Secondo
ciclo
Anno
liturgico B (2005-2006)
Tempo
Ordinario
14a Domenica
(9 luglio
2006)
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Ez
2,2-5; Sal 122; 2 Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
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La meraviglia di
Gesù fotografa bene l’atteggiamento dei nostri cuori: “E si meravigliava della
loro incredulità”. Da dove proveniva nei
suoi concittadini una tale diffidenza nei suoi confronti? Gesù sembra liquidare
la cosa con l’allusione a un proverbio o a un detto delle Scritture (‘nemo
propheta in patria’) ma non ci sono riscontri in tal senso. Tutti i vangeli
riportano l’annotazione della incomprensione da parte dei suoi. Evidentemente
l’episodio di Nazaret è risultato significativo nella vicenda umana di Gesù,
non tanto quanto ai suoi sentimenti, quanto invece allo stile di predicazione.
Il suo progetto di rivolgersi alle folle era fallito; avrebbe allora cambiato
stile e si sarebbe dedicato più direttamente al gruppo dei discepoli, puntando
decisamente ad arrivare a Gerusalemme dove si sarebbe consumata la sua
missione. Resta comunque singolare la diffidenza dei suoi concittadini,
diffidenza che nel racconto degli evangelisti diventa emblematica
dell’atteggiamento dei cuori nei suoi confronti. Così la liturgia di oggi
interpreta il passo evangelico, che viene appunto introdotto dal canto al
vangelo: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi. A
quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Sono le
parole conclusive del prologo del vangelo di Giovanni.
Almeno due
annotazioni si impongono. Primo, c’è l’assicurazione da parte di Dio che non fa
mancare la sua presenza, che mantiene la sua promessa di stare con il suo
popolo e dalla parte del suo popolo, che offre comunque la possibilità della
comunione con Lui, a tutti i costi, nonostante la diffidenza nei suoi
confronti. Secondo, non è così agevole scorgere tale presenza, non è scontata,
non è immediata ed evidente, come i profeti hanno sempre dichiarato: “Perché i
miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie -
oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is
55,8-9). L’assicurazione da parte di Dio è comprovata dal fatto che, se Gesù si
meraviglia della incredulità dei suoi concittadini, la sua meraviglia si
traduce sempre in fantasia di prossimità per l’uomo, alla ricerca di sempre
nuove situazioni, occasioni, possibilità di incontro e dunque di offerta di
comunione. A differenza della meraviglia dei suoi concittadini che da
diffidenza si tramuta in ostilità tanto che Gesù dovrà fuggire (cfr Lc
4,28-30).
Dire che il
Verbo ha posto la sua dimora in mezzo a noi non significa soltanto affermare
che Dio ci accompagna, ma anche che senza Dio la nostra umanità non può
risplendere, che senza Dio i nostri sogni perdono consistenza e grandezza, si
risolvono in illusioni e angosce. La ragione risiede nel fatto che questo porre
la sua dimora tra noi ha lo scopo di comunicarci il potere di diventare figli
di Dio, cioè di poter essere solidali con Gesù, Figlio di Dio, lungo tutta la
possibile traiettoria della vocazione all’umanità che caratterizza tutto
l’agire dell’uomo nella storia, umanità di cui Lui detiene il segreto, di cui
Lui mostra lo splendore, per cui Lui dà il potere di viverne l’orizzonte infinito,
su scala divina. Tanto che la diffidenza nei suoi confronti nasconde sempre la
diffidenza nei confronti della nostra stessa umanità, come se, per paura, ci
impedissimo di viverne tutti gli esiti possibili.
Così, quando il
salmo 122 proclama: “i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché
abbia pietà di noi” si può intendere: i nostri cuori anelano a scoprire la
beatitudine della vita come soltanto da Dio può essere svelato; all’inizio non
vogliamo crederci, perché colmi delle nostre illusioni e vanterie, ma poi,
ormai sazi delle ferite collezionate, ci decidiamo a rivolgerci a Colui che
quelle ferite ha subito per toglierci dall’illusione; lo supplichiamo allora
perché la sua promessa di vita ci raggiunga, perché quell’umanità che in Lui ammiriamo,
piena dello splendore di Dio, ci appartenga e così scopriamo di essere figli di
Dio, poveri di noi perché ricchi di Lui. Supplicare finché Dio abbia pietà di
noi significa appunto volgerci a Lui finché Lui non ci accordi la beatitudine
della vita, finché Lui non ci includa nel dono della Sua umanità.
In questo senso
si possono leggere anche le parole di Paolo ai corinti: “Mi vanterò quindi ben
volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Ciò
che costituisce la nostra dignità, ciò che rende la vita desiderabile, ciò che
fa risplendere la nostra umanità è
appunto la reale possibilità, in Cristo, di diventare figli di Dio, solidali
con Lui in tutto. Non è più necessario far leva sulle proprie qualità, che
spesso sono vissute nel confronto con gli altri, creando quindi distanza tra
gli uomini, perché ciò che si è scoperto è immensamente più prezioso di tutto
quello di cui ci potremmo vantare e così bello che la vita ormai viene accolta
come l’occasione di condividere tale bellezza.