momento di traghettare i discepoli ad una comprensione più profonda e veritiera
della sua persona e chiede loro: “Chi dice la gente che io sia?”, “E voi chi
dite che io sia?”. La domanda sottende la stessa problematica di Giovanni
Battista: è lui o dobbiamo aspettare un altro? La gente pensa che lui sia stato
mandato a preparare la via al Messia, mentre Pietro confessa invece che proprio
lui è il Messia che si aspettava. Gesù prende così sul serio la risposta di
Pietro che apertamente svela il suo futuro di passione, del resto annunciato
dal brano di Isaia della prima lettura. Gesù – dice il testo – non
semplicemente spiega, ma ‘insegna’ che ‘doveva’, ‘era necessario’ che avesse da
soffrire molto. Questi due termini (‘insegna’ e ‘doveva’) indicano che l’uomo
non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso, ma
che la sua conoscenza proviene da una rivelazione, viene dall’alto. Pietro, che
rifiuta quella rivelazione, in effetti non comprende e si prende il rimprovero
di Gesù. In quel rimprovero però c’è tutta la pedagogia di Dio con l’uomo e
Pietro ne farà tesoro. Gesù riprende la testimonianza di Es 33,20-23, là dove
Dio dice a Mosè che non potrà vedere il suo volto, ma solo di spalle. Quello
che nella versione italiana leggiamo: ‘lungi da me, satana’, in realtà vuol
dire: stai dietro a me, vienimi dietro, se vuoi vedermi in verità. Solo
camminando dietro il Maestro si potrà vederlo in verità fino alla visione della
croce, là dove risplende l’amore di Dio per gli uomini, convincendo i cuori che
solo da quell’amore scaturisce la vita per l’uomo e che solo in quell’amore la
dignità della vita si fa godibile. La verità che vale per il Maestro non è
diversa da quella che vale per il discepolo.
Quando Gesù riprende l’avvertimento
per tutti i discepoli dicendo che chi vuol venire dietro di lui deve rinnegare
se stesso e prendere la sua croce, ripete la stessa cosa. Gesù in verità lo si
può ‘vedere’ solo quando è trafitto perché lì risplende quell’amore di Dio per
l’uomo che rivela il suo vero volto. Se lì appare lo splendore dell’amore,
allora quell’amore è la vera ricerca della vita, la vera fonte di vita, motivo
di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da
quell’amore. Qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto
desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Nel fondo, siamo sempre nella
condizione di dover essere ‘istruiti dall’alto’ per afferrare la verità della
necessità di dover soffrire da parte di Gesù, e quindi anche da parte nostra, e
scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Lo sottolinea la
preghiera dopo la comunione: ‘La potenza di questo sacramento, o Padre, ci
pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma
l’azione del tuo santo Spirito’. È la potenza della visione del Signore
trafitto che diventa fonte di vita perché apre alla conoscenza dell’amore. È
per quella visione e dentro quella potenza che san Paolo, nella sua lettera ai
Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Di null’altro mi glorio se non
della croce di Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso
e io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, di cui ho
avuto la visione nel guardare al Signore trafitto, non c’è nulla nel mondo che
meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare nel mondo il
compimento. La preghiera della chiesa tende a rendere vivace per il nostro
cuore tale verità.
Sap
2,17-20; sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
Il canto
al vangelo fornisce la prospettiva appropriata per cogliere il senso del brano
evangelico di oggi: “Benedetto sei tu,
Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i
misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). Due i punti da tener presenti.
Primo, l’intelligenza delle Scritture avviene per rivelazione e non per
semplice comprensione. Secondo, con la rivelazione sgorga la benedizione, che
assume due direzioni: una benedizione dall’alto, da Dio al cuore e una benedizione
dal basso, dal cuore a Dio. Ora, la rivelazione consiste nell’essere messi a
parte dei segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. Lo
dichiara a chiare lettere la prima lettura, presa dal capitolo secondo del
libro della Sapienza, che introduce il discorso degli empi con queste parole: “Dicono fra loro sragionando…” e lo
conclude con queste altre: “Non conoscono
i segreti di Dio”. Ma i segreti di Dio sono appunto i misteri del regno dei
cieli, come dice il vangelo.
Il brano
di oggi ripresenta per la seconda volta l’insegnamento (‘istruiva infatti i suoi discepoli’) di Gesù sulla sua passione. Per
tre volte Marco riporta la parola di Gesù sulla sua passione (cfr Mc 8,31;
9,31; 10,32) e tutte e tre le volte Gesù accompagna la sua ‘predizione’ con una
istruzione particolare. La ‘rivelazione’ non va colta solo in rapporto al fatto
che Gesù parla della sua passione, cosa che evidentemente usciva dagli schemi
mentali dei discepoli, ma anche in rapporto all’istruzione che l’accompagna. Il
primo annuncio della passione comporta il rimprovero a Pietro: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi
secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro aveva pensato: no, così no! Non
può essere! E si sente dire: vienimi dietro, se no non vedrai il mio volto! Il
secondo comporta il rimprovero ai discepoli che discutevano chi fra loro fosse
il più grande. Il terzo invece comporta il rimprovero a Giacomo e Giovanni che
avrebbero voluto sedere a destra e a sinistra del suo trono nella gloria.
Mentre Gesù annuncia il suo destino in Dio, gli uomini sono alle prese con
un’incapacità di comprendere perché vogliono essere grandi e avere gloria.
L’annuncio della passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla
mente degli uomini, eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.
Analizziamo
più in dettaglio il secondo annuncio, quello del brano odierno.
L’incomprensione dei discepoli è svelata proprio dall’oggetto del loro
discutere (in effetti, non si tratta semplicemente del loro parlarsi, ma della
contesa della discussione, come esprime il verbo che usa Gesù quando fa loro la
domanda): “Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande”. Gesù non rimprovera direttamente il loro desiderio di
grandezza; si limita ad indicare la via di grandezza gradita a Dio: “Se uno vuol essere il primo, sia l' ultimo
di tutti e il servo di tutti". E poi, prendendo un bambino, aggiunge:
“Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi
accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Voler essere il
primo significa voler essere come Colui che è il Primo (“Io
vi dico, tra i nati di donna non c' è nessuno più grande di Giovanni, e il più
piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”, Lc 7,28), il quale si è
fatto servo di tutti fino a morire sulla croce, perché tutti potessero
conoscere quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini. Gesù parla della
grandezza per il regno dei cieli, che è grandezza di rivelazione dell’amore di
Dio per gli uomini. Essere ultimo non significa essere dietro a tutti gli
altri, ma solo servo di tutti perché
l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona più
significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di
Dio.
Il riferimento
ai bambini è più misterioso, almeno nel brano di Marco. Nel passo parallelo di
Mt 18,1-5, Gesù prima invita i discepoli a diventare come bambini (“Perciò
chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno
dei cieli”) e poi li invita ad
accoglierli. Ma la traduzione ‘diventerà piccolo come’ è fuorviante rispetto al
contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo
comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso
come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della
passione, perché Gesù è proprio Colui che ha umiliato se stesso, facendo
risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli
uomini e questo è motivo della sua grandezza. Allora il riferimento al bambino
può essere compreso sia nel senso della confidenza verso il Padre sia nel senso
della debolezza estrema patita e diventata luogo di gloria. A tal punto, che
Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, con ogni uomo nella sua debolezza, tanto
che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi
onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in
questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha
patito, è morto ed è risuscitato.
Se Giacomo, nella
sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura,
pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza
parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha
conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando,
nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da
questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il
nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.
Nm
11,25-29; sal 18; Gc 5,1-6;
Mc 9,38-48
Il tema
della liturgia è sempre lo stesso: scoprire i misteri del Regno. E come sempre
emerge la diversità di approccio del Maestro e dei discepoli. L’uno annuncia la
sua passione, gli altri discutono delle loro ambizioni; l’uno favorisce l’opera
di Dio, ovunque possa manifestarsi, gli altri vorrebbero avocare a sé i diritti
di Dio; l’uno agisce in vista del Regno, gli altri vorrebbero il regno in
questo mondo.
Dopo
l’annuncio della passione risulta chiaro che il destino del Maestro sarà il
destino dei discepoli, l’eredità del Maestro costituirà l’eredità dei
discepoli. Ma destino e eredità non sono facilmente accoglibili dall’uomo;
occorre il dono dello Spirito, che sarà effuso proprio dalla croce con la
testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini da parte del Signore Gesù. In
questa ottica la prima lettura tratta dal libro dei Numeri, con l’episodio del
dono dello Spirito ai settanta anziani e ai due uomini rimasti nell’accampamento,
Eldad e Medad, non va vista solo a conferma dell’atteggiamento di Gesù che non
vuole venga impedita l’azione di Dio dovunque si manifesti, a differenza dei
discepoli che vorrebbero invece limitarla al loro gruppo (“Chi non è
contro di noi è per noi”). Va vista in
rapporto alla necessità dell’effusione dello Spirito per accedere ai misteri
del Regno. Mosè non può essere geloso della visita di Dio perché se Dio visita
è appunto per attrarre tutti a Sé; così i discepoli non possono essere gelosi del
dono dello Spirito perché quel dono è dato proprio perché tutti entrino nei
misteri di Dio.
C’è
però una condizione. Se i discepoli, invece di cercare i misteri di Dio, si
abbandonano alle loro ambizioni e rivalità, allora non potranno accedere ai misteri
del Regno e tratteranno tutto e tutti in base a quelle ambizioni e molti ne
soffriranno. Ma guai a coloro che saranno causa di queste sofferenze: “Chi
scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si
metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare”. Siccome i
misteri del Regno sono l’eredità di tutti e sono la cosa più preziosa che un
cuore può mai desiderare da parte di Dio, allora ostacolare, danneggiare,
rovinare tale eredità è quanto mai terribile; comporta l’esclusione dal
godimento di quella stessa eredità con la corrispondente perdita di senso della
vita.
Per questo Gesù è durissimo nel replicare
loro, come precedentemente aveva fatto con Pietro: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella
vita monco, che con due mani andare nella Geenna… Se il tuo piede ti
scandalizza, taglialo… Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te
entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi
nella Geenna…”. Cosa significa? Se la passione per il Regno non conquista
il cuore, tutto risulterà vano. Se l’amore del Regno non prevarrà, sarà
inevitabile vivere e far vivere nella sofferenza. Che senso potranno avere allora
quelle tormentose sofferenze se impediscono la via della vita? È tutto il
dramma dell’uomo. L’avvertimento di Gesù è dunque chiaro: taglia, rinuncia a
qualsiasi cosa che contrasti o rinneghi la via della vita. Il che equivale a
dire: primo, rinuncia a tutto ciò che ti impedisce di accogliere la dinamica di
vita che porta il Signore Gesù con il suo far conoscere lo splendore dell’amore
di Dio per l’uomo; secondo, non puoi riuscire in tale rinuncia se non ti è mai
apparsa nella sua bellezza la testimonianza sua rispetto all’amore di Dio per
l’uomo che colma ogni desiderio.
I
misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù. Il capitolo
9 di Marco termina con queste parole che riassumono tutto il senso della
pericope: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”.
Come a dire: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come
tesoro del vostro cuore e rinuncerete (‘sale’ come rinuncia) a ogni forma di
ambizione e rivalità, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di
Dio in voi e come frutto del dono dello Spirito Santo. E io aggiungerei anche:
come godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi
è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato. La sua venuta è così vera che,
per i discepoli vale il detto: chi tocca un uomo, tocca Dio, mentre per coloro
che ancora non credono in Lui vale la ricompensa: chi dà a un discepolo di
Cristo, dà a Cristo.
Gn
2,18-24; sal 127;Eb 2,9-11; Mc 10,2-16
Le
letture di oggi parlano del valore del matrimonio agli occhi di Dio. In che
prospettiva, su quali fondamenti? Il brano di vangelo riporta l’interrogazione
dei farisei a Gesù: “E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?”. Si annota però che la domanda gli è posta per metterlo
alla prova. In cosa consiste allora la prova, il tranello? Non è facile
intuirlo subito. Il brano va letto con molta attenzione perché diversi dettagli
non sono affatto scontati. Gesù, come al solito, ritorce la domanda e prende le
distanze subito: “Che cosa
vi ha ordinato Mosè?”. Ma i farisei si guardano bene dal rispondere che
Mosè ha ordinato di ‘scrivere l’atto
di ripudio e di rimandarla’; si limitano a dire che Mosè ha permesso. Perché? Eppure Gesù, quando a
sua volta ribatte, parla effettivamente di norma, di comando. Perché?
I
farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro
Tuttavia
Gesù vuole arrivare al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione
restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento
su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine,
per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge,
bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama
l’atto della creazione: “Dio li creò maschio e femmina; per questo l'
uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola”. Quella
‘benedizione’ di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità
umane. E quella ‘benedizione’ costituisce l’asse di riferimento perenne del
valore del matrimonio. Ma se ci chiediamo qual è la ragione sulla quale si
infrange la liceità del ripudio, per giunta riconosciuto solo all’uomo
nell’ambiente giudaico, allora il riferimento all’agire di Dio acquista un
valore anche dal punto di vista del cuore dell’uomo. In realtà Gesù critica la
Legge e difende l’onore di Dio in quanto richiama il principio di uguaglianza
tra l’uomo e
È
del resto significativo che il canto al vangelo riprenda un passo della prima
lettera di Giovanni: “Se ci amiamo a vicenda, Dio è in noi e la sua carità in
noi è perfetta” (Il versetto
completo suona: Nessuno mai ha visto Dio;
se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l' amore di lui è perfetto
in noi). Come a suggerire: la dignità dell’amore, che rende l’uomo e la
donna di pari valore, deriva dal fatto che solo attraverso l’amore possiamo
fare esperienza di Dio sia della sua vicinanza sia della conoscenza di Lui, a
pari titolo tra uomo e donna. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel
loro amore, in gioco è la ‘consumazione’ dell’amore di Dio che si rivela in
essi.
Il
modo di ragionare e di comportarsi di Gesù è quello della fede. Anche nella
pericope seguente sulla sua accoglienza dei bambini. Gesù vede ogni cosa in
funzione del Regno e se i bambini disturbano i grandi è perché i grandi non
vedono la realtà del Regno, dato solo a chi è come i bambini. La dignità delle
persone non è in funzione del loro valore o importanza personale, ma in funzione
della venuta del Regno di Dio, della possibilità cioè di godere dello splendore
dell’amore di Dio. Così, dopo che Gesù aveva annunciato per la seconda volta
che avrebbe dovuto patire e morire per essere fedele alla via di Dio e mostrare
al mondo il suo amore, ha richiamato i discepoli all’amore vicendevole senza
cedere a rivalità o ambizioni, a stare ‘uguali in dignità’ nell’amore tanto tra
di loro quanto nei rapporti tra uomo e donna.
Sap
7,7-11; sal 89; Eb 4,12-13;
Mc 10,17-30
Se
paragoniamo le figure di Salomone, a cui si ascrive la paternità del libro
della Sapienza, da cui è tratta la prima lettura di oggi e quella del giovane
ricco che chiede a Gesù come poter avere la vita eterna, comprenderemmo meglio
la risposta di Gesù e lo sbigottimento dei discepoli. Se Salomone prega per
ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. La
sapienza viene dall’alto, procede da una rivelazione accolta come
partecipazione alla vita di Dio e diventata energia di vita, radice di
comportamento. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi
di grazia’, di ‘manifestazione della gloria di Dio’, di consistenza dell’agire
dell’uomo. Grazia, gloria e consistenza che esprimono la rivelazione dell’amore
di Dio per l’uomo, rivelazione che in Gesù si manifesta in tutto il suo
splendore. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è
splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore
nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo
e lo rende splendente. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni
altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero
significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare
a quella sapienza. E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi
potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” vuol dire
che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può
conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si
accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non
equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno
che ci vuol far dono di Sé.
Quando si
presenta il giovane ricco, sembra che l’orizzonte della sua richiesta sia molto
più limitato. Non è soddisfatto delle sue ricchezze e della sua vita, e per
questo corre da Gesù, ma non riesce a distinguere tra i beni il Bene. La vita
eterna che mostra di volere è assai diversa da quello che Gesù chiama l’entrare
nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla
ispirazione che l’ha dettato. In effetti, un conto è eseguire i comandamenti,
un conto è cogliere l’ispirazione segreta dei comandamenti; un conto è
praticare il bene, un conto è cogliere il frutto della pratica del bene. Il
dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il bene e non
arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona
nell’affermazione di Gesù: “Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Si possono fare i
comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato
quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del
desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. È per questo motivo
che Gesù, desideroso di avere amici che condividono quei segreti, invita il
giovane. Non si tratta tanto di lasciare tutto, quanto di venire dietro a Gesù,
l’Inviato sul quale riposa tutta la compiacenza del Padre e nel quale anche gli
uomini possono gustare la benedizione di quella compiacenza. L’uomo non arriva direttamente al frutto se
non stando con il Signore Gesù: è Lui che ci introduce nel Regno, in quella
intimità con Dio che sazia il desiderio del nostro cuore. Il senso della nostra
vita si gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto
di Dio ed il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel
Figlio che è stato dato per noi. Se entrare nel segreto di Dio è impossibile
all’uomo, non lo è per Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
perché anche noi, in Lui, possiamo godere della sua gioia. In questo senso si
capisce bene la tristezza di Gesù davanti al giovane ricco: egli rifiuta
l’ingresso ad una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere
più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui
motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare
nel Regno, che gli è balenato davanti.
Dalla reazione dei discepoli si
deduce che la distanza tra loro e quel giovane non è poi così marcata. Anche i
discepoli condividono con quel giovane il suo modo di pensare. La differenza risiede
nel fatto che i discepoli sono ‘capaci’ di provare a credere a Gesù, capacità
che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio
che in Gesù si manifestano e si compiono lasciandosi conquistare totalmente.
Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno nell’aver
abbandonato tutto per seguire il loro Maestro; dichiara semplicemente che a
loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli
risponde con la ‘promessa’ che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto
che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro
cuore, come esprime il canto al vangelo, ‘qual è la speranza della nostra
chiamata’.
Is 53,2-11; Sal
32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
Come sempre, Gesù
non si irrita davanti alle domande dei suoi discepoli, anche se suonano fuori
posto. La richiesta dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, di sedere nella
gloria del Cristo uno alla destra e uno alla sinistra, si colloca nel contesto
della salita di Gesù a Gerusalemme quando, ormai in prossimità della città,
ricorda ai discepoli per la terza volta che il Figlio dell’uomo sarà
condannato, vilipeso, ucciso e poi risorgerà. Il momento è altamente
drammatico. Da parte dei discepoli si tratta di una domanda seria, non proviene
da cuori vanesi o vanitosi. E’ in gioco il senso stesso della loro vita, il
senso della loro sequela, il senso di quell’evangelo che li ha toccati
profondamente e che nella persona del Maestro ha concentrato le tensioni dei
loro cuori. Corrisponde, quella richiesta, forse in maniera più presuntuosa,
alla domanda di Pietro: abbiamo lasciato tutto, cosa avremo? E’ la domanda che
accompagna, in sordina, i cuori dei credenti.
Gesù riconosce la lealtà dei due discepoli. Sa che sono
disposti a seguirlo fin nella sua passione. Per loro vale sicuramente la lode
di Paolo: “a
voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo; ma anche di
soffrire per lui”
(Fil 1,29) [di fatto Giacomo morì martire verso l’anno
Nella
sua risposta Gesù svincola la grazia del seguirlo e del soffrire per lui da
ogni possibile ‘finalità’ umana: “Il calice che io bevo anche voi lo
berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla
mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i
quali è stato preparato”. Il mistero del seguire il Signore e del soffrire
per lui resta intatto ed assoluto nella sua densità e purità; non è finalizzato
a nient’altro. Non è possibile seguire il Signore aspettandosi una ricompensa:
ne verrebbe svuotato l’anelito di fondo che spinge i cuori a fare uno spirito
solo con il Signore. La ragione profonda risiede nel fatto che ad attirare a
Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi
ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore
di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può
desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella dinamica e fallire il
compimento dei desideri del cuore. A questa ‘assolutezza’ Gesù richiama e
rimanda.
Del
resto si concatena bene a questa risposta, anche l’altra risposta di Gesù
all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo: “…chi vuol
essere grande tra voi si farà vostro
servitore …Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Perché voler essere
grandi comporta, seguendo il Signore Gesù, dover servire? Di nuovo si è
rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere
quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in
Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa
far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli
uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di
realizzare una grandezza che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro
di essere non soltanto oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire
procura questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la
presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo
in atto è ancora un servire troppo umano, sentimentale generosità o semplice
incapacità di affermazione. Quando Gesù chiede ai figli di Zebedeo: ‘potete
bere il calice che io bevo?’ è come se chiedesse: potete stare solidali con il
desiderio di Dio verso gli uomini e contemporaneamente stare solidali con
l’umanità di modo che il Suo amore risplenda liberatore per voi stessi come per
loro? Questa è la posta in gioco del servire. E questa è la posta in gioco
della grandezza secondo Dio, che compie, per noi e per tutti, insieme, le
attese dei cuori.
Ger
31,7-9; sal 125; Eb 5,1-6;
Mc 10,46-52
Il brano del vangelo di oggi ha degli
accenti assolutamente particolari. I verbi, anzitutto. Tutti i verbi del brano
sono intensivi: Bartimeo, il cieco alle porte di Gerico, grida, non
semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è
diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della
preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie;
balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro una
conoscenza che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai
potuto vederlo in faccia e appena lo vede, si mette a seguirlo. E dove Gesù lo
porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo
prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie
la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai
abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie. E così la
figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e
della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori.
In secondo luogo, assume un tono del tutto speciale il
titolo che il cieco dà a Gesù: “Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono
accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello
stesso Gesù. Quella espressione nasconde un mondo. Solo in un altro passo
evangelico risuona quel titolo, sulla bocca di Maria Maddalena quando, nel
giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione
(cfr. Gv 20,16). Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene
pronunciato! Rivela la natura di un rapporto personale, intimo, con Gesù di cui
ormai ha condiviso vita e sentimenti, verso cui tende con tutta la sua anima.
Anche per Bartimeo quell’appellativo nasconde una tensione fortissima
dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione
dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando
che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. In
effetti ogni guarigione procurata dalla fede si traduce sempre in un andare, un
andare appunto dietro a Colui che si è mostrato e che ci ha rapito il cuore.
Collegato alla prima lettura, al
brano di Geremia, di quel capitolo 31 così ricco di immagini e contenuti, la
guarigione del cieco di Gerico rivela tutto il suo senso. Quel capitolo
descrive il compiersi della promessa di Dio per gli esuli a Babilonia, l’arrivo
a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che è foriera di un’altra
promessa, quella di una nuova alleanza scritta sui cuori quando Israele
corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore al suo
popolo e tutto sarà riedificato nuovamente. Ma quello che è straordinario è la
descrizione dei sentimenti di Dio per il suo popolo: “Ti ho amato di amore
eterno …le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza
… tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché
io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. E’
il ‘segreto del re’, che si fa noto in Gesù, avvertito confusamente ma
potentemente anche da Bartimeo. Troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a
lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato per indugiare ancora:
tutto scoppia, prorompe, perdendo ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con
impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da
non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo
risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto
da parte di Dio. E’ l’esito della nostra preghiera: tornare ad avere il cuore
che vede compiersi, svelarsi nella nostra vita il segreto di Dio. In questa
prospettiva ha senso l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso
di oggi: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua
potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto
per l’uomo. La preghiera è appunto la condivisione della ‘fretta’ che muove
Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che
trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione ‘gridata’ con
tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc
7, 26) e Bartimeo: “Figlio di Davide,
abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo
appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore,
tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti.
Ap 7,2-14; Sal
23; 1 Gv 3,1-3; Mt 5,1-12
La
preghiera che riassume il senso della festa di oggi credo possa essere l’orazione dopo la
comunione: “O Padre, unica fonte di santità, mirabile in tutti i tuoi santi,
fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa
mensa eucaristica, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso
banchetto del cielo”. Intendendo l’espressione ‘raggiungiamo anche noi la
pienezza del tuo amore’ così: fa’ che possiamo fare esperienza del tuo amore in
modo da esserne ricolmi e farlo risplendere in tutta la nostra vita; fa’ che
anche noi, come i santi, possiamo dire in tutta verità: quanto è grande il tuo
amore per noi! Gli eletti, nella visione dell’Apocalisse, portano in fronte il
sigillo del Dio vivente e proclamano: “La
salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Ap
7,10). La proclamazione, a livello sonoro, esprime quello che il tau significa
a livello visivo: Dio è santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole
rivelano la comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione
giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che
il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua
gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti. E’ la proclamazione dei beati in
paradiso, ma noi oggi preghiamo perché diventi la proclamazione del nostro
cuore fin da ora. E’ appunto lo splendore che emana da questa rivelazione al
cuore dell’uomo a testimoniare la presenza della santità di Dio in mezzo agli
uomini, quello splendore che promana così chiaramente da tutti i santi.
Il nesso che la liturgia di oggi
sottolinea in modo evidente, sebbene sia colto flebilmente dalla nostra
coscienza pensante, è il nesso
santità/felicità. Le beatitudini di Gesù lo proclamano con la potenza che
scaturisce dal dono del regno di Dio che si fa come evidente e che gli uomini
scoprono con un sentimento di gioia incontenibile: felici voi se siete poveri …
se siete miti… se siete misericordiosi… se siete portatori di pace, ecc. Il
canto al vangelo dà ragione di questa gioia: “Venite a me voi tutti che
siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
carico leggero”
(Mt 11,28-30). E’ la gioia del regno scoperto come il tesoro nel campo, come la
perla di gran valore che permette la vendita di tutto il resto. E’ quella
‘perfetta letizia’ che ha invaso il cuore e che non è scacciata più da nulla,
nemmeno dalle afflizioni più ingiuriose, perché mai si separa dalla sorte del
suo Signore, divenuto ormai il ristoro dell’anima, il suo riposo. Già la
tradizione ebraica conosceva la ‘gioia del giogo’ della Legge, come leggiamo
nel libro del Siracide: “Sottoponete il collo al suo giogo,
accogliete
l’istruzione. Essa è vicina e si
può trovare. Vedete con gli
occhi che poco mi faticai, e vi trovai per me
una grande pace”
(Sir 51,26-27). Ma la ‘gioia del regno’ è ancora più coinvolgente e radicale,
che arriva alle radici del cuore e ne alimenta la vita. Capace di far dire:
l’afflizione del tuo cuore è affare tra te e Dio, mentre i tuoi fratelli hanno
diritto alla tua gioia; non tenere i tuoi beni come costituissero la tua gioia,
perché quando te li toccassero, sparirebbe la tua gioia; non rivendicare
diritti perché quando non te li riconoscessero resteresti schiacciato.
E
come questo è possibile per noi, che conosciamo bene la fatica e l’oppressione
del vivere quotidiano? In effetti, non si può evitare fatica e oppressione
nella vita. Tutto sta a portare le fatiche giuste, le fatiche che procurano i
frutti desiderati dal cuore. Ed è quello che garantisce il Signore con il dono
di Sé come ristoro, come riposo per il nostro cuore, il segreto felice della
santità. E’ strano: c’è una fatica che si assomma e che finisce per opprimere;
c’è una fatica invece che moltiplica la gioia e la ‘leggerezza’ del procedere,
che rinnova le energie e dà impulso di vita. E’ la fatica delle beatitudini,
che mortificano le nostre illusioni ed i nostri sogni di esibizione, ma che
rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita. E’ la storia della santità,
come la vediamo nelle vite dei santi e come ciascuno la può percepire nel suo
cuore, quotidianamente, ogni volta che si lascia sorprendere dalla gioia del
regno.
Dt
6,2-6; sal 17; Eb 7,23-28;
Mc 12,28-34
Il brano del vangelo di Marco comporta
una particolarità unica nei vangeli. È l’unico passo di tutto il vangelo in cui
Gesù si congratula con uno scriba. Quello scriba, che alla fine riceve l’elogio
di Gesù: ‘Non sei lontano dal regno di
Dio’, aveva assistito alla discussione di Gesù con i sadducei a proposito
della risurrezione dei morti. Aveva certamente notato che la forza del
ragionamento di Gesù si basava sul fatto che Dio era proclamato Dio dei vivi: “Non avete letto nel libro di Mosè,
a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi!”. Se Dio è Dio dei vivi, vuol dire allora che la morte
non costituisce barriera per Lui; vuol dire che la morte non distrugge la Sua
fedeltà che tutto sovrasta. Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa
che il cuore enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore che arriva
all’uomo nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme
la nostra storia. Dio non è un oggetto
di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via
speculativa, ma dentro una storia di salvezza. Più ci si percepisce dentro
quella storia di salvezza e più la proclamazione di Dio è assoluta e
coinvolgente. È appunto quel Dio così esperito che merita di essere amato con
tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.
L’espressione
del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio
con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” ricorda che
‘nostro/mio’ ed ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza. Secondo la bellissima espressione di Origene
tale è la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe
e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio
di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.
Gesù, rispondendo allo scriba,
cita proprio quel passo, che costituisce la confessione di
fede del pio israelita, la parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni
ebreo praticante: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il
Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta
l’anima e con tutte le forze”. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve
senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. In Dio l’uomo scopre
le sue radici. ‘Il Signore è il nostro
Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo
riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una
solidarietà. E’ il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro
il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che
Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo
raggiunto dall’agire di Dio. Quindi: ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta
l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un
imperativo morale, ma la porta di accesso ad un segreto, ad un mistero di cui
sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla
parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà
bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito
e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverli
compiutamente. Ma come è possibile se non riusciamo a percepirci prima
raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un amore che ci precede? La
‘scoperta’ della fede in Gesù si colloca proprio dentro quella prospettiva. È
per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia di quella scoperta, viene
elogiato.
Del resto, nella risposta di Gesù viene descritto tutto
il movimento di intelligenza delle Scritture, che non può non portare a far
condividere con tutti quello che ormai è percepito come il tesoro del cuore,
per cui dal primo comandamento si passa direttamente al secondo, quello
dell’amore del prossimo. Non però nel senso che l’amore per l’uomo è parallelo,
per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso che l’amore per l’uomo non sarà
totale che a partire dall’amore per Dio. La fede è sempre all’origine della
carità, sebbene sia la carità a verificare la sincerità della fede. Così tutta
l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito e che è tesa a mostrare
il mistero della fraternità come rivelazione della presenza di Dio nel mondo,
parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita
con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa la scoperta di quel che
comporta l’incontro col Signore Gesù: “Venite
a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
carico leggero” (Mt 11,28-30); poi si compie in noi la sua promessa, come
viene proclamato nel canto al vangelo: “Chi
accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato
dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Consapevoli sempre che “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto,
perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
1
Re 17,10-16; sal 145; Eb 9,24-28;
Mc 12,38-44
La
liturgia della Chiesa oggi è come un commento all’elogio che Gesù tributa ad
una povera vedova a sua insaputa. È significativo che il canto al vangelo
introduca il brano con l’invito che nel giudizio finale il Re rivolge ai suoi
eletti: “Venite, benedetti del Padre mio,
dice il Signore, ricevete il regno preparato per voi fin dall’origine del mondo”
(Mt 25,34). L’elogio di Gesù alla vedova cela proprio quell’invito.
Quell’invito, dolce e premuroso da parte di Dio, le appartiene, svela ciò che
nasconde il suo cuore nella sua umile offerta. L’antifona alla comunione lo
sottolinea di nuovo: “Il Signore è il mio
pastore, non manco di nulla…”. Di questa ‘certezza’ era colmo il suo cuore,
certezza che fa dire a Gesù: “In verità
vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché
tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha
messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
Gesù non vuole stabilire una
preminenza; solo gli uomini pensano sempre a riconoscersi per la loro
importanza (sia essa personale, di merito, di censo, di doti, ecc.). Gesù vuol
esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio
e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa
affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non
lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna si fida del suo Dio,
con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella
sua ‘gratuità’, nella sua ‘radicalità’, non ha bisogno di sfruttare nulla che
appartenga all’uomo; pochi però fanno così affidamento alla promessa di Dio da
abbandonarsi, umili e fiduciosi, senza remore, come la povera vedova di cui
Gesù tesse le lodi senza che lei neanche lo sappia e nemmeno se ne renda conto.
Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia
semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze giocano
evidentemente a sfavore. E dove si esprime qui la promessa di Dio? La
traduzione inganna. Letteralmente si dovrebbe rendere: “dalla sua mancanza
gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore
‘strano’: non chiede né poco né tanto né tutto: chiede quello che non hai. Il
gesto della vedova che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua
vita assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai
comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti
… portatori di pace … misericordiosi…”. Uno dà quello che ha, questa è
la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che
non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono
affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è
possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare
mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della
promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto
trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché se già
non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da
Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose
, vale a dire il tempio e il suo popolo per cui si portavano le monete al
tesoro. Ed in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile,
sulla fedeltà di Dio.
Gregorio Magno, commentando la
prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a
dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma,
aggiunge 'ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sè'. E' il senso della
fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare
nulla per sè, vale a dire fidarsi fino in fondo, con tutto il cammino, con
tutte le fatiche che questo comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa
rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.
La vicenda del profeta Elia e della
vedova di Zarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della
parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non
muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la
vita sua e del profeta e del popolo dei credenti in generale. Nessuna offerta
di questo tipo ha un valore meramente individuale. Riguarda sempre l’insieme,
coinvolgendo insieme Dio ed il suo popolo, per cui la vita in questo mondo
risulterà più vivibile e la presenza di Dio più tangibile, per tutti. Il
ritornello del salmo responsoriale, se letto in rapporto alla vedova, acquista
una risonanza più profonda: ‘beati i poveri in spirito, di essi è il regno dei
cieli’. Lei è di quei ‘poveri’ nei quali prevale la beatitudine promessa perché
la fedeltà di Dio per lei è cosa nota, vera, tanto da scavare nella sua
indigenza la gioia del vivere, perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va
letta non solo in rapporto al fatto che soltanto i poveri in spirito avranno
parte al regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo
questi poveri, avremo toccato il regno dei cieli, il regno dei cieli sarà reso
visibile a noi.
Dn
12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-18; Mc 13,24-32
Il ciclo
dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa si trova proiettata nella
tensione escatologica, nella ‘attesa della fine’. Le letture di oggi ricordano
gli eventi ultimi, misteriosi, quelli che precedono l’avvento del Figlio
dell’uomo sulle nubi quando verrà nella gloria a giudicarci e ad aprirci le
porte del Regno. Tutto il cap. 13 di Marco è dedicato a questo discorso in
chiave apocalittica. Questo modo di parlare immaginifico, a tinte forti, a
volte fosche, ci risulta difficile da comprendere, difficile da assimilare,
difficile da aprire. In un’unica sequenza vengono mescolati gli avvenimenti
della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme ad opera dei
romani, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei
credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente.
Come disporre il cuore ad ascoltare quella parola di vita che risuona in tutte
queste parole?
La finestra di luce è data
dall’antifona di ingresso che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta
Geremia: “Dice il Signore: «Io ho
progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò, e vi
farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi»”. Anche la colletta la
riprende con la supplica: “… donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità
attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio, che verrà per
riunire tutti gli eletti nel suo regno”. La preghiera non ci indica
semplicemente un evento futuro, ma ci illustra una tensione, la tensione del
desiderio di Dio di stare con gli uomini, finalmente ri-conosciuto nel Suo
amore per i suoi figli, che si realizza nella storia. E perciò va intesa:
donaci lo Spirito di Gesù che fa risplendere il tuo amore tra gli uomini perché
anche noi, mossi dallo stesso amore, possiamo vedere fin da ora l’avvento del
tuo regno che compone in unità i figli di Dio dispersi. Per questo Lui è
venuto, in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi, di
questo attendiamo finalmente il compimento. L’insistenza sulle prove, sui
dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta
con immagini penetranti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da
Lui discende e che a Lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al
di fuori di Lui, al di fuori del progetto di pace di Dio per l’uomo,
quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la
dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la
rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza
far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione
assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è solo: badate
bene, state attenti, vegliate. State attenti a non lasciarvi turlupinare,
badate a voi stessi perché non vi si illuda, non bevete menzogne, non ingannate
il vostro cuore.
Gesù si fa premura di ricordarcelo:
“il cielo e la terra passeranno, ma le
mie parole non passeranno”. Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà
la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è
grande l’amore di Dio per gli uomini sia che se ne partecipi nella gioia sia
che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il
nostro agire nell’oggi che ci è dato sia teso a rivelare quella manifestazione,
a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che
ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Ogni evento della fine
non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio
dell’uomo il quale davvero ‘consuma’ la storia aprendola al suo fine, alla
rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci accompagna
resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno
tanto dolore? Perché l’amore, per apparire, deve attraversare un così grande
soffrire? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si convince un
cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E
la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge
quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio.
Proprio come canta un’antifona alla comunione della messa di oggi: “Il mio bene
è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”. Oppure, come
nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi,
o Dio: in te mi rifugio”, da intendere: veniamo custoditi proprio dalla
manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così viene
conquistato, amore che risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra
radice di vita.
NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE
DELL’UNIVERSO
Dn
7,13-14; sal 92; Ap 1,5-8;
Gv 18,33-37
Gesù si proclama re solo davanti a
Pilato quando ormai è chiaro l’esito del processo intentato contro di lui: sarà
condannato alla crocifissione. L’aveva più volte annunciato e Giovanni si era
fatto premura di punteggiare il suo racconto con quella predizione: “E come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell' uomo, perché chiunque crede in lui abbia
la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna" (Gv 3,14-16); “Quando avrete innalzato il Figlio dell' uomo, allora saprete che Io Sono e non
faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo”
(Gv 8,28); “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”
(Gv 12,32). Entrando trionfalmente a Gerusalemme, la folla lo acclama come il
re, il regno che viene, ma nessuno sospetta quale realtà quelle acclamazioni
comportino. Gesù collega il suo ‘innalzamento’ alla sua regalità e sulla croce,
a condanna eseguita, diventerà ‘il re della gloria’, come gli antichi crocifissi
riportavano sopra la sua testa. Così apparirà la ‘verità’ per testimoniare la
quale è appunto venuto a noi quel ‘re, crocifisso’.
Come
aprirci al mistero di rivelazione di questi termini che Gesù si attribuisce, ma
che risuonano in tutta la loro tragica ambiguità? In altre parole, di quale
regno e di quale verità mai si tratta? È quanto chiediamo di comprendere
nell’orazione dopo la comunione: “… fa che obbediamo con gioia a Cristo, Re
dell’universo, per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso”. Non
intendiamo solo pregare di obbedire a Cristo per entrare in paradiso. Preghiamo
invece perché si realizzino i desideri più profondi del cuore che, in quel
Gesù, re della gloria a partire dalla croce, viene conquistato all’amore del
Signore in modo così radicale da viverne lo splendore in tutti gli eventi della
vita senza che nulla possa soffocarlo. Come non è dato all’uomo altro Nome nel
quale essere salvati (cfr At 4,12), così non è data altra figura più
significativa e più rivelativa del senso del mondo e della nostra dignità di
quell’Agnello immolato che testimonia la verità dell’amore di Dio per l’uomo.
Perché questa è la verità che interessa all’uomo: Dio l’ha amato a tal punto
che il Suo Figlio si è sacrificato perché quell’amore potesse risplendere e
costituire la radice di dignità e di vita per l’umanità. Guardare a quel
‘Trafitto’ significa essere conquistati dall’offerta di alleanza di Dio che
sovranamente regna su tutto, attraversando ogni peccato e miseria,
oltrepassando ogni manchevolezza e timore, vincendo ogni resistenza e paura;
alleanza, che si traduce in desiderio di fraternità, dove ormai non si tratta
più di attirare a me le simpatie del Re, che è già tutto dalla mia parte, ma di
condividere con lui i suoi sentimenti verso l’umanità intera. Posso chiamare
mio il mio Re, quando rispetto a tutti sono soltanto servo perché condivido
ormai il suo segreto, che è il suo desiderio di intimità con tutti i suoi figli
finalmente realizzato.
C’è però anche un altro aspetto che
merita attenzione. Nella colletta della festa di oggi, ultima domenica
dell’anno liturgico, chiediamo di comprendere che servire è regnare. Lo
chiediamo perché toccati dallo splendore della ‘regalità’ di Cristo. La realtà
che esprime questo ‘servire/regnare’ partecipa delle stesse caratteristiche del
regno di cui parla Gesù: “il mio regno
non è di questo mondo”. Ciò significa che quell’amore che risplende in
verità è destinato a trasfigurare questo mondo, ma non proviene da questo
mondo, non trova la sua radice in questo mondo. Perciò non può modellare su
questo mondo la sua realizzazione, non può trovare in questo mondo la
giustificazione evidente. Eppure quell’amore esprime la verità del mondo nel
senso che lo apre e lo porta al compimento agognato. Così tutti gli amori di
questo mondo non sono che ombra di quella carità divina a cui in ultima analisi
rimandano, come tutti i poteri di questo mondo sono ombra del potere in verità
di Dio sul quale sono misurati. Quando i vari poteri ed i vari amori distolgono
da quella carità divina rinnegano le fonti stesse della loro legittimità e
diventano causa di tormento, sebbene i cuori non cessino segretamente di
anelare sempre, nonostante tutto, a quella carità divina che sola rende ragione
dei loro desideri. E’ secondo questa tensione che va compresa l’esortazione:
“aprite le porte al Signore: entri il re della gloria”, il Cristo Signore.