Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
Ordinario
8a Domenica
(26 febbraio
2006)
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Os 2,16-22;
Sal 102; 2Cor 3,1-6; Mc 2,18-22
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Il comportamento
di Gesù, in qualche modo, inquieta sempre; non è così facilmente omologabile.
D’altro canto, non lo si può nemmeno semplicemente condannare. Il suo agire fa
trasparire qualcosa d’altro, qualcosa di più misterioso, capace di accendere la
discussione, di scombinare le convinzioni, di suscitare domande, di interessare
la sensibilità dei cuori, di aprire orizzonti insospettati. Nel brano di oggi
il pretesto del confronto con lui è desunto dalla pratica del digiuno. Sembrava
ovvio che il digiuno fosse una pratica gradita a Dio, ma lui non induce i suoi
discepoli a osservarla. Tutti vedono questo e si domandano il perché. Come
sempre, la risposta di Gesù allude al mistero della sua persona e non verte
affatto sul contenzioso legale, come se Gesù dovesse giustificarsi davanti ai
cultori della legge o dovesse pronunciarsi sul fatto che la pratica del digiuno
fosse o meno raccomandabile. E’ evidente che il digiuno sia cosa buona. Ma
allora perché lui non lo fa praticare?
Il nostro brano
è da leggere in rapporto diretto alla pericope che lo precede allorché Gesù,
dopo aver chiamato Levi il pubblicano (il futuro apostolo ed evangelista
Matteo), va a mangiare a casa sua insieme ai pubblicani, tanto da far
discutere: “Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei
peccatori?”. In quell’occasione Gesù risponde: “Non sono i sani che hanno bisogno
del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i
peccatori”. Quando il vangelo riporta di Gesù che è ‘venuto per’ intende
alludere al fatto che è stato inviato da Dio per, che quello che sta dicendo è
voluto espressamente da Dio, che quello che va illustrando rivela il disegno di
salvezza di Dio che si compie, che in quello che va svelando si gusta l’amore
sconfinato di Dio per l’uomo. E’ poi estremamente significativo che Gesù riveli
qualcosa di sé in rapporto al Padre in un contesto di banchetto, in casa, a
tavola. Molte volte Gesù illustra i misteri del Regno a tavola, mentre si
mangia (dal primo miracolo alle nozze di Cana fino al discorso dell’Ultima
Cena); e molte volte usa l’immagine del banchetto nuziale, dello sposo che invita
al banchetto.
Gesù è lo sposo
per il quale si imbandisce il banchetto a cui tutti siamo invitati. Dire che
Gesù è lo sposo significa dire che Dio si sposa con l’umanità, e cioè che Dio
compie la sua gioia tenendosi unita a lui tutta l’umanità e che l’umanità
realizza i suoi desideri nella comunione con il suo Dio. Il fatto è così
tremendamente e potentemente reale che tutto cambia, tutto si rinnova, tutto
non può più stare come prima, la vita acquista una potenza tale da rinnovare
totalmente coloro che ne diventano portatori. Qui si innesta la discussione sul
digiuno e l’osservazione che il nuovo non può stare nel vecchio. Non però nel
senso che con Gesù il digiuno sarebbe allora abolito (poverini, i santi, povera
chiesa che ha sempre consigliato il digiuno!!!) e che il vecchio, la legge,
deve far posto al nuovo, lo Spirito. Esprimeremmo solo presunzione, non novità
di vita! Si tratta, più semplicemente e più potentemente, di far posto
all’amore di Dio che irrompe nella nostra umanità e seguirne le dinamiche, i
misteri, le rivelazioni, per realizzare appunto la nostra ‘vocazione’
all’umanità, di cui solo Dio custodisce il segreto. Ogni pratica devota tende a
godere della presenza dello Sposo e non si può godere la sua presenza che
insieme a tutti gli altri invitati.
Se riprendiamo
la lettura di Osea in questa prospettiva, riusciamo ad afferrare tutta la
portata di quella realtà. Il profeta parla di Dio che vuole attirare la
comunità del suo popolo, vuole renderla sposa sua, vuole che lei lo conosca. I
termini che usa il profeta non suonano semplicemente affettuosi come la
traduzione italiana cerca di rendere; sono termini ‘amorosi’, tipici della
relazione amorosa tra un uomo e una donna, termini che rivelano la passione e
l’intimità goduta. ‘Attirare’ va reso con ‘sedurre’; ‘parlare al cuore’ va reso
con ‘parlare sul cuore, in un rapporto di intimità’; ‘là canterà’ va reso con
‘là risponderà, là si concederà, come una donna si dà al marito’. La cosa poi
più straordinaria è data dal fatto che i termini usati si addicono al rapporto
di un uomo con una donna vergine e non con una donna che sia già stata sposata.
Questo particolare rivela la singolarità, così umanamente desiderabile, ma
tipica in assoluto solo dell’amore di Dio per l’uomo. L’amore di Dio rende ‘vergine’
chi non lo è più. Quando cancella i peccati, rende ‘nuovi’, tanto sconfinato e
potente è il suo amore. Solo Dio può fare questo e l’uomo, che anela
all’innocenza perduta quando ama, sente rinnovata la sua umanità fin nelle
radici e capisce che lo deve solo alla iniziativa di Dio. E’ il ‘nuovo’ che
Gesù porta; non il nuovo che scalza il vecchio, ma il nuovo capace di far
‘nuovi’; il nuovo come dinamica di vita che scaturisce direttamente da Dio e
trasfigura, compiendola, l’umanità; il nuovo come nuova capacità di amare, in
Cristo. Lo sottolinea il canto al vangelo preso dalla lettera di Giacomo 1,18:
“Nella grandezza del suo amore il Padre ci ha generati con una parola di
verità, perché fossimo primizia delle sue creature”.