Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
Ordinario
20a Domenica
(20 agosto
2006)
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Prov
9,1-6; sal 33; Ef 5,15-20;
Gv 6, 51-58
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Continua la
proclamazione del cap. 6 di Giovanni. Ma oggi la liturgia ci addita una
particolare finestra di luce per cogliere il senso del discorso-rivelazione di
Gesù. ‘Non siate scemi’, ci ripetono la prima e la seconda lettura:
“abbandonate la stoltezza” (Pro 9,6); “non siate inconsiderati” (Ef 5,17).
L’intelligenza della vita! Appare desiderabile, chi non la vuole? Non è
segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari.
Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la
gradirebbe sempre.
In particolare,
la lettera agli Efesini sottolinea il punto esatto dove cercarla. Si tratta di
essere ‘intelligenti di Dio’; si tratta di essere ‘intelligenti della volontà
di Dio’. Non pensiamo però che si tratti prima di tutto di scoprire cosa Dio
vuole da noi; piuttosto, di scoprire quanto bene Dio ci vuole, tutto il Bene
che sta nascosto nelle sue parole, nelle sue iniziative, nel suo Figlio che per
noi si fa cibo e bevanda di vita. Per questo Paolo parla di imparare a essere
‘pieni di Spirito Santo’ e indica tre vie: la preghiera, il rendimento di
grazie, lo stare sottomessi gli uni agli altri. “…siate ricolmi dello Spirito,
intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e
inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie
per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Siate
sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,18-21). Purtroppo le
edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e
suona così: "...rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre,
nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di
Cristo". Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di
imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie
esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare
sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro
più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c'è tutto il
tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è
boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno
che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere
continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) grazie e di stare
sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando
pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri
difetti.
Dalla
prospettiva di questa ‘intelligenza di Dio’, le parole di Gesù suonano con
tutt’altro accento. A conclusione del suo discorso, Gesù riassume in tre
passaggi la rivelazione della volontà di Bene di Dio per l’uomo che in Lui si
compie: avere la vita, dimorare in lui, vivere per lui. Tutte realtà che
solamente coloro che accettano di mangiare la carne del Figlio dell’uomo
possono ereditare. Espressione più forte Gesù non poteva usare: ‘chi mangia la
mia carne…’. Tuttavia la rivelazione non è assurda. Nel capitolo precedente,
Gesù aveva discusso con i farisei a proposito delle Scritture: “Voi scrutate le
Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse
che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita”
(Gv 5,39-40). Si leggono le Scritture per avere la vita. Ma le Scritture non
parlano proprio di Gesù, del Figlio dell’uomo che sigilla definitivamente la
volontà di Bene di Dio per l’uomo? Leggere le Scritture è come un mangiare,
mangiare per avere la vita, per vivere in modo desiderabile e bello. Ma se le
Scritture parlano di Gesù, allora leggerle è come un mangiare Gesù, per avere
la vita, perché, dice ancora Giovanni: “Questa è la vita eterna: che conoscano
te, l' unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).
Offrendo come cibo il suo stesso Corpo, con l’eucaristia, Gesù non fa che
radicalizzare la rivelazione delle Scritture.
Come una parola
mangiata resta nel nostro cuore, così chi mangia il Corpo del Signore dimora in
Lui. Sarà la logica della similitudine della vite (cfr Gv 15): lui dimora in me
e io in lui, fino a poter dire con s. Paolo: “non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Dimorare allude
alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore
partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio
dell’uomo, splendore dell’amore di Dio. E così, se l’uomo vuole la vita e
dimora nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti
quell’amore che gli si è rivelato in quel Gesù, che ha accolto nel suo cuore
come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità,
principio di vita vera che riempie il suo desiderio.