Secondo ciclo

Anno liturgico B (2005-2006)

Tempo di Natale

 

Epifania

(6 gennaio 2006)

 

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Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-6; Mt 2,1-12

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“Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi” è il ritornello della liturgia natalizia. Il mondo non si è accorto di nulla ma chi ha ricevuto la grazia di poter vedere non ha potuto frenare la gioia e in quella gioia ha sentito tutta la grandezza dell’amore di Dio, tutta la bellezza della creazione, il senso e lo scopo di tutta la storia umana. La storia dell’uomo è oramai visibilmente storia di Dio, storia divina. Se davvero l’uomo è fatto su Dio e per Dio, allora l’argomentazione dell’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo suona stringente: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Lui è la Verità su Dio e Dio ormai non è che il Padre del Signore Gesù Cristo e se vogliamo accedere a tale Padre, il Figlio è la via. Ma la verità su Dio comporta la verità sull’uomo e perciò: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo nome, i quali … da Dio sono stati generati”. Il Signore Gesù Cristo, con il dono del Suo Spirito, di cui la gloria che gli angeli rivelano  ai pastori è come un rimando, ci fa fruitori di quello sguardo di compiacenza del Padre su di Lui (“Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”, Mt 3,17). Ecco perciò la verità dell’incarnazione: Dio si fa uomo perché l’uomo possa farsi Dio. E si può commentare: quello che Dio da sempre ha sognato ( “in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo …” ), cioè di unire a Sé l’uomo per farlo partecipe della sua gioia nell’amore scambievole, nel Cristo finalmente si realizza. In Lui divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più ‘svelato’ con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

 

Con l’adorazione dei Magi il mistero è rivelato alle genti, perché a loro appartiene. La tradizione ha fissato il simbolismo dei tre doni: l’oro al Re, l’incenso al Sommo Sacerdote eterno, la mirra per la sua sepoltura. E Leone Magno, nelle sue bellissime omelie sull’Epifania, attualizza così il significato simbolico dei tre doni: chi viene al Cristo, offre l’oro dal tesoro del suo cuore quando lo riconosce re di tutte le creature, offre la mirra quando crede che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto una vera natura di uomo ed offre l’incenso quando lo confessa uguale al Padre.

Quanti particolari del racconto evangelico si aprono come finestrelle di luce su quello stesso mistero! I Magi, persone colte e osservatrici degli astri, vedono sorgere una stella, fenomeno che interpretano come l’arrivo di un grande re in Giudea e decidono di venire a cercarlo. La strada per la Giudea la conoscono ed il testo non dice che la stella li guidava. Solo dopo aver ricevuto la conferma della profezia da Israele che un re sarebbe nato a Betlemme, ricompare la stella e li precede fin là. E quando devono ritornare indietro, cambiano strada. Intanto notiamo il contrasto: i Magi si sono mossi, senza sapere bene dove andare, mentre Israele conosce la profezia riguardo al bambino che deve nascere, ma non si muove; i Magi sono nella gioia, Gerusalemme nel turbamento. I Magi sono partiti perché spinti dal cielo, ma si affidano alle Scritture di Israele per conoscere il luogo di nascita del nuovo re e solo dopo essersi affidati alla parola rivelata ricompare la stella del cielo che conferma loro la profezia; dopo aver riconosciuto il nuovo re, ritornano al loro paese, ma per altra strada, come ad indicare che nulla è più come prima, si ritorna alle stesse cose ma non è più la stessa cosa. Come per i pastori che, dopo aver udito e visto, glorificano e lodano Dio tornando a casa loro, a sottolineare che un cuore convertito al Signore possiede una luce e un sapore prima sconosciuti. Non è forse la stessa situazione dell’uomo di fronte al desiderio di infinito che porta dentro? Se va a cercare la ‘Parola’ è perché questo desiderio lo rode e se si lascia condurre da questo desiderio non solo trova la ‘parola’, ma ritrova la gioia di quel desiderio che l’accompagna nella ‘pratica della parola’ fino a trasformare tutto il suo cuore e a volgerlo in perenne adorazione e nei pensieri e nella vita. Il brano finisce con l’accenno alla strage di Erode. La presenza del dramma non è lì a gettare una luce fosca sull’idillio appena descritto, ma prelude al dramma finale della vita di quel bambino che, morendo in croce e poi risuscitando, rivela la gloria dell’amore di Dio per l’uomo che non si arresta e non devia dai suoi progetti di fronte all’ingiustizia, che anzi fa diventare proprio luogo di rivelazione del Suo amore.