Secondo ciclo

Anno liturgico B (2005-2006)

Tempo Ordinario

 

16a Domenica

(23 luglio 2006)

 

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Ger 23,1-6;  Sal 22;  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

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L’immagine che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi è quella del pastore. Nel brano di Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù Colui che adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’.

Partiamo dal brano di vangelo. Come sempre i particolari sono misteriosi. Gesù si mette a insegnare alla gente e per lungo tempo, dopo che ‘si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore’. In quella commozione c’è tutta la compassione di Gesù per l’umanità, che è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. Il brano fa parte del racconto della missione degli apostoli, racconto che era iniziato proprio con l’annotazione che Gesù ‘sentì compassione’ (cfr Mt 9,36) e si chiude con l’annuncio eucaristico, simboleggiato dal miracolo della moltiplicazione dei pani, introdotto con la commozione di Gesù davanti alle folle. È in quella 'compassione' che prendono senso e valore tutti i gesti e le parole di Gesù per noi, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra. Per il nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire almeno gli echi di quella compassione.   E se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: "Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,28-30). E ancora perché sa che se il cuore dell'uomo cerca questo ristoro e se non lo trova è perché si illude di cercarlo fuori di Lui. Così, quando Gesù, mosso dalla sua compassione, invita i discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non solo perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Compassione nella quale si riconosce l'amore del Padre. E gli operai che lavorassero in questa messe immensa senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il riflesso dell' amore e della compassione di Dio per gli uomini senza la preghiera? Per questo Gesù fa pregare, trattiene in disparte gli apostoli, li tiene in sua compagnia.

Un altro particolare del brano apre orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. Il vangelo si interessa forse della salute degli apostoli? L’accenno al ‘riposarsi’ è più misterioso. Il termine è lo stesso che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e troverete ristoro per le vostre anime”. Quel ‘ristoro’ corrisponde al movimento della sua compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo, agitato, tormentato, sfinito, finalmente si riposi. Ma quel ‘riposo’ pesca nel riposo di Dio il settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. E quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’. Identica allusione nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” ? (Mt 11,28-31). Ristorerò = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace, riposo. E quella umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.

Quando Gesù aveva inviato gli apostoli in missione, li aveva forniti delle stesse sue prerogative: 'diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità'. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato', un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla sterminata, tema della liturgia di domenica prossima.