Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
Ordinario
22a Domenica
(3 settembre
2006)
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Deut
4,1-8; Sal 14; Gc 1,17-27;
Mc 7,1-23
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Se, come
proclama il versetto responsoriale, ‘i puri di cuore abiteranno nella casa del
Signore’, perché stupirci di non sentirci a nostro agio nella sua casa, di non
riuscire mai ad esserci per davvero o di non risiedervi stabilmente? Se Dio
guarda il cuore, perché noi invece ci perdiamo nell’illusione dei nostri
meriti?
Potremmo
considerare da questo punto di vista le letture di oggi. Tutte richiamano il
valore fondante della parola di Dio, del suo comandamento, per la vita
dell’uomo. Nel libro del Deuteronomio Mosè avverte: “Ora dunque, Israele,
ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica,
perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri
padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne
toglierete nulla”. Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il
guaio proviene dal fatto che la nostra ‘pratica’ proviene spesso, non dal
comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, imposizioni,
obblighi, impegni, esclusivamente ‘umani’, che comunque non hanno a che vedere
con il vero e proprio comandamento di Dio. Così, la promessa di trovare la vita
ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno
dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è
abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il
comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso,
non ha nulla a che vedere con il cuore. Tutto il discorso di Gesù verte appunto
sulla contrapposizione: comandamento di Dio/tradizione umana (“Trascurando il
comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”) e, di
conseguenza, sulla purità o meno del cuore.
Ben a proposito,
rispetto al comandamento di Dio, la Scrittura dice: non aggiungere, né
togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un
comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un ‘comandamento’,
quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione
midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di
Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si
noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne
mangiassi, certamente moriresti”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto
dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e
non lo dovete toccare, altrimenti morirete” . Eva aveva provato a toccare il
frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha
detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso mangiare per avere la
conoscenza…! Ed incontra la morte. L’esortazione di Paolo a Timoteo è quanto mai
essenziale: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il
comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo…” (1 Tim
6,14). Custodire cioè il comandamento così come è nell’intenzione di Dio,
perché il cuore abbia la vita ed erediti il mistero del regno dei cieli: questo
significa ‘fino alla manifestazione del Signore Gesù’, che non va riferito
all’al di là, bensì alla rivelazione del volto del Signore al nostro cuore ora.
L’aspetto
misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela
la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza
la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della
parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla
parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di
comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al
mio cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in
pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire
per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso
che prima devo poter cogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge
fidandomi del suo amore. E’ per questo che, continuando la lettura del brano
del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma guardati e guardati bene dal
dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore,
per tutto il tempo della tua vita”. L’accento è così posto sul fatto di ‘far
memoria delle parole che si sono viste’ (il testo dovrebbe essere tradotto
infatti più letteralmente: ‘guardati bene dal dimenticare le parole che i tuoi
occhi hanno visto’). L’accento cade sulla sincerità del cuore che si trova
dentro una storia d’amore che lo precede e l’accompagna e a cui risponde e non
sulla sua generosità. Cosa significa ‘vedere’ le parole? Significa aver accolto
la parola per metterla in pratica e avanzare in quella realizzazione di umanità
che fa risplendere la prossimità di Dio. La liturgia ha ben collocato, a
commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14, il quale riassume la
sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare
lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi
fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la
coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di
più di qualsiasi pratica umana, pur grandiosa, perché in questo risplende la
vicinanza di Dio.