Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
Ordinario
31a Domenica
(5 novembre
2006)
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Dt
6,2-6; sal 17; Eb 7,23-28;
Mc 12,28-34
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Il brano del
vangelo di Marco comporta una particolarità unica nei vangeli. È l’unico passo
di tutto il vangelo in cui Gesù si congratula con uno scriba. Quello scriba,
che alla fine riceve l’elogio di Gesù: ‘Non
sei lontano dal regno di Dio’, aveva assistito alla discussione di Gesù con
i sadducei a proposito della risurrezione dei morti. Aveva certamente notato
che la forza del ragionamento di Gesù si basava sul fatto che Dio era
proclamato Dio dei vivi: “Non avete letto
nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono
il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi!”.
Se Dio è Dio dei vivi, vuol dire allora che la morte non costituisce barriera
per Lui; vuol dire che la morte non distrugge la Sua fedeltà che tutto
sovrasta. Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa che il cuore
enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore che arriva all’uomo
nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme la nostra
storia. Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si
arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza. Più ci si
percepisce dentro quella storia di salvezza e più la proclamazione di Dio è
assoluta e coinvolgente. È appunto quel Dio così esperito che merita di essere amato
con tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.
L’espressione
del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio
con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” ricorda che
‘nostro/mio’ ed ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza. Secondo la
bellissima espressione di Origene tale è la dinamica della nostra crescita
spirituale: “Magari venisse concessa
anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio
allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe,
in Cristo Gesù, Signore nostro”.
Gesù,
rispondendo allo scriba, cita proprio quel passo, che costituisce la
confessione di fede del pio israelita, la parte più solenne della preghiera
quotidiana di ogni ebreo praticante: “Ascolta,
Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il
Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.
Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di
Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende
vigore il mio cuore. In Dio l’uomo scopre le sue radici. ‘Il Signore è il
nostro Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo
riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una
solidarietà. E’ il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro
il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che
Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo
raggiunto dall’agire di Dio. Quindi: ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso
rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il
comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso ad un
segreto, ad un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso
leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della
rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della
passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della
possibilità finalmente di viverli compiutamente. Ma come è possibile se non
riusciamo a percepirci prima raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un
amore che ci precede? La ‘scoperta’ della fede in Gesù si colloca proprio
dentro quella prospettiva. È per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia
di quella scoperta, viene elogiato.
Del resto, nella
risposta di Gesù viene descritto tutto il movimento di intelligenza delle
Scritture, che non può non portare a far condividere con tutti quello che ormai
è percepito come il tesoro del cuore, per cui dal primo comandamento si passa
direttamente al secondo, quello dell’amore del prossimo. Non però nel senso che
l’amore per l’uomo è parallelo, per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso
che l’amore per l’uomo non sarà totale che a partire dall’amore per Dio. La
fede è sempre all’origine della carità, sebbene sia la carità a verificare la
sincerità della fede. Così tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito
e che è tesa a mostrare il mistero della fraternità come rivelazione della
presenza di Dio nel mondo, parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù,
si fa comunione di vita con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa
la scoperta di quel che comporta l’incontro col Signore Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati
e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da
me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il
mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30); poi si
compie in noi la sua promessa, come viene proclamato nel canto al vangelo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li
osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò
e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio
lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv
14,21.23). Consapevoli sempre che “Chi
rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far
nulla” (Gv 15,5).