OMELIE PER LE DOMENICHE E LE FESTE LITURGICHE.

CICLO B.

 

 

AVVENTO.

 

PRIMA DOMENICA

Is 63,16-19; 64,1-7;   Sal 79;  1Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

 

         Con l’Avvento, tempo liturgico di preparazione al Natale del Signore nostro Gesù Cristo, inizia un nuovo ciclo per la liturgia della chiesa. La nota dominante sarà la vigilanza: “Vegliate! Badate bene! State attenti!...”. Perché e in cosa consiste il vigilare, a quale scopo vigilare?

         Tutto l’Avvento prende significato dall’esortazione di s. Paolo ai Corinzi, che egli descrive fervorosi e vivaci nella fede, ai quali non manca nessun dono di grazia e che restano “in attesa della manifestazione di Cristo”. L’espressione normalmente è considerata nella tensione dei credenti al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. Tra l’altro, l’ultima settimana liturgica dell’anno e la prima del nuovo anno comportano lo stesso tipo di brani: il ritorno del Signore Gesù. Ma quella tensione caratterizza anche il desiderio del cuore dei credenti nella vita quotidiana. Chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e ‘vedere’ la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della ‘vigilanza’. L’Avvento celebra dunque il ‘ritorno’ del Signore nel senso proclamato dal profeta Isaia: “Ritorna per amore dei tuoi servi…Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,17). Effettivamente si tratta di uno ‘squarcio’ dei cieli che permette la manifestazione del Signore: uno ‘squarcio’ che raccoglierà tutte le cose nella sola luce di Dio (la venuta del Signore nella gloria, alla fine dei tempi, tema della prima domenica di avvento), uno ‘squarcio’ che mostrerà la totale predilezione del Padre su quel Figlio che ha mandato a cercare l’umanità perduta, come rivela l’episodio del battesimo, di cui Giovanni Battista è testimone (la venuta del Signore nello Spirito, quando si rivela nella sua missione di salvezza, tema della seconda e terza domenica di avvento), ‘squarcio’ dei cieli che lasciano piovere il Giusto, annunciato e concepito nel seno di una Vergine e che viene donato a noi perché anche in noi nasca e cresca (la venuta nella carne, il suo farsi uomo, tema della quarta domenica). Tutti ‘squarci’ che alludono allo squarcio operato dal Signore nel nostro cuore, che viene così aperto al riconoscimento del suo Figlio prediletto, all’esperienza del Suo amore per noi, all’attesa che Lui parli al nostro cuore dell’amore del Padre per noi.

         La vigilanza alla quale la chiesa così fortemente richiama i suoi figli è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nella nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una ‘memoria’ calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. Ed è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.

Solo ai pastori che vegliavano nella notte è giunto l’annuncio degli angeli, solo a loro il cuore si è aperto alla letizia per la nascita di Gesù. La vigilanza è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Ma se intendiamo il ‘ritorno del padrone’ nel senso proclamato dal profeta Isaia, allora la vigilanza si risolve nel domandare al Signore di conquistarci con la sua benevolenza, di permetterci di accoglierlo, di riconoscere i suoi doni, la sua opera, il suo volto. E tutta la liturgia ha come scopo di ravvivare ‘la memoria’ del Signore, tanto da supplicarlo di occupare tutto lo spazio del nostro cuore perché risplenda dell’amore di cui è assetato, di cui ha nostalgia e di cui impara a diventare soggetto e testimone. Così la manifestazione del Signore al nostro cuore diventa anche il criterio di discernimento per riconoscere se il bene compiuto è stato operato secondo Dio, in modo gradito a Dio. Anche in tal modo va vissuta la vigilanza: la cosa buona che ho fatto, l’evento che ho vissuto, quale aspetto del ‘volto’ del Signore mi ha portato a vedere? Quale frutto di manifestazione del Signore ha svelato al mio cuore?

 

 

SECONDA DOMENICA

Is 40,1-5.9-11;  sal 84;  2Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

 

         La figura del Battista è tutta protesa all’annuncio, preparato da secoli, della venuta del Messia. “E’ vicino, è alle porte, preparatevi!”. La sua vocazione, perno della sua stessa identità, si confonde con l’annuncio che ha contrassegnato la sua vita: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Ha preparato la strada al Messia per il suo cuore, ha preparato la strada per il cuore dei suoi fratelli: il battesimo di acqua che impartisce, un battesimo di pentimento, di conversione, prepara al riconoscimento della venuta del Messia, per lui come per tutti; prepara all’accoglimento del disegno di salvezza di Dio che si manifesta nell’invio del suo Figlio, fatto uomo, testimone della verità dell’amore di Dio per gli uomini. Questo deve rivelarsi ai cuori, in questo i cuori potranno “vedere la salvezza del loro Dio”.

         L’annuncio del Battista si situa nello spazio che intercorre tra il desiderio di Dio di inseguire l’uomo volendolo per Sé e la rivelazione della gloria dell’amore di Dio che finalmente conquista l’uomo e ne compie l’umanità. Il desiderio di Dio risuona nelle parole del profeta: “Consolate, consolate il mio popolo”, riecheggia nell’esortazione della lettera di Pietro: “il Signore usa pazienza”, mentre la manifestazione della gloria dell’amore di Dio avverrà con il battesimo nello Spirito Santo, che soltanto il Messia potrà effondere sull’umanità. Tutta la storia di salvezza è compresa in quello spazio e tutta la nostra vita si gioca in quello stesso spazio. La conversione, il riconoscimento del nostro essere peccatori, il pentimento, consistono appunto nella percezione netta, forte, di quel desiderio di Dio per l’uomo, in attesa che quella percezione trasformi tutto il nostro cuore e lo apra stabilmente all’azione dello Spirito del Signore, fino a diventare principio di vita eterna che zampilla nell’intimo, come promesso da Gesù.

Ciò che si oppone alla conversione è l’insensibilità a quella percezione. Quando Pietro esorta a vedere la ‘pazienza’ di Dio è come se esortasse a diventare sensibili al desiderio di Dio di vivere in compagnia dell’uomo (che con il natale di Gesù acquisterà una densità ed una concretezza impensabili prima), a vedere in quella percezione la possibilità per l’uomo di vedere il mondo e la vita nel loro segreto, a vivere la propria vocazione all’umanità in tutto il suo splendore. Diversamente, il cuore è ghermito da quell’aria pesante che fa dire: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione, non potendo più scorgere alcun splendore. La ‘pazienza’ di Dio delude il peccatore, ma se il peccatore riconosce i suoi peccati vuol dire che ha cominciato a percepire il desiderio di Dio per l’uomo, allora benedice ed esalta la pazienza di Dio per lui e ne fa ragione di comportamento verso gli altri. Così, in qualche modo, ognuno contribuisce a preparare le strade al Signore; ognuno vive, in qualche aspetto, la vocazione del Battista, vocazione che si traduce nel far percepire una benevolenza di fondo verso tutti, nella ricerca della verità senza infingimenti, nella testimonianza di una via di vita percorribile, nel suscitare il fascino di un’esperienza desiderabile. Alla fin fine non si risolve in questo la missione della Chiesa nel mondo: ‘aprite le porte al Signore che viene’?

         Il salmo 84 lo dichiara in tutta chiarezza: “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Come a dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se l’esperienza è autentica, allora, come continua il salmo: la riconciliazione ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica ‘giustizia’ degna del cuore dell’uomo. Il salmo prosegue ancora: “la verità germoglierà dalla terra”, vale a dire: da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora; “e la giustizia si affaccerà dal cielo”, cioè: Dio dimorerà tra di noi, la presenza di Dio tornerà a risplendere nel mondo. Così si compie la profezia di Isaia: “Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà” [espressione che il testo ebraico rende con: ‘tutti gli esseri di carne insieme vedranno’]. L’azione di Dio che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.

 

 

IMMACOLATA CONCEZIONE

Gn 3,9-15.20;  sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

 

         Quella ‘benedizione’ che Paolo implora ed annuncia nell’esordio alla sua lettera ai Filippesi ha ricoperto e intriso in modo singolare la Tutta Santa, la Vergine Maria. In lei quella benedizione si fa così ‘concreta’ che prende addirittura corpo in lei: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla da desiderare. E tutta la storia, pur nella sua drammaticità, non è abbandonata a se stessa perché da sempre, ‘prima della creazione del mondo’, quella benedizione la sovrasta, l’accompagna.

         Quella benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

         A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità; con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

         L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Se rifacciamo a ritroso il tragitto delineato dal colloquio nel giardino tra Dio e Adamo e Eva dopo la trasgressione, ci ritroveremo nuovamente in una umanità condivisa e goduta insieme a Dio e a tutti i fratelli. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere quella paura di Dio allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio che continuamente bussa al suo cuore senza tener conto della sua paura: “dove sei?’, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine. La Vergine è proprio Colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità perché l’esperienza di cui è stata gratificata ridiventi, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Quando di lei dice che è la serva del Signore allude proprio a quel desiderio della dimora di Dio che si compie nel mondo, di cui tutto il suo essere è espressione e testimonianza e intercessione per l’umanità intera.

 

 

 

TERZA DOMENICA

Is 61,1-2.10-11;  1Ts 5,16-24;  Gv 1,6-8.19-28.

 

         Anche in questa domenica il personaggio di riferimento è il Battista, il testimone del Messia di cui ci prepariamo a celebrare il Natale. Ma questa volta il brano è tratto dal vangelo di Giovanni. Come Marco e a differenza di Matteo e Luca, Giovanni non narra l’evento della nascita di Gesù a Betlemme. Il suo sguardo si spinge oltre, fino ai confini della storia, oltre la storia. Giovanni risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…” per arrivare ad annunciare: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,1.14). Il Battista è il primo testimone di quella ‘gloria’ che via via apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo. La sua testimonianza è ancora tesa a dissipare le incertezze, i dubbi: ‘io non sono…’. Il Battista non è né il Messia né Elia né il Profeta. Condivide con la gente l’attesa del Messia, senza poter specificare oltre ma avrà la ‘capacità’ profetica di riconoscerlo presente nel mondo. Toccherà allo stesso Messia dire poi chi sia, mostrarsi nel suo mistero; sarà Lui ad amministrare appunto il battesimo in Spirito, mentre il Battista, con il suo battesimo di acqua, ne prepara solamente la manifestazione.

         La chiesa, però, sulla base della sicura testimonianza del Battista, intravede già l’azione del Messia, che riassume in un unico movimento, quello della letizia. Il Messia, il Cristo Signore, è la ‘letizia’ del mondo. Tutta la liturgia di oggi ne è la celebrazione; è un assaggio di quello che sarà rivelato al mondo con la nascita dell’Emmanuele, il Dio con noi. L’antifona di ingresso risuona gioiosa: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino”. La colletta fa pregare: “Guarda, o Padre, il tuo popolo, che attende con fede il Natale del Signore e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza”. Il brano di Isaia descrive ‘il lieto annunzio’ di cui è portatore l’Inviato di Dio. Il salmo responsoriale fa gridare: “la mia anima esulta nel mio Dio”. Paolo esorta: “State sempre lieti…”.

         Qual è la radice di tale letizia? E’ la domanda che trapela da tutta la liturgia. A questa domanda nessuna risposta in generale vale perché ogni cuore la formula con un accento particolare, da dentro la sua storia, storia che dovrà essere attraversata dalla verità della risposta. Ma non è inutile che ognuno si soffermi davanti allo splendore che riluce per tutti, allo stesso modo, sebbene con esiti differenti. Quando il profeta Isaia rivela i ‘segni’ di riconoscimento dell’Inviato di Dio al suo popolo, tutti si riconducono al movimento della letizia, nel senso che la sua azione sarà quella di rallegrare, di guarire, di liberare. Sarà la risposta di Dio al tormento del cuore dell’uomo, all’afflizione della vita, all’oppressione del cuore. Se il cuore non accetta di essere liberato, non potrà essere guarito e se non tornerà sano non potrà trovare letizia. Preparare le vie al Signore, da questo punto di vista, significa predisporsi all’esperienza della letizia.

         E quando Paolo, nella prima lettera ai Tessalonicesi, esorta i credenti: “State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie”, vuole illustrare la fede nel Signore Gesù come esperienza di letizia. Chi ha sperimentato ‘la volontà di Dio in Cristo Gesù’, vale a dire: chi ha provato l’amore di benevolenza di Dio sul mondo di cui Gesù è il Testimone e il Rivelatore, vive nella letizia, perché può stare sempre lieto, è capace di intimità (segno di una relazione forte e goduta, prima con Dio, poi con se stessi, il prossimo e le cose, perché guarito e liberato; qui si cela il mistero della preghiera), sa rendere grazie in ogni cosa (all’intimità si accompagna l’umiltà come la capacità di accogliere la vita nel suo splendore, senza rivendicazioni e senza pretese). Il legame tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà presto la libertà interiore per stare lieto e rendere comunque grazie. Chi è davvero lieto non può non pregare incessantemente e vivere la vita in ‘eucaristia’, in rendimento di grazie. Così tutta la vita del credente sarà vissuta nel segno della ‘letizia’, la letizia perché il nostro Salvatore si è rivelato nel mondo e perché la luce di quella rivelazione ha toccato il nostro cuore. In vista di tale esperienza di rivelazione della letizia la chiesa si prepara alla festa del Natale.

 

 

QUARTA DOMENICA

2 Sam 7,1-16;  Sal 88;  Rm 16,25-27;  Lc 1,26-38

 

         Il canto di ingresso esprime il grido della chiesa, grido accorato e dolce insieme, con le parole del profeta Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8). Anche il salmo 85, più volte ripreso nella liturgia dell’avvento: “La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra. Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo. Quando il Signore elargirà il suo bene, la nostra terra darà il suo frutto” ripete la stessa speranza, con la stessa forza e la stessa dolcezza. Il Natale di Gesù è alle porte, la speranza si fa certezza, la certezza si traduce in esperienza per ciascuno e per il mondo: tutta la preghiera della chiesa vuole affrettare la gioia di quel ‘compimento’.

         Non ‘ogni’ terra però fa germogliare il Salvatore. E qual è la terra che lo farà germogliare? Troviamo la risposta nel brano evangelico: la Vergine Maria, Colei che davanti alla promessa-rivelazione dell’angelo si dichiara ‘serva’ del Signore. Tutta la sua anima abita in quelle parole: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. Il desiderio di Dio di abitare con gli uomini, di prendere dimora fra gli uomini, di farsi dimora degli uomini, finalmente si compie. E la Vergine vi acconsente, acconsente a che il disegno di Dio si compia in tutto il suo splendore. Il suo acconsentire rivela tutta la purità e sincerità del suo cuore: non sa come si realizzerà il disegno di Dio, ma vi acconsente; non sa cosa le sarà richiesto, ma vi acconsente. E nello stesso tempo, rivela tutta l’intimità del suo cuore, che comunque sta dalla parte di Dio, è un tutt’uno con il sentire di Dio, non cerca altro sentire se non quello stesso di Dio. In effetti, quando il sentire interiore è profondo, il rapporto è potente e quando il sentire tocca le radici del cuore, l’intimità è compiuta: nessun estraneo avrà più accesso in quello spazio. Da quell’intimità mai più si allontanerà e permetterà così che la gioia di Dio e dell’umanità si compia. Il prodigio della concezione e della nascita del Figlio, di cui lei sola conosce il mistero, conferma quell’intimità, non la crea. La fede non ci strappa dalla nostra umanità, ma l’avvalora, la compie nella sua dignità e nei suoi aneliti.

          Lo stesso tema della ‘dimora’ percorre il brano del secondo libro di Samuele, che riferisce del desiderio di Davide di costruire una degna dimora a Dio. Sarà invece Dio a costruire una casa a Davide, a dargli quella discendenza da cui scaturirà il Salvatore, dimora di Dio in mezzo agli uomini, luogo della presenza di Dio che risplende tra gli uomini. Quel ‘Verbo’ che era presso Dio, come proclama il prologo del vangelo di Giovanni, essendo Dio, ora è anche presso gli uomini, essendo Uomo, nato dalla Vergine Maria. Il che significa che la creazione ritrova il suo splendore perché il cielo riflette la terra e la terra riflette il cielo. L’illusione di essere ‘piccoli dèi’ è finita; il sogno dell’uomo può rivelarsi in tutta la sua grandezza: essere ‘come Dio’. E’ il tema della ‘obbedienza alla fede’ di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani. Come la Vergine, tutta la nostra umanità è chiamata ad ‘acconsentire’ al sentire di Dio, all’operare di Dio, allo splendore di Dio in questo mondo perché la sua gioia si compia e la sua gioia illumini i nostri volti. Sarà la gioia del Natale di Gesù allorquando la gioia di Dio potrà essere goduta dalla nostra umanità che così viene guarita dalla sua tristezza e esaltata nella sua dignità. L’obbedienza alla fede non può che comportare la condivisione del disegno di Dio per l’uomo, condivisione che si traduce nell’esperienza di una gioia inaccessibile all’avversario, al nemico, perché tutto e tutti ormai sono visti come destinatari e fruitori possibili di quell’unica gioia. La gioia come mistero di intercessione per l’intera umanità.

 

 

NATALE DEL SIGNORE

Messa della notte: Is 9,1-6; Tt 2,11-14;  Lc 2,1-14

Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Tt 3,4-7;  Lc 2,15-20

Messa del giorno: Is 52,7-10; Eb 1,1-6;  Gv 1,1-18

 

         La liturgia del natale del Signore si distende tradizionalmente su tre formulari di messe (la messa della notte, dell’aurora e del giorno) che sottolineano i vari aspetti della celebrazione. La chiave celebrativa è data dal canto all’alleluia nelle tre messe, tratto dall’annuncio e dall’invito degli angeli ai pastori: “Vi annunzio una gioia grande … Gloria a Dio e pace in terra … Venite tutti ad adorare il Signore”. È l’esultanza che percorre la chiesa per la nascita del Salvatore, esultanza che si estende a tutta la terra e si traduce nell’esperienza della luce e della pace, così caratteristica delle tradizioni natalizie anche in chi ha ormai illanguidito la sua visione del mistero. Quella gioia ci tocca perché ci riguarda, è un dono per noi. Caso mai, il problema nasce nel come trattenerla, come farla propria, come farle attraversare tutta la nostra vita per illuminarla.

         I brani evangelici delle messe natalizie ci presentano tre testimoni dell’evento: gli angeli, i pastori, l’apostolo. E una figura di accompagnamento d’eccezione: la Vergine.

L’annuncio della gioia tocca gli angeli (messa della notte), a sottolineare che quella gioia è un’offerta, un dono celeste. La formulazione però dell’annuncio è più misterioso di quanto crediamo. Le parole messe in bocca agli angeli sono già frutto di una lunga esperienza di compagnia con quel Figlio, che ora è visto bambino, ma che il racconto evangelico testimonierà essere presso Dio prima della creazione del mondo, essere venuto a rivelare il vero volto di Dio, essere venuto a morire e risorgere per dare la vita agli uomini. E quando proclamano “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” esprimono la verità del mistero a lungo contemplato e adorato; si tratta dell’esultanza dell’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo. Nel suo amore per l’uomo Dio trova la sua gloria che è appunto lo splendore del suo amore di accondiscendenza per l’uomo (e gli angeli sono coloro che adorano Dio in modo puro perché esultano per un mistero che li trascende: non celebrano Dio per l’amore verso di loro ma verso gli uomini, creature a loro inferiori. Ricorderà poi Gesù che non si può adorare Dio cercando la propria gloria!) e sempre in quell’amore l’uomo trova la sua pace, ritrova il senso e la gioia del vivere, perché di quell’amore è intriso il mondo e di quell’amore respira il cuore dell’uomo.

Poi intervengono i pastori (messa dell’aurora). Sono coloro che accolgono l’invito all’esultanza, coloro che sanno che non possono trovare in se stessi il motivo di gioia ma semplicemente lo accolgono, vanno a verificare, fino a riconoscere in quel Bambino, ‘nato per noi’,  la radice della gioia della vita. Tornano alla vita di prima, ma ‘esultanti’, capaci di affascinare altri con il racconto della loro esperienza. Il segreto di quell’esultanza va rinvenuto non tanto nel fatto di aver partecipato a un evento eccezionale, ma nel fatto di aver lasciato attraversare la propria storia dalla luce della letizia di quell’evento. Esattamente quello che la chiesa oggi invita tutti a compiere.

Alla fine interviene l’apostolo (messa del giorno), colui che ha potuto dire, dopo un’intensa compagnia col Signore: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, come gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”. E di nuovo ci domandiamo: che ‘gloria’ ha visto? La gloria dello splendore dell’amore di Dio per gli uomini, che sulla croce ha avuto la sua icona più luminosa tanto da denominare il crocifisso ‘re della gloria’. E quell’amore non è sopraggiunto ad un certo momento della storia, ma per la sua infinitezza e densità è tale che da sempre ha contrassegnato Dio, ha presieduto al movimento stesso della storia e continua ad attraversarla con tutta la sua luminosità. Gesù ne è il rivelatore: “io sono la luce del mondo” (Gv 8,12).

La visione del mistero si fa manifesta, come dice Paolo a Tito (‘è apparsa la grazia di Diosi sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini…’) quando, come la Vergine, ‘serbiamo ogni cosa meditando nel cuore’. Vale a dire: come trattenere in cuore la letizia? Facendo rimbalzare tra loro (questo è il significato della parola ‘meditare’) le parole ascoltate, gli eventi narrati e vissuti, le attese e gli aneliti del cuore. È in tale atteggiamento di ‘meditazione’, di ‘accompagnamento’ al mistero per i suoi figli che la Vergine è raffigurata nelle icone della natività. È collocata nella parte centrale del quadro, ma non guarda il suo Bambino; guarda altrove, guarda al mistero, al mondo per il quale il mistero è destinato, agli uomini per i quali intercede al fine di ottenere che finalmente il mistero risplenda agli occhi di tutti. In questa sua intercessione si rivela tutta la tenerezza per l’umanità. La sua preghiera è per il cuore degli uomini che, come recitano alcuni versi, ‘è fatto di luce ma s’annega nel buio e l’uomo non sa che fango di cielo è la terra del cuore’.

 

La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore.

Buon Natale a tutti

 

 

MADRE DI DIO

Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

 

         L’inizio del nuovo anno, che cade nell’ottava del Natale, è celebrato con la festa della maternità divina di Maria che, dando alla luce il suo bambino, Verbo fatto uomo, ha irradiato sul mondo la ‘benedizione’ di Dio, il suo Figlio Unigenito. Tutto il nuovo anno è posto sotto quella benedizione che il Signore ha rivelato a Mosè: “Ti benedica il Signore e ti protegga…” (Nm 6,22-27) e che si è compiuta con la nascita di Gesù dalla Vergine Maria. È la stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del Padre nostro, benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la nostra storia, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. Si tratta di una benedizione larga, onnicomprensiva, che copre tutte le cose e tutto di ogni cosa, oltre la quale non c'è più nulla di significativo per il cuore, il quale non sopporta che qualcosa possa sussistere fuori di essa. E la missione che Gesù affida ai suoi apostoli mira a rivelare, a rendere percepibile, a far gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino in essa e non possano più vivere se non a partire da e dentro di essa.  

         Come canta l’antifona di ingresso “Oggi su noi splenderà la luce, perché è nato per noi il Signore; Dio onnipotente sarà il suo nome, Principe della pace, Padre dell’eternità: il suo regno non avrà fine”, intendendo: su di noi splende la luce della gioia di Dio che manifesta il suo amore agli uomini; così ci appare il nostro Dio: onnipotente nell’amore, amore che costituisce la nostra pace, un amore che viene dall’eternità e che non verrà mai meno. Di questa esperienza è intessuta la ‘benedizione’ e a questa esperienza richiama. La Vergine è colei che ha vissuto perfino fisicamente quella benedizione, di lei si è impregnata e sull’umanità l’ha fatta risplendere, intercedendo ora presso il suo Figlio, come recita la colletta, affinché ci ricolmi del suo Spirito “perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono”. Ma qual è il dono di Dio all’umanità se non il suo Figlio prediletto? Qual è la gioia che Dio dona all’umanità se non quella di condividere con l’umanità l’amore del suo Figlio prediletto?

         Quando Gesù proclamerà ai discepoli: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” alluderà proprio a quella ‘benedizione’ che si compie nel mondo. Il bene è frutto di quella benedizione. E la benedizione è quel Figlio prediletto, nel quale il Padre ha tutto il suo compiacimento e che rivela il suo amore immenso per gli uomini. Le opere sono buone quando fanno risplendere quel Figlio, quando rivelano l’amore di Dio all’umanità, quando portano al cuore la conoscenza di quel Figlio, quando l’amore di quel Figlio ha conquistato tutta la mia umanità. L’opera buona che rende gloria a Dio, cioè che fa conoscere Dio nella sua paternità, è il Figlio fatto carne. Lo sapeva l’anima della Vergine e perché si compisse quel mistero di Dio ha consegnato tutta se stessa. In quella consegna è celata tutta la potenza di intercessione per l’intera umanità perché anche per l’umanità non vale altro mistero, non esiste altro compimento. Lo dice anche il salmo a commento del brano del libro dei Numeri: “su di noi faccia splendere il suo volto, perché si conosca sulla terra la tua via”. L’umanità conoscerà la via di Dio, conoscerà la paternità di Dio accogliendo quel Figlio venuto a rivelare il vero volto di Dio. Della soddisfazione di questa attesa dell’umanità la comunità dei credenti è responsabile.

         San Paolo, nella sua lettera ai Galati, rivela che il Figlio nella carne è venuto ‘nella pienezza del tempo’. L’espressione non si riferisce solamente all’evento della nascita di Gesù dopo una lunga preparazione. L’esperienza della conoscenza del Figlio rende l’uomo capace di accogliersi come figlio di Dio, di sentirsi guardato dallo sguardo di predilezione di Dio per ogni uomo, al di là del tempo, solidale con l’umanità di tutti perché formiamo un’unica cosa con l’umanità di quel Figlio prediletto. Proprio questa esperienza ci fa vivere in pienezza il tempo, ci fa capaci di scoprire e di portare tutta la grazia del tempo dato, percependo ogni istante dentro quella pienezza di tempo. Non c’è più motivo di angosciarsi per il nostro tempo, per il tempo che passa, per le ferite del tempo, quando la percezione del tempo è vissuta a partire da quella ‘benedizione’ che attraversa la nostra vita e ne costituisce il tesoro di senso.

 

EPIFANIA

Is 60,1-6; Sal 71;  Ef 3,2-6;  Mt 2,1-12

 

         “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi” è il ritornello della liturgia natalizia. Il mondo non si è accorto di nulla ma chi ha ricevuto la grazia di poter vedere non ha potuto frenare la gioia e in quella gioia ha sentito tutta la grandezza dell’amore di Dio, tutta la bellezza della creazione, il senso e lo scopo di tutta la storia umana. La storia dell’uomo è oramai visibilmente storia di Dio, storia divina. Se davvero l’uomo è fatto su Dio e per Dio, allora l’argomentazione dell’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo suona stringente: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Lui è la Verità su Dio e Dio ormai non è che il Padre del Signore Gesù Cristo e se vogliamo accedere a tale Padre, il Figlio è la via. Ma la verità su Dio comporta la verità sull’uomo e perciò: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo nome, i quali … da Dio sono stati generati”. Il Signore Gesù Cristo, con il dono del Suo Spirito, di cui la gloria che gli angeli rivelano  ai pastori è come un rimando, ci fa fruitori di quello sguardo di compiacenza del Padre su di Lui (“Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”, Mt 3,17). Ecco perciò la verità dell’incarnazione: Dio si fa uomo perché l’uomo possa farsi Dio. E si può commentare: quello che Dio da sempre ha sognato ( “in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo …” ), cioè di unire a Sé l’uomo per farlo partecipe della sua gioia nell’amore scambievole, nel Cristo finalmente si realizza. In Lui divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più ‘svelato’ con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

 

         Con l’adorazione dei Magi il mistero è rivelato alle genti, perché a loro appartiene. La tradizione ha fissato il simbolismo dei tre doni: l’oro al Re, l’incenso al Sommo Sacerdote eterno, la mirra per la sua sepoltura. E Leone Magno, nelle sue bellissime omelie sull’Epifania, attualizza così il significato simbolico dei tre doni: chi viene al Cristo, offre l’oro dal tesoro del suo cuore quando lo riconosce re di tutte le creature, offre la mirra quando crede che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto una vera natura di uomo ed offre l’incenso quando lo confessa uguale al Padre.

Quanti particolari del racconto evangelico si aprono come finestrelle di luce su quello stesso mistero! I Magi, persone colte e osservatrici degli astri, vedono sorgere una stella, fenomeno che interpretano come l’arrivo di un grande re in Giudea e decidono di venire a cercarlo. La strada per la Giudea la conoscono ed il testo non dice che la stella li guidava. Solo dopo aver ricevuto la conferma della profezia da Israele che un re sarebbe nato a Betlemme, ricompare la stella e li precede fin là. E quando devono ritornare indietro, cambiano strada. Intanto notiamo il contrasto: i Magi si sono mossi, senza sapere bene dove andare, mentre Israele conosce la profezia riguardo al bambino che deve nascere, ma non si muove; i Magi sono nella gioia, Gerusalemme nel turbamento. I Magi sono partiti perché spinti dal cielo, ma si affidano alle Scritture di Israele per conoscere il luogo di nascita del nuovo re e solo dopo essersi affidati alla parola rivelata ricompare la stella del cielo che conferma loro la profezia; dopo aver riconosciuto il nuovo re, ritornano al loro paese, ma per altra strada, come ad indicare che nulla è più come prima, si ritorna alle stesse cose ma non è più la stessa cosa. Come per i pastori che, dopo aver udito e visto, glorificano e lodano Dio tornando a casa loro, a sottolineare che un cuore convertito al Signore possiede una luce e un sapore prima sconosciuti. Non è forse la stessa situazione dell’uomo di fronte al desiderio di infinito che porta dentro? Se va a cercare la ‘Parola’ è perché questo desiderio lo rode e se si lascia condurre da questo desiderio non solo trova la ‘parola’, ma ritrova la gioia di quel desiderio che l’accompagna nella ‘pratica della parola’ fino a trasformare tutto il suo cuore e a volgerlo in perenne adorazione e nei pensieri e nella vita. Il brano finisce con l’accenno alla strage di Erode. La presenza del dramma non è lì a gettare una luce fosca sull’idillio appena descritto, ma prelude al dramma finale della vita di quel bambino che, morendo in croce e poi risuscitando, rivela la gloria dell’amore di Dio per l’uomo che non si arresta e non devia dai suoi progetti di fronte all’ingiustizia, che anzi fa diventare proprio luogo di rivelazione del Suo amore.

 

 

BATTESIMO DEL SIGNORE

Is 55,1-11;  Sal: Is 12,2-6;  1 Gv 5,1-9;  Mc 1,7-11

 

         Il mistero del battesimo di Gesù faceva parte della celebrazione della festa dell’Epifania. L’antifona al Benedictus della liturgia delle ore lo ricordava stupendamente: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.

         Il venire di Gesù al Giordano a farsi battezzare dà inizio alla sua vita pubblica, avvia il compimento di quello per cui è stato mandato: la salvezza degli uomini. Si tratta di una volontà precisa, è arrivata la sua ora. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Lui non ha bisogno del battesimo. Perché allora viene a farsi battezzare? Viene per celebrare il suo ‘sposalizio’: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a Lui e godere, come Lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a Lui, al Suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito. Si potrà vedere allorquando, compiuta la sua missione, avendo patito per gli uomini, morto e risorto, lo effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli. Vedere lo Spirito Santo significa poter penetrare nei cieli ormai aperti, significa aver sperimentato in tutta la sua potenza quel ‘compiacimento’ che la voce proclama da parte di Dio su Gesù.

         Al momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. E’ la funzione della parola di Dio che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in quel ‘Figlio prediletto’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture dove si parla di ‘figlio prediletto’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora nella parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri …. L’aggiunta “in te mi sono compiaciuto” rivela tutta la profondità del mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto l’Amore del Padre è per il Figlio e tutto l’Amore del Figlio è per il Padre. Ma attenzione: ‘in te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in Lui si può contemplare  tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità. Così, in quel ‘perfetto’ è già compreso anche tutto quello che la nostra umanità, unita a quella del Signore Gesù, compirà, secondo il senso di quel che dirà san Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,24-29).

Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo ed in Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. E se noi stiamo in Cristo, allora anche in noi la volontà del Padre si compie, perfetta, perché anche in noi il Suo amore risplenderà. E questo risplendere del suo amore non deriva forse dall’essere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso nella Pentecoste? Come s. Francesco dice della perfezione o della santità: “avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, pieno compimento del nostro battesimo.

 

 

DOMENICHE DEL TEMPO ORDINARIO, ANNO B

 

DOMENICA II

1Sam 3,3-10;  Sal 39;  1Cor 6,13-20;  Gv 1,35-42

 

Durante il tempo natalizio, abbiamo avuto modo di ascoltare più volte il brano evangelico di oggi. L’accento cadeva sulla testimonianza del Battista che annunciava al mondo la presenza del Figlio di Dio, Verbo fatto uomo, Agnello innocente, splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Ora l’accento è posto sulla testimonianza dei discepoli che incontrano il Messia. Il brano racconta cosa è successo loro, ma non semplicemente a modo di cronaca, come farebbe un cronista. La pagina evangelica è immensamente più densa e misteriosa del semplice racconto di un fatto accaduto, anche se l’estrema precisione dei dettagli evoca evidentemente l’intensità di una esperienza indimenticabile. Sembra logico supporre che l’altro discepolo, quello non nominato, sia lo stesso evangelista Giovanni che, dopo molti anni, alla fine della sua vita, scrivendo il suo vangelo, ritorna a quell’episodio di giovinezza che ha cambiato tutta la sua vita:  Che cercate?” … “Dove abiti?” … “Venite e vedrete” … “Andarono dunque e videro dove abitava”.

Quando Giovanni, nel prologo del suo vangelo, annuncia che il Verbo si è fatto carne, aggiunge subito dopo: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Ha incominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, sull’invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea. Per inciso, non va dimenticato che il verbo greco tradotto con ‘abitare’ è lo stesso verbo che Gesù userà con insistenza nel discorso all’ultima cena a proposito della vite e dei tralci quando dirà: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). È come se Gesù rispondesse ancora alla domanda dei suoi discepoli “dove abiti?” e dicesse: siete venuti da me, avete visto dove io dimoro (nell’amore del Padre) e così voi, ora, rimanete nel mio stesso amore. È a questa esperienza che Giovanni allude quando annota ‘andarono e videro dove abitava’. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita.

Il ritornello responsoriale al salmo 39 proclama: “Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà”. Non esiste commento più adatto all’obbedienza del giovane Samuele, nel tempio, al profeta Eli, obbedienza che la chiesa legge e interpreta riferendola al Verbo fatto uomo che rivela al mondo quanto sia grande l’amore di Dio per gli uomini. E’ l’obbedienza come spazio di intimità, come luogo di tale comunione da attirarci dentro tutto e tutti. E’ la stessa obbedienza che caratterizza i discepoli del Verbo di Dio fatto uomo, che non hanno altro principio di essere e di azione se non quella ‘comunione’ con il Figlio e con il Padre che investe il mondo della sua grazia. Quando Giovanni e Andrea, sull’invito del loro antico maestro, il Battista, seguono Gesù, non hanno domanda più vera e pressante da esprimere: “Dove abiti?”. E quella domanda costituisce già, nell’intensità del desiderio che comporta, una risposta all’interrogazione di Gesù: “Che cercate?”. Gesù aveva visto il cuore dei futuri suoi discepoli; aveva visto che non avevano altro desiderio se non quello che esprime il salmo 39, di compiere cioè il volere di Dio. In altri termini, il desiderio dei loro cuori può essere letto così: che la volontà di Bene di Dio ci raggiunga; che possiamo esprimere nelle opere tutto quel Bene per tutti; che possiamo vivere dentro quel Bene in modo che nessun male ce lo veli o ce lo porti via perché quel Bene risplenda su tutto. E Giovanni ricorda quel desiderio giovanile quando ormai ne aveva conosciuta tutta l’estensione e la profondità, avendo seguito il Maestro, essendo stato reso partecipe dei suoi segreti, attratto ormai dal e al Suo volere senza più resistenze. L’intimità che aveva goduto gli aveva permesso di ritrovarsi in una storia che era immensamente più grande di lui, ma adatta a lui, la sua. E quello che è successo a Giovanni e a Andrea, come a tutti gli altri apostoli, è narrato perché descrive quello che può succedere a ciascuno di noi, perché se avviene, avviene a quello stesso modo. Così, l’esultanza finale del brano: “Abbiamo trovato il Messia”, non è solo l’esultanza della scoperta fatta, ma l’esultanza che dà principio alla missione: la gioia non può essere trattenuta, non può essere goduta da soli. Quell’esultanza diventa allora il segno della promessa di Dio che si compie, il segno di quanto la promessa di Dio che si compie costituisce la letizia del cuore dell’uomo, il frutto dell’obbedienza e la responsabilità della missione.

Dietro la volontà di seguire il Signore, di osservare i suoi comandamenti, di compiere il volere di Dio, c’è sempre la domanda del cuore dell’uomo: “Ma dove abiti?”, così come dietro ogni rivelazione di Dio al nostro cuore c’è sempre l’esperienza del “videro dove abitava”. E’ il desiderio di intimità, di comunione col proprio Dio, il desiderio di vedere Colui che il proprio cuore ama, il desiderio di trovare un luogo ove tutti si possa abitare in pace. Sebbene, a volte, la domanda sia così assillante che tutto l’accento sembra posto sul ‘ma’, perché ancora non si è scoperto nulla, perché il fascino e la gloria della rivelazione del Signore rimangono nascosti, come impenetrabili. Ma il Signore Gesù è venuto proprio a rendere accessibile quella rivelazione, a tutti, nessuno escluso. Perché non ritenerci raggiungibili dal suo invito?

 

 

DOMENICA III

Gio 3,1-10;  Sal 24;  1Cor 7,29-31;  Mc 1,14-20

 

         Gesù inizia la sua predicazione con le stesse parole del Battista: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (cfr Mt 3,2). Non c’è proprio differenza tra i due annunci? Gesù prosegue semplicemente l’opera del Battista? Il Battista ‘esorta’, mentre Gesù ‘mostra’: qui sta la differenza. Il Battista presagiva la presenza del Regno, si sforzava di aprire le coscienze a quella presenza intuita; Gesù ne fa vedere la presenza, ne svela la potenza da parte di Dio che viene in soccorso degli uomini, che vuol compiere in loro e per loro le sue promesse, finalmente.

         Il canto al vangelo della liturgia ci introduce direttamente nella ‘novità’ dell’annuncio di Gesù: “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, ci conceda lo spirito di sapienza, perché possiamo conoscere qual è la speranza della nostra chiamata”. La conversione è in funzione di una sapienza, e di una sapienza che viene dall’alto; non solo, ma anche in funzione del godimento di una promessa che si traduce in speranza, fermento di vita nuova nel Cristo che ci ha svelato i segreti del Regno. Quando nella colletta abbiamo pregato: “Dio onnipotente ed eterno, guida i nostri atti secondo la tua volontà”, abbiamo chiesto di convertirci al Cristo, di agire in modo che nella nostra vita risplenda il Cristo, perché in Lui troviamo tutto il Bene che da Dio proviene per l’uomo. Il volere di Dio è che conosciamo il suo Cristo, il suo diletto Figlio!

Forse non ci rendiamo conto del tesoro che costituisce per il nostro cuore la rivelazione del Cristo. Percepire Cristo come ‘il tesoro’ del nostro cuore significa percepirsi dentro la sapienza di Dio che ci precede, ci ingloba e ci accompagna. Significa percepire a nostro favore quello che il libro di Giona descrive a proposito degli abitanti di Ninive: ‘Dio si impietosì’. Cogliersi a partire da una sapienza significa supporre la precedenza di un’iniziativa che fa da riferimento fondante alla nostra esistenza. Nessuno di noi sceglie di venire al mondo né sceglie da chi, dove e quando venire al mondo. L’unico modo possibile per vivere ‘bene’ la propria esistenza è quello di viverla da dentro un’alleanza che ci precede, da dentro una relazione di confidenza, da dentro un’intimità che riempie e dà senso, al di là delle ferite e delle oppressioni che ci affliggono. E chi svela le ‘intenzioni’ di Dio per il mondo, chi ci rende raggiungibili dalla promessa di vita di Dio per l’uomo è proprio il Cristo. E quando lui annuncia il regno e porta al nostro cuore l’invito di Dio alla conversione non fa che svelarci quelle intenzioni, per farci sentire la pressione di un amore che ci fa vivere nella speranza, per noi e per tutti, per me come per il mondo.

         Del resto è assai caratteristico che nel vangelo la ‘conversione’ sia espressa dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di ‘seguire’, ma più direttamente di ‘andare dietro’, di ‘stare dietro’, di ‘mettersi dietro’ a Gesù. In questo, ascolto ancora l’eco delle parole di Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle. Quando Gesù chiama i suoi apostoli, li invita a porsi dietro a lui, a stare dietro a lui. E quando Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non volere stare davanti! (cfr Mc 8,37). Quando, alla fine del vangelo di Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel ‘venire dietro a’, in quel ‘porsi dietro’, in quel ‘camminare dietro a’ sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca in speranza di vita.

         In tale ottica, le parole di Gesù acquistano tutta un’altra potenza. ‘Il tempo è compiuto’, vale a dire: non esiste tempo che non sia raggiunto dalla promessa di Dio, dalla rivelazione dell’amore di Dio. La stessa espressione di Paolo ai Corinzi: ‘il tempo si è fatto breve’ significa: è tale la gioia della scoperta del tesoro che tutto il resto passa in secondo piano. Non c’è tempo per gustare in verità nient’altro, in quanto tutte le cose hanno un unico scopo: farmi gustare quella verità. E se non mi portano a quella verità, il mio cuore non le riconosce degne di attenzione. Ma se quella verità è gustata, tutto è degno di onore e fonte di benedizione. ‘Il regno di Dio è vicino’: lo potete toccare, lo potete vedere, lo potete gustare in me. ‘Convertitevi’: lasciatevi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che si compie per voi. ‘Credete al vangelo’: ritenete Dio sufficientemente potente per compiere la sua promessa in voi e capace quindi di soddisfare gli aneliti del vostro cuore. Tutto questo dobbiamo imparare a percepire nell’annuncio di Gesù.

 

 

DOMENICA IV

Dt 18,15-20;  sal 94;  1Cor 7,32-35;  Mc 1,21-28

 

         Il canto al vangelo ci introduce al tipo di esperienza a cui oggi la liturgia invita: “Un grande profeta è sorto tra noi: Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16). Gesù è presentato come ‘il profeta’, preannunciato, che parla con autorità e che ha potere sui demoni. Dio aveva promesso di inviare profeti al suo popolo perché parlassero a nome suo (vedi la prima lettura del Deuteronomio) ma la promessa era formulata in termini così densi da far pensare, dentro la stessa tradizione ebraica, alla figura di ‘un profeta speciale’, ad un personaggio che sarebbe passato come ‘il profeta’ inviato da Dio. L’affermazione del canto al vangelo è il commento stupefatto di coloro che avevano assistito al miracolo di Gesù allorquando risuscita un morto, il figlio della vedova di Nain. Nell’Antico Testamento solo di due profeti si dice che abbiano risuscitato morti, di Elia e del suo discepolo Eliseo. Attribuendo a Gesù l’aggettivo ‘grande’, l’evangelista vuole presentarlo come colui che costituisce davvero ‘il profeta’ e la sua grandezza appare, non tanto nel fatto che ha il potere di risuscitare i morti, come i suoi due grandi predecessori, ma nel fatto che quel potere, datogli da Dio, testimonia la ‘visita’ di Dio al suo popolo, visita che esprime tutta l’accondiscendenza di Dio al suo popolo, tutto l’amore di Dio al suo popolo, tutta la rivelazione di Sé al suo popolo. Quel ‘Dio ha visitato il suo popolo’ corrisponde all’espressione giovannea ‘Dio ha posto la sua tenda’ (Gv 1,14), tenda nella quale risplende tutta la gloria di Dio, tutto il suo mistero di grazia e di verità a favore dell’uomo. Quando i vangeli parlano di Gesù come profeta alludono alla densità di questa realtà.

         L’evangelista Marco allude a quella realtà sottolineando che Gesù ‘parla con autorità’ e ‘ha potere sui demoni’. E’ tipicamente l’autorità non di chi parla a nome proprio, per quanto grande sia, ma l’autorità di chi ha tutto il potere e la capacità di svelare il volto di Dio, di rivelare i segreti di Dio. Proprio come dice Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Ha potere sui demoni nel senso di sottrarre alla loro influenza gli uomini e di rimetterli nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di ‘guarigione’, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i peccati, come descriverà Marco nell’episodio della guarigione del paralitico (Mc 2). Potere, che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato all’uomo, come Dio ami gli uomini di un amore tanto grande e quale sia ‘la verità e la grazia’ da parte di Dio a favore dell’uomo.

         Ma allora perché Gesù, di fronte al riconoscimento della sua ‘grandezza’ da parte dei demoni, ingiunge a questi con forza di tacere? Perché gli uomini che vedevano Gesù agire in tal modo non avrebbero potuto far tesoro di quanto i demoni dichiaravano tanto apertamente tramite i loro ‘posseduti’? L’uomo della sinagoga di Cafarnao dichiara: “io so chi tu sei: il santo di Dio” (Mc 1,24); “tu sei il Figlio di Dio” (Mc 3,11) dicevano gli spiriti immondi; l’indemoniato di Gerasa, in terra pagana: “Gesù, Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7). Le dichiarazioni suonavano forse come un principio di tentazione per Gesù, come quando era stato tentato nel deserto, da rifiutarle in modo così perentorio? Nonostante le spiegazioni esegetiche che si possono addurre, la cosa risulta misteriosa. Dopo il capitolo quinto, Marco narra ancora miracoli e guarigioni, ma i demoni non parlano più. E sarà Gesù a subire, in un certo senso, l’attacco dei demoni, ma proprio quell’attacco (la sua passione e morte) svelerà al mondo intero il Suo segreto: Dio ama gli uomini a tal punto, l’amore Suo risplende a tal punto e tocca gli uomini a tal punto da sanarne le radici, da rinnovarli come figli di Dio, non più schiavi dei demoni, ormai vinti. La vittoria di Dio, però, non corrisponde a quanto gli uomini si sarebbero sognati e forse per questo Gesù, fin tanto che non ha mostrato fino in fondo quale fosse la via di Dio, non ha voluto ‘riconoscimenti’ di sorta.

         Un altro particolare è denso di significati. Presentare Gesù come profeta, come colui che ha autorità e potere sui demoni, allude al mistero dell’intimità tra Lui e il Padre. Sul Tabor, al momento della trasfigurazione, la voce dalla nube dichiara: “Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!” (Mc 9,7). Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori a questo suo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume e mostra la sua potenza. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso all’intimità da lui goduta. Dire che Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni equivale a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore.

 

 

DOMENICA V

Gb 7,1-7;  Sal 146;  1Cor 9,16-23;  Mc 1,29-39

 

         Il canto al vangelo proclama: “Le tue parole, o Signore, sono spirito e vita; tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,63.68). Introducono il brano evangelico di Marco che racconta di un Gesù che guarisce, che caccia demoni e che è assillato dall’ansia di raggiungere tutti con la sua predicazione.

         Le parole del canto al vangelo sono prese dalla bocca stessa di Gesù che, di fronte al rifiuto della sua persona da parte di molti, pur dopo il grandioso miracolo della moltiplicazione dei pani e la rivelazione del mistero dell’eucaristia, ribadisce: “le mie parole sono spirito e vita”. Anche i discepoli più stretti sono assaliti da un’atroce perplessità, ma quando Gesù chiede loro se vogliano abbandonarlo, Pietro risponde: “Tu hai parole di vita eterna… noi abbiamo creduto e conosciuto…”. Se entriamo nell’ottica dei discepoli che riconoscono al loro maestro il ‘potere’ di dare vita, di dare vita eterna, allora il brano di Marco acquista risonanze insospettate.

         Ci sono almeno tre particolari da notare. Anzitutto, la natura dei miracoli. Dietro l’agire di Gesù, sta un segreto da cogliere. Il miracolo delle guarigioni e la cacciata dei demoni non sottolineano tanto l’onnipotenza, il potere divino di Gesù, ma l’accondiscendenza di Dio, la prossimità di Dio in Gesù all’uomo. E questa ‘dimostrazione’ è in funzione dello svelamento del segreto di Dio per l’uomo, della rivelazione del suo immenso amore al mondo tramite il Figlio, amore che costituisce la gioia sua e la gioia dell’uomo. Il ‘bisogno’, l’urgenza di questa rivelazione è accentuata dal fatto che l’uomo versa in condizioni misere, precarie, di sbandamento, di oppressione, di angoscia, di violenza. Il brano di Giobbe lo mostra in tutta la sua drammaticità. Le malattie e l’ingombrante presenza dei demoni presentate dal vangelo riprendono quella drammaticità,  che costituisce come lo sfondo nero su cui si staglia la luce del Signore Gesù che raggiunge l’uomo e lo risana dal di dentro per collocarlo di nuovo in uno spazio di luce che genera la gioia dell’amore condiviso. Gesù è proprio il segreto di Dio per l’uomo. Viene accennato nel battesimo dalla voce misteriosa: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,11); ribadito dalla stessa voce sul monte della trasfigurazione: “Questi è il Figlio mio prediletto:ascoltatelo” (Mc 9,7); ripreso direttamente dalla viva voce, sofferente e angosciata, di Gesù nel Getsemani: “Abbà, Padre…non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

         Il secondo particolare è l’ansia di Gesù di raggiungere tutti. E’ cercato, ma si sottrae; si è fatto conoscere a qualcuno, vuol farsi conoscere ad altri. Questo particolare imprime una forte accelerazione di movimento a ciò che viene raccontato. Si tratta di un doppio movimento: una tensione verso tutti, ma anche una tensione per arrivare a Gerusalemme; una tensione per l’allargamento della sua predicazione, ma contemporaneamente la tensione per lo svelamento del suo segreto, in modo che appaia al mondo quanto davvero sia grande l’amore di Dio per gli uomini in quel Figlio prediletto, compimento che risulterà in tutto il suo splendore proprio sulla croce. Il movimento può essere colto anche da parte dell’uomo che ascolta il racconto, che si vede invitato a scoprirsi dentro il racconto perché quel segreto si sveli anche al suo cuore, cioè che possa gustare, perché arrivata fino a lui, tutta l’immensità della predilezione del Padre per il Figlio riconosciuto come tale. In quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.

         Il terzo particolare è l’annotazione della ricerca di solitudine da parte di Gesù per pregare. Tre volte Marco parla di Gesù che prega: nel nostro passo, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani (Mc 6,46) e nel Getsemani. Solo per la preghiera nel Getsemani è fatto conoscere il contenuto. Nulla è detto a proposito degli altri due momenti di preghiera di Gesù. E’ però caratteristico il fatto che l’evangelista Marco collochi la preghiera di Gesù in rapporto alla sua ansia di raggiungere tutti e di svelare tutto il suo segreto. La preghiera non ha forse a che fare con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio prima ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio? Se gli uomini non percepissero l’eco di quel desiderio di Dio, potrebbero mai pregare davvero? Potrebbero mai riconoscere in quel Figlio l’Inviato di Dio e farsi raggiungere dal Suo amore tanto da essere rinnovati totalmente? La preghiera ha sempre a che fare con l’ansia di Dio di stare in comunione con gli uomini finché tutto il suo segreto di amore si sveli finalmente.

 

DOMENICA VI

Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1;  Mc 1,40-45

 

         L’evangelista Marco riassume lo stupore della gente nell’ascoltare Gesù e nel vederlo agire con l’annotazione: “una dottrina nuova insegnata con autorità; comanda agli spiriti immondi”. L’autorità che gli è riconosciuta è il ‘potere’ con cui parla e agisce, potere che si esprime nel suo cacciare i demoni. Ma i demoni sono dichiarati essenzialmente ‘immondi’, cioè capaci di rendere immondi, impuri. Ma immondi rispetto a che cosa? Questa è la domanda di fondo, che incomincia a delinearsi nel racconto evangelico con la guarigione del lebbroso e che viene ulteriormente specificata dalla successiva guarigione del paralitico, che costituirà la lettura evangelica di domenica prossima.

         Il lebbroso aveva un terribile statuto particolare. Dice la Legge: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46). Davanti al lebbroso che si fa avanti e si presenta a Gesù contravvenendo alla legge, antichi codici riportano la lezione: ‘sdegnato’, invece che la lezione ‘mosso a compassione’. Le nostre traduzioni leggono: “Se vuoi, puoi guarirmi!”, “Lo voglio, guarisci!”, ma letteralmente il testo suona: “Se vuoi, puoi mondarmi”, “Lo voglio, sii mondato”. Nel caso del lebbroso, la sua malattia comportava direttamente una ‘immondezza’ tanto da venir separato dalla comunità. Oltre il peso sociale dell’esclusione, la lebbra comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio. Quando Gesù guarisce il lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la condizione interiore del malato restituendolo ad una vita ‘santa’. Proprio qui si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di là di quella guarigione. La vita in funzione della santità di Dio non è più definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono radicalmente cambiati. In quel “Lo voglio” proferito da Gesù non è da leggere soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e schiacciato, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanziano. E’ come se dicesse: ‘ardo dal desiderio di mostrarvi quanto è grande l’amore del Padre’, ‘bramo che il suo amore vi raggiunga’, ‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la sua luce’. Nel suo ‘volere’ va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era il segno per eccellenza. Tanto che quando il Signore Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, sono le parole del profeta a risuonare, accorate ma tremende "non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia ..." (Is 53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il Signore si è addossato i nostri mali da portarne tutto l'orrore, come un lebbroso.

         Se nell’antifona d’ingresso abbiamo cantato: “Sii per me difesa, o Dio, rocca e fortezza che mi salva, perché tu sei mio baluardo e mio rifugio”, l’immagine di fondo presente all’anima è l’attacco che i demoni le sferrano. Ed essendo i demoni immondi, non possono che attaccare la purità del cuore. Ma come definire la purità? La colletta ci fa pregare: "Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono". Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. Chi ne era affetto era allontanato dal consorzio degli uomini perché 'immondo', capace cioè di contagiare col suo male. I peccati nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo il peccato è 'orribile': rende la vita paurosa e temibile. Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio che torna a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.

         Quando il lebbroso guarito, nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “cominciò a proclamare e a divulgare il fatto”. In realtà però il testo dice semplicemente: “cominciò a proclamare e a divulgare la parola”. E’ la parola di Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia.

   

 

 

DOMENICA VII

Is 43,18-25;  Sal 40; 2Cor 1,18-22;  Mc 2,1-12

 

         Non è usuale nei vangeli che coloro i quali si appressano a Gesù per ottenere qualcosa tacciano. Del paralitico e dei suoi portatori non si riporta alcuna parola né prima né dopo la guarigione. Ma la liturgia è come se mettesse in bocca a quell’uomo, simbolo di noi tutti, le parole del salmo 12 che servono da antifona di ingresso: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato”. Tanto più se teniamo conto che il salmo comincia: “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?...”. La situazione dell’uomo è ben descritta, come del resto l’intervento di Dio.

         Nel brano di Marco risulta fondamentale l’annotazione: “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: ‘Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati’ ”. Evidentemente l’evangelista vuole attirare l’attenzione dell’ascoltatore oltre l’apparenza. E’ chiaro che il paralitico è stato portato per ottenere il miracolo della guarigione e tutta la scena è costruita sulla ‘decisione’ dei suoi amici di arrivare allo scopo, fino a scoperchiare perfino il tetto (lascio immaginare la sorpresa e la costernazione del proprietario della casa!) pur di far arrivare il loro protetto davanti a Gesù. Ma Gesù non risponde subito a quell’urgenza. Ne rivela invece un’altra, inaspettatamente, e di questa parla la fede che Gesù aveva notato. Noi però non riusciamo più a cogliere quello che si era scatenato a partire da ciò che Gesù aveva visto e che aveva permesso anche a lui di mostrarsi nella sua verità.

         Se ci rifacciamo alla prima lettura, al brano del capitolo 43 di Isaia, possiamo accostarci meglio al segreto di quella scena. Il profeta descrive il Signore nel suo amore per Israele: “…Il popolo che io ho plasmato per me…Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati”. Tutto il capitolo è attraversato dalle manifestazioni di un affetto intenso e intramontabile di Dio per il suo popolo (Dio dice al suo popolo: ‘sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, io ti amo, io sono con te…’). Quell’amore si esprime proprio nel ‘cancellare’ i peccati, nel ‘non ricordare’ le colpe. Non si vuol dire però che il suo amore è tanto grande da dimenticare i peccati, ma che il fatto di non ricordare i peccati è il segno che quell’amore ci raggiunge, ce ne comunica l’intensità, ci rapisce nella sua dinamica di vita. In effetti, quando il testo parla di ‘popolo che ha plasmato’ intende ‘popolo che ha riconciliato’, popolo che continuamente conquista al suo amore, popolo che vuol far vivere nel suo amore e del suo amore. L’antica versione greca dei LXX traduce il passo sopra citato enfatizzando quel significato: “Io sono, Io sono, proprio colui che cancella le tue trasgressioni…”. Dio in se stesso, almeno per quello che l’uomo può cogliere, è semplicemente e totalmente il Dio che è dalla parte dell’uomo, il Dio che è a favore dell’uomo, il Dio che ama l’uomo al punto da non stancarsi mai di volerlo far vivere proprio in e a partire dal Suo amore. Dio non ha mai bisogno di riconciliarsi con l’uomo; è l’uomo che va riconciliato con Dio e Dio non può avere la sua gioia se non nel vedere l’uomo riconciliato con Lui. Questo spiega la corsa di Dio verso l’umanità, di cui tutte le Scritture parlano. E Gesù, nel brano del paralitico guarito, agisce proprio nell’ottica di quel ‘Dio che plasma il suo popolo’. Il canto al vangelo lo sottolinea fortemente: “La tua parola, Signore, è verità: consacraci nel tuo amore”, espressione tratta dalla preghiera di Gesù al Padre nell’ultima cena: “Consacrali nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17,17). E’ la verità di Dio che ha raggiunto l’uomo con il suo amore e che fa vivere l’uomo a partire e dentro quell’amore. La lode che l’uomo tributa a Dio, dopo che è stato guarito, è la lode per l’amore che l’ha toccato e sanato, è la lode come prosecuzione, intensificazione e irradiamento di quell’amore che è diventato radice di vita per sé e per il mondo. E sarà proprio Gesù, il Figlio dell’uomo, a far vedere al mondo quell’amore di Dio che ‘plasma’ l’uomo.

         Nel salmo responsoriale, il primo versetto canta: “Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero…”. Il ‘debole’ non è solo il fratello malato, bisognoso, che dovrà essere portato sul lettuccio da noi fino a Gesù, ma è proprio il 'Figlio dell'uomo', che ha sacrificato ogni potere e grandezza per invitare tutti e ciascuno alla comunione con Lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato, che non si stanca di ‘plasmare’l’uomo. E noi, se di quell'Uomo abbiamo premura, allora la Sua presenza ci fa attraversare ogni sventura nel senso che non c'è sventura che possa separarci da Lui e dai nostri fratelli. Qui tende l’agire di Dio nel mondo, a questo punta l’azione di Dio di ‘plasmare’ l’uomo in Cristo.

 

 

DOMENICA VIII

Os 2,16-22; Sal 102;  2Cor 3,1-6;  Mc 2,18-22

 

         Il comportamento di Gesù, in qualche modo, inquieta sempre; non è così facilmente omologabile. D’altro canto, non lo si può nemmeno semplicemente condannare. Il suo agire fa trasparire qualcosa d’altro, qualcosa di più misterioso, capace di accendere la discussione, di scombinare le convinzioni, di suscitare domande, di interessare la sensibilità dei cuori, di aprire orizzonti insospettati. Nel brano di oggi il pretesto del confronto con lui è desunto dalla pratica del digiuno. Sembrava ovvio che il digiuno fosse una pratica gradita a Dio, ma lui non induce i suoi discepoli a osservarla. Tutti vedono questo e si domandano il perché. Come sempre, la risposta di Gesù allude al mistero della sua persona e non verte affatto sul contenzioso legale, come se Gesù dovesse giustificarsi davanti ai cultori della legge o dovesse pronunciarsi sul fatto che la pratica del digiuno fosse o meno raccomandabile. E’ evidente che il digiuno sia cosa buona. Ma allora perché lui non lo fa praticare?

         Il nostro brano è da leggere in rapporto diretto alla pericope che lo precede allorché Gesù, dopo aver chiamato Levi il pubblicano (il futuro apostolo ed evangelista Matteo), va a mangiare a casa sua insieme ai pubblicani, tanto da far discutere: “Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?”. In quell’occasione Gesù risponde: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori”. Quando il vangelo riporta di Gesù che è ‘venuto per’ intende alludere al fatto che è stato inviato da Dio per, che quello che sta dicendo è voluto espressamente da Dio, che quello che va illustrando rivela il disegno di salvezza di Dio che si compie, che in quello che va svelando si gusta l’amore sconfinato di Dio per l’uomo. E’ poi estremamente significativo che Gesù riveli qualcosa di sé in rapporto al Padre in un contesto di banchetto, in casa, a tavola. Molte volte Gesù illustra i misteri del Regno a tavola, mentre si mangia (dal primo miracolo alle nozze di Cana fino al discorso dell’Ultima Cena); e molte volte usa l’immagine del banchetto nuziale, dello sposo che invita al banchetto.

         Gesù è lo sposo per il quale si imbandisce il banchetto a cui tutti siamo invitati. Dire che Gesù è lo sposo significa dire che Dio si sposa con l’umanità, e cioè che Dio compie la sua gioia tenendosi unita a lui tutta l’umanità e che l’umanità realizza i suoi desideri nella comunione con il suo Dio. Il fatto è così tremendamente e potentemente reale che tutto cambia, tutto si rinnova, tutto non può più stare come prima, la vita acquista una potenza tale da rinnovare totalmente coloro che ne diventano portatori. Qui si innesta la discussione sul digiuno e l’osservazione che il nuovo non può stare nel vecchio. Non però nel senso che con Gesù il digiuno sarebbe allora abolito (poverini, i santi, povera chiesa che ha sempre consigliato il digiuno!!!) e che il vecchio, la legge, deve far posto al nuovo, lo Spirito. Esprimeremmo solo presunzione, non novità di vita! Si tratta, più semplicemente e più potentemente, di far posto all’amore di Dio che irrompe nella nostra umanità e seguirne le dinamiche, i misteri, le rivelazioni, per realizzare appunto la nostra ‘vocazione’ all’umanità, di cui solo Dio custodisce il segreto. Ogni pratica devota tende a godere della presenza dello Sposo e non si può godere la sua presenza che insieme a tutti gli altri invitati.

         Se riprendiamo la lettura di Osea in questa prospettiva, riusciamo ad afferrare tutta la portata di quella realtà. Il profeta parla di Dio che vuole attirare la comunità del suo popolo, vuole renderla sposa sua, vuole che lei lo conosca. I termini che usa il profeta non suonano semplicemente affettuosi come la traduzione italiana cerca di rendere; sono termini ‘amorosi’, tipici della relazione amorosa tra un uomo e una donna, termini che rivelano la passione e l’intimità goduta. ‘Attirare’ va reso con ‘sedurre’; ‘parlare al cuore’ va reso con ‘parlare sul cuore, in un rapporto di intimità’; ‘là canterà’ va reso con ‘là risponderà, là si concederà, come una donna si dà al marito’. La cosa poi più straordinaria è data dal fatto che i termini usati si addicono al rapporto di un uomo con una donna vergine e non con una donna che sia già stata sposata. Questo particolare rivela la singolarità, così umanamente desiderabile, ma tipica in assoluto solo dell’amore di Dio per l’uomo. L’amore di Dio rende ‘vergine’ chi non lo è più. Quando cancella i peccati, rende ‘nuovi’, tanto sconfinato e potente è il suo amore. Solo Dio può fare questo e l’uomo, che anela all’innocenza perduta quando ama, sente rinnovata la sua umanità fin nelle radici e capisce che lo deve solo alla iniziativa di Dio. E’ il ‘nuovo’ che Gesù porta; non il nuovo che scalza il vecchio, ma il nuovo capace di far ‘nuovi’; il nuovo come dinamica di vita che scaturisce direttamente da Dio e trasfigura, compiendola, l’umanità; il nuovo come nuova capacità di amare, in Cristo. Lo sottolinea il canto al vangelo preso dalla lettera di Giacomo 1,18: “Nella grandezza del suo amore il Padre ci ha generati con una parola di verità, perché fossimo primizia delle sue creature”.

        

 

QUARESIMA, ANNO B

 

PRIMA DOMENICA QUARESIMA

Gn 9,8-15;  Sal 24;  1 Pt 3,18-22;  Mc 1,12-15

 

         La prima parola della liturgia quaresimale, l’antifona di ingresso del mercoledì delle ceneri, canta: “Tu ami tutte le tue creature, Signore…tu perdoni, perché sei il Signore nostro Dio” (Sap 11,23-26). L’accompagna l’invito di Paolo a tutti, per tutto il mondo, sempre e in particolare ai credenti, all’inizio del cammino quaresimale: “lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20).

         Quando Gesù esorta i suoi discepoli a praticare le opere buone, non davanti agli uomini, ma nel segreto, per ricercare la ricompensa presso il Padre (cfr. Mt 6,1-6.16-18), allude proprio a quel ‘segreto’ di Dio manifestato agli uomini: non temete, non avete bisogno di tirare dalla vostra parte il Signore, perché non ci si può fare grandi in nome suo; Lui è già tutto dalla vostra parte e se voi vi accorgete del suo amore per voi, se voi vi lasciate inondare dal suo dinamismo di amore per voi, il vostro cuore si sazierà e non potrà ricercare e condividere nient’altro che quella sazietà. Se vogliamo farci grandi è perché tutto è visto in funzione di noi stessi, divoratori di un mondo in cui cerchiamo affannosamente l’affermazione di noi senza accorgerci che divorando il mondo produciamo, per noi e gli altri, solo angoscia di morte. Se l’esperienza dell’amore è così affascinante ma contemporaneamente drammatica è perché intuiamo che l’amore costituisce la risposta al bisogno di affermazione di sé ma che viverlo in verità comporta la rinuncia più totale a quel dinamismo perverso dell’affermazione di sé incondizionata. L’invito alla conversione del cammino quaresimale si colloca qui. Conversione a che cosa, a chi? Conversione da che cosa?

         La liturgia quaresimale modula in infinite maniere il mistero della conversione. Benché immediatamente intuibile, non sembra però così semplice da declinare in pratica, nella vita quotidiana, quel mistero. La chiesa invita a praticare opere buone, a fare le opere della penitenza, che tradizionalmente si esprimono nella preghiera, nel digiuno, nell’elemosina. Ma contemporaneamente ribadisce che “all’osservanza esteriore corrisponda un profondo rinnovamento dello spirito”. Quanto alle opere buone bisogna come ingannare il mondo, insegna Gesù, al di là dell’affermazione di se stessi. Digiuni? E tu mostrati più allegro. Fai elemosina? Nessuno lo noti, neanche tu stesso. Preghi? Non ha valore se ne valuti il prezzo. Ciò che conta è che, attraverso le opere buone, tu possa godere della rivelazione del Padre, cioè possa fare esperienza di quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini tanto da vivere la tua umanità come vocazione all’amore, rinunciando a vivere nel mondo e il mondo in funzione tua.

         Quando, come nel brano evangelico di oggi, Gesù inizia la sua predicazione e proclama: “Convertitevi e credete al vangelo”, il significato è illustrato dalla colletta che ci fa pregare di poter crescere nella conoscenza del mistero di Cristo. Ma qual è il mistero di Cristo se non la rivelazione dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre, è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Dio si coglie nell’umanità, l’umanità si compie aprendosi al mistero dell’amore che viene da Dio, svelato nel Figlio dell’Uomo, vero Figlio di Dio. Nell’umanità risplende la presenza di Dio. Le opere quaresimali sono opere ‘penitenziali’ solo quando e se portano a liberare il cuore da ogni intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato dalla luce di Dio. Quando preghiamo, nell’orazione dopo la comunione: “…ci insegni ad aver fame di Cristo”, preghiamo di venire innestati e trascinati in quel dinamismo di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, che si è compiuto in Cristo e che attende di compiersi nel mondo. Il senso della testimonianza dei discepoli di Cristo nel mondo sta tutto qui. La forza di questa testimonianza non è in funzione della grandezza delle opere ma della potenza di quel dinamismo di amore che pacifica e rende solidali i cuori.

 

 

SECONDA DOMENICA QUARESIMA

Gn 22,1-18;  Sal 115;  Rm 8,31-34;  Mc 9,2-10

 

         E’ appena iniziato il cammino quaresimale e la chiesa, seguendo la pedagogia evangelica, già sente il bisogno di rassicurare i suoi figli, timorosa che l’asprezza del cammino paralizzi invece che consolidare l’anima. Se l’antifona di ingresso canta: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”, il brano evangelico oggi ci mostra il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima, un volto ‘bellissimo’. Come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Eppure, nulla si svolge secondo la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero sprofondati nella contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i discepoli ‘atterrati’, come scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono accanto a Gesù Elia e Mosè in atto di conversare con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema della conversazione era la morte di Gesù. Perché questi accostamenti drammatici?

         Nel vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”. E aveva ancora aggiunto: “Vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza”, quella ‘potenza’ che unanimemente la tradizione afferma essere stata vista dai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, sul Tabor. Ma i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani. I discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze. Perché? Quale il senso?

         Credo che la risposta vada cercata nella inevitabile dimensione drammatica dell’amore. Troppo beatamente e irrealisticamente ci immaginiamo l’amore in termini ‘beatificanti’. E’ come un voler vivere l’amore a parte dalla vita, senza la vita, come un sognare l’amore senza viverlo. Dio si mostra invece come un amante così implicato nella vita da non rifuggirla mai, da assicurarcela sempre, in totale abbondanza. Se su Gesù risiede tutta la compiacenza del Padre, come dice la voce a sigillo della visione sul Tabor, è perché lui farà vedere l’amore del Padre per gli uomini con tale radicalità e assolutezza da implicare tutta la sua vita fino alla morte, morte che segnerà proprio il trionfo dell’amore come sorgente di vita per chiunque lo riconoscerà. Il dramma nostro invece è dato dal fatto che neppure davanti a Lui ci lasciamo convincere che l’amore di Dio è per noi, che l’amore suo è vita vera per noi, che l’amore diventi vita vissuta. Vorremmo che Dio con il suo amore ci beatificasse senza dover spendere la vita in amore per tutti perché il Suo amore risplenda. Quale stoltezza! Il cammino quaresimale, con l’invito alla conversione, punta proprio a renderci permeabili dall’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita, misura di vita.

         Risuona potente il grido dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Ma risuona vero nel nostro cuore? Ha fatto il nostro cuore un’esperienza così vera della visione dell’amore del Signore Gesù da poter ritrovarsi, davanti alle rivendicazioni che innalza nella vita, alle afflizioni che lo attanagliano, nella stessa certezza dell’apostolo?

Quando cerchiamo di seguire Gesù mettendo in pratica le sue parole è come se entrassimo anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata tutta amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca ad un amore capace di far risplendere il volto degli uomini. Ma se si vede risplendere quella luce, allora Dio è con noi, il mondo può risplendere della sua presenza.

 

 

TERZA DOMENICA QUARESIMA

Es 20,1-17;  Sal 18;  1 Cor 1,22-25;  Gv 2,13-25

 

         I miei occhi sono sempre rivolti al Signore…” canta l’antifona di ingresso. E’ un invito al cuore a cogliere il senso della liturgia a partire da quella prospettiva. I nostri occhi sono rivolti al Signore per cercare in ogni evento la traccia del suo passaggio al fine di seguirlo e poterlo conoscere; per cercare in ogni pensiero la scintilla divina che attiri a Lui e apra uno spazio di visione del suo volto. Il fatto che i nostri occhi siano rivolti al Signore esprime la tensione del cuore che non si perde nelle cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i suoi pensieri, ma li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità.

         Il canto all’alleluia “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (amatissimo)” (cfr Gv 3,16) esprime bene il contenuto dell’esperienza che siamo chiamati a fare. Se nelle parole o nei comandamenti che Dio ci rivolge, noi non riusciamo a percepire la sua tensione di amore nei nostri confronti, non riusciamo a cogliere il Dono di Sé, quel ‘suo far grazia di sé a noi’, come potremo osservarli con gioia? E se non percepiamo che tutte le sue parole, tutti i suoi comandamenti, sono espressione del Dono di Sé che nel Figlio Gesù il Padre ci fa, come potremo aprirci alla sua gioia? Come potremo vivere la nostra umanità in modo che risplenda di quell’amore divino di cui tutti i comandamenti parlano?

         Nel brano dell’Esodo, dove viene presentata la serie dei dieci comandamenti, delle dieci ‘parole’, Dio inizia il suo discorso dicendo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Parla da dentro un legame già noto, già riconosciuto, da dentro un’alleanza che ha già fatto conoscere al popolo l’amore suo di benevolenza. Ed è da dentro quell’esperienza che le parole risuonano e possono arrivare al cuore. Appena quell’esperienza si affievolisce, le parole si stemperano e il cuore fatica a riconoscerle vere, presto le abbandonerà. Ma se quell’esperienza si mantiene forte (e qui dovrebbe appuntarsi tutto lo sforzo del coltivare il proprio cuore), allora avverrà quello che celebra il salmo responsoriale: “La legge del Signore è integra, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice…”. Da interpretare in senso intensivo e dinamico: Dio che è integro, rende integri; Dio che è verità, rende veritieri; Dio che è rettitudine, rende retti. Con la conseguenza di trovare forza perché integri, saggezza perché veritieri, gioia perché retti e in ciò partecipare alla stessa vita di Dio.

         A quell’esperienza alludeva la costruzione del tempio. Là si poteva rinnovare quell’esperienza. Ma Gesù, che di quell’esperienza rappresenta la testimonianza più vivida, freme al vedere come ormai il tempio non risponda più allo scopo, consapevole, da parte di Dio, che è venuto il tempo di indicare il ‘nuovo’ tempio, quello definitivo, non costruito dalle mani dell’uomo, dove la presenza di Dio in mezzo al suo popolo potesse risplendere con un sigillo di radicalità e di definitività non più passibile di cambiamenti. Gesù scaccia dal tempio venditori e cambiavalute a sottolineare la rivelazione che di lì a poco porterà: il nuovo tempio sarà il suo stesso corpo, dove non c’è mercato di sorta perché nulla è richiesto all’uomo se non l’accoglienza dell’offerta del Suo amore, sigillato dalla sua morte ‘gloriosa’, come dichiarerà l’evangelista Giovanni. Si tratta del suo corpo in umanità, tanto che oramai, in Lui, l’umanità sarà la sede della presenza di Dio nel mondo. Dio risplende nell’umanità. E tutti i comandamenti sono in funzione di far risplendere quella umanità. L’amore di Dio per l’uomo è così radicale da far rivelare la Sua gloria solo a partire da e dentro l’umanità. Qui è racchiuso tutto il mistero dell’amore di Dio e della salvezza dell’uomo.        

        

         In tal senso si comprende come oramai il cuore dell’uomo sia il luogo dell’adorazione del Dio vero, perché da lì può risplendere l’umanità. Le azioni buone provengono dallo splendore del cuore e lo splendore del cuore proviene dal riconoscimento dell’amore di Dio per noi. Solo così il nostro cuore non è più luogo di mercato, dove prevalgono interessi  e contraffazioni. Solo così il cuore percepisce che i comandamenti di Dio alludono al compimento della gioia dell’amore allorquando l’amore di Dio e quello dell’uomo si fa comune e la gioia dei due si assomma. Sebbene tale ‘somma’ non sia poi tanto agevole da realizzarsi, per quanto desiderabile. Lo illustra il brano di Paolo ai Corinzi dove presenta il ‘dramma’ della conoscenza e della vita parlando di stoltezza e di debolezza, del Cristo crocifisso, che però è potenza e sapienza di Dio. E’ il dramma dell’uomo che si trova posto continuamente tra la fiducia e la presunzione, la fiducia nel suo Signore e la presunzione di sé. Però, senza l’esperienza dell’amore del Signore che si rivela al nostro cuore, sarà mai possibile abbandonare la miriade di presunzioni e rivendicazioni che ci tormentano nella vita e che impediscono alla nostra umanità di risplendere? Per questo dico al mio cuore: “i miei occhi sono sempre rivolti al Signore…”.

 

QUARTA DOMENICA QUARESIMA

2 Cr 36,14-23;  Sal 136;  Ef 2,4-10;  Gv 3,14-21

 

         Il perno attorno a cui ruota la liturgia di oggi è ancora dato dal canto all’alleluia: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. La solenne affermazione è tratta dal brano del colloquio di Gesù con Nicodemo, che proprio oggi viene proclamato. Per coglierne tutto il valore, occorre coniugare l’espressione con l’altra affermazione categorica dello stesso brano: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Con queste ultime parole Gesù introduce il paragone del serpente di bronzo innalzato nel deserto da Mosé narrato nel libro dei Numeri 21,4-9. Se teniamo conto dello sguardo della liturgia, come traspare dalla colletta (“…concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”), allora comprendiamo come le affermazioni sopra indicate siano porte di accesso al mistero della Pasqua.

         Come il serpente di bronzo innalzato nel deserto recava guarigione a coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. Possiamo soffermarci solo su di un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la ‘modalità’ della rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella rivelazione. E’ da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con Lui che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?

         Spesso gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. E’ la gloria dell’innalzamento, la gloria che l’altezza procura. E’ la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando dal basso viene vilipeso e calpestato. E’ la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento della croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.

         La rivelazione dell’umanità come luogo dello splendore di Dio in questo mondo non può che venire dall’alto. Quello che Giovanni chiama ‘dall’alto’, Paolo, nella sua lettera agli Efesini, chiama ‘per grazia’. ‘Dall’alto’ e ‘per grazia’ rivelano il fatto che in Gesù Dio ha fatto grazia di Sé, ha fatto dono di Sé all’uomo e in quel dono l’uomo può ritrovare la potenza della sua umanità. In tal senso acquista particolare risonanza l’altra espressione che usa l’evangelista Giovanni: “Chi opera la verità viene alla luce”. Operare la verità è un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato risulta ormai questa: i comandamenti non sono causa di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie, la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità. Ma dovrà avere lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è il testimone per eccellenza, in umanità.

 

 

QUINTA DOMENICA QUARESIMA

Ger 31,31-34;  Sal 50;  Eb 5,7-9;  Gv 12,20-33

 

    Nella narrazione del vangelo di Giovanni il brano evangelico di oggi è situato nell'ultima settimana di vita di Gesù. Gesù era appena entrato trionfante in Gerusalemme, la notizia della risurrezione di Lazzaro correva sulla bocca di tutti e tutti accorrevano per vedere l'uno e l'altro. Era prossima la festa di pasqua. Si trovavano a Gerusalemme ebrei e 'greci', cioè pagani simpatizzanti, vicini alla religione ebraica, venuti per partecipare al pellegrinaggio pasquale, desiderosi di adorare il vero Dio. La loro richiesta: "vogliamo vedere Gesù", introduce l'ora del Figlio dell'uomo. Tutti, ebrei e pagani, ora, potranno 'vedere' la salvezza, potranno entrare in quella nuova, definitiva, alleanza di Dio con gli uomini annunciata fin dalla fondazione del mondo con l'immagine dell'Agnello immolato. Vedere Gesù vuol dire vedere il Salvatore, vedere il Dio che salva, vedere il Regno di Dio venire con potenza, vedere lo splendore dell'amore di Dio che tutto intride e porta a compimento. Quando Gesù, commentando la richiesta dei pagani di vederlo, annuncia la sua ora arrivata, parla della sua morte come della sua gloria e rivela la comunanza di destino con i suoi discepoli: "dove sono io, là sarà anche il mio servo". Non vuol dire semplicemente: io soffro, anche voi soffrirete; io sono ripudiato dal mondo, anche voi lo sarete; io muoio sulla croce, anche voi avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono nell'amore del Padre, anche voi lo sarete; io sono il testimone del suo amore in questo mondo, anche voi lo sarete; io risplendo della gloria dell'amore del Padre, anche voi risplenderete dello stesso amore; e tanto più quanto più sopporto l'ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza dell'amore, come anche voi; per questo amore, per la rivelazione di questo amore, perché questo amore porti vita a tutti sono venuto al mondo e così sarà di voi, se state con me. E dicendo 'quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me', allude evidentemente alla sua morte in croce, ma anche al destino dei suoi discepoli perché anche per loro varrà la stessa dinamica di salvezza: quando saranno 'elevati' con il loro Signore crocifisso, quando cioè subiranno il martirio per Lui, sotto qualsiasi forma avvenga, allora risplenderà la loro vita, allora gli uomini capiranno cosa i loro cuori portavano dentro e si sentiranno attratti dal loro stesso amore.

    Come accedere allora a questa 'visione' di Gesù? Come vederlo Salvatore? Ce lo rivela il profeta Geremia: "Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. 'Tutti lo conosceranno' .... 'perché io perdonerò la loro iniquità' : ecco i due passaggi nevralgici. Quel 'perché' dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l'esperienza del perdono e più rigenerante l'incontro con il Signore, finalmente 'conosciuto' nel suo amore per noi. E per non cadere nell'illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all'ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo contrariati od oppressi o intristiti, perché non vogliamo perdere l'esperienza di quell'amore di perdono che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l'alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo 'innalzati' con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

 

DOMENICA DELLE PALME

Vangelo dell'ingresso a Gerusalemme:  Mc 11,1-10

Is 50,4-7;  Sal21;  Fil 2,6-11;  Mc 14,1 - 15,47

 

         La liturgia della domenica delle palme si compone di due momenti ben distinti: con la processione accompagniamo festosi l'ingresso di Gesù in Gerusalemme e con la lettura solenne della passione del Signore entriamo, commossi, nel mistero dell'Ora del Figlio dell'uomo, 'dato per noi'.

Due diversi ritornelli scandiscono i due momenti:

1)   'Benedetto colui che viene nel nome del Signore ...'  

2) 'Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce'.

 

         L'acclamazione della folla che accompagna la discesa trionfante di Gesù a Gerusalemme è la stessa che ogni giorno cantiamo nel Sanctus della Messa. Dopo esserci uniti al canto degli angeli secondo le parole del profeta Isaia 6,3 : "Santo, santo, santo il Signore Dio dell'universo ...", aggiungiamo le nostre voci a quelle di tutti coloro che dall'ingresso di Gesù in Gerusalemme riconoscono e benedicono in Colui che viene (nella celebrazione eucaristica, sotto il segno del pane e del vino) il Figlio di Davide, il compimento di tutte le promesse, il 'Dio con noi' finalmente svelato nel suo Volto. Durante la processione viene cantato il salmo 23: " ... alzatevi, porte antiche ed entri il re della gloria. Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia". Il nostro re della gloria è il Signore crocifisso, quello sopra il cui capo, come si può notare in molte raffigurazioni antiche del Crocifisso, viene riportato non l'iscrizione di condanna I.N.R.I, ma il titolo 're della gloria'. La forza e potenza di questo re della gloria stanno tutte nello sconfinato amore per noi, rivelazione dell'amore del Padre per i suoi figli, amore che non teme la battaglia contro il principe di questo mondo perché sa che è proprio da questa battaglia che risulterà in tutto il suo splendore l'amore di Dio per l'uomo che tutto redime e salva. Alzino allora i nostri cuori le loro porte, lascino entrare questo re della gloria, il 'loro' re della gloria!

        

         Ciò che colpisce è la solitudine di Gesù nel quale si concentra tutto il mistero nel suo peso e nel suo splendore. Questa solitudine comincia con l'ingresso trionfale in Gerusalemme. Gesù aveva da poco resuscitato Lazzaro; il prodigio aveva suscitato l'entusiasmo della gente e l'illusione di vedere finalmente realizzati i propri sogni messianici. Nessuno si accorge però di quello che in realtà sta avvenendo. L'evangelista lo fa rimarcare, ma come da fuori campo: la risurrezione di Lazzaro ha scatenato gli eventi della passione di Gesù, alla quale volontariamente si consegna. Di ciò Gesù è consapevole, ma Lui solo. E la liturgia, mentre commemora gli eventi della passione del Signore, ci invita ad accompagnarlo, suggerendoci le porte di accesso per la loro comprensione.

E' singolare che nel rito ambrosiano la liturgia della domenica delle Palme comporti due celebrazioni distinte: la messa dell'ingresso trionfale e la messa del giorno con il brano del servo sofferente di Isaia ed il vangelo dell'unzione a Betania di Maria. A Betania l'ammirazione per Gesù domina la scena; nessuno si avvede ancora di ciò che si va preparando. Soltanto una donna, nella tenerezza del suo amore, intuisce il mistero di Gesù. Spezzare quel vasetto di unguento assai prezioso (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio), ungere i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime, tutto l'amore che quel corpo 'dato per noi' significa ed esprime.

I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama 'profumo di Cristo', allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore - così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati - e che, riversandosi sul mondo, lo potrà conquistare perché tutto ormai parla dell'amore di Dio.

         La liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa e partecipante, con l'uomo dei dolori, con l'uomo umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di introdurci nel mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino alla morte e alla morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della settimana santa.

         Quando la colletta ci propone Gesù come modello intende sì porci davanti agli occhi il Gesù fatto uomo e umiliato, e fino a che punto umiliato!, ma non per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché se vogliamo realizzare la nostra vocazione all’umanità, se vogliamo vivere la nostra umanità in tutta l’estensione della sua potenzialità, non possiamo non rifarci a Lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.

 

 

PASQUA DI RISURREZIONE

        

         La settimana santa veniva introdotta dalla colletta: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio”, perché “tu solo hai compassione di noi peccatori”. Una compassione che si è fatta evidenza per il cuore, nella celebrazione dei riti del triduo sacro, quando abbiamo rimirato ‘colui che abbiamo trafitto’, quando è diventato evidente anche sensibilmente che “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Rm 8,32).

         Il racconto della passione nel vangelo di Giovanni inizia con una mirabile espressione: “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Non vuol dire l’evangelista semplicemente che Gesù ci ha amati fino alla fine della sua vita, ma fino a che lo scopo per cui egli era venuto, mandato dal Padre, si fosse rivelato in tutta la sua potenza e in tutto il suo splendore, fino a che l’amore di Dio per l’uomo si fosse rivelato in tutto il suo splendore. Così l’accento non è posto tanto sulla prova di coraggio e di dedizione di cui Gesù ci ha dato testimonianza, ma sull’incommensurabile amore di Dio che finalmente conquista i cuori alla vita tramite Gesù. L’antifona di ingresso del mercoledì santo è particolarmente illuminante. Riprendendo il passo di Fil 2,8-11, lo assembla in questo modo: “…Gesù si è fatto obbediente fino alla morte, alla morte di croce: per questo Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.  Gesù è Signore perché si è fatto obbediente fino a morire in croce. Gesù è stato esaudito dal Padre perché ha fatto risplendere il suo amore senza limiti per gli uomini. Beato allora colui che in quell'uomo sofferente, di cui i riti della settimana santa commemorano la passione gloriosa, vede il Figlio di Dio, il Testimone dell'amore del Padre. Beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini. Beato colui che ha l'intelligenza spirituale allenata e vivida per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito. Perché la sofferenza, perché la morte? Perché tutto quel dolore in Lui e tutta quella ostinazione in noi a non voler vedere? Quella sofferenza e quella morte ci appartengono, come ci appartengono l'ostinazione e la durezza di cuore, l'ingiustizia e il tradimento. Gli eventi narrati e celebrati segnano la nostra storia perché ne rivelano il senso e soprattutto perché mostrano le dinamiche di vita che toccano le radici del nostro cuore.

         L’esultanza del giorno della risurrezione è tanto più potente quanto più l’obbedienza all’amore è totale. Come a dire: vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, criterio di discernimento del bene, scopo supremo dell'essere e dell'agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua 'potenza' preferendo la debolezza. (cfr Fil 2,8 ). Ma questa debolezza di Dio non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche il desiderio profondo dell'uomo, il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa 'debolezza' di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo.

Tutto è assoggettato a questa divina debolezza, a questa divina povertà. Non si trova vita al di fuori di essa. Beato colui che ne ha compreso il mistero.  Cadano le illusioni, anche il nostro cuore sia toccato profondamente da questa rivelazione della debolezza di Dio e riceva vita, quella vera che non perisce mai. E la gioia non si allontanerà dalle radici del nostro cuore. Il Signore è risorto; è davvero risorto!

 

 

SECONDA DOMENICA DI PASQUA

At 4,32-35;  1 Gv 5,1-6;  Gv 20,19-31

 

Per tutta l’ottava di Pasqua il canto al vangelo ci ha proclamato: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo”. Cambia la percezione del tempo. Con la risurrezione di Gesù la nostra storia si dilata nella storia di Dio, il Vivente. Dire che ‘questo è il giorno del Signore’ non vuol significare soltanto che l’oggi della risurrezione non poteva che essere creato da Dio, ma soprattutto che quel giorno sovrasta e ingloba tutti i giorni dell’uomo, che tutti i nostri giorni procedono e fioriscono in quell’unico giorno eterno che non verrà mai meno. Come, del resto, dire che ‘eterna è la sua misericordia’ non vuol significare soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia o che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà.

La colletta della messa di oggi prega perché Dio ‘accresca in noi la grazia che ci ha dato’ con l’avvenimento della risurrezione di Gesù. Qual è questa grazia? E’ la grazia della rivelazione dell’immenso amore del Signore per noi che a tal punto ci ha amati da morire per noi e farci condividere la sua stessa vita, la vita di Colui che è proclamato ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non ha più potere. Non si tratta di una semplice affermazione dogmatica che riguarda la natura della persona di Gesù, ma dello svelamento di una possibilità di ‘vita divina’ concessa all’uomo che, guardando a ‘Colui che è stato trafitto’, lo riconosce suo Signore e suo Dio, come Tommaso, in totale confidenza.

Se Luca descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è la comunione. Nel canone eucaristico, quando si invoca la discesa dello Spirito Santo sulla comunità dei credenti, è per essere abilitati a vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’, in tutta fraternità. Accogliere la vita dal Risorto significa non cercarla più da altre parti perché cercarla altrove comporterebbe la divisione dai miei fratelli e se vivo diviso sono soggetto alla morte e divento causa di morte. Le meraviglie dell’amore di Dio che cantiamo nel salmo responsoriale sono appunto le meraviglie di quella vita donata che contemporaneamente rivela l’opera di Gesù e il frutto che ne consegue per i cuori che vivono nella tensione di una comunione imprendibile dal male. Da qui deriva quella forza che fa dire all’autore degli Atti degli apostoli: “con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione”. La loro vita era diventata segno della presenza del Risorto nel mondo.

         Quella vita scaturisce dalla beatitudine che Gesù rivela a Tommaso: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Non penso che Gesù voglia dire che si deve credere e basta, senza vedere, quasi che fosse riservato un premio speciale alla fede. E’ tipico invece della fede aprire gli occhi alla visione. Solo che la visione non precede, non può servire di giustificazione alla fede. Sarà la fede a introdurre alla visione. Quando Tommaso protesta la sua incredulità non è per mancanza di fede, ma perché si è trovato così coinvolto nella vicenda di Gesù, al quale aveva aderito con tutto il cuore (Tommaso non è un pavido, un insicuro; le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù) che non vuole  illudersi. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni. In quel 'mio' c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua esperienza di Lui, anche se non ne capiva il parlare e non poteva accettare i suoi propositi di andare incontro alla morte, ma di cui condivideva la strada; in quel 'Signore e Dio', c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore. E con quella professione di fede gli è scesa in cuore quella 'pace' che Gesù aveva dato agli apostoli comparendo davanti a loro. Nella vicenda terrena di Gesù, la pace sigilla l'inizio e la fine, rivelazione e dono del Dio misericordioso verso gli uomini. Al presepio di Betlemme gli angeli annunciano la pace; nel discorso all'ultima cena, Gesù promette la sua pace; dopo la risurrezione Gesù dona la sua pace e con la nostra professione di fede quella pace scende nel cuore e ne occupa le sorgenti. Nessuno e niente potrà rapire quella pace da quel cuore! E' la stessa 'pace' che abita i cuori quando si accostano all'Eucaristia, dove la chiesa fa esperienza della presenza del Risorto. Quella pace è a prova di ogni tipo di male perché si colloca così profondamente alle radici dei cuori che non può essere rapita da niente e da nessuno. La vita che scaturisce da quella pace non è più soggetta alla morte, non tollera più divisioni e ferite alla fraternità, perché l’amore del Signore deve risplendere per tutti e per tutto il mondo.

 

 

TERZA DOMENICA DI PASQUA

At 3,13-19;  Sal 4;  1 Gv 2,1-5;  Lc 24,35-48

 

         I racconti della risurrezione non mirano soltanto a mostrare la verità della risurrezione di Gesù, verità che non apparteneva all’orizzonte mentale dei discepoli, ma anche ad aprire l’intelligenza delle Scritture, che con la risurrezione di Gesù acquista tutt’altra densità e definitività.

         Il canto al vangelo di questa domenica esprime bene la condizione interiore che prelude al riconoscimento del Risorto sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cfr. Lc 24, 32). E’ la confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver riconosciuto il Risorto nello spezzare il pane mentre era a tavola con loro, si commentano a vicenda l’accaduto e si confidano i sentimenti profondi del cuore. Quando, nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con bontà, o Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e guidalo alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare professione di fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel Credo, ma più specificamente allude alla possibilità di partecipare alla potenza della risurrezione, denominata ‘gloria’, fin da quaggiù, imparando a riconoscere il Risorto, a vivere in sua compagnia (“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, Mt 28,20), ad assimilare lo stesso principio di vita che ha guidato Gesù, testimone dell’amore del Padre agli uomini, contro il quale la morte non può nulla. La bontà di Dio nei confronti degli uomini ha che fare essenzialmente con il dono della partecipazione alla potenza della risurrezione, in Gesù, morto e Risorto, ormai il Vivente, capace di dare la vita non più soggetta alla morte. Pregare il Signore che ci guidi a quella partecipazione significa che il percorso non è scontato e soprattutto che non è percorribile da soli, sulla base delle proprie intuizioni e forze.

         E’ qui che si innesta la questione dell’intelligenza delle Scritture e della conversione, come accesso alla potenza della risurrezione. Ce lo richiama l’apostolo Pietro nel suo discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del paralitico alla porta Bella del tempio, come riportato nella prima lettura. Il punto essenziale del suo discorso non è costituito dal fatto di ricordare che il miracolo è avvenuto nel nome di Gesù risorto, di cui lui e gli altri apostoli sono testimoni, ma nel fatto di legare il pentimento e la conversione al riconoscimento dell’agire di Dio in quell’Uomo che è stato rinnegato, condannato, messo a morte e ora glorificato. Nel riconoscere che Gesù è stato condannato e messo a morte c’è tutta l’ammissione di colpevolezza nei confronti di Dio di cui si è disprezzato l’amore e perciò il cuore si addolora profondamente (risuona allora con tutt’altro significato il versetto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi al riconoscimento che l’amore di Dio è davvero grande e poter dire, davanti al ‘crocifisso’: questi è davvero il re della gloria, il testimone dello splendore dell’amore di Dio che salva e nella cui energia anche noi possiamo ora vivere. A questo punto la rivelazione del Risorto ci partecipa la potenza della sua risurrezione. In effetti, è guardando con dolore e tenerezza a Colui che è stato trafitto che possiamo specchiarci e ritrovare la nostra verità: di uomini peccatori, che non hanno voluto tener in conto l’alleanza di Dio, che hanno disprezzato il suo amore e contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente vedono l’amore di Dio riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di esistenza.

         In funzione di tale intima percezione, per provocarla e per convalidarla, la chiesa legge le Scritture, le proclama in tutte le sue liturgie, le vive come guida alla partecipazione della potenza della risurrezione. E’ assolutamente significativo che solo di Gesù Risorto si dica che “allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45), quando tutto ciò che lo riguardava fu portato a compimento. Prima le Scritture non potevano essere totalmente aperte. E anche ora, benché in Lui siano aperte, in qualche modo restano pur sempre velate perché ancora non sono compiute tutte le cose riguardo al Corpo di Cristo, capo e membra insieme. Mancano ancora le ‘sofferenze’ di coloro che nel suo nome testimoniano l’amore di Dio agli uomini e quindi manca ancora qualcosa all’irraggiamento dello splendore dell’amore di Dio sugli uomini e perciò manca ancora qualcosa all’intelligenza delle Scritture, che di quell’amore sono la manifestazione. E se questo vale per tutta la chiesa vale anche per ciascuno di noi. Quando il Signore ritornerà rivelerà definitivamente le Scritture perché tutto apparirà nella sua gloria, nello splendore del suo amore ormai compiuto per tutti e per ciascuno. Le sofferenze subite, come le cicatrici nel corpo del Cristo, non esprimeranno più il prezzo dell’amore, ma solo la gloria dell’amore. Ed è necessario che prezzo e gloria si riferiscano allo stesso corpo, alla stessa persona, agli stessi eventi, finalmente assolutamente aperti all’intelligenza dei cuori.

         Un ultimo particolare. Gesù, per mostrare la veridicità del suo corpo glorioso, mangia perfino una porzione di pesce arrostito davanti ai discepoli esterrefatti. Il corpo glorioso ingloba nella sua dimensione ciò di per sé appartiene ad un’altra. Il cibo terreno non porta alla dimensione terrena il corpo che lo assume in uno stato di gloria. Pur fatte le debite distinzioni, questo è appunto il mistero dell’eucaristia. Quando l’uomo mangia il pane eucaristico, non è lui a inglobare il corpo di Cristo, ma è il Corpo di Cristo che assimila l’uomo che lo mangia. E’ il Vivente che assume in Lui noi vivi, ma ancora corruttibili, fino a portarci alla sua dimensione, fino a farci vivere dello splendore di quell’amore che viene da Dio che non devia più dal suo scopo, quello cioè di attrarre tutti e tutto in esso.

 

 

QUARTA DOMENICA DI PASQUA

At 4,8-12;  Sal 117;  1 Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

 

         In questo periodo liturgico pasquale, la chiesa continua a meditare sulla realtà del risorto come il Vivente, come Colui che, essendo venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci fa vivere della sua stessa vita. L’immagine del buon pastore ci dice proprio questo. Ma, come sempre, la parola di Dio è assai più densa di significati, più misteriosa di quanto possa sembrare a prima vista.

         Gesù si presenta come il buon pastore e fa consistere la sua ‘bontà’ nel fatto che ha dato la vita, seguendo il comando del Padre, che per questo lo ama. Sembra questa la concatenazione logica dei pensieri. Ma la realtà è più misteriosa. Il comando del Padre sembra riguardi non tanto il fatto di dare la vita, ma di poterla dare e di poterla riprendere di nuovo. Cosa significa? Sul dare la vita non è detto semplicemente che dà la vita, ma che dà la sua anima, la sua persona, se stesso e non semplicemente che la dà a qualcuno, ma per qualcuno. Gesù unisce strettamente le due dinamiche del conoscere e dell’amare nel fatto di dare la vita. Perché?

         L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la vita, solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. Non solo, ma che per noi uomini l’esperienza dell’amore risulta possibile a condizione di percepirlo come dono di vita, vita di Dio per noi e vita di noi per il prossimo. Gesù è Colui che dal punto di vista di Dio ci rivela qual è la dinamica dell’amore e dal punto di vista dell’uomo ne svela la profondità e la densità. L’amore ha sempre a che fare con la vita di Dio, con il mistero di Dio. Non è detto semplicemente che Gesù dà la vita a, ma per le pecore. Così, se non percepisco il suo dono per, non potrò viverlo riferito a me, perché lo vivrei in senso ‘egoistico’, come se l’amore di Dio servisse semplicemente a far star bene me, bisognoso di amore. Il mistero dell’amore è dato dal rimando al mistero di Dio che vuole tutti gli uomini salvi; è dato dal fatto che Gesù è il Signore di tutti (cfr At 10,36). Per questo Gesù parla di altre pecore che non sono del suo ovile; tutte lui deve condurre, per fare un solo gregge. La dinamica dell’amore è essenzialmente ‘universale’. Dal punto di vista di Dio, sarebbe un controsenso amare qualcuno e odiare altri; sarebbe come un volere contemporaneamente Dio per sé e escluderlo per altri. Se Dio è Dio, se la vita che dona Dio è non più soggetta alla morte, è inevitabile l’espansione all’umanità tutta, in estensione e in profondità, perché l’amore suo risplenda in tutti e in tutto. Se tale è la tensione dell’amore del pastore, la medesima tensione apparterrà all’amore delle pecore che da lui si lasciano condurre. In questo senso Gesù è detto ‘pietra angolare’ (prima lettura, At 4,11) della nuova costruzione del popolo di Dio che riguarda tutta l’umanità. E la ragione profonda è data dal fatto che, essendo stato respinto, scartato, ma senza esser venuto meno all’amore di Dio e alla sua opera per l’uomo, ha superato ogni forma di rifiuto e di discriminazione, cioè di vittoria della morte e così può costituire la radice di vita per tutti perché l’amore di Dio risplenda nel mondo.

Quando dice che può dare la vita e riprenderla e che questo è il comando del Padre suo allude al fatto che dà se stesso senza arrogarsi nessun altro diritto che non sia quello di testimoniare l’amore del Padre agli uomini e così la vita che vive è vita eterna, perennemente vitale, capace di attraversare ogni movimento di morte. E questo corrisponde al volere di Dio per l’uomo, che è chiamato ‘comando’. Quando in effetti la riprende, con la sua risurrezione, è per darla a tutti coloro che in lui vedono il mistero della fedeltà di Dio all’uomo, è per far prevalere il volere del Padre che vuole la vita per gli uomini. E perciò noi possiamo avere la vita in abbondanza, cioè la vita secondo quella stessa dinamica di amore di Colui che ce l’ha data. Vale lo stesso effetto anche per noi: per accrescere la vita, occorre darla. Non semplicemente darla a qualcuno, ma darla perché l’amore di Dio per gli uomini torni a risplendere e l’opera di Dio in Gesù si faccia sperimentabile e abbordabile per l’umanità, nostra e degli altri.

         Naturalmente, l’accento della liturgia di oggi non è posto su quello che potremmo chiamare la nostra ‘responsabilità’ di discepoli del Signore, ma sulla stessa opera di Dio che in Gesù e tramite Gesù ci viene incontro, ci ingloba, si fa afferrabile, dandoci la possibilità di toccare il suo mistero e il mistero dell’uomo. Non esiste accrescimento automatico della vita. Solo l’accoglienza del dono della vita (=il far grazia di sé) accresce la vita perché ci dà coscienza della relazione che ci costituisce e ci struttura, relazione che è principio della nostra gioia, gioia che nessuno ci può rapire (cfr Gv 16,24). Così l’anima può cantare: “Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia” (sal 117,1).

 

 

QUINTA DOMENICA DI PASQUA

At 9,26-31;  Sal 21;  1Gv 3,18-24;  Gv 15,1-8

 

         La vite è l’immagine di riferimento del capitolo 15 di Giovanni, brano che viene letto oggi e domenica prossima. Le parole di Gesù sono tratte dal suo lungo discorso all’ultima cena. Aveva appena lavato i piedi agli apostoli, aveva rivelato loro l’imminente tradimento, aveva conversato sulla rivelazione del Padre e sull’invio dello Spirito Consolatore. Con l’immagine della vite mostra agli apostoli la profondità del legame che li unisce e offre una chiave di lettura del mistero della vita sua e della sua persona, indicando contemporaneamente a quale ‘dignità’ di vita chiama i suoi discepoli.

         Due elementi strutturano tutto il capitolo: il tono confidenziale con cui Gesù parla e la particella ‘come’ che ritorna più volte nel discorso a sottolineare la dimensione di una radice dall’alto, la natura di un mistero che, immensamente più grande di noi, ci ingloba però nella sua realtà. Lasciamo l’analisi della particella ‘come’ alla prossima domenica, perché appartiene al testo che segue il brano di oggi.

         Le parole di Gesù attorno all’immagine della vite (lui è la vite, noi i tralci…) non sono una semplice esortazione, quasi Gesù ci supplicasse, nel suo amore per noi e consapevole delle prove che si abbatteranno sui suoi, a restare uniti a lui. Sono una confidenza, la comunicazione di un segreto che i discepoli comprenderanno nel suo significato e nella sua portata solo più tardi, ma di cui incominciano a percepire di essere i fruitori proprio dal tono, estremamente confidenziale, con cui Gesù parla loro. Loro sono i destinatari di un’offerta incredibile, di una ‘gratuità d’amore’ assolutamente immeritata. In quella offerta si riassume tutta l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele, tutta la rivelazione di Dio all’uomo, tutta la verità della salvezza che il Signore guadagna al suo popolo. Con quanta fatica, purtroppo, nelle parole della Scrittura, riusciamo a percepire la persona e il cuore che le pronunciano e l’amore con cui le pronunciano.

         In quel tono, le parole di Gesù acquistano ben altre sfumature. Parla anzitutto di potatura, un’operazione del tutto naturale per un viticultore perché la vite faccia frutti abbondanti. Riferita ale persone, che cos’è una potatura? In greco, potare, purificare, essere puro o mondo, sono significati che si rapportano ad una stessa radice. Illuminante la spiegazione di Gesù: “Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato”. E’ la parola di Gesù che ha il potere di rendere puri. Che significa? Accogliere la parola di Gesù significa accogliere la rivelazione del mistero della sua persona, manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo che lo vuole in comunione con sé perché possa vivere in verità la sua vocazione all’umanità. Gli apostoli incominciano a comprendere che in Gesù sta il segreto di Dio per l’uomo e, nello stesso tempo, il segreto del loro cuore che anela a Dio. Il segreto di Dio ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo. In effetti, parlando della vite, della potatura della vite, il discorso cade evidentemente sul frutto che la vite dà nei tralci che da lei prendono vigore. Ma qual è il frutto? Si vedrà meglio nel seguito del brano che verrà letto domenica prossima, ma già si intravede da oggi. Il frutto è che il Padre sia glorificato, cioè che l’amore tra gli uomini risplenda a tal punto da rivelarlo Padre di tutti. Gesù è Colui che rivela il mistero di Dio in tutta la sua bellezza per l’amore agli uomini che lo divora, fedele in questo all’amore del Padre fino alla fine sia all’amore del Padre che in Lui aveva posto tutto il suo compiacimento e all’amore per il Padre nella fedeltà alla sua volontà di benevolenza per gli uomini. Partecipare a tutta la bellezza di quell’amore significa ‘dimorare’ in Gesù, come l’immagine della vite sottolinea. E si dimora quando non si attingono altrove motivazioni di vita e di azione, in nessuna circostanza.

Il portar frutto allude anche alla comprensione, all’intelligenza delle Scritture che vengono colte nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo, come sopra dicevo. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti comunica un’esperienza, che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di indirizzarsi a tutti, di condividerla a tutti.

 

 

SESTA DOMENICA DI PASQUA

At 10,25-48;  Sal 97; 1 Gv 4,7-10;  Gv 15,9-17

 

         La realtà che Gesù aveva illustrato con l’immagine della vite e dei tralci (brano della domenica scorsa) ora la descrive direttamente. Tutto il discorso però si impernia su di un’unica particella, sul ‘come’, assolutamente determinante per cogliere il senso delle sue parole. Quel ‘come’ introduce al mistero della sua rivelazione, della condivisione del segreto di cui mette a parte i discepoli. Per il nostro discorso quotidiano, le frasi di Gesù suonano piuttosto strane. Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa ciò che gli comanda l’altro oppure unire l’amare al fatto di essere comandati, senza aggiungere che le concatenazioni (servo-amico-scelta-frutto-preghiera) che Gesù usa non sono immediatamente comprensibili. In questo intensissimo brano, come del resto in molti altri testi evangelici, si aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.

         Gesù intesse il suo discorso su tre ‘come’: “Come il Padre ha amato me…  come io ho osservato i comandamenti del Padre mio… come io vi ho amati” (vv. 9,10,12). Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Il ‘come’ non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Il ‘come’ allude sempre a una rivelazione dall’alto, ad una offerta di alleanza da parte di Dio all’uomo, ad una partecipazione al suo stesso dinamismo. “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione) io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la storia. E Gesù ne annuncia la condizione per goderne i benefici: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”. Ma i comandamenti del Padre sono la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia. Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine ‘rimanere’). Osservare i comandamenti comporta il vedere l’amore di Dio costituire la radice di vita, comporta l’opzione di vivere secondo questa radice, fonte della nostra gioia e dignità. Ma questo non si limita a me solo, come se Dio riempisse il mio bisogno di amore e quindi potessi starmene sazio. Quel tipo di amore non ha nulla a che vedere con l’amore di Dio che arriva a noi in Gesù. E per questo Gesù subito dopo parla del ‘dare la vita’. La dinamica dell’amore è tale che si estende a tutti o si perde, nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri. Non sarebbe più un amore ‘come’ quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una concretezza che ne qualifica la verità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del Padre. Da notare che ora non si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento. Ciò vuol dire che quel comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Per questo Gesù, in altri passi, potrà dire: se gli uomini vedranno che vi amiate, riconosceranno il mio nome. E da altri passi verremo a sapere che quell’amore vicendevole è frutto del dono dello Spirito Santo che ci rende un cuor solo e un’anima sola, il mistero dell’eucaristia realizzato, la fraternità come opera divina, rivelazione della paternità di Dio.

         Si può procedere ancora oltre. L’aspetto di rivelazione delle parole di Gesù è da cogliere nel fatto che tale dinamica di amore di cui Gesù ci fa partecipi corrisponde all’intima struttura del cuore dell’uomo. Un uomo siffatto è un ‘vero’ uomo nel senso che vive secondo la vocazione all’umanità che il nostro essere uomini comporta. Per questo Gesù potrà dire che la gioia che tale dinamica ottiene non potrà essere rapita da nessuno perché si situa ad un livello di profondità dove nessuno ha accesso, nemmeno i demoni e costituisce l’eredità della vita. E l’uomo scoprirà che le radici di quella gioia appartengono a Dio, di cui condividerà i sentimenti.

 

 

ASCENSIONE

At 1,1-11; Sal 46;  Ef 4,1-13;  Mc 16,15-20

 

         Il mistero dell’ascensione è presentato dalle Scritture e dalla liturgia in due registri: un registro dogmatico, secondo l’enunciato della fede e un registro narrativo, secondo i ricordi degli apostoli. Il ‘fatto’ dell’ascensione di Gesù, vale a dire della sua sparizione agli occhi degli apostoli mentre sale al cielo è narrato dalla prima lettura, secondo il resoconto che l’evangelista Luca presenta nel primo capitolo degli Atti; l’enunciato dogmatico, vale a dire che Gesù fu assunto in cielo e ora siede alla destra del Padre, lo troviamo nel vangelo di Marco. I due registri vanno tenuti insieme.

         La gioia della colletta: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”, è una gioia, potremmo dire, in terza battuta, conseguenza cioè dell’aver contemplato con gli apostoli il fatto dell’ascensione al cielo di Gesù, dell’aver ‘compreso’ il senso di quell’avvenimento e perciò applicato a noi la potenza di grazia che comporta.

Procediamo con ordine. Consideriamo prima il fatto. Gesù si sottrae alla vista dei discepoli. Non potrà più essere visto da loro. Due i particolari strani nei racconti: primo, l’intervento degli uomini in bianche vesti, la cui funzione è di sottolineare che non serve stare con il naso per aria, con lo sguardo perso verso il cielo e che il cielo non è più in alto ma là dove è Gesù, cioè con i suoi discepoli, in terra, lungo la storia fino a che si realizzi definitivamente il suo Regno, il regno del Padre; secondo, l’annotazione della grande gioia, che contrasta con il fatto che ormai i discepoli non vedranno più il loro Maestro. Ciò significa che l’evento nella percezione degli apostoli è colto come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista una profondità e intensità insospettate. Se potessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, una gioia capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. L’ascensione di Gesù è posta perciò in rapporto diretto con la missione degli apostoli e con la predicazione del vangelo al mondo quanto all’agire, e con l’esperienza della presenza ‘potente’ di Gesù con loro quanto all’essere. Anche il comando di Gesù, proclamato nel canto al vangelo e ripreso da Matteo (“Andate e ammaestrate tutte le nazioni. Ecco: io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”) acquista una particolarissima sfumatura. Gli apostoli sono invitati non semplicemente a istruire, ad ammaestrare, ma più propriamente a far sì che tutti possano riconoscere e accogliere con amore lo stesso Maestro, perché anche in loro si faccia sentire quella gioia e possano godere della sua presenza potente (ammaestrare, in greco, allude al fatto di essere trovati discepoli).

Nel racconto di Luca Gesù che sale a cielo è visto nell’atteggiamento benedicente, come a dire che ormai la benedizione di Dio sull’umanità è proprio Lui e ognuno è chiamato a godere sotto quella benedizione. Lo ricorda Pietro nel suo discorso dopo Pentecoste: “Voi siete i figli dei profeti e dell' alleanza che Dio stabilì con i vostri padri, quando disse ad Abramo: Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra. Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l' ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità” (At 3,25-26). E lo riprende anche l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore”.

Proprio qui si innesta l’enunciato di fede: Gesù è alla destra del Padre, cioè nell’atteggiamento di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra per ottenerci la salvezza. Da tale considerazione deriva la nostra speranza e tutta la nostra fiducia, tanto che possiamo contemplarci, nel suo amore, vicini a Dio, assunti in Dio anche noi, legati a Lui, Lui la vite e noi i tralci, Lui il capo e noi le membra.

         Mi piace sottolineare un altro particolare. Nella presentazione del mistero dell’ascensione in Marco, quello che colpisce è una specie di forza dinamica che muove tutto, il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo, come anche il desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così, quella presenza ‘potente’ di Gesù con i suoi  non va vista in funzione della capacità di fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel passo precedente, ma in funzione ‘predicante’, vale a dire nella sua capacità di riempire il cuore che parla a tutti della Sua presenza viva senza che il mondo lo soffochi o lo distolga. E l’anima di questa potenza è lo stesso desiderio di salvezza degli uomini da parte di Dio che si comunica ai cuori e che attraversa instancabilmente il mondo. Allora la gioia dell’ascensione è colta in tutta la sua estensione.

 

 

 

DOMENICA DI PENTECOSTE

At 2,1-11;  sal 103;  Gal 5,16-25;  Gv 15,26.27; 16,12-15

 

            Nella settimana che precede la festa, la chiesa ha fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta giovedì).

            L’invocazione allo Spirito Santo è finalizzata all’adesione alla volontà di Dio. Perché e cosa significa questo? Ce lo rivela Gesù nel vangelo: lo Spirito “vi guiderà alla verità tutta intera… dirà tutto ciò che avrà udito”. Lo Spirito, ottenutoci dalla passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto ‘evidente’, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

            Delle due immagini caratteristiche della Pentecoste, le lingue che compaiono sul capo degli apostoli e il fuoco di cui si prega “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Collegare l’invio dello Spirito alla volontà di Dio significa far percepire che quella volontà è essenzialmente una volontà di bene per l’uomo, significa ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità del fuoco dell’amore di Dio che a lui arriva tramite Gesù. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto. Se tale è la percezione del cuore, allora il cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e estenderlo a tutti, fino ai confini della terra. Qui si collega la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

            Qui si innesta anche la comprensione dell’immagine delle ‘lingue’. E’ un fatto assolutamente evidente sulla faccia della terra: gli uomini sono tra loro diversi, sono dispersi in ogni angolo e parlano lingue differenti. E’ un bene o un male? La Scrittura dà del fatto due spiegazioni: una, positiva: dopo il diluvio Dio ha voluto che gli uomini abitassero la terra secondo la loro diversità (Gen 10); una, negativa: Dio ha condannato gli uomini alla diversità per evitare che si coalizzassero contro di  Lui (Gen 11, racconto della torre di Babele). Ci sono due modi per far fronte alla diversità, percepita come una minaccia: o quello di esercitare un dominio da rendere irrilevante la diversità, e questo corrisponde alla volontà dell’uomo, che genera però schiavitù (l’esperimento di Babele comportava la costituzione di un dominio del più forte contro tutti gli altri per assoggettarli e Dio sarebbe stato negato come Padre); o quello di aprire la diversità alla comunione, lasciando alla diversità la sua consistenza e invitando ogni diversità a dare il proprio apporto a un mondo comune (e questo corrisponde alla volontà di Dio, che di tutti è Padre). Lo Spirito di Dio è definito così “Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Quando, a Pentecoste, compaiono sul capo degli apostoli le lingue, la proclamazione evidente è: ormai tutti possono percepire che è l’opera di Dio a unire gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (=ogni lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quando gli apostoli, davanti ai persecutori, preferiscono la carità di Gesù, non scelgono solo di stare dalla parte di Gesù, ma anche dalla parte degli uomini che della sua carità devono poter vedere lo splendore in atto.

 

 

PRIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE

SANTISSIMA TRINITÀ

Deut 4,32-40; Sal 32; Rom 8,14-17;  Mt 28,16-20

 

La liturgia oggi, celebra la confessione della fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Ora, la confessione della fede non esprime semplicemente la convinzione dei credenti in certi dati di verità, ma più propriamente esprime l’esperienza che ha permesso la formulazione di quei dati. Il principio della proclamazione del Credo nella liturgia, come di tutte le formule di confessione della fede, si radica nella grande esperienza religiosa del popolo di Israele: Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza, accogliendo l’iniziativa di Dio. Dire “io credo” significa prima di tutto dire: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, accetto di rispondere all’alleanza che ha voluto offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica sono percepite come ‘memoriale’ dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia che diventa sacra, storia di salvezza.

Celebrare il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo significa dunque riconoscere l’azione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nel mondo, in me, azione che essenzialmente è azione di salvezza, azione di rivelazione del loro amore e della sua condivisione. Nel salmo responsoriale si canta: “Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni” (Sal 32,11). E’ il versetto che presiede al commento al Padre nostro di s. Massimo il Confessore. Tutto quanto Dio ha da dirci e tutto quanto Dio compie per noi si ritrova nella mirabile preghiera del Padre nostro, sintesi del mistero della Trinità. Tramite Gesù e in Gesù possiamo aprirci a quel mistero, restarne sopraffatti e stupiti e adoranti. Ed è da dentro quello stupore e quella adorazione che possiamo ‘pretendere’ di sfiorare la conoscenza del Volto di Dio, del suo amore immenso per noi. Quello che a noi manca nel recitare/proclamare la preghiera è la profondità di intimità con cui è stata proferita e insegnata da Gesù stesso. Ma solo guidati da quella intimità arriviamo a Dio in verità.

Quando nella lettera ai Romani Paolo proclama che i figli di Dio (= coloro che conoscono Dio) sono coloro che lo Spirito di Dio guida, dobbiamo intendere: lo Spirito, inviato da Gesù, ci guida a entrare nell’alleanza che Dio ci offre in Gesù, ci guida a proclamare il ‘Padre nostro’ in piena verità per il nostro cuore, condividendo secondo la capacità del nostro cuore la stessa intimità di vita e di conoscenza del Signore Gesù con il Padre, nello Spirito. Solo così possiamo sperare di osservare i comandamenti di Dio, come ci ricordava la prima lettura. La pratica dei comandamenti presuppone l’esperienza della visione: per gli israeliti, l’intervento di Dio nell’Egitto e la rivelazione sul Sinai; per i cristiani, l’esperienza dell’intimità di conoscenza del Signore Gesù, percepito presente e capace di soddisfare ogni desiderio, e dalla parte di Dio (ci fa conoscere in verità il volto di Dio) e dalla parte dell’uomo (ne compie l’umanità fino a farla risplendere in tutta la sua autenticità), come lui stesso proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra… Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. In effetti i comandamenti di Dio non provengono da un imperativo morale, ma sono in funzione di un’alleanza.

Ci aiuta a collocarci nel clima interiore adatto a cogliere la qualità del mistero della festa di oggi  il passo evangelico:"Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,25-30). Si tratta forse di uno dei passi più solenni e più intimi del vangelo. Tutto deriva dalla benevolenza di Dio per l’uomo. A Lui è piaciuto cercare l’uomo, volerlo compagno del suo amore. In Gesù l’ha trovato e in Lui trova tutti noi. La compiacenza che il Padre ha espresso per Gesù al battesimo e nella trasfigurazione (“Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”) è onnicomprensiva di tutti i figli degli uomini perché l’amore di Dio risplenda e la gioia dell’amore sia condivisibile tra Dio e l’uomo. Proprio quello che il mistero della Trinità proclama.

 

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO

Es 24,3-8;  sal 115;  Eb 9,11-15;  Mc 14,12-26

 

         L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

         Il mistero dell’Eucaristia, presentato nelle letture scritturistiche, è celebrato coralmente dagli inni di s. Tommaso d’Aquino (Pange lingua, Lauda Sion) e soprattutto dai prefazi. E’ a questi che mi rifaccio per suggerire qualche porta di accesso allo splendore di questa festa.

Il mistero dell’eucaristia, dal punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. E la ragione risiede nel fatto che con la celebrazione dell’eucaristia, vero punto di convergenza di tutto l’agire della chiesa, viene aperta l’intelligenza delle Scritture e si fa esperienza della presenza del Vivente nella chiesa, intelligenza e esperienza che rimandano al mistero della fraternità. Intendo ‘mistero’, non nel senso di un qualcosa di non comprensibile per la mente umana, ma nel senso di una realtà a cui siamo invitati a prendere parte, realtà di cui siamo fatti partecipi.

Tre i verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “…a te per primo si offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘fece valere il suo amore fino in fondo’, ‘non preferì nulla all’amore che lo consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per il Padre e per gli uomini’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo sacrificio quanto la potenza e l’ardore del suo amore per gli uomini, lo splendore dell’amore del Padre che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare (è lo Spirito Santo che in noi assume il Corpo e il Sangue di Cristo, rendendoci un tutt’uno con quel Corpo – si veda la prima ammonizione di s. Francesco di Assisi) allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito che ci fa vivere in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui. La cosa straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini. Il segno più eloquente di quell’amore e dello spazio nuovo di fraternità che ne deriva per gli uomini è la dicitura ‘re della gloria’ posta sul capo del Crocifisso.

Sono tre i prefazi che possono essere scelti per questa festa.

Il primo celebra il memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e in esso rimanere.

Il secondo celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria”. E’ il mistero della santità come mistero di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.

Il terzo celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. E’ la celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai meno, risposta agli aneliti dei cuori, va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.

 

 

VENERDÌ DOPO LA SECONDA DOMENICA DOPO PENTECOSTE

SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

Os 11,1-9; Is 12,2-6; Ef 3,8-19; Gv 19,31-37

 

Il simbolo più eloquente dell’amore di Dio per l’uomo, almeno nella liturgia latina, è il ‘sacratissimo cuore di Gesù’ che la lancia del soldato apre sul mondo, spalancando sull’universo il segreto di Dio. L’antifona d’ingresso della festa del S. Cuore canta: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la sua determinazione all’amore per l’uomo, una determinazione che non si lascia vincere da nessuna diffidenza e cattiveria. Dio resta solidale con l’uomo comunque. Il Cuore di Gesù svela questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti, a chiunque, per sempre.

Tuttavia, se considero il mio proprio cuore, non posso non domandarmi: cosa non mi convince dell’amore di Dio per noi? Perché resto così insensibile davanti alle prove del suo amore, davanti al suo cuore spalancato?  I comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella risonanza per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti?  Eppure, come dice misteriosamente il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) che Giovanni evangelista interpreta come figura della morte in croce di Gesù. Ma il passo, nel testo ebraico e nel testo greco dei LXX, è ancora più esplicito: “guarderanno verso di me che hanno trafitto”. È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto con altri occhi. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità.

Lo rivela la testimonianza di Giovanni. La sua annotazione da testimone oculare (“uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua”) non si riferisce semplicemente al fatto visto, ma al significato del fatto, che corrisponde a quanto all’inizio del suo vangelo aveva scritto: “noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”. Quel cuore squarciato illustra quella ‘gloria’ e il fatto viene narrato perché anche chi legge possa ritrovarsi nella stessa esperienza del discepolo prediletto. Non si tratta di una informazione di cronaca, ma dello svelamento di un segreto capace di rinnovare tutta la vita. Quella gloria appare a chi guarderà verso quel ‘trafitto’ sentendosi trafitto dalla intensità del suo amore e dal dolore di non averlo compreso prima. Vedremo allora, come dice il profeta Osea, l’opera di Dio per noi (“A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro… ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia…”). Così prega la colletta: “Padre di infinita bontà e tenerezza… donaci di attingere dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce la sublime conoscenza del tuo amore”.

Di s. Francesco di Assisi, assimilato al Cristo anche per le sue stimmate, si riporta il sogno rivelatore di due eretici, poi convertiti. Avevano visto il Signore Gesù chinarsi sul petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ad un certo punto, Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi apparve perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro Signore; poi Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco (FF 2547). Ma di Francesco si dice che avesse costantemente davanti agli occhi il suo dolce Gesù, crocifisso: “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra (FF 522).

L’invito alla fede da parte di Giovanni evangelista nel riportare l’episodio della lancia che squarcia il costato di Cristo allude all’esperienza di ‘visione’ dell’amore di Dio per noi che proietta la vita in spazi assolutamente nuovi, fino ad allora impensabili. Non è che l’uomo abbia motivi così evidenti per amare Dio; ma se sosta in preghiera quei motivi appaiono al cuore e tutti si riducono all’esperienza del venir come ‘rinchiusi’ nel fianco aperto di Cristo, spalancato sul mondo, resi ormai suoi compagni di testimonianza dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo.

 

DOMENICHE DEL TEMPO ORDINARIO, ANNO B

 

DOMENICA XII

Gb 38,1-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

 

         L’immagine che collega i testi della liturgia è quella del mare in tempesta. I marinai sanno, anche oggi che le navi sono assai più robuste e sicure di quelle di un tempo, quanto sia terribile essere in balia delle onde quando il mare si fa cattivo. L’immagine però non è riportata per descrivere quanto sia potente Dio che domina anche il mare, pur così terribile. Se Dio parla di mezzo al turbine a Giobbe, non è per fargli vedere la sua potenza (sarebbe troppo banale!) ma per introdurlo al mistero di un incontro che apre al senso del vivere. La vita è assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così, Gesù che fa come finta di dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato dai discepoli per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare.

         Il passo comporta più livelli di lettura. Si inserisce anzitutto nella storia dei discepoli. Questi hanno accettato di stare con il loro Maestro, lo stanno imparando a conoscere e Gesù si premura di introdurli poco a poco nel suo mistero. Nella stessa giornata, i cui eventi coprono il racconto dei capitoli 4 e 5 di Marco, sono riunite sia la proclamazione delle parabole sul regno che la realizzazione di alcuni miracoli. Quella parola di Gesù che illustrava la realtà del regno di Dio nelle parabole e nelle spiegazioni private ai suoi discepoli era la medesima che aveva il potere di calmare la tempesta, guarire l’indemoniato e l’emorroissa, risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte a quelle parole e a quella parola potente, i discepoli non possono non domandarsi, profondamente toccati nel loro intimo: davanti a chi ci troviamo? Chi è dunque costui? Cosa sta succedendo? È il primo significato del brano.

         Ma il brano si inserisce anche nella storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo alla tempesta e viene svegliato dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha semplicemente il sapore di cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più profondo. Il mare in tempesta assume il valore simbolico delle potenze del male che Dio domina. Quando Dio svelerà tutta la sua potenza contro il male? Quando si addormenterà sulla croce e attraverso quel ‘sonno’ sconvolgerà il regno degli inferi. La morte in croce di Gesù viene spesso percepita come un sonno perché poi si sveglia, perché poi risuscita e su di lui la morte non avrà più alcun potere.

         C’è pure un’allusione alla storia dei credenti, che si sentiranno molte volte oggetto del rimprovero, amorevole, del Signore: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete così paura del male? Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi inganni? Gesù è amorevole nel fare il rimprovero perché sa che il cuore dell’uomo, per quanto desideri la vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e che occorre un lungo tragitto per collocarsi stabilmente nella fiducia. Basta guardare gli apostoli. Hanno aderito a Gesù, lo ascoltano volentieri, assistono sbalorditi ai suoi miracoli, ma non sono subito capaci di ‘credere’ a Lui fino in fondo. La sincerità del loro cuore apparirà solo dopo la risurrezione di Gesù, di fronte all’amore del loro Maestro che continuerà a crescere nei loro cuori proprio per il fatto che, pentiti, riconoscono la loro codardia e la loro poca fede.

         Di fronte alla scena evangelica, possiamo anche farci un’ulteriore domanda: perché i discepoli hanno avuto paura? Quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo che il male serpeggia dentro di noi e non è un problema, sappiamo che ci lambisce; ma quando comincia ad avere la meglio su di noi? Un particolare del racconto ci può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva ordinata Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo all’altra riva”. Tutto ciò che quella traversata comporta sta dentro il comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente dimenticato che era stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata, probabilmente non si sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha fatti sentire soli, in balia delle onde. La fede è appunto percezione di compagnia, una compagnia di alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di fronte al male, ma se la vive in compagnia del proprio Signore è tutt’altra cosa. Così è la nostra vita, una traversata tra i marosi, all’interno e all’esterno. Vivere la vita dentro un’obbedienza a un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore significa allora non permettere al male di ghermirci, significa non essere in balia degli inevitabili marosi.

 

 

DOMENICA XIV

Ez 2,2-5;  Sal 122; 2 Cor 12,7-10;  Mc 6,1-6.

 

         La meraviglia di Gesù fotografa bene l’atteggiamento dei nostri cuori: “E si meravigliava della loro incredulità”.  Da dove proveniva nei suoi concittadini una tale diffidenza nei suoi confronti? Gesù sembra liquidare la cosa con l’allusione a un proverbio o a un detto delle Scritture (‘nemo propheta in patria’) ma non ci sono riscontri in tal senso. Tutti i vangeli riportano l’annotazione della incomprensione da parte dei suoi. Evidentemente l’episodio di Nazaret è risultato significativo nella vicenda umana di Gesù, non tanto quanto ai suoi sentimenti, quanto invece allo stile di predicazione. Il suo progetto di rivolgersi alle folle era fallito; avrebbe allora cambiato stile e si sarebbe dedicato più direttamente al gruppo dei discepoli, puntando decisamente ad arrivare a Gerusalemme dove si sarebbe consumata la sua missione. Resta comunque singolare la diffidenza dei suoi concittadini, diffidenza che nel racconto degli evangelisti diventa emblematica dell’atteggiamento dei cuori nei suoi confronti. Così la liturgia di oggi interpreta il passo evangelico, che viene appunto introdotto dal canto al vangelo: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi. A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Sono le parole conclusive del prologo del vangelo di Giovanni.

         Almeno due annotazioni si impongono. Primo, c’è l’assicurazione da parte di Dio che non fa mancare la sua presenza, che mantiene la sua promessa di stare con il suo popolo e dalla parte del suo popolo, che offre comunque la possibilità della comunione con Lui, a tutti i costi, nonostante la diffidenza nei suoi confronti. Secondo, non è così agevole scorgere tale presenza, non è scontata, non è immediata ed evidente, come i profeti hanno sempre dichiarato: Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). L’assicurazione da parte di Dio è comprovata dal fatto che, se Gesù si meraviglia della incredulità dei suoi concittadini, la sua meraviglia si traduce sempre in fantasia di prossimità per l’uomo, alla ricerca di sempre nuove situazioni, occasioni, possibilità di incontro e dunque di offerta di comunione. A differenza della meraviglia dei suoi concittadini che da diffidenza si tramuta in ostilità tanto che Gesù dovrà fuggire (cfr Lc 4,28-30).

         Dire che il Verbo ha posto la sua dimora in mezzo a noi non significa soltanto affermare che Dio ci accompagna, ma anche che senza Dio la nostra umanità non può risplendere, che senza Dio i nostri sogni perdono consistenza e grandezza, si risolvono in illusioni e angosce. La ragione risiede nel fatto che questo porre la sua dimora tra noi ha lo scopo di comunicarci il potere di diventare figli di Dio, cioè di poter essere solidali con Gesù, Figlio di Dio, lungo tutta la possibile traiettoria della vocazione all’umanità che caratterizza tutto l’agire dell’uomo nella storia, umanità di cui Lui detiene il segreto, di cui Lui mostra lo splendore, per cui Lui dà il potere di viverne l’orizzonte infinito, su scala divina. Tanto che la diffidenza nei suoi confronti nasconde sempre la diffidenza nei confronti della nostra stessa umanità, come se, per paura, ci impedissimo di viverne tutti gli esiti possibili.

         Così, quando il salmo 122 proclama: “i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi” si può intendere: i nostri cuori anelano a scoprire la beatitudine della vita come soltanto da Dio può essere svelato; all’inizio non vogliamo crederci, perché colmi delle nostre illusioni e vanterie, ma poi, ormai sazi delle ferite collezionate, ci decidiamo a rivolgerci a Colui che quelle ferite ha subito per toglierci dall’illusione; lo supplichiamo allora perché la sua promessa di vita ci raggiunga, perché quell’umanità che in Lui ammiriamo, piena dello splendore di Dio, ci appartenga e così scopriamo di essere figli di Dio, poveri di noi perché ricchi di Lui. Supplicare finché Dio abbia pietà di noi significa appunto volgerci a Lui finché Lui non ci accordi la beatitudine della vita, finché Lui non ci includa nel dono della Sua umanità.

         In questo senso si possono leggere anche le parole di Paolo ai corinti: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Ciò che costituisce la nostra dignità, ciò che rende la vita desiderabile, ciò che fa risplendere la nostra umanità  è appunto la reale possibilità, in Cristo, di diventare figli di Dio, solidali con Lui in tutto. Non è più necessario far leva sulle proprie qualità, che spesso sono vissute nel confronto con gli altri, creando quindi distanza tra gli uomini, perché ciò che si è scoperto è immensamente più prezioso di tutto quello di cui ci potremmo vantare e così bello che la vita ormai viene accolta come l’occasione di condividere tale bellezza.

 

DOMENICA XV

Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

 

 

         Chi è il profeta? Tanti possono parlare in nome di Dio agli uomini, ma la verità di Dio la rivela e l’annuncia solo il profeta chiamato e mandato da Dio. Nella storia, tanto d’Israele che della Chiesa e, a dire il vero, anche nella storia delle varie religioni, l’umanità resterebbe preda delle sue illusioni se non spuntasse ogni tanto qualche ‘profeta’ a ricordare la verità di Dio. Facilmente l’uomo si forma una ‘religione’ a sua misura, secondo i suoi interessi, non servendo più Dio ma servendosi di Dio per raggiungere i suoi obiettivi, troppo terreni. Il profeta è colui che proclama l’assoluto di Dio, colui che svela le aspirazioni dei cuori e ne mostra la via per i loro compimenti.

Da questo punto di vista il profeta per eccellenza è proprio Gesù, Colui che rivela la verità del volto di Dio. Così, quando Gesù, alla fine del vangelo di Matteo proclama: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18), si riferisce ad un duplice potere: anzitutto, dalla parte di Dio, al potere di rivelare il vero Volto di Dio, espresso dalle parole di Giovanni che risuonano in tutto il loro realismo: “Dio nessuno l`ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18); in tal senso Gesù è il Sigillo della Verità e risponde alla ricerca di verità da parte dell’uomo. Gesù dà la vera conoscenza di Dio e per questo spesso la sua parola risuona così radicale da sembrare ostica. In secondo luogo, dalla parte dell’uomo, si riferisce al potere di compiere i desideri dell'uomo, di soddisfare la sua fame di conoscenza e di relazione in pienezza e verità; in tal senso Gesù è il Sigillo del Bene e risponde al desiderio di vita da parte dell’uomo. Gesù dà la vita per mezzo dello Spirito Santo.

La bellissima colletta di oggi interpreta assai bene gli aneliti profondi dei cuori: "Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell'uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere". È il desiderio che il Volto del Signore si riveli nel suo splendore al nostro come al cuore di tutti. E questo splendore è lo splendore dell'amore per noi, fonte della nostra dignità. È dalla percezione di questa realtà gustata nel cuore che sale l'inno di s. Paolo al Signore: "Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione ..." (Ef 1,3). Si tratta di una benedizione larga, onnicomprensiva, oltre la quale non c'è più nulla di significativo per il cuore, il quale non sopporta che qualcosa possa sussistere fuori di essa. È la stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del Padre nostro, benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la nostra storia, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. La missione che Gesù affiderà ai suoi apostoli mira a rivelare, a rendere percepibile, a far gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino in essa e non possano più vivere se non a partire da e dentro di essa.

Chi vive dentro e di tale benedizione ha potere sugli spiriti immondi; non permette cioè a nessuno di rapirgli la pace che scaturisce da quella benedizione. Quando Gesù invita i discepoli a scuotere di sotto ai loro piedi la polvere davanti a quelli che non hanno raccolto l’invito a godere della pace di quella benedizione, non vuol certo invitarli a una ripicca. È come se i discepoli dicessero: la pace che non avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi, se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi; non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta appunto in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. È quella pace che guarisce, che ristora, che fa risplendere nel mondo la bellezza del volto di Dio, la cui verità gli uomini desiderano. La responsabilità dei discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa apparire davvero desiderabile.

         Nel salmo responsoriale si canta: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere profeti, annunciatori di quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù.

 

DOMENICA XVI

Ger 23,1-6;  Sal 22;  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

 

         L’immagine che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi è quella del pastore. Nel brano di Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù Colui che adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’.

         Partiamo dal brano di vangelo. Come sempre i particolari sono misteriosi. Gesù si mette a insegnare alla gente e per lungo tempo, dopo che ‘si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore’. In quella commozione c’è tutta la compassione di Gesù per l’umanità, che è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. Il brano fa parte del racconto della missione degli apostoli, racconto che era iniziato proprio con l’annotazione che Gesù ‘sentì compassione’ (cfr Mt 9,36) e si chiude con l’annuncio eucaristico, simboleggiato dal miracolo della moltiplicazione dei pani, introdotto con la commozione di Gesù davanti alle folle. È in quella 'compassione' che prendono senso e valore tutti i gesti e le parole di Gesù per noi, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra. Per il nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire almeno gli echi di quella compassione.   E se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: "Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,28-30). E ancora perché sa che se il cuore dell'uomo cerca questo ristoro e se non lo trova è perché si illude di cercarlo fuori di Lui. Così, quando Gesù, mosso dalla sua compassione, invita i discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non solo perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Compassione nella quale si riconosce l'amore del Padre. E gli operai che lavorassero in questa messe immensa senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il riflesso dell' amore e della compassione di Dio per gli uomini senza la preghiera? Per questo Gesù fa pregare, trattiene in disparte gli apostoli, li tiene in sua compagnia.

         Un altro particolare del brano apre orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. Il vangelo si interessa forse della salute degli apostoli? L’accenno al ‘riposarsi’ è più misterioso. Il termine è lo stesso che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e troverete ristoro per le vostre anime”. Quel ‘ristoro’ corrisponde al movimento della sua compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo, agitato, tormentato, sfinito, finalmente si riposi. Ma quel ‘riposo’ pesca nel riposo di Dio il settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. E quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’. Identica allusione nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” ? (Mt 11,28-31). Ristorerò = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace, riposo. E quella umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.

Quando Gesù aveva inviato gli apostoli in missione, li aveva forniti delle stesse sue prerogative: 'diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità'. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato', un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla sterminata, tema della liturgia di domenica prossima.

 

 

DOMENICA XVII

2Re 4,42-44; sal 144,  Ef 4,1-6;  Gv 6,1-15

 

         Lo stesso miracolo della moltiplicazione dei pani è narrato anche dai sinottici (Mt 14,13-21; Mc 6,30-44; Lc 9,10-17) ma la liturgia, invece che seguire il testo di Marco, normalmente seguito nel corso dell’anno, preferisce il racconto di Giovanni. Il testo di Giovanni non solo narra il miracolo, ma ne svela il suo contenuto simbolico e lo commenta con un lungo discorso di Gesù, discorso che la liturgia riprenderà per esteso nelle domeniche successive.

         La figura del buon pastore, applicata a Gesù, si arricchisce di nuove sfumature. Possiamo accostarci al brano seguendo tre piste differenti: dal punto di vista dei personaggi, dell’avvenimento e dell’esito finale. Consideriamo i personaggi in gioco: la folla, gli apostoli, Gesù. La folla cercava Gesù, si spostava secondo i suoi spostamenti, lo tallonava. Aveva visto i prodigi di guarigioni che Gesù aveva compiuti e, come dice il canto al vangelo di oggi, aveva pensato: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo”. Quando si accorge del miracolo della moltiplicazione dei pani, ne coglie il valore simbolico e si entusiasma e vuole proclamare Gesù re pensando “Finalmente i nostri guai sono finiti. Ecco chi ci libererà e stabilirà il regno di Israele”. Ma alla fine, quella stessa folla resterà delusa e abbandonerà quel Gesù di cui si era entusiasmata. Perché è così difficile per l’uomo entrare nel progetto di Dio e accogliere la Sua grazia? Seguire il Signore è diverso che desiderare il Signore. Rammentando un altro passo del vangelo, potremmo dire che effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che cerchiamo. Se la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione dei nostri desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri desideri. Gli apostoli nella scena agiscono da intermediari. Sono ‘strumenti’ perché la compassione del Signore raggiunga tutti e tutti siano sfamati. C’è l’allusione al compito dei ministri della chiesa: spezzare il pane della Parola per l’intelligenza della fede. E poi c’è Gesù. Sale sul monte (non dimentichiamo che nel vangelo di Giovanni non si fa cenno al discorso delle beatitudini sulla montagna), sfama la folla (moltiplica i pani, non li crea. Da ricordare l’episodio della tentazione di Gesù nel deserto dove appunto è tentato di trasformare le pietre in pani per dimostrare a tutti che lui è il Messia) ma alla fine resta solo, deve, è costretto a star solo per non compromettere la sua missione. Solitudine che sarà accentuata drammaticamente dall’abbandono dei discepoli dopo il suo lungo discorso in chiave eucaristica a commento del miracolo.

         Se consideriamo l’avvenimento, molti particolari proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta erba, in occasione di un pasto, con una disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. E’ lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo che possa colmare i desideri degli uomini. Tutto il contesto allude alla celebrazione dell’eucaristia, di cui il miracolo è simbolo. I verbi usati per descrivere il miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della celebrazione eucaristica.

         L’esito però è drammatico. Tutti mangiano, tutti si entusiasmano ma nessuno in realtà capisce e nessuno sa vedere l’opera di Dio. Gesù si darà da fare per cercare di far capire, ma invano. Gli uomini potranno capire, ma dopo che avranno rimirato Colui che hanno trafitto. Quel pane mangiato diventerà pane di vita solo quando parlerà di quella passione d’amore di Dio per l’uomo. L’ amore di Dio per l’uomo non lavora mai secondo il registro della potenza, così caro agli uomini, i quali vorrebbero soddisfare i loro desideri servendosi di Dio, invece che aprire i loro desideri a Dio e accoglierne la grazia. In realtà, tutta la difficoltà per il cuore degli uomini nei confronti di Dio risiede qui. Gesù sa bene questo e pur cercando in ogni modo di aprire la mente degli ascoltatori, nelle varie occasioni, sa di dover andare a Gerusalemme, dove la verità del Suo amore per gli uomini si farà splendente da conquistare finalmente i cuori e infiammarli dello stesso amore.

 

 

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

Dn 7,9-14; Sal 96;  2Pt 1,16-19;  Mc 9,2-10

 

         Rispetto al desiderio dell’anima “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore”, il brano evangelico oggi ci mostra il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima, un volto ‘bellissimo’. Come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Eppure, nulla si svolge secondo la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero sprofondati nella contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i discepoli ‘atterrati’, come scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono accanto a Gesù Elia e Mosè in atto di conversare con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema della conversazione era la morte di Gesù. Perché questi accostamenti drammatici?

Il racconto della trasfigurazione nasconde molti misteri. La verità della rivelazione che avviene in quel momento (l’indizio che si tratti di una rivelazione e non semplicemente di un fatto straordinario va visto nell’annotazione di Luca che l’evento avviene durante la preghiera di Gesù sul monte!) è sottolineata proprio dalla tensione drammatica che muove tutto il brano. Gli apostoli sono estasiati e tremanti, affascinati e atterrati, rapiti e atterriti; compaiono Mosè e Elia a colloquio con Gesù, perché di Lui la legge e i profeti hanno sempre parlato e Gesù svela anche a loro qual è il segreto di Dio che lui custodisce e che loro hanno sempre velatamente intravisto: Dio ha così amato il mondo da dare il suo Figlio, ha così amato il mondo che il suo Figlio morirà perché il mondo abbia la vita e possa far risplendere in tutto il suo splendore la grandezza e l’assolutezza di quell’Amore. D’altronde, era a un colloquio del genere che anche Rublev, il pittore della ‘Trinità’, si era riferito: di che cosa può parlare Dio nella sua eternità se non dell’amore per l’uomo che in Gesù si manifesta come vita del mondo?

Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!”: riporta Mc 9,7. E Matteo: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo” (Mt 17,5). La voce sul monte Tabor designa così l’Inviato di Dio e lo indica come il punto incandescente da cui tutto ha preso origine e verso cui tutto si volge. Se Gesù è il prediletto non lo è evidentemente nel senso che lui è l’amato e tutti gli altri no, ma nel senso che tutti sono amati in lui, che da lui l’amore si riversa su tutti e tutti ingloba, che l’amore da lui si riversa sul mondo per incendiarlo. E siccome in lui riposa tutto lo sguardo di compiacimento del Padre, allora vuol dire che tutti in lui anelano a riposare in quella compiacenza di Dio perché è su Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, che riposa la compiacenza del Padre e non semplicemente sul Figlio di Dio. Così, ascoltare quel ‘Figlio prediletto’ non vuol semplicemente dire ascoltare il Figlio di Dio (noi non lo conosceremmo se non l’avessimo riconosciuto in Gesù), ma ascoltarlo nella concretezza di quell’umanità che da Dio discende. Quell’ “ascoltatelo” riguarda perciò tutta la Scrittura che di Lui parla e a Lui rimanda e che Lui illumina, riguarda tutto l’arco della storia del popolo di Dio che in Lui si riassume e si compie, perché ogni parola della Scrittura racchiude il desiderio di Dio di stare in compagnia dei suoi figli, desiderio che Gesù ha mostrato compiuto nel suo splendore (non c’era bisogno di costruire alcuna tenda da parte di Pietro!...).

         Se consideriamo la liturgia delle Ore della festa di oggi, la consapevolezza  del contenuto di rivelazione è tradotta con le espressioni rivolte a Gesù: ‘Tu sei il re della gloria’; ‘Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo: sulle tue labbra fiorisce la grazia’; ‘Da Mosè fu data la legge: da Gesù Cristo la grazia e la verità’. Ma di quale gloria si tratta? Di quale grazia? Di quale bellezza?

         E’ sempre la tensione dinamica del racconto a svelarcelo. Bellezza, grazia e gloria si riferiscono al segreto di Dio per l’uomo: il suo amore incandescente, tanto da rendere il suo volto e le sue stesse vesti luminosissime, attira gli sguardi del cuore dell’uomo ma solo e in quanto il cuore dell’uomo si disponga a vivere della vita di quell’amore che viene da Dio e che è brillato in tutto il suo splendore su un altro monte, il Golgota. Solo lì Gesù ha accettato di essere proclamato ‘re della gloria’.

         La visione di Gesù trasfigurato (lo ricorda Pietro, che di quell’evento conserva un ricordo indelebile, dicendo che è ‘conferma migliore della parola dei profeti’), rispetto all’esperienza della conoscenza del Signore Gesù nella fede, ha il valore di conferma, non di esperienza come tale. Quando Gesù appare ai discepoli da risorto, porta i segni della passione e della gloria, ma non è più né sfigurato come al Calvario né trasfigurato come sul Tabor. Non è la visione del Tabor che induce gli apostoli ad accogliere Gesù, ma il contrario: la loro accoglienza di Gesù si apre fino alla visione, che però avrà bisogno, per tradursi in vera esperienza di conoscenza, nella sequela di Gesù fino all’accettazione della sua morte e risurrezione, in modo da vivere la loro stessa vita dentro e per quell’amore che hanno visto risplendere nel loro Maestro. Così le testimonianze dei profeti, cioè le Scritture e la visione del Tabor tendono entrambe a favorire il sorgere nel cuore della visione di quel Volto che solo si conosce seguendo il suo amore fino alla fine.

 

 

DOMENICA XIX

1 Re 19,4-8; sal 33; Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

 

         Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Gesù si premura di spiegare, di convincere, ma pochi cuori si apriranno alla sua rivelazione. Eppure gli ascoltatori, nelle loro interrogazioni, dimostrano di cogliere nel segno, sebbene non sappiano poi tirare le giuste conclusioni. Nei versetti precedenti rispetto al brano proclamato oggi, davanti all’offerta di un pane ‘speciale’ da parte di Gesù, tutti chiedono: ‘dacci allora questo pane!’. Come la samaritana al pozzo, quando Gesù le parla di un’acqua ‘speciale’, chiede di averla. Forse, la richiesta, qui come là, nasconde una punta di ironia: sarebbe bello avere l’acqua, avere il pane, in modo da non avere più sete o fame, in modo da non fare più fatica a procurarsi il nutrimento, ma evidentemente non è possibile; chi promette quelle cose è un imbonitore e basta. Tuttavia, il desiderio del cuore è pur sempre quello e resta profondamente vero: il cuore cerca davvero un’acqua e un pane speciali, che ristorino, che rigenerino, che fortifichino, che facciano gustare la vita.

Quando Gesù si presenta come ‘il pane disceso dal cielo’, gli ascoltatori ancora una volta dimostrano di aver capito che quel pane speciale deve per forza venire dal cielo, ma sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Se di Gesù conoscono padre e madre, se lo conoscono come il figlio di Giuseppe, come può dire di essere venuto dal cielo? Quindi, è la conclusione, questi racconta storie. Ma Gesù continua a rispondere al desiderio del cuore di vedere ‘colui che discende dal cielo’ e, riferendosi alla profezia messianica del profeta Geremia, annuncia che ‘tutti saranno ammaestrati da Dio: “Questa sarà l' alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo.  Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34). Perché Gesù cita quel passo? Già all’inizio del suo vangelo Giovanni l’aveva proclamato: “Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Se è lui a rivelare il Padre, allora solo da lui può venire la conferma di verità della volontà del Padre. E se lui dice che il Padre ha voluto dare loro nella sua persona quel pane speciale, che tutti vogliono, allora lui solo costituisce quel pane speciale. Vuol dire allora che i tempi messianici sono compiuti; la verità di Dio, che noi attendiamo si riveli finalmente, in lui risplende. Perché allora i cuori non riescono a vedere? Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di ‘discesa’ che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Lo afferma il brano della lettera agli Efesini, che leggiamo tutte le settimane nell’ora di compieta, al mercoledì: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato”. Quello che qui è reso “perdonandovi a vicenda”, in greco è un verbo altamente significativo. Non si tratta dell’usuale ‘perdonarsi’, ma di un verbo che alla lettera si dovrebbe rendere “facendovi grazia gli uni gli altri come Dio ha fatto grazia di sé in Cristo a voi. Diventate quindi imitatori di Dio”. Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del  suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

 

 

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA, 15 agosto

Ap 12,1-10; Sal 44;  1 Cor 15,20-26;  Lc 1,39-56.

 

E' cosa buona e giusta celebrare il mistero della festa di oggi con le parole del prefazio della Messa: "Oggi la Vergine Maria, madre di Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, è stata assunta nella gloria del cielo. In lei, primizia e immagine della Chiesa, hai rivelato il compimento del mistero di salvezza e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza. Tu non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita".

    Per introdurci alla visione della gloria della Vergine Maria, possiamo collegare i due vangeli della vigilia e del giorno della festa. Nella Messa della vigilia si legge il brano di Lc 11,27-28 dove una donna che ascoltava Gesù alza la voce per gridare: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!". Come a dire: beata tua madre! Nel vangelo della festa, quando Elisabetta risponde al saluto della Vergine, proclama: "beata colei che ha creduto all'adempimento delle parole del Signore".

Alla donna che esaltava sua madre, Gesù sembra spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, nel cuore, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. E la beatitudine deriva proprio dal fatto che nell'ascoltare e osservare la Parola si stabilisce un legame con il Signore, che quella Parola ci rivolge, tanto intimo e forte quanto quello che deriva da una maternità fisica. Ma se colleghiamo il commento di Gesù con l'espressione pronunciata da Elisabetta, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Elisabetta proclama beata Maria perché 'ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" dette a lei. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. E' assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

    Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo 'succedersi' temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di questo 'potere' di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo 'potere' di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. E' compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Gli angeli, dice la liturgia, l’accompagnano gioiosi, come tutte le icone mostrano. La loro gioia non si riferisce tanto alla gloria della Vergine, ma allo splendore dell’amore di Dio per l’umanità, la cui natura e vocazione, nella Vergine, si compiono finalmente a rivelare proprio la grandezza dell’amore di Dio. La gloria della Vergine come la gloria del paradiso non esprimono altro che lo splendore dell’amore di Dio in assoluto. E quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla 'primizia e immagine della Chiesa ... un segno di consolazione e di sicura speranza'. In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

 

 

DOMENICA XX

Prov 9,1-6;  sal 33;  Ef 5,15-20;  Gv 6, 51-58

 

         Continua la proclamazione del cap. 6 di Giovanni. Ma oggi la liturgia ci addita una particolare finestra di luce per cogliere il senso del discorso-rivelazione di Gesù. ‘Non siate scemi’, ci ripetono la prima e la seconda lettura: “abbandonate la stoltezza” (Pro 9,6); “non siate inconsiderati” (Ef 5,17). L’intelligenza della vita! Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre.

         In particolare, la lettera agli Efesini sottolinea il punto esatto dove cercarla. Si tratta di essere ‘intelligenti di Dio’; si tratta di essere ‘intelligenti della volontà di Dio’. Non pensiamo però che si tratti prima di tutto di scoprire cosa Dio vuole da noi; piuttosto, di scoprire quanto bene Dio ci vuole, tutto il Bene che sta nascosto nelle sue parole, nelle sue iniziative, nel suo Figlio che per noi si fa cibo e bevanda di vita. Per questo Paolo parla di imparare a essere ‘pieni di Spirito Santo’ e indica tre vie: la preghiera, il rendimento di grazie, lo stare sottomessi gli uni agli altri. “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,18-21). Purtroppo le edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: "...rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi  gli uni agli altri nel timore di Cristo". Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti.

         Dalla prospettiva di questa ‘intelligenza di Dio’, le parole di Gesù suonano con tutt’altro accento. A conclusione del suo discorso, Gesù riassume in tre passaggi la rivelazione della volontà di Bene di Dio per l’uomo che in Lui si compie: avere la vita, dimorare in lui, vivere per lui. Tutte realtà che solamente coloro che accettano di mangiare la carne del Figlio dell’uomo possono ereditare. Espressione più forte Gesù non poteva usare: ‘chi mangia la mia carne…’. Tuttavia la rivelazione non è assurda. Nel capitolo precedente, Gesù aveva discusso con i farisei a proposito delle Scritture: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita” (Gv 5,39-40). Si leggono le Scritture per avere la vita. Ma le Scritture non parlano proprio di Gesù, del Figlio dell’uomo che sigilla definitivamente la volontà di Bene di Dio per l’uomo? Leggere le Scritture è come un mangiare, mangiare per avere la vita, per vivere in modo desiderabile e bello. Ma se le Scritture parlano di Gesù, allora leggerle è come un mangiare Gesù, per avere la vita, perché, dice ancora Giovanni: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l' unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Offrendo come cibo il suo stesso Corpo, con l’eucaristia, Gesù non fa che radicalizzare la rivelazione delle Scritture.

         Come una parola mangiata resta nel nostro cuore, così chi mangia il Corpo del Signore dimora in Lui. Sarà la logica della similitudine della vite (cfr Gv 15): lui dimora in me e io in lui, fino a poter dire con s. Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

         Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio. E così, se l’uomo vuole la vita e dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio. 

 

 

DOMENICA XXI

Gs 24,1-18; Sal 33; Ef 5,21-32;  Gv 6, 60-69

 

         Gesù termina il suo discorso nella sinagoga di Cafarnao. L’esito è drammatico; molti lo abbandonano: ‘questo linguaggio è duro’. Le attese riposte in quel Maestro sono andate deluse. Gesù, a dire il vero, non si scompone e rilancia: “questo vi scandalizza?” e, rivolto agli apostoli: “volete andarvene anche voi?”.

         Ecco il problema: l’uomo può scandalizzarsi di Dio; facilmente l’uomo si scandalizza di Dio. Non è facile spiegare perché avviene, ma avviene facilmente. Forse la ragione la svela la prima lettura tratta dal libro di Giosuè. Il popolo d’Israele era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, la loro guida, ad eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si deve servire? Nel linguaggio della Scrittura ‘servire Dio’ allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. Quale dio servire? E’ la scelta del cuore dell’uomo, sebbene spesso la scelta risulti come obbligata dall’inerzia stessa della vita: prendi quello che risulta più comodo o più facile o più conveniente o più interessato. Ma il ‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. Ma di quale verità ci si vuol nutrire? 

         Molto bella la presa di posizione del popolo, dopo la confessione di fede di Giosuè e della sua famiglia: “Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio”. ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri, ma soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi. Verità ripresa dal ritornello del salmo responsoriale: ‘il Signore è vicino a chi lo serve’, cioè il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi.

         Lo scandalo produce il tirarsi indietro, come nel brano di vangelo proclamato, che letteralmente si dovrebbe tradurre come un venir meno, un andar via dallo star dietro a Gesù e quindi un non voler più camminare insieme a lui. Anche Pietro e gli apostoli non comprendono le parole di Gesù, ma non si scandalizzano; continuano a andargli dietro. C’è ancora molta distanza tra la confessione di Pietro e la confessione che farà Tommaso all’apparizione del Risorto: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28) quando ormai tutto il mistero della persona di Gesù si era rivelato e aveva convinto i cuori dal di dentro. Ma si trova sulla stessa linea.

Due particolari fanno riflettere. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non ‘banalizza’ il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, ma sul dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito…”. Ciò che è da cogliere è questa ‘intenzione’ di Dio, che va diritta al cuore. Quando la moltitudine lo abbandona e Gesù si rivolge agli apostoli: “Forse anche voi volete andarvene?”, Pietro risponde: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore perché intuisce che da qui viene la vita.

Ma c’è un secondo particolare, ancora più misterioso. Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda, nonostante che la scelta di Giuda sia stata fatta dallo stesso Gesù. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del suo rifiuto? E’ Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga.

La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato. E’ il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. E’ lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, intrisa di gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano.

 

 

DOMENICA XXII

Deut 4,1-8;  Sal 14;  Gc 1,17-27;  Mc 7,1-23

 

         Se, come proclama il versetto responsoriale, ‘i puri di cuore abiteranno nella casa del Signore’, perché stupirci di non sentirci a nostro agio nella sua casa, di non riuscire mai ad esserci per davvero o di non risiedervi stabilmente? Se Dio guarda il cuore, perché noi invece ci perdiamo nell’illusione dei nostri meriti?

         Potremmo considerare da questo punto di vista le letture di oggi. Tutte richiamano il valore fondante della parola di Dio, del suo comandamento, per la vita dell’uomo. Nel libro del Deuteronomio Mosè avverte: “Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla”. Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra ‘pratica’ proviene spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, imposizioni, obblighi, impegni, esclusivamente ‘umani’, che comunque non hanno a che vedere con il vero e proprio comandamento di Dio. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore. Tutto il discorso di Gesù verte appunto sulla contrapposizione: comandamento di Dio/tradizione umana (“Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”) e, di conseguenza, sulla purità o meno del cuore.

Ben a proposito, rispetto al comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere, né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un ‘comandamento’, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” . Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso mangiare per avere la conoscenza…! Ed incontra la morte. L’esortazione di Paolo a Timoteo è quanto mai essenziale: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo…” (1 Tim 6,14). Custodire cioè il comandamento così come è nell’intenzione di Dio, perché il cuore abbia la vita ed erediti il mistero del regno dei cieli: questo significa ‘fino alla manifestazione del Signore Gesù’, che non va riferito all’al di là, bensì alla rivelazione del volto del Signore al nostro cuore ora.

         L’aspetto misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al mio cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge fidandomi del suo amore. E’ per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita”. L’accento è così posto sul fatto di ‘far memoria delle parole che si sono viste’ (il testo dovrebbe essere tradotto infatti più letteralmente: ‘guardati bene dal dimenticare le parole che i tuoi occhi hanno visto’). L’accento cade sulla sincerità del cuore che si trova dentro una storia d’amore che lo precede e l’accompagna e a cui risponde e non sulla sua generosità. Cosa significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto la parola per metterla in pratica e avanzare in quella realizzazione di umanità che fa risplendere la prossimità di Dio. La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14, il quale riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur grandiosa, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

 

DOMENICA XXIII

Is 35,4-7;  sal 145;  Gc 2,1-5;  Mc 7,31-37

 

            Gesù non ha predicato ai pagani, ma ha attraversato le loro terre ed ha compiuto alcuni miracoli a favore di persone pagane. Il brano di vangelo di oggi riporta appunto il secondo di questi miracoli in terra pagana, la guarigione di un sordomuto. Aveva appena guarito la figlia della donna sirofenicia, quella che aveva saputo, nella sua disperazione e nella sua fede, tenergli testa. Gesù le aveva detto: “Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. E lei, fiduciosa: “Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli”. Se con questa donna Gesù aveva agito con la potenza della sola parola, nel miracolo del sordomuto agisce con la potenza dei suoi gesti: mette le dita negli orecchi, tocca con la sua saliva la lingua del malato, gesti che la Chiesa ha conservato nella celebrazione del sacramento del battesimo. La sua parola è potente, ma anche i suoi gesti sono potenti, e perfino le sue vesti sono ‘potenti’ (pensiamo all’emorroissa, alla trasfigurazione).

E’ singolare che questo, come altri miracoli, non facciano risaltare tanto la guarigione, quanto la dinamica che la guarigione comporta: si tratta di miracoli di ‘apertura’. Gesù non è un mago, sebbene taumaturgo; non pronuncia parole magiche, ma semplicemente la parola ‘effata’, ‘apriti’. La sordità comporta spesso anche il disturbo della parola. In effetti, il vangelo fa riferimento a un sordo che farfugliava, che parlava confusamente, in modo incomprensibile. Guarire comporta allora l’apertura degli orecchi, lo scioglimento della lingua, come per i ciechi l’apertura degli occhi. Questo particolare, insieme ad altri, allude ad un significato più profondo del miracolo: non si tratta solo di rivelare la potenza di guarigione di Gesù, ma il fatto che quella potenza indica qualcos’altro, verso cui Gesù vuol far convergere il cuore, nella fede. Il miracolo cioè è sempre in funzione della rivelazione del mistero della Persona di Gesù in rapporto alla grandezza dell’amore di Dio per gli uomini; è sempre segno dei tempi messianici ormai compiuti in Gesù. Due particolari soprattutto fanno convergere lo sguardo verso quel punto. La lode finale in bocca alla gente che aveva visto il miracolo suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Quando Dio, alla fine della creazione secondo il racconto della Genesi, contempla ciò che ha fatto, esclama: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’espressione della gente rivela che siamo in presenza ormai della nuova creazione, quella dei tempi messianici, quando Dio rinnova ogni cosa ridando a ciascuna cosa il suo splendore eterno perché tutto torni a proclamare la gloria del suo amore. Il secondo particolare è data dalla particolare espressione con cui viene designato il sordomuto: un sordo che parlava confusamente. E quando viene guarito si dice che parlava correttamente, distintamente. Ora la confusione del linguaggio è la conseguenza della stoltezza degli uomini che vogliono competere con Dio per il dominio della terra, come ben si vede nell’episodio della torre di Babele. Rinunciando alla gloria di Dio gli uomini si troveranno estranei tra di loro tanto da non capirsi più. La ‘guarigione’ avviene il giorno di Pentecoste quando la comprensione è data nonostante la diversità delle lingue e la comprensione si baserà proprio sul fatto che tutti riconosceranno le meraviglie di Dio, ciascuno nella sua lingua. Una volta che gli orecchi possono ascoltare la Parola, la lingua sarà libera di glorificare Dio perché in quella parola, sanante, è riconosciuta la Presenza del Signore, presenza che non ci sarà mai più tolta e che unifica tutti. Il salmo 45 che viene proclamato oggi può essere letto come la descrizione dell’umanità che attende la salvezza, il compimento cioè della promessa di vita, di bene, di felicità, inscritta nel suo intimo e la cui nostalgia è acuita dalle ferite e dalle oppressioni del peccato simboleggiato dalle varie ‘malattie’ elencate. E la salvezza riguarda tutti, perché in Gesù, che ha tolto il muro di separazione (cfr. Ef 2,13-18), non c’è più giudeo e pagano, trovando tutti la stessa consolazione e lode nello stesso amore di Dio.

 

 

 

DOMENICA XXIV

Is 50,59; sal 114-115; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35

 

            Con il brano di vangelo proclamato oggi siamo al centro della narrazione di Marco. Gesù incomincia a rivelare direttamente la sua passione, a cui seguirà subito dopo l’episodio della trasfigurazione. La liturgia indica come un percorso per arrivare a cogliere la realtà del mistero della persona di Gesù. Gesù era apparso ‘convincente’ per molti da indurre alcuni a seguirlo totalmente e devotamente. Aveva operato segni straordinari e il suo dire, il suo raccontare in parabole aveva catturato il cuore di tanti. Era forse il momento di traghettare i discepoli ad una comprensione più profonda e veritiera della sua persona e chiede loro: “Chi dice la gente che io sia?”, “E voi chi dite che io sia?”. La domanda sottende la stessa problematica di Giovanni Battista: è lui o dobbiamo aspettare un altro? La gente pensa che lui sia stato mandato a preparare la via al Messia, mentre Pietro confessa invece che proprio lui è il Messia che si aspettava. Gesù prende così sul serio la risposta di Pietro che apertamente svela il suo futuro di passione, del resto annunciato dal brano di Isaia della prima lettura. Gesù – dice il testo – non semplicemente spiega, ma ‘insegna’ che ‘doveva’, ‘era necessario’ che avesse da soffrire molto. Questi due termini (‘insegna’ e ‘doveva’) indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso, ma che la sua conoscenza proviene da una rivelazione, viene dall’alto. Pietro, che rifiuta quella rivelazione, in effetti non comprende e si prende il rimprovero di Gesù. In quel rimprovero però c’è tutta la pedagogia di Dio con l’uomo e Pietro ne farà tesoro. Gesù riprende la testimonianza di Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè che non potrà vedere il suo volto, ma solo di spalle. Quello che nella versione italiana leggiamo: ‘lungi da me, satana’, in realtà vuol dire: stai dietro a me, vienimi dietro, se vuoi vedermi in verità. Solo camminando dietro il Maestro si potrà vederlo in verità fino alla visione della croce, là dove risplende l’amore di Dio per gli uomini, convincendo i cuori che solo da quell’amore scaturisce la vita per l’uomo e che solo in quell’amore la dignità della vita si fa godibile. La verità che vale per il Maestro non è diversa da quella che vale per il discepolo.

Quando Gesù riprende l’avvertimento per tutti i discepoli dicendo che chi vuol venire dietro di lui deve rinnegare se stesso e prendere la sua croce, ripete la stessa cosa. Gesù in verità lo si può ‘vedere’ solo quando è trafitto perché lì risplende quell’amore di Dio per l’uomo che rivela il suo vero volto. Se lì appare lo splendore dell’amore, allora quell’amore è la vera ricerca della vita, la vera fonte di vita, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. Qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Nel fondo, siamo sempre nella condizione di dover essere ‘istruiti dall’alto’ per afferrare la verità della necessità di dover soffrire da parte di Gesù, e quindi anche da parte nostra, e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Lo sottolinea la preghiera dopo la comunione: ‘La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito’. È la potenza della visione del Signore trafitto che diventa fonte di vita perché apre alla conoscenza dell’amore. È per quella visione e dentro quella potenza che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Di null’altro mi glorio se non della croce di Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso e io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, di cui ho avuto la visione nel guardare al Signore trafitto, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare nel mondo il compimento. La preghiera della chiesa tende a rendere vivace per il nostro cuore tale verità.

 

 

DOMENICA XXV

Sap 2,17-20;  sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

 

         Il canto al vangelo fornisce la prospettiva appropriata per cogliere il senso del brano evangelico di oggi: “Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). Due i punti da tener presenti. Primo, l’intelligenza delle Scritture avviene per rivelazione e non per semplice comprensione. Secondo, con la rivelazione sgorga la benedizione, che assume due direzioni: una benedizione dall’alto, da Dio al cuore e una benedizione dal basso, dal cuore a Dio. Ora, la rivelazione consiste nell’essere messi a parte dei segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. Lo dichiara a chiare lettere la prima lettura, presa dal capitolo secondo del libro della Sapienza, che introduce il discorso degli empi con queste parole: “Dicono fra loro sragionando…” e lo conclude con queste altre: “Non conoscono i segreti di Dio”. Ma i segreti di Dio sono appunto i misteri del regno dei cieli, come dice il vangelo.

         Il brano di oggi ripresenta per la seconda volta l’insegnamento (‘istruiva infatti i suoi discepoli’) di Gesù sulla sua passione. Per tre volte Marco riporta la parola di Gesù sulla sua passione (cfr Mc 8,31; 9,31; 10,32) e tutte e tre le volte Gesù accompagna la sua ‘predizione’ con una istruzione particolare. La ‘rivelazione’ non va colta solo in rapporto al fatto che Gesù parla della sua passione, cosa che evidentemente usciva dagli schemi mentali dei discepoli, ma anche in rapporto all’istruzione che l’accompagna. Il primo annuncio della passione comporta il rimprovero a Pietro: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro aveva pensato: no, così no! Non può essere! E si sente dire: vienimi dietro, se no non vedrai il mio volto! Il secondo comporta il rimprovero ai discepoli che discutevano chi fra loro fosse il più grande. Il terzo invece comporta il rimprovero a Giacomo e Giovanni che avrebbero voluto sedere a destra e a sinistra del suo trono nella gloria. Mentre Gesù annuncia il suo destino in Dio, gli uomini sono alle prese con un’incapacità di comprendere perché vogliono essere grandi e avere gloria. L’annuncio della passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla mente degli uomini, eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.

         Analizziamo più in dettaglio il secondo annuncio, quello del brano odierno. L’incomprensione dei discepoli è svelata proprio dall’oggetto del loro discutere (in effetti, non si tratta semplicemente del loro parlarsi, ma della contesa della discussione, come esprime il verbo che usa Gesù quando fa loro la domanda):Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande”. Gesù non rimprovera direttamente il loro desiderio di grandezza; si limita ad indicare la via di grandezza gradita a Dio: “Se uno vuol essere il primo, sia l' ultimo di tutti e il servo di tutti". E poi, prendendo un bambino, aggiunge: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Voler essere il primo significa voler essere come Colui che è il Primo (Io vi dico, tra i nati di donna non c' è nessuno più grande di Giovanni, e il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”, Lc 7,28), il quale si è fatto servo di tutti fino a morire sulla croce, perché tutti potessero conoscere quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini. Gesù parla della grandezza per il regno dei cieli, che è grandezza di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Essere ultimo non significa essere dietro a tutti gli altri, ma solo servo di  tutti perché l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona più significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di Dio.

Il riferimento ai bambini è più misterioso, almeno nel brano di Marco. Nel passo parallelo di Mt 18,1-5, Gesù prima invita i discepoli a diventare come bambini (“Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli”)  e poi li invita ad accoglierli. Ma la traduzione ‘diventerà piccolo come’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio Colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Allora il riferimento al bambino può essere compreso sia nel senso della confidenza verso il Padre sia nel senso della debolezza estrema patita e diventata luogo di gloria. A tal punto, che Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è risuscitato.

Se Giacomo, nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando, nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.

 

 

DOMENICA XXVI

Nm 11,25-29;  sal 18;  Gc 5,1-6;  Mc 9,38-48

 

         Il tema della liturgia è sempre lo stesso: scoprire i misteri del Regno. E come sempre emerge la diversità di approccio del Maestro e dei discepoli. L’uno annuncia la sua passione, gli altri discutono delle loro ambizioni; l’uno favorisce l’opera di Dio, ovunque possa manifestarsi, gli altri vorrebbero avocare a sé i diritti di Dio; l’uno agisce in vista del Regno, gli altri vorrebbero il regno in questo mondo.

         Dopo l’annuncio della passione risulta chiaro che il destino del Maestro sarà il destino dei discepoli, l’eredità del Maestro costituirà l’eredità dei discepoli. Ma destino e eredità non sono facilmente accoglibili dall’uomo; occorre il dono dello Spirito, che sarà effuso proprio dalla croce con la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini da parte del Signore Gesù. In questa ottica la prima lettura tratta dal libro dei Numeri, con l’episodio del dono dello Spirito ai settanta anziani e ai due uomini rimasti nell’accampamento, Eldad e Medad, non va vista solo a conferma dell’atteggiamento di Gesù che non vuole venga impedita l’azione di Dio dovunque si manifesti, a differenza dei discepoli che vorrebbero invece limitarla al loro gruppo (“Chi non è contro di noi è per noi”). Va vista in rapporto alla necessità dell’effusione dello Spirito per accedere ai misteri del Regno. Mosè non può essere geloso della visita di Dio perché se Dio visita è appunto per attrarre tutti a Sé; così i discepoli non possono essere gelosi del dono dello Spirito perché quel dono è dato proprio perché tutti entrino nei misteri di Dio.

         C’è però una condizione. Se i discepoli, invece di cercare i misteri di Dio, si abbandonano alle loro ambizioni e rivalità, allora non potranno accedere ai misteri del Regno e tratteranno tutto e tutti in base a quelle ambizioni e molti ne soffriranno. Ma guai a coloro che saranno causa di queste sofferenze: Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare”. Siccome i misteri del Regno sono l’eredità di tutti e sono la cosa più preziosa che un cuore può mai desiderare da parte di Dio, allora ostacolare, danneggiare, rovinare tale eredità è quanto mai terribile; comporta l’esclusione dal godimento di quella stessa eredità con la corrispondente perdita di senso della vita.

 Per questo Gesù è durissimo nel replicare loro, come precedentemente aveva fatto con Pietro: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna… Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo… Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna…”. Cosa significa? Se la passione per il Regno non conquista il cuore, tutto risulterà vano. Se l’amore del Regno non prevarrà, sarà inevitabile vivere e far vivere nella sofferenza. Che senso potranno avere allora quelle tormentose sofferenze se impediscono la via della vita? È tutto il dramma dell’uomo. L’avvertimento di Gesù è dunque chiaro: taglia, rinuncia a qualsiasi cosa che contrasti o rinneghi la via della vita. Il che equivale a dire: primo, rinuncia a tutto ciò che ti impedisce di accogliere la dinamica di vita che porta il Signore Gesù con il suo far conoscere lo splendore dell’amore di Dio per l’uomo; secondo, non puoi riuscire in tale rinuncia se non ti è mai apparsa nella sua bellezza la testimonianza sua rispetto all’amore di Dio per l’uomo che colma ogni desiderio.

         I misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù. Il capitolo 9 di Marco termina con queste parole che riassumono tutto il senso della pericope: Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. Come a dire: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore e rinuncerete (‘sale’ come rinuncia) a ogni forma di ambizione e rivalità, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di Dio in voi e come frutto del dono dello Spirito Santo. E io aggiungerei anche: come godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato. La sua venuta è così vera che, per i discepoli vale il detto: chi tocca un uomo, tocca Dio, mentre per coloro che ancora non credono in Lui vale la ricompensa: chi dà a un discepolo di Cristo, dà a Cristo.

 

 

DOMENICA XXVII

Gn 2,18-24; sal 127;Eb 2,9-11;  Mc 10,2-16

 

         Le letture di oggi parlano del valore del matrimonio agli occhi di Dio. In che prospettiva, su quali fondamenti? Il brano di vangelo riporta l’interrogazione dei farisei a Gesù: “E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?”. Si annota però che la domanda gli è posta per metterlo alla prova. In cosa consiste allora la prova, il tranello? Non è facile intuirlo subito. Il brano va letto con molta attenzione perché diversi dettagli non sono affatto scontati. Gesù, come al solito, ritorce la domanda e prende le distanze subito: Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ma i farisei si guardano bene dal rispondere che Mosè ha ordinato di ‘scrivere l’atto di ripudio e di rimandarla’; si limitano a dire che Mosè ha permesso. Perché? Eppure Gesù, quando a sua volta ribatte, parla effettivamente di norma, di comando. Perché?

         I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così di accusarlo. Tutti sapevano che il ripudio era una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avvallato con un’indicazione precisa. Il passo della Scrittura corrispondente è Dt 24,1-4. Ma effettivamente non c’è un ‘comandamento’, una ‘norma’ del ripudio in tutta la Scrittura. La legislazione di Mosè intendeva risolvere, a favore della donna, una certa situazione di precarietà. Come se dicesse: so che uno può ripudiare la sua donna, ma non lo faccia alla leggera perché poi non potrà più riprenderla e lo faccia solo nel caso trovi nella donna ‘qualcosa di vergognoso’. Ai tempi di Gesù la norma contenuta in quel passo poteva essere interpretata in senso restrittivo (vale solo se la donna abbia commesso adulterio) oppure in senso esteso (vale per qualsiasi motivo). A ragione quindi i farisei rispondono che Mosè ha solo permesso.

         Tuttavia Gesù vuole arrivare al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama l’atto della creazione: “Dio li creò maschio e femmina; per questo l' uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola”. Quella ‘benedizione’ di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella ‘benedizione’ costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio. Ma se ci chiediamo qual è la ragione sulla quale si infrange la liceità del ripudio, per giunta riconosciuto solo all’uomo nell’ambiente giudaico, allora il riferimento all’agire di Dio acquista un valore anche dal punto di vista del cuore dell’uomo. In realtà Gesù critica la Legge e difende l’onore di Dio in quanto richiama il principio di uguaglianza tra l’uomo e la donna. Tra loro sono diversi i compiti, le modalità di agire, gli spazi e le dinamiche affettive, ma godono della stessa dignità. Nell’amore vige la stessa dignità.

         È del resto significativo che il canto al vangelo riprenda un passo della prima lettera di Giovanni: “Se ci amiamo a vicenda, Dio è in noi e la sua carità in noi è perfetta”  (Il versetto completo suona: Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l' amore di lui è perfetto in noi). Come a suggerire: la dignità dell’amore, che rende l’uomo e la donna di pari valore, deriva dal fatto che solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio sia della sua vicinanza sia della conoscenza di Lui, a pari titolo tra uomo e donna. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è la ‘consumazione’ dell’amore di Dio che si rivela in essi.

         Il modo di ragionare e di comportarsi di Gesù è quello della fede. Anche nella pericope seguente sulla sua accoglienza dei bambini. Gesù vede ogni cosa in funzione del Regno e se i bambini disturbano i grandi è perché i grandi non vedono la realtà del Regno, dato solo a chi è come i bambini. La dignità delle persone non è in funzione del loro valore o importanza personale, ma in funzione della venuta del Regno di Dio, della possibilità cioè di godere dello splendore dell’amore di Dio. Così, dopo che Gesù aveva annunciato per la seconda volta che avrebbe dovuto patire e morire per essere fedele alla via di Dio e mostrare al mondo il suo amore, ha richiamato i discepoli all’amore vicendevole senza cedere a rivalità o ambizioni, a stare ‘uguali in dignità’ nell’amore tanto tra di loro quanto nei rapporti tra uomo e donna.

 

 

DOMENICA XXVIII

Sap 7,7-11;  sal 89;  Eb 4,12-13;  Mc 10,17-30

 

         Se paragoniamo le figure di Salomone, a cui si ascrive la paternità del libro della Sapienza, da cui è tratta la prima lettura di oggi e quella del giovane ricco che chiede a Gesù come poter avere la vita eterna, comprenderemmo meglio la risposta di Gesù e lo sbigottimento dei discepoli. Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. La sapienza viene dall’alto, procede da una rivelazione accolta come partecipazione alla vita di Dio e diventata energia di vita, radice di comportamento. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘manifestazione della gloria di Dio’, di consistenza dell’agire dell’uomo. Grazia, gloria e consistenza che esprimono la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, rivelazione che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende splendente. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza. E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” vuol dire che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono di Sé.

         Quando si presenta il giovane ricco, sembra che l’orizzonte della sua richiesta sia molto più limitato. Non è soddisfatto delle sue ricchezze e della sua vita, e per questo corre da Gesù, ma non riesce a distinguere tra i beni il Bene. La vita eterna che mostra di volere è assai diversa da quello che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha dettato. In effetti, un conto è eseguire i comandamenti, un conto è cogliere l’ispirazione segreta dei comandamenti; un conto è praticare il bene, un conto è cogliere il frutto della pratica del bene. Il dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona nell’affermazione di Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Si possono fare i comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. È per questo motivo che Gesù, desideroso di avere amici che condividono quei segreti, invita il giovane. Non si tratta tanto di lasciare tutto, quanto di venire dietro a Gesù, l’Inviato sul quale riposa tutta la compiacenza del Padre e nel quale anche gli uomini possono gustare la benedizione di quella compiacenza.  L’uomo non arriva direttamente al frutto se non stando con il Signore Gesù: è Lui che ci introduce nel Regno, in quella intimità con Dio che sazia il desiderio del nostro cuore. Il senso della nostra vita si gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio ed il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel Figlio che è stato dato per noi. Se entrare nel segreto di Dio è impossibile all’uomo, non lo è per Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio perché anche noi, in Lui, possiamo godere della sua gioia. In questo senso si capisce bene la tristezza di Gesù davanti al giovane ricco: egli rifiuta l’ingresso ad una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare nel Regno, che gli è balenato davanti.

Dalla reazione dei discepoli si deduce che la distanza tra loro e quel giovane non è poi così marcata. Anche i discepoli condividono con quel giovane il suo modo di pensare. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono ‘capaci’ di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano e si compiono lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno nell’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro; dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la ‘promessa’ che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore, come esprime il canto al vangelo, ‘qual è la speranza della nostra chiamata’.

 

 

DOMENICA XXIX

Is 53,2-11;  Sal 32;  Eb 4,14-16;  Mc 10,35-45

 

         Come sempre, Gesù non si irrita davanti alle domande dei suoi discepoli, anche se suonano fuori posto. La richiesta dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, di sedere nella gloria del Cristo uno alla destra e uno alla sinistra, si colloca nel contesto della salita di Gesù a Gerusalemme quando, ormai in prossimità della città, ricorda ai discepoli per la terza volta che il Figlio dell’uomo sarà condannato, vilipeso, ucciso e poi risorgerà. Il momento è altamente drammatico. Da parte dei discepoli si tratta di una domanda seria, non proviene da cuori vanesi o vanitosi. E’ in gioco il senso stesso della loro vita, il senso della loro sequela, il senso di quell’evangelo che li ha toccati profondamente e che nella persona del Maestro ha concentrato le tensioni dei loro cuori. Corrisponde, quella richiesta, forse in maniera più presuntuosa, alla domanda di Pietro: abbiamo lasciato tutto, cosa avremo? E’ la domanda che accompagna, in sordina, i cuori dei credenti.

Gesù riconosce la lealtà dei due discepoli. Sa che sono disposti a seguirlo fin nella sua passione. Per loro vale sicuramente la lode di Paolo: a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo; ma anche di soffrire per lui” (Fil 1,29) [di fatto Giacomo morì martire verso l’anno 44 a Gerusalemme, secondo At 12,2, mentre la tradizione che fondandosi su questo passo fa martire Giovanni è chiaramente posteriore. Anche in questo risalta la ‘misteriosità’ della parola di Dio: in che senso Giovanni ha bevuto il calice della passione, se non è morto martire?].

Nella sua risposta Gesù svincola la grazia del seguirlo e del soffrire per lui da ogni possibile ‘finalità’ umana: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. Il mistero del seguire il Signore e del soffrire per lui resta intatto ed assoluto nella sua densità e purità; non è finalizzato a nient’altro. Non è possibile seguire il Signore aspettandosi una ricompensa: ne verrebbe svuotato l’anelito di fondo che spinge i cuori a fare uno spirito solo con il Signore. La ragione profonda risiede nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa ‘assolutezza’ Gesù richiama e rimanda.

Del resto si concatena bene a questa risposta, anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo: “…chi vuol essere grande  tra voi si farà vostro servitore …Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Perché voler essere grandi comporta, seguendo il Signore Gesù, dover servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di realizzare una grandezza che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro di essere non soltanto oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire procura questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto è ancora un servire troppo umano, sentimentale generosità o semplice incapacità di affermazione. Quando Gesù chiede ai figli di Zebedeo: ‘potete bere il calice che io bevo?’ è come se chiedesse: potete stare solidali con il desiderio di Dio verso gli uomini e contemporaneamente stare solidali con l’umanità di modo che il Suo amore risplenda liberatore per voi stessi come per loro? Questa è la posta in gioco del servire. E questa è la posta in gioco della grandezza secondo Dio, che compie, per noi e per tutti, insieme, le attese dei cuori.

 

 

DOMENICA XXX

Ger 31,7-9;  sal 125;  Eb 5,1-6;  Mc 10,46-52

 

         Il brano del vangelo di oggi ha degli accenti assolutamente particolari. I verbi, anzitutto. Tutti i verbi del brano sono intensivi: Bartimeo, il cieco alle porte di Gerico, grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro una conoscenza che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e appena lo vede, si mette a seguirlo. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori.

In secondo luogo, assume un tono del tutto speciale il titolo che il cieco dà a Gesù: “Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù. Quella espressione nasconde un mondo. Solo in un altro passo evangelico risuona quel titolo, sulla bocca di Maria Maddalena quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16). Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto personale, intimo, con Gesù di cui ormai ha condiviso vita e sentimenti, verso cui tende con tutta la sua anima. Anche per Bartimeo quell’appellativo nasconde una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù  porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. In effetti ogni guarigione procurata dalla fede si traduce sempre in un andare, un andare appunto dietro a Colui che si è mostrato e che ci ha rapito il cuore.

Collegato alla prima lettura, al brano di Geremia, di quel capitolo 31 così ricco di immagini e contenuti, la guarigione del cieco di Gerico rivela tutto il suo senso. Quel capitolo descrive il compiersi della promessa di Dio per gli esuli a Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che è foriera di un’altra promessa, quella di una nuova alleanza scritta sui cuori quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore al suo popolo e tutto sarà riedificato nuovamente. Ma quello che è straordinario è la descrizione dei sentimenti di Dio per il suo popolo: “Ti ho amato di amore eterno …le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. E’ il ‘segreto del re’, che si fa noto in Gesù, avvertito confusamente ma potentemente anche da Bartimeo. Troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato per indugiare ancora: tutto scoppia, prorompe, perdendo ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio. E’ l’esito della nostra preghiera: tornare ad avere il cuore che vede compiersi, svelarsi nella nostra vita il segreto di Dio. In questa prospettiva ha senso l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. La preghiera è appunto la condivisione della ‘fretta’ che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione ‘gridata’ con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti.

 

 

1 NOVEMBRE, TUTI I SANTI

Ap 7,2-14;  Sal 23;  1 Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

 

         La preghiera che riassume il senso della festa di oggi  credo possa essere l’orazione dopo la comunione: “O Padre, unica fonte di santità, mirabile in tutti i tuoi santi, fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa mensa eucaristica, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo”. Intendendo l’espressione ‘raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore’ così: fa’ che possiamo fare esperienza del tuo amore in modo da esserne ricolmi e farlo risplendere in tutta la nostra vita; fa’ che anche noi, come i santi, possiamo dire in tutta verità: quanto è grande il tuo amore per noi! Gli eletti, nella visione dell’Apocalisse, portano in fronte il sigillo del Dio vivente e proclamano: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Ap 7,10). La proclamazione, a livello sonoro, esprime quello che il tau significa a livello visivo: Dio è santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole rivelano la comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti. E’ la proclamazione dei beati in paradiso, ma noi oggi preghiamo perché diventi la proclamazione del nostro cuore fin da ora. E’ appunto lo splendore che emana da questa rivelazione al cuore dell’uomo a testimoniare la presenza della santità di Dio in mezzo agli uomini, quello splendore che promana così chiaramente da tutti i santi.

         Il nesso che la liturgia di oggi sottolinea in modo evidente, sebbene sia colto flebilmente dalla nostra coscienza pensante,  è il nesso santità/felicità. Le beatitudini di Gesù lo proclamano con la potenza che scaturisce dal dono del regno di Dio che si fa come evidente e che gli uomini scoprono con un sentimento di gioia incontenibile: felici voi se siete poveri … se siete miti… se siete misericordiosi… se siete portatori di pace, ecc. Il canto al vangelo dà ragione di questa gioia: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30). E’ la gioia del regno scoperto come il tesoro nel campo, come la perla di gran valore che permette la vendita di tutto il resto. E’ quella ‘perfetta letizia’ che ha invaso il cuore e che non è scacciata più da nulla, nemmeno dalle afflizioni più ingiuriose, perché mai si separa dalla sorte del suo Signore, divenuto ormai il ristoro dell’anima, il suo riposo. Già la tradizione ebraica conosceva la ‘gioia del giogo’ della Legge, come leggiamo nel libro del Siracide: “Sottoponete il collo al suo giogo, accogliete l’istruzione. Essa è vicina e si può trovare. Vedete con gli occhi che poco mi faticai, e vi trovai per me una grande pace” (Sir 51,26-27). Ma la ‘gioia del regno’ è ancora più coinvolgente e radicale, che arriva alle radici del cuore e ne alimenta la vita. Capace di far dire: l’afflizione del tuo cuore è affare tra te e Dio, mentre i tuoi fratelli hanno diritto alla tua gioia; non tenere i tuoi beni come costituissero la tua gioia, perché quando te li toccassero, sparirebbe la tua gioia; non rivendicare diritti perché quando non te li riconoscessero resteresti schiacciato.

E come questo è possibile per noi, che conosciamo bene la fatica e l’oppressione del vivere quotidiano? In effetti, non si può evitare fatica e oppressione nella vita. Tutto sta a portare le fatiche giuste, le fatiche che procurano i frutti desiderati dal cuore. Ed è quello che garantisce il Signore con il dono di Sé come ristoro, come riposo per il nostro cuore, il segreto felice della santità. E’ strano: c’è una fatica che si assomma e che finisce per opprimere; c’è una fatica invece che moltiplica la gioia e la ‘leggerezza’ del procedere, che rinnova le energie e dà impulso di vita. E’ la fatica delle beatitudini, che mortificano le nostre illusioni ed i nostri sogni di esibizione, ma che rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita. E’ la storia della santità, come la vediamo nelle vite dei santi e come ciascuno la può percepire nel suo cuore, quotidianamente, ogni volta che si lascia sorprendere dalla gioia del regno.

 

 

DOMENICA XXXI

Dt 6,2-6;  sal 17;  Eb 7,23-28;  Mc 12,28-34

 

         Il brano del vangelo di Marco comporta una particolarità unica nei vangeli. È l’unico passo di tutto il vangelo in cui Gesù si congratula con uno scriba. Quello scriba, che alla fine riceve l’elogio di Gesù: ‘Non sei lontano dal regno di Dio’, aveva assistito alla discussione di Gesù con i sadducei a proposito della risurrezione dei morti. Aveva certamente notato che la forza del ragionamento di Gesù si basava sul fatto che Dio era proclamato Dio dei vivi: “Non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe?  Non è un Dio dei morti ma dei viventi!”. Se Dio è Dio dei vivi, vuol dire allora che la morte non costituisce barriera per Lui; vuol dire che la morte non distrugge la Sua fedeltà che tutto sovrasta. Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa che il cuore enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore che arriva all’uomo nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme la nostra storia. Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza. Più ci si percepisce dentro quella storia di salvezza e più la proclamazione di Dio è assoluta e coinvolgente. È appunto quel Dio così esperito che merita di essere amato con tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.

L’espressione del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” ricorda che ‘nostro/mio’ ed ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza.  Secondo la bellissima espressione di Origene tale è la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.

Gesù, rispondendo allo scriba, cita proprio quel passo, che costituisce la confessione di fede del pio israelita, la parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante:Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. In Dio l’uomo scopre le sue radici. ‘Il Signore è il nostro Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una solidarietà. E’ il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio. Quindi: ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso ad un segreto, ad un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverli compiutamente. Ma come è possibile se non riusciamo a percepirci prima raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un amore che ci precede? La ‘scoperta’ della fede in Gesù si colloca proprio dentro quella prospettiva. È per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia di quella scoperta, viene elogiato.

Del resto, nella risposta di Gesù viene descritto tutto il movimento di intelligenza delle Scritture, che non può non portare a far condividere con tutti quello che ormai è percepito come il tesoro del cuore, per cui dal primo comandamento si passa direttamente al secondo, quello dell’amore del prossimo. Non però nel senso che l’amore per l’uomo è parallelo, per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso che l’amore per l’uomo non sarà totale che a partire dall’amore per Dio. La fede è sempre all’origine della carità, sebbene sia la carità a verificare la sincerità della fede. Così tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito e che è tesa a mostrare il mistero della fraternità come rivelazione della presenza di Dio nel mondo, parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa la scoperta di quel che comporta l’incontro col Signore Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30); poi si compie in noi la sua promessa, come viene proclamato nel canto al vangelo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Consapevoli sempre che “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

 

 

DOMENICA XXXII

1 Re 17,10-16;  sal 145;  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

 

         La liturgia della Chiesa oggi è come un commento all’elogio che Gesù tributa ad una povera vedova a sua insaputa. È significativo che il canto al vangelo introduca il brano con l’invito che nel giudizio finale il Re rivolge ai suoi eletti: “Venite, benedetti del Padre mio, dice il Signore, ricevete il regno preparato per voi fin dall’origine del mondo” (Mt 25,34). L’elogio di Gesù alla vedova cela proprio quell’invito. Quell’invito, dolce e premuroso da parte di Dio, le appartiene, svela ciò che nasconde il suo cuore nella sua umile offerta. L’antifona alla comunione lo sottolinea di nuovo: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…”. Di questa ‘certezza’ era colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Gesù non vuole stabilire una preminenza; solo gli uomini pensano sempre a riconoscersi per la loro importanza (sia essa personale, di merito, di censo, di doti, ecc.). Gesù vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua ‘gratuità’, nella sua ‘radicalità’, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo; pochi però fanno così affidamento alla promessa di Dio da abbandonarsi, umili e fiduciosi, senza remore, come la povera vedova di cui Gesù tesse le lodi senza che lei neanche lo sappia e nemmeno se ne renda conto. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze giocano evidentemente a sfavore. E dove si esprime qui la promessa di Dio? La traduzione inganna. Letteralmente si dovrebbe rendere: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore ‘strano’: non chiede né poco né tanto né tutto: chiede quello che non hai. Il gesto della vedova che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti  … portatori di pace … misericordiosi…”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose , vale a dire il tempio e il suo popolo per cui si portavano le monete al tesoro. Ed in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge 'ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sè'. E' il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sè, vale a dire fidarsi fino in fondo, con tutto il cammino, con tutte le fatiche che questo comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Zarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita sua e del profeta e del popolo dei credenti in generale. Nessuna offerta di questo tipo ha un valore meramente individuale. Riguarda sempre l’insieme, coinvolgendo insieme Dio ed il suo popolo, per cui la vita in questo mondo risulterà più vivibile e la presenza di Dio più tangibile, per tutti. Il ritornello del salmo responsoriale, se letto in rapporto alla vedova, acquista una risonanza più profonda: ‘beati i poveri in spirito, di essi è il regno dei cieli’. Lei è di quei ‘poveri’ nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa nota, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che soltanto i poveri in spirito avranno parte al regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, avremo toccato il regno dei cieli, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi.

 

 

DOMENICA XXIII

Dn 12,1-3; Sal 15;  Eb 10,11-18;  Mc 13,24-32

 

         Il ciclo dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa si trova proiettata nella tensione escatologica, nella ‘attesa della fine’. Le letture di oggi ricordano gli eventi ultimi, misteriosi, quelli che precedono l’avvento del Figlio dell’uomo sulle nubi quando verrà nella gloria a giudicarci e ad aprirci le porte del Regno. Tutto il cap. 13 di Marco è dedicato a questo discorso in chiave apocalittica. Questo modo di parlare immaginifico, a tinte forti, a volte fosche, ci risulta difficile da comprendere, difficile da assimilare, difficile da aprire. In un’unica sequenza vengono mescolati gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente. Come disporre il cuore ad ascoltare quella parola di vita che risuona in tutte queste parole?

La finestra di luce è data dall’antifona di ingresso che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò, e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi»”. Anche la colletta la riprende con la supplica: “… donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio, che verrà per riunire tutti gli eletti nel suo regno”. La preghiera non ci indica semplicemente un evento futuro, ma ci illustra una tensione, la tensione del desiderio di Dio di stare con gli uomini, finalmente ri-conosciuto nel Suo amore per i suoi figli, che si realizza nella storia. E perciò va intesa: donaci lo Spirito di Gesù che fa risplendere il tuo amore tra gli uomini perché anche noi, mossi dallo stesso amore, possiamo vedere fin da ora l’avvento del tuo regno che compone in unità i figli di Dio dispersi. Per questo Lui è venuto, in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi, di questo attendiamo finalmente il compimento. L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini penetranti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da Lui discende e che a Lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di Lui, al di fuori del progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è solo: badate bene, state attenti, vegliate. State attenti a non lasciarvi turlupinare, badate a voi stessi perché non vi si illuda, non bevete menzogne, non ingannate il vostro cuore.

Gesù si fa premura di ricordarcelo: “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini sia che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il nostro agire nell’oggi che ci è dato sia teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Ogni evento della fine non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero ‘consuma’ la storia aprendola al suo fine, alla rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno tanto dolore? Perché l’amore, per apparire, deve attraversare un così grande soffrire? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si convince un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio. Proprio come canta un’antifona alla comunione della messa di oggi: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”, da intendere: veniamo custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così viene conquistato, amore che risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra radice di vita.

 

 

DOMENICA XXXIV

NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Dn 7,13-14;  sal 92;  Ap 1,5-8;  Gv 18,33-37

 

 

Gesù si proclama re solo davanti a Pilato quando ormai è chiaro l’esito del processo intentato contro di lui: sarà condannato alla crocifissione. L’aveva più volte annunciato e Giovanni si era fatto premura di punteggiare il suo racconto con quella predizione: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell' uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,14-16); “Quando avrete innalzato il Figlio dell' uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo” (Gv 8,28); “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Entrando trionfalmente a Gerusalemme, la folla lo acclama come il re, il regno che viene, ma nessuno sospetta quale realtà quelle acclamazioni comportino. Gesù collega il suo ‘innalzamento’ alla sua regalità e sulla croce, a condanna eseguita, diventerà ‘il re della gloria’, come gli antichi crocifissi riportavano sopra la sua testa. Così apparirà la ‘verità’ per testimoniare la quale è appunto venuto a noi quel ‘re, crocifisso’.

         Come aprirci al mistero di rivelazione di questi termini che Gesù si attribuisce, ma che risuonano in tutta la loro tragica ambiguità? In altre parole, di quale regno e di quale verità mai si tratta? È quanto chiediamo di comprendere nell’orazione dopo la comunione: “… fa che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo, per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso”. Non intendiamo solo pregare di obbedire a Cristo per entrare in paradiso. Preghiamo invece perché si realizzino i desideri più profondi del cuore che, in quel Gesù, re della gloria a partire dalla croce, viene conquistato all’amore del Signore in modo così radicale da viverne lo splendore in tutti gli eventi della vita senza che nulla possa soffocarlo. Come non è dato all’uomo altro Nome nel quale essere salvati (cfr At 4,12), così non è data altra figura più significativa e più rivelativa del senso del mondo e della nostra dignità di quell’Agnello immolato che testimonia la verità dell’amore di Dio per l’uomo. Perché questa è la verità che interessa all’uomo: Dio l’ha amato a tal punto che il Suo Figlio si è sacrificato perché quell’amore potesse risplendere e costituire la radice di dignità e di vita per l’umanità. Guardare a quel ‘Trafitto’ significa essere conquistati dall’offerta di alleanza di Dio che sovranamente regna su tutto, attraversando ogni peccato e miseria, oltrepassando ogni manchevolezza e timore, vincendo ogni resistenza e paura; alleanza, che si traduce in desiderio di fraternità, dove ormai non si tratta più di attirare a me le simpatie del Re, che è già tutto dalla mia parte, ma di condividere con lui i suoi sentimenti verso l’umanità intera. Posso chiamare mio il mio Re, quando rispetto a tutti sono soltanto servo perché condivido ormai il suo segreto, che è il suo desiderio di intimità con tutti i suoi figli finalmente realizzato.

C’è però anche un altro aspetto che merita attenzione. Nella colletta della festa di oggi, ultima domenica dell’anno liturgico, chiediamo di comprendere che servire è regnare. Lo chiediamo perché toccati dallo splendore della ‘regalità’ di Cristo. La realtà che esprime questo ‘servire/regnare’ partecipa delle stesse caratteristiche del regno di cui parla Gesù: “il mio regno non è di questo mondo”. Ciò significa che quell’amore che risplende in verità è destinato a trasfigurare questo mondo, ma non proviene da questo mondo, non trova la sua radice in questo mondo. Perciò non può modellare su questo mondo la sua realizzazione, non può trovare in questo mondo la giustificazione evidente. Eppure quell’amore esprime la verità del mondo nel senso che lo apre e lo porta al compimento agognato. Così tutti gli amori di questo mondo non sono che ombra di quella carità divina a cui in ultima analisi rimandano, come tutti i poteri di questo mondo sono ombra del potere in verità di Dio sul quale sono misurati. Quando i vari poteri ed i vari amori distolgono da quella carità divina rinnegano le fonti stesse della loro legittimità e diventano causa di tormento, sebbene i cuori non cessino segretamente di anelare sempre, nonostante tutto, a quella carità divina che sola rende ragione dei loro desideri. E’ secondo questa tensione che va compresa l’esortazione: “aprite le porte al Signore: entri il re della gloria”, il Cristo Signore.