Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
di Pasqua
3a Domenica
(30 aprile
2006)
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At 3,13-19;
Sal 4; 1Gv 2,1-5; Lc 24,35-48
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I racconti della
risurrezione non mirano soltanto a mostrare la verità della risurrezione di
Gesù, verità che non apparteneva all’orizzonte mentale dei discepoli, ma anche
ad aprire l’intelligenza delle Scritture, che con la risurrezione di Gesù
acquista tutt’altra densità e definitività.
Il canto al
vangelo di questa domenica esprime bene la condizione interiore che prelude al
riconoscimento del Risorto sia per gli apostoli che per noi: “Signore Gesù,
facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli” (cfr. Lc
24, 32). E’ la confessione dei due discepoli di Emmaus che, dopo aver
riconosciuto il Risorto nello spezzare il pane mentre era a tavola con loro, si
commentano a vicenda l’accaduto e si confidano i sentimenti profondi del cuore.
Quando, nella preghiera dopo la comunione, la chiesa fa pregare: “Guarda con
bontà, o Signore, il tuo popolo, che hai rinnovato con i sacramenti pasquali, e
guidalo alla gloria incorruttibile della risurrezione”, non intende fare
professione di fede nella risurrezione della carne, come la proclamiamo nel
Credo, ma più specificamente allude alla possibilità di partecipare alla
potenza della risurrezione, denominata ‘gloria’, fin da quaggiù, imparando a
riconoscere il Risorto, a vivere in sua compagnia (“Ecco, io sono con voi tutti
i giorni, fino alla fine del mondo”, Mt 28,20), ad assimilare lo stesso
principio di vita che ha guidato Gesù, testimone dell’amore del Padre agli
uomini, contro il quale la morte non può nulla. La bontà di Dio nei confronti
degli uomini ha che fare essenzialmente con il dono della partecipazione alla
potenza della risurrezione, in Gesù, morto e Risorto, ormai il Vivente, capace
di dare la vita non più soggetta alla morte. Pregare il Signore che ci guidi a
quella partecipazione significa che il percorso non è scontato e soprattutto
che non è percorribile da soli, sulla base delle proprie intuizioni e forze.
È qui che si
innesta la questione dell’intelligenza delle Scritture e della conversione,
come accesso alla potenza della risurrezione. Ce lo richiama l’apostolo Pietro
nel suo discorso alla folla dopo la guarigione miracolosa del paralitico alla
porta Bella del tempio, come riportato nella prima lettura. Il punto essenziale
del suo discorso non è costituito dal fatto di ricordare che il miracolo è
avvenuto nel nome di Gesù risorto, di cui lui e gli altri apostoli sono
testimoni, ma nel fatto di legare il pentimento e la conversione al
riconoscimento dell’agire di Dio in quell’Uomo che è stato rinnegato,
condannato, messo a morte e ora glorificato. Nel riconoscere che Gesù è stato
condannato e messo a morte c’è tutta l’ammissione di colpevolezza nei confronti
di Dio di cui si è disprezzato l’amore e perciò il cuore si addolora
profondamente (risuona allora con tutt’altro significato il versetto:
“Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, Gv 19,37), ma per aprirsi
al riconoscimento che l’amore di Dio è davvero grande e poter dire, davanti al
‘crocifisso’: questi è davvero il re della gloria, il testimone dello splendore
dell’amore di Dio che salva e nella cui energia anche noi possiamo ora vivere.
A questo punto la rivelazione del Risorto ci partecipa la potenza della sua
risurrezione. In effetti, è guardando con dolore e tenerezza a Colui che è
stato trafitto che possiamo specchiarci e ritrovare la nostra verità: di uomini
peccatori, che non hanno voluto tener in conto l’alleanza di Dio, che hanno
disprezzato il suo amore e contemporaneamente di uomini redenti, che finalmente
vedono l’amore di Dio riversarsi su di loro e fornire loro nuove coordinate di
esistenza.
In funzione di
tale intima percezione, per provocarla e per convalidarla, la chiesa legge le
Scritture, le proclama in tutte le sue liturgie, le vive come guida alla
partecipazione della potenza della risurrezione. E’ assolutamente significativo
che solo di Gesù Risorto si dica che “allora aprì loro la mente
all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45), quando tutto ciò che lo
riguardava fu portato a compimento. Prima le Scritture non potevano essere
totalmente aperte. E anche ora, benché in Lui siano aperte, in qualche modo
restano pur sempre velate perché ancora non sono compiute tutte le cose
riguardo al Corpo di Cristo, capo e membra insieme. Mancano ancora le
‘sofferenze’ di coloro che nel suo nome testimoniano l’amore di Dio agli uomini
e quindi manca ancora qualcosa all’irraggiamento dello splendore dell’amore di
Dio sugli uomini e perciò manca ancora qualcosa all’intelligenza delle
Scritture, che di quell’amore sono la manifestazione. E se questo vale per
tutta la chiesa vale anche per ciascuno di noi. Quando il Signore ritornerà
rivelerà definitivamente le Scritture perché tutto apparirà nella sua gloria,
nello splendore del suo amore ormai compiuto per tutti e per ciascuno. Le
sofferenze subite, come le cicatrici nel corpo del Cristo, non esprimeranno più
il prezzo dell’amore, ma solo la gloria dell’amore. Ed è necessario che prezzo
e gloria si riferiscano allo stesso corpo, alla stessa persona, agli stessi
eventi, finalmente assolutamente aperti all’intelligenza dei cuori.
Un ultimo
particolare. Gesù, per mostrare la veridicità del suo corpo glorioso, mangia
perfino una porzione di pesce arrostito davanti ai discepoli esterrefatti. Il
corpo glorioso ingloba nella sua dimensione ciò di per sé appartiene ad
un’altra. Il cibo terreno non porta alla dimensione terrena il corpo che lo
assume in uno stato di gloria. Pur fatte le debite distinzioni, questo è
appunto il mistero dell’eucaristia. Quando l’uomo mangia il pane eucaristico,
non è lui a inglobare il corpo di Cristo, ma è il Corpo di Cristo che assimila
l’uomo che lo mangia. E’ il Vivente che assume in Lui noi vivi, ma ancora corruttibili,
fino a portarci alla sua dimensione, fino a farci vivere dello splendore di
quell’amore che viene da Dio che non devia più dal suo scopo, quello cioè di
attrarre tutti e tutto in esso.