Secondo ciclo

Anno liturgico B (2005-2006)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(7 maggio 2006)

 

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At 4,8-12; Sal 117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

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In questo periodo liturgico pasquale, la chiesa continua a meditare sulla realtà del risorto come il Vivente, come Colui che, essendo venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci fa vivere della sua stessa vita. L’immagine del buon pastore ci dice proprio questo. Ma, come sempre, la parola di Dio è assai più densa di significati, più misteriosa di quanto possa sembrare a prima vista.

Gesù si presenta come il buon pastore e fa consistere la sua ‘bontà’ nel fatto che ha dato la vita, seguendo il comando del Padre, che per questo lo ama. Sembra questa la concatenazione logica dei pensieri. Ma la realtà è più misteriosa. Il comando del Padre sembra riguardi non tanto il fatto di dare la vita, ma di poterla dare e di poterla riprendere di nuovo. Cosa significa? Sul dare la vita non è detto semplicemente che dà la vita, ma che dà la sua anima, la sua persona, se stesso e non semplicemente che la dà a qualcuno, ma per qualcuno. Gesù unisce strettamente le due dinamiche del conoscere e dell’amare nel fatto di dare la vita. Perché?

L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la vita, solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. Non solo, ma che per noi uomini l’esperienza dell’amore risulta possibile a condizione di percepirlo come dono di vita, vita di Dio per noi e vita di noi per il prossimo. Gesù è Colui che dal punto di vista di Dio ci rivela qual è la dinamica dell’amore e dal punto di vista dell’uomo ne svela la profondità e la densità. L’amore ha sempre a che fare con la vita di Dio, con il mistero di Dio. Non è detto semplicemente che Gesù dà la vita a, ma per le pecore. Così, se non percepisco il suo dono per, non potrò viverlo riferito a me, perché lo vivrei in senso ‘egoistico’, come se l’amore di Dio servisse semplicemente a far star bene me, bisognoso di amore. Il mistero dell’amore è dato dal rimando al mistero di Dio che vuole tutti gli uomini salvi; è dato dal fatto che Gesù è il Signore di tutti (cfr At 10,36). Per questo Gesù parla di altre pecore che non sono del suo ovile; tutte lui deve condurre, per fare un solo gregge. La dinamica dell’amore è essenzialmente ‘universale’. Dal punto di vista di Dio, sarebbe un controsenso amare qualcuno e odiare altri; sarebbe come un volere contemporaneamente Dio per sé e escluderlo per altri. Se Dio è Dio, se la vita che dona Dio è non più soggetta alla morte, è inevitabile l’espansione all’umanità tutta, in estensione e in profondità, perché l’amore suo risplenda in tutti e in tutto. Se tale è la tensione dell’amore del pastore, la medesima tensione apparterrà all’amore delle pecore che da lui si lasciano condurre. In questo senso Gesù è detto ‘pietra angolare’ (prima lettura, At 4,11) della nuova costruzione del popolo di Dio che riguarda tutta l’umanità. E la ragione profonda è data dal fatto che, essendo stato respinto, scartato, ma senza esser venuto meno all’amore di Dio e alla sua opera per l’uomo, ha superato ogni forma di rifiuto e di discriminazione, cioè di vittoria della morte e così può costituire la radice di vita per tutti perché l’amore di Dio risplenda nel mondo.

Quando dice che può dare la vita e riprenderla e che questo è il comando del Padre suo allude al fatto che dà se stesso senza arrogarsi nessun altro diritto che non sia quello di testimoniare l’amore del Padre agli uomini e così la vita che vive è vita eterna, perennemente vitale, capace di attraversare ogni movimento di morte. E questo corrisponde al volere di Dio per l’uomo, che è chiamato ‘comando’. Quando in effetti la riprende, con la sua risurrezione, è per darla a tutti coloro che in lui vedono il mistero della fedeltà di Dio all’uomo, è per far prevalere il volere del Padre che vuole la vita per gli uomini. E perciò noi possiamo avere la vita in abbondanza, cioè la vita secondo quella stessa dinamica di amore di Colui che ce l’ha data. Vale lo stesso effetto anche per noi: per accrescere la vita, occorre darla. Non semplicemente darla a qualcuno, ma darla perché l’amore di Dio per gli uomini torni a risplendere e l’opera di Dio in Gesù si faccia sperimentabile e abbordabile per l’umanità, nostra e degli altri.

Naturalmente, l’accento della liturgia di oggi non è posto su quello che potremmo chiamare la nostra ‘responsabilità’ di discepoli del Signore, ma sulla stessa opera di Dio che in Gesù e tramite Gesù ci viene incontro, ci ingloba, si fa afferrabile, dandoci la possibilità di toccare il suo mistero e il mistero dell’uomo. Non esiste accrescimento automatico della vita. Solo l’accoglienza del dono della vita (=il far grazia di sé) accresce la vita perché ci dà coscienza della relazione che ci costituisce e ci struttura, relazione che è principio della nostra gioia, gioia che nessuno ci può rapire (cfr Gv 16,24). Così l’anima può cantare: “Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia” (sal 117,1).