Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
Ordinario
21a Domenica
(27 agosto
2006)
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Gs 24,1-18;
Sal 33; Ef 5,21-32; Gv 6, 60-69
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Gesù termina il
suo discorso nella sinagoga di Cafarnao. L’esito è drammatico; molti lo
abbandonano: ‘questo linguaggio è duro’. Le attese riposte in quel Maestro sono
andate deluse. Gesù, a dire il vero, non si scompone e rilancia: “questo vi
scandalizza?” e, rivolto agli apostoli: “volete andarvene anche voi?”.
Ecco il
problema: l’uomo può scandalizzarsi di Dio; facilmente l’uomo si scandalizza di
Dio. Non è facile spiegare perché avviene, ma avviene facilmente. Forse la
ragione la svela la prima lettura tratta dal libro di Giosuè. Il popolo
d’Israele era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla
schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di
coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, la loro
guida, ad eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora
di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si deve servire?
Nel linguaggio della Scrittura ‘servire Dio’ allude a un rapporto gioioso e
liberatorio che esalta le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù
quotidiane e all’oppressione del male. Quale dio servire? E’ la scelta del
cuore dell’uomo, sebbene spesso la scelta risulti come obbligata dall’inerzia
stessa della vita: prendi quello che risulta più comodo o più facile o più
conveniente o più interessato. Ma il ‘servizio’ funziona in ragione della
continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. Ma di quale verità ci
si vuol nutrire?
Molto bella la
presa di posizione del popolo, dopo la confessione di fede di Giosuè e della
sua famiglia: “Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il
nostro Dio”. ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha
mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In
quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri, ma
soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi.
Verità ripresa dal ritornello del salmo responsoriale: ‘il Signore è vicino a
chi lo serve’, cioè il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella
sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi.
Lo scandalo
produce il tirarsi indietro, come nel brano di vangelo proclamato, che
letteralmente si dovrebbe tradurre come un venir meno, un andar via dallo star
dietro a Gesù e quindi un non voler più camminare insieme a lui. Anche Pietro e
gli apostoli non comprendono le parole di Gesù, ma non si scandalizzano;
continuano a andargli dietro. C’è ancora molta distanza tra la confessione di
Pietro e la confessione che farà Tommaso all’apparizione del Risorto: “Mio
Signore e mio Dio!” (Gv 20,28) quando ormai tutto il mistero della persona di
Gesù si era rivelato e aveva convinto i cuori dal di dentro. Ma si trova sulla
stessa linea.
Due particolari
fanno riflettere. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non
riduce il Dono di Dio, non ‘banalizza’ il suo mistero. Svela i vari aspetti del
suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio
non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua
maggiore prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del
mistero, ma sul dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini
da dare il suo Figlio unigenito…”. Ciò che è da cogliere è questa ‘intenzione’
di Dio, che va diritta al cuore. Quando la moltitudine lo abbandona e Gesù si
rivolge agli apostoli: “Forse anche voi volete andarvene?”, Pietro risponde:
“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e
conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Pietro non si esprime in merito al discorso
che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della
Sua persona per il suo cuore perché intuisce che da qui viene la vita.
Ma c’è un
secondo particolare, ancora più misterioso. Il brano finisce con l’allusione al
tradimento di Giuda, nonostante che la scelta di Giuda sia stata fatta dallo
stesso Gesù. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che
cosa gli uomini sono responsabili del suo rifiuto? E’ Dio a scegliere, ma la
sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi
dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione
della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede
esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e
attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga.
La scelta di Dio
non comporta perciò l’esito scontato. E’ il dramma che segna tanto Dio (che
resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di
Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore
di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché
il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che
hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita,
cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla
solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere
nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai
suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio
sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. E’
lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena,
intrisa di gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano.