Anno liturgico B  – 2023 / 2024


Mi chiedo dove si agganci questo immenso flusso della storia umana che si affatica ad attingere la vita e fuggire dal senso di morte. Un flusso che ripresenta costantemente tutti i drammi personali e sociali, luogo di speranze disattese, della tracotanza (hybris) umana che presume di fare e disfare finanche la divinità, per poi ritrovarsi ogni volta con un “pugno di mosche” e ricostruire dalle macerie.

I nostri ultimi anni, tra pandemia, crisi finanziarie e di interi sistemi economici, guerra in Europa e ancora guerra nella terra prescelta per la Rivelazione è come se volessero convincerci della insanabilità, dell’impossibilità di salvare questo essere speciale, ma perduto. Non c’è pace, non c’è gioia, non c’è liberazione.

Però il centro, il cuore della storia, il manzoniano sugo della storia, ci deve costringere anche solo un attimo a sciogliere il nostro irrigidito centro per aprirci a incontrare Colui che ci ha sempre aspettati, è stato, in definitiva, sempre vicino a noi, mentre non ce ne curavamo minimamente.

Come ci suggerisce p. Elia nelle sue piccole perle mattutine (meditazioni quotidiane sulla Parola): “la passione/morte/risurrezione di Gesù sta al centro della storia, concepita fin dall’inizio del mondo come il senso stesso della storia. Il mondo non è che la storia dell’amore di Dio per l’uomo sigillata dal riversare la vita nella morte da parte del Figlio di Dio fatto uomo. Di fronte a tale suprema realtà, ogni evento non ha che lo scopo di assimilarne la verità. La drammaticità degli eventi deriva dal fatto che la verità dell’amore si gioca come l’affermazione della vita nella morte”.

Tutto ciò potrebbe apparire astratto e un po’ consolatorio, ma noi che cosa perseguiamo per davvero? C’eravamo noi alla creazione del mondo?; ci siamo intessuti nel seno di nostra madre?; siamo causa dell’essere di tutte le cose, di noi stessi, degli eventi? Soprattutto quando pensiamo alla nostra autonomia, alla nostra giustizia, otteniamo soluzioni vere? P. Elia direbbe: “non ci sono soluzioni da perseguire. C’è invece il dramma da vivere, e da vivere nella testimonianza di Gesù”.

Ma se io sono oppresso e recalcitro a ogni piccola o grande difficoltà o male che mi viene incontro, perché continuo, anche se non lo voglio ammettere e mi nascondo, a nutrire una profondissima nostalgia che si annida nelle nascoste stanze del cuore? Non è l’amore vero a nutrire la nostra ulteriore opportunità che si avvia ogni giorno che riapriamo gli occhi dopo la notte? Sennò perché svegliarsi al mattino? Perché ricominciare nelle fatiche che ci attendono e gli impegni cui dobbiamo rispondere?

Quella nostalgia è il nostro campanello, è il nostro campanile interiore che suona a varie ore e con varie tonalità e note e ci rimanda a quanto sempre p. Elia dice: “l’amore che vi ho mostrato fatelo splendere nel mondo finché tutto il mondo ne sia conquistato. La conquista non sta nella soluzione del dramma, ma nel fatto di vivere il dramma nell’amore. Non c’è evento, situazione, esteriore e interiore, che non possa essere vissuta nell’amore”.

Enormità che ci attrae perché cogliamo che alla fin fine è proprio lì che possiamo ritrovare la gioia.

Se rifiutiamo è per dar sostegno alle nostre ragioni, grandi o piccole che siano; come esorta p. Elia: “Potessimo lasciarci smascherare nella nostra ipocrisia di devozione dalle parole di Gesù, conosceremmo subito la gioia! La gioia del bene goduto”.

Quel che conta allora è l’essere al cospetto di Colui che appunto è il centro e la rivelazione di ogni cosa, che ha sete di noi per condurci alla fonte di vita piena che solo Lui può regalare.

La vita umana può fiorire solo se ogni istante, ogni circostanza è guardata con gli occhi di Dio e non con le nostre lenti deformanti. Tutti i nostri desideri siano volti al Signore Gesù Cristo ‘nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza’ (Col. 2,3) e come ricorda la premessa della regola di vita dei Fratelli Contemplativi di Gesù: procuriamo in ogni modo di custodire le sue parole perché per mezzo del suo Spirito possiamo ricevere il dono della rivelazione del Padre. Sia questo l’anelito del nostro vivere in comune la ricerca di Dio.

In tal modo impariamo ad essere ‘servi inutili’ e contenti. Per dirla con p. Elia: “a dire il vero non è che il servo sia inutile, perché il suo compito lo esegue e serve al padrone. È inutile nel senso di non avere titoli di preferenza o di diritti presso il suo padrone. Nell’esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla. Il vero servo è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza”.

Il filo conduttore di tutto ciò fa vivere in pace, la vera pace che ci fa riposare nell’amore e quindi genera una gioia profonda anche nelle avversità. A quel punto la nostra vita è davvero libera, libera dal male e intangibile nel luogo più profondo dell’essere. Il regno è qui in mezzo a noi e dentro di noi.

Si potrebbe concludere con questa riflessione di p. Elia su cosa sia il vivere in pienezza: “Ora, vivere in pienezza è tutta la gioia del cuore dell’uomo che si può riposare nell’amore. Quando si prega, cosa si domanda se non questa pienezza di vita? E il segnale di questa vita piena, abbondante, non è dato dalla gioia? La stessa gioia dell’umanità di Gesù che, non separandosi mai dal Padre e dai suoi fratelli in umanità, fa godere l’amore di Dio. La gioia poi è direttamente proporzionale alla libertà e alla pace, che sono i tre doni che, ricevendoli da Gesù, nessuno ci potrà sottrarre.

Ebbene avete capito che quest’anno, per presentare i vari tempi liturgici, ho liberamente saccheggiato i commenti di p. Elia, in una scelta arbitraria di brani per i tempi liturgici che vivremo nel nuovo anno.

Nuovo anno che auguro a tutti di vivere col senso liturgico dell’eterno che si fa presenza nel nostro quotidiano pellegrinaggio.

Massimo Mascolo

Intero anno liturgico. Anno B

Il Signore annuncia la pace per il suo popolo…
Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!
Nell’ultima settimana dell’anno liturgico la chiesa medita sul regno di Dio e gli eventi della fine. La prospettiva però in cui ascoltare le parole drammatiche di Gesù è data dalle preghiere dopo la comunione della messa di oggi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”; “ci dai la gioia di partecipare ai divini misteri, non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene”. Se l’annuncio di Gesù suona drammatico, il tono è fiducioso. Gesù allude al giudizio di Dio sulla storia, giudizio che viene dalla croce: l’amore di Dio lì si è manifestato. Lungo tutto il cap. 21 di Luca, Gesù mette in guardia contro il pericolo di seduzione sempre in agguato: “Badate di non lasciarvi ingannare”, “State attenti a voi stessi”, “Vegliate in ogni momento”. La fedeltà al segreto di Dio svelato nel giudizio della croce non è un viaggio in carrozza per nessuno, per cui è necessaria una estrema vigilanza. È prima del racconto della passione che i vangeli riportano le parole di Gesù sulla fine del mondo. Il discorso si articola mescolando il dramma della distruzione della città di Gerusalemme con gli eventi della fine del mondo e collocando la drammaticità della testimonianza dei discepoli in quello scenario. Il tempo liturgico volge al termine e la Chiesa rimanda agli eventi della fine, gli stessi eventi contemplati all’inizio del nuovo ciclo liturgico dell’avvento. Perché la storia non è che l’attesa della fine. Ma cosa significa? La prima cosa che sorprende è che la passione/morte/risurrezione di Gesù sta al centro della storia, concepita fin dall’inizio del mondo come il senso stesso della storia. Il mondo non è che la storia dell’amore di Dio per l’uomo sigillata dal riversare la vita nella morte da parte del Figlio di Dio fatto uomo. Di fronte a tale suprema realtà, ogni evento non ha che lo scopo di assimilarne la verità. La drammaticità degli eventi deriva dal fatto che la verità dell’amore si gioca come l’affermazione della vita nella morte. Come il salmo proclama: il tuo amore vale più della vita. Cioè, fino al dono della vita perché quell’amore sia esaltato. Se la passione di Gesù è al centro della storia vuol dire che non c’è vita senza condivisione di quella passione. Gesù avverte: non spaventatevi del dramma della storia e non cercate soluzioni illusorie. Il suo dire: Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!, significa: non ci sono soluzioni da perseguire. C’è invece il dramma da vivere, e da vivere nella testimonianza di me.
Vale a dire, l’amore che vi ho mostrato fatelo splendere nel mondo finché tutto il mondo ne sia conquistato. La conquista non sta nella soluzione del dramma, ma nel fatto di vivere il dramma nell’amore. Non c’è evento, situazione, esteriore e interiore, che non possa essere vissuta nell’amore. Il ricordare che ci saranno guerre, rivoluzioni, conflitti, violenze, è per confermare i discepoli che l’amore li sormonterà. Se staranno radicati nell’amore del loro Signore, tutto concorrerà al bene. A me sembra che questo sia il modo di lasciare alla storia tutto il suo carico di dolore, senza però che si chiuda in se stessa, ma resti aperta all’invito che la percorre nel cuore degli uomini: scoprirsi sempre più bisognosi di amore e solidarietà. Ecco il versare la vita nella morte! Le parole sono altamente drammatiche, ma i toni profondamente fiduciosi, ispiratori di energie sempre nuove e di sempre nuove possibilità di umanità. La fede in Gesù garantisce proprio quelle energie e quelle possibilità per il cuore dell’uomo. Come in effetti subito dopo verrà detto: “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”.

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Tempo Ordinario

Diverse volte nei vangeli torna la questione del sabato. Come vivere questo giorno santo? Qual è la santità del comandamento del sabato? L’uomo spesso costruisce una santità che non ha nulla a che vedere con la santità di Dio! In questo brano risalta il contrasto fra il capo della sinagoga e la gente. Il primo si perde nella difesa del sabato finendo per arrabbiarsi nella sua cecità spirituale, il secondo esulta nella meraviglia per l’opera e le parole di Gesù. Perché è così difficile per coloro che millantano giustizia essere lambiti dalla gioia? Immaginano come dovere la difesa di Dio e finiscono per rinnegare ogni umanità. Questa è la tragedia degli uomini che vogliono farsi passare per giusti. Gesù non contraddice la norma del sabato; ne rivela la fonte di santità. Se in giorno di sabato è proibito ogni lavoro per essere completamente liberi di attendere al proprio Dio, è per godere della santità di Dio, che è splendore di amore per il suo popolo. E se l’osservanza del sabato finisce per impedire al cuore di partecipare al calore della santità di Dio, mistero di compassione e di misericordia, come si può dire di osservare il sabato? Si osserva qualcosa rinnegandone la potenza. Gesù punta il dito contro l’atteggiamento che rende il cuore insensibile alla santità calda di Dio. L’ipocrisia, che salva se stessi e condanna gli altri! Mi attengo ai confini di legittimità che ho definito io, senza accedere all’ispirazione segreta del comandamento. È un po’ quello che succede per il comandamento dell’amore: amare Dio e il prossimo riassume tutta la legge. Bene, ma l’uomo dice: prossimo, sì, la mia gente, non certo gli stranieri; prossimo, sì, i miei amici, non certo i nemici. Per me, il comandamento vale per i confini in cui lo racchiudo, senza più domandarmi se ciò corrisponde al sentimento di Dio. A guardare bene, quei confini definiscono l’esteriorità dell’osservanza in funzione di un merito o di un prestigio tutto umano, senza cogliere mai l’intimità a cui mira per essere investiti della santità di Dio nella sua compassione per noi. Vedere il capo della sinagoga incapace di condividere la gioia della donna malata, guarita, ci lascia negativamente stupiti. Eppure, noi non siamo così diversi da lui. Ci resta sempre difficile godere del bene altrui quando noi siamo afflitti. Invece di lodare la bontà di Dio nella gioia, lo accusiamo che essa manca a noi. È la situazione del figlio maggiore nella parabola del padre misericordioso, che fa festa per il figlio minore tornato a casa. Sta con il padre ma non conosce la gioia e così non può accogliere suo fratello. Potessimo lasciarci smascherare nella nostra ipocrisia di devozione dalle parole di Gesù, conosceremmo subito la gioia! La gioia del bene goduto, vale a dire la gioia del bene di Dio per noi che ci attira nella sua stessa intimità di sentimenti e di vita.

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Solennità e feste

La visione della chiesa dice tutta la speranza che porta: tutti saranno attratti dall’amore di Dio che splende nel Figlio di Dio fatto uomo. Non solo godremo di quell’amore che tutto riempie ma riconosceremo che il mondo, la storia degli uomini, il tempo, tutto è stato intessuto dallo splendore di quell’amore. L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”; “fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Come mai gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione di lode. Possono scoprire tutta la grandezza dell’amore di Dio solo guardando agli uomini. Il Dio che adorano è un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come uno di loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di lode, che è il mistero stesso dell’adorazione di Dio. Del resto, un amore che non alluda all’adorazione di Dio diventa tiranno. La visione dei santi è declinata secondo le beatitudini proclamate da Gesù. Due sono le particolarità da notare. La prima, il fatto che la santità sia concepita come la felicità dei cuori. E questo allude, non tanto alla perfezione dell’uomo, ma alla partecipazione dell’amore di Dio che si riversa sull’uomo e tutto fa splendere della sua luminosità. La seconda, la felicità è descritta nelle sue caratteristiche di realizzazione. Il modello è l’umanità di Gesù, piena trasparenza dell’amore del Padre per noi. È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo di Matteo, le riassuma in tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore. a purità intrisa di gioia è solo quella che si traduce in un agire che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti, perché tutti attratti dall’unico Signore. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

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Tempo di Avvento

Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
L’immagine non è piacevole. Gesù paragona i discepoli a degli schiavi ai quali è richiesto di svolgere i compiti loro assegnati senza che rivendichino qualcosa presso il padrone. Nel nostro fare cosa conta? Cosa sottolinea Gesù nel fatto di essere suoi discepoli? Presso Dio, se si rivendica qualcosa, necessariamente si finisce con l’accusarlo di esosità, di severità, di ingiustizia, come capita al servo che sotterra il talento ricevuto. Se si rivendica, vuol dire che non c’è gioia nel fare, che il cuore è vuoto di bene ma pieno di pensieri di confronto e di insoddisfazione. Il linguaggio di Gesù sembra severo perché è lucido. Guardiamo a lui. Forse che lui ha mai rivendicato qualcosa della sua gloria presso il Padre? Servo inutile non vuol dire fasullo. Solo, non cerca gloria per sé. Di fronte all’agire, ai compiti e ai ruoli da svolgere, l’unico atteggiamento buono resta quello di dire: siamo servi inutili. Non ci siamo serviti di nulla per apparire importanti, ma la nostra gioia è quella di confidare nel Signore e di rispondere al suo invito. Per questo è in gioco la fede. Il discorso di Gesù risponde sempre alla domanda degli apostoli: accresci in noi la fede. Accrescere la fede significa entrare in quei segreti che fanno la gioia del cuore, senza aver bisogno di rivendicare nulla. Avverrà anche per il servo quello che è avvenuto per Gesù: non avendo mai voluto gloria per se stesso, il Padre lo ha colmato della sua; non avendo preferito la sua vita, l’ha guadagnata oltre la morte. È il mistero della relazione con il Dio vivente. La carne teme, ma lo spirito sa e comprende nell’intimo. Nell’esempio portato da Gesù, a dire il vero non è che il servo sia inutile, perché il suo compito lo esegue e serve al padrone. È inutile nel senso di avere titoli di preferenza o di diritti presso il suo padrone. Nell’esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla. Il vero servo è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza. Essere servi inutili significa essere semplicemente servi e nulla di più. Ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro se non il condividere i suoi segreti. Come poi Gesù dirà alla fine: non vi chiamo più servi ma amici. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. Avverrà come dice il salmo: “Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore”. Da intendere secondo le antiche versioni: cerca la gioia nel Signore ed egli ti darà i desideri del cuore. Non tanto nel senso che esaudirà i desideri del cuore, ma che ti darà di desiderare come a lui piace, che farà sì che il tuo cuore trovi gioia in lui senza cercare altro. È il compimento della gioia di un amore.

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Tempo di Natale

In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi.
Due particolari suonano profetici nell’invio dei discepoli in missione. Sono 72, numero che corrisponde, secondo le Scritture, all’insieme delle nazioni. Predicano agli israeliti, ma la prospettiva è universale, riguarda tutti e tutti i tempi. Vengono inviati due a due come ‘preparatori’ della venuta del messia. Il testo dice: “e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi”. L’annuncio dei discepoli non è iniziativa propria, non ha contenuto proprio, non ha titolo di merito o soddisfazione propria. Anzi, la forza dell’annuncio, come la sua gioia, sta tutta nel riferimento al messia. Ciò significa che loro stessi guadagneranno in gioia nel sottrarsi a qualsiasi titolo di merito o soddisfazione propria. Vengono mandati due a due perché quello che annunciano a parole lo mostrino nei fatti. L’annuncio consiste essenzialmente nel dono della pace, frutto del perdono dei peccati. Pace, goduta nell’esperienza di una fraternità, realizzata proprio sulla forza della parola potente e risanatrice di Gesù. L’annuncio, cioè, ha a che fare con l’essere stati ‘pacificati’, con l’aver accolto il regno di pace che Gesù è venuto a portare, nell’intimità di vita con lui, che è la nostra pace. Pace è il dono messianico per eccellenza, dono che riassume la grazia della Presenza percepita nel suo splendore di comunione e salvezza. La pace sarà il dono pasquale per eccellenza, sigillato dalla vittoria sulla morte, vale a dire ormai immmortificabile, che niente e nessuno può rapirci. Chiamavo profetici i tratti di questo invio in missione dei 72 discepoli perché essi ancora non conoscono la forza straordinaria della pace; ne assaporano soltanto un assaggio nella gioia che li muove. La conosce però l’evangelista che scrive, dopo che il mistero della persona di Gesù, nostra pace, è stato svelato in tutto il suo splendore (si dirà: “quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita … noi lo annunciamo anche a voi … Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena, 1Gv 1). L’indizio di questo scavo profondo nel cuore dei discepoli, nel nostro brano, si può vedere nell’annotazione: “Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi”. La pace di una fraternità vissuta (due a due) è foriera di conquista di tutti alla stessa pace (chi ascolta). Ma se quella ‘conquista’ non si estende, non per questo la pace verrà meno, a testimonianza del fatto che non dipende dal successo. A doppio titolo. A livello personale del discepolo, nel senso che il sigillo di autenticità dell’annuncio sta proprio in questa pace imperdibile che proviene dall’intimità di vita e sentimenti con Gesù. A livello della solidarietà con gli uomini, nel senso che la pace custodita segnala la benevolenza di Colui che è il contenuto del messaggio. Come dicessero i discepoli all’ascoltatore che respinge l’invito: la pace che tu non vuoi oggi, varrà per te anche domani, non mi troverai mai ostile a te perché quella pace resta sempre l’invito per te da parte del Signore. E se il discepolo è invitato a scuotere la polvere dai piedi contro chi la rifiuta, è solo per sottolineare che il discepolo non porta via nulla con sé di cattiveria o ira o fastidio per quel rifiuto, ma che custodirà la pace per essere comunque annunciata. Corrisponde al gesto del pellegrino israelita che arriva nella terra santa da territori pagani. Appena entra nella terra santa, si scuote di dosso la polvere per non avere nulla che contrasti con la santità della terra promessa. Se il rifiuto o la persecuzione facesse breccia nel cuore del discepolo, significherebbe che la pace offerta non è quella del Signore; significherebbe che il suo cuore non ha ancora gustato la gioia di quella pace. E se è così, non potrebbe mostrare la gioia della fraternità. E senza questa, il suo annuncio diventa inconsistente e non attraente. E così disattenderebbe lo stesso invio del Signore.

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Tempo di Quaresima

S. Francesco d’Assisi è il povero, fa parte di quei piccoli a cui sono rivelati i segreti di Dio. Nel Testamento, dopo le afflizioni degli ultimi due anni di vita, quando la malattia lo tormentava, le relazioni con i suoi frati diventate problematiche, sulla Verna accettato con pace di non disporre di alcun potere sulla sua opera, si firma: io frate Francesco piccolino a voi fratelli benedetti. Aveva dolorosamente dovuto accettare quanto fosse autentica la
sua qualità di “frate”. Dal suo Signore gli era stato chiesto, infatti, di accettare la diversità dei suoi fratelli senza imporre da proprietario la sua volontà. Ed egli aveva accettato di essere semplicemente fratello, senza potere e libero dalla tentazione del dominio. Tutto questo proclamava con l’aggiunta “piccolino”:
non solo frate ma anche debole nella sua figura. Come spiegavano i Padri: in lui era venuto meno ogni ragionamento che sapesse di questo mondo. Il sigillo era dato dalle stimmate ricevute sul monte. Le ferite che lo affliggevano nel corpo e nell’anima si tramutano nei segni gloriosi della grazia di una piena intimità con il suo Signore, vero seguace di lui, povero, che sulla croce proclama: Padre, perdona loro ….! Mentre viveva una totale intimità con il Padre nel suo amore per noi, viveva contemporaneamente una totale solidarietà con gli uomini senza che nulla lo separasse da loro. La povertà di Gesù, povero e crocifisso, come la povertà di Francesco, piccolino, valeva in ragione dello splendore di una fraternità goduta, sigillo dell’amore del Padre per noi. Per Francesco si realizzava quello che Paolo dice di sé: crocifisso lui per il mondo e crocifisso il mondo per lui. Non cerca più nulla dal mondo chi è pieno dell’amore di Dio né insegue in se stesso più nulla che sappia di questo mondo. Rispetto all’amore del suo Gesù nulla è preferibile nel mondo e rispetto ai desideri del suo cuore nulla trova nel mondo che ne soddisfi l’anelito e quindi non ha più nulla che impedisca la gioia pacificata della fraternità. Le stimmate che hanno segnato il corpo e l’anima di Francesco dicono tutta la verità di questa doppia ‘crocifissione’, ma nel segno della luminosità sprigionata. Questa luminosità si esprime nella lode in cui tutto il suo essere e agire si manifesta. Come dice la preghiera esultante di Gesù che la chiesa fa propria di Francesco. Solo chi è diventato tutta una lode per la grandezza della benevolenza di Dio può chiamare tutto e tutti fratelli, ponendosi nei loro confronti come ‘minore’, piccolino e gioioso, a servizio della gioia di tutti. L’intensità della luminosità è in corrispondenza della profondità della lode, che esprime tutta l’intimità della condivisione dell’amore del Padre. La lode è il sentimento di umile gratitudine per l’immensità dell’amore che ti investe. Questo ha scoperto Francesco quando ha dato un abbraccio al lebbroso, questo ha rivissuto quando ha dovuto lasciare ogni rivendicazione umana rispetto all’opera prodigiosa a cui aveva dato avvio, questo ha vissuto nell’accogliere sorella morte. Ha lasciato cadere ogni barriera con i fratelli e così ha scoperto come nella povertà degli uomini incontrava il suo Signore, che si era fatto così povero da confondersi con ognuno. Quel Gesù povero aveva scoperto, nel suo movimento di venire incontro all’uomo, di assumere l’uomo per portarlo in Dio. È il mistero in atto nella storia, la verità suprema dell’umanità, quel mistero che ha conquistato il cuore di Francesco riconoscendo in Dio l’amore immenso per l’uomo e nell’uomo la presenza adorabile di Dio. Lungo questa scoperta, tutte le cose prendono luce e il creato è tornato per lui ad essere luogo di lode. Se di Francesco si dice, non solo che la sua preghiera fosse infuocata, ma che lui stesso fosse trasformato in preghiera vivente, era perché tutto per lui era motivo di lode per il suo Signore nel suo amore per i suoi figli. Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perciò fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui. Valga anche per noi la benedizione che ha lasciato al suo fedele compagno frate Leone: il volto misericordioso di Dio sia la tua pace.

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Tempo di Pasqua

“Fa’ che i tuoi figli, riuniti nel tuo nome, si offrano a te in sacrificio di lode” così una preghiera sulle offerte. È il contenuto del chiedere di cui parla Gesù. Poter essere nel mondo a lode dell’amore del Padre per i suoi figli rimanendo in Gesù che, di quell’amore, è il testimone per eccellenza! Alla sincerità di tale richiesta risponde sempre il dono della grazia e l’uomo ne conosce l’esaudimento per mezzo della gioia. Notiamo subito la reazione dei discepoli alle parole di Gesù: ora parli chiaro, crediamo che sei uscito da Dio. E Gesù a ribattere: adesso credete? Tra poco vi disperderete tutti. Eppure, le sue parole sono davvero limpide per il cuore. Vale un doppio collegamento: il pregare per avere gioia e l’ascendere di Gesù al Padre. Il non detto in questo collegamento è la realtà del dono dello Spirito Santo che solo ascendendo al Padre Gesù può inviare perché la nostra preghiera sia fatta nel suo nome. Gesù dice che i suoi discepoli non hanno ancora chiesto nulla e che, se chiedono, ora riceveranno. E quello che riceveranno ha a che fare con la gioia del cuore. Perché? Pregare nel nome di Gesù significa vivere la propria umanità come la sua, guidata dallo Spirito perché in tutto si manifesti la grandezza dell’amore del Padre per noi. E se si manifesta l’amore del Padre, tutti sapranno essere così solidali che la vita tornerà desiderabile, piena. Ora, vivere in pienezza è tutta la gioia del cuore dell’uomo che si può riposare nell’amore. Quando si prega, cosa si domanda se non questa pienezza di vita? E il segnale di questa vita piena, abbondante, non è dato dalla gioia? La stessa gioia dell’umanità di Gesù che, non separandosi mai dal Padre e dai suoi fratelli in umanità, fa godere l’amore di Dio. La gioia poi è direttamente proporzionale alla libertà e alla pace, che sono i tre doni che, ricevendoli da Gesù, nessuno ci potrà sottrarre. Gesù questo intende con il dichiarare che chiedere nel suo nome significa entrare nella sua gioia. Nel suo nome, per avere la gioia: ecco il movimento dello Spirito Santo nei nostri cuori. Luca, quando riporta la parabola dell’amico importuno a commento della preghiera del Padre nostro, finisce con il dichiarare: “quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13). La preghiera esaudita è quella dello Spirito Santo, come insegna anche s. Francesco diAssisi: avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione. La gioia del cuore è in relazione all’azione dello Spirito Santo che dà testimonianza al cuore della vittoria di Cristo sul mondo. Non per nulla il capitolo 16 di Giovanni finisce con l’invito di Gesù ai discepoli: “Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!”. E subito dopo viene riportata la solenne preghiera sacerdotale di Gesù al Padre perché quanto ha detto ai discepoli si traduca in verità per il loro cuore. Per quanto queste cose siano assolutamente desiderabili e corrispondano all’anelito del cuore, quanti fraintendimenti! Anche per noi vale l’ammonizione di Gesù: adesso credete? Adesso avete capito? … È il motivo della tenacia nella preghiera. Non è che fatta una bella preghiera, siamo a posto. La tensione alla preghiera, come alla gioia, è costante; non diventa mai un possesso. Di lì a poco, Gesù nel Getsemani subirà una tristezza mortale, ma pregherà perché prevalga il volere di bene del Padre e l’angoscia si trasformerà in splendore d’amore.

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