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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Avvento

I Domenica

(29 novembre 2020)

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Is 63,16b-17.19b; 64,2-7;  Sal 79;  1Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

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L’invito che percorre tutto l’Avvento è ‘fate attenzione’, ‘vegliate’. L’invito riguarda la tensione dello sguardo puntato verso un unico punto. Volgete lo sguardo al Figlio dell’uomo che per voi ha patito, è morto, è risorto, sul quale giocare il desiderio del cuore, la responsabilità dell’agire e il segreto della vita. È caratteristico che il passo evangelico proclamato oggi: “Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!” (Mc 13,37) sia seguito immediatamente dal racconto della passione di Gesù.  La vigilanza, di cui ci è fatto comando, riguarda la capacità di cogliere la grandezza dell’amore di Dio che in Gesù si è manifestato in tutto il suo splendore. È quell’amore che ci salva dall’angoscia, che ci custodisce nell’agire e ci fa scoprire il segreto del vivere.

Nel racconto della passione, il vangelo riporta lo stesso invito di Gesù ai tre discepoli con cui si era accompagnato nell’orto del Getsemani: “Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate»” (Mc 14,34). E Matteo aggiunge: “restate qui e vegliate con me” (Mt 26,38). La motivazione? Il momento è terribile e Gesù (credo sia l’unica volta che Gesù chieda qualcosa ai discepoli e poi si lamenta che l’hanno lasciato solo!) ha bisogno di ‘compagnia’. Quella compagnia non è semplicemente per lui, ma per loro stessi perché sarà difficile per loro intravvedere l’opera di Dio nella sua passione e credere al suo amore salvatore. Forse memori di questo evento, alcuni codici antichi riportano l’invito di Marco alla vigilanza così: ‘vegliate e pregate’. La veglia è per la preghiera e la preghiera è per la visione di Dio nel suo donarsi a noi e per noi.

La lettura della storia da parte del profeta Isaia la dice lunga sul mistero di tale vigilanza. Il popolo di Israele ha riconosciuto l’intervento straordinario del suo Dio quando lo liberava dalla schiavitù dell’Egitto ma presto, di fronte alle nuove fatiche, se ne scorda. Vorrebbe trovare una scorciatoia per non penare più e si costruisce un dio su misura. Ma i nemici incalzano, le sciagure incombono, la paura serpeggia sempre e allora il popolo torna a invocare il suo Dio: “Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi … Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è invocato. Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,17-19). Proprio il grido che attraversa l’avvento: se tu squarciassi i cieli e scendessi! Solo che il grido non è più volto semplicemente a ottenere che Dio venga in mezzo a noi (la festa del Natale celebrerà appunto questa venuta nella carne del Figlio di Dio), ma è volto a cogliere nel nostro cuore la manifestazione del Figlio di Dio nella sua potenza di salvezza. Come invoca anche la preghiera del Padre nostro: venga il tuo regno, cioè venga in noi, si manifesti in noi il tuo regno.

Lo sottolinea il canto al vangelo riportando un versetto del salmo 84 (85), 8: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”. Il testo del salmo continua: “Ascolterò che cosa dice [in me] il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo … Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Versetti che noi potremmo interpretare: una volta che il Signore è riconosciuto abitare nel nostro cuore perché cercato e accolto, ecco quello che avviene: il suo amore di misericordia risponderà alla verità del nostro riconoscerci peccatori; il bene che da lui procede si salderà al perdono vicendevole che ci farà vivere in pace. Così la nostra umanità si scoprirà trasfigurata dallo Spirito come l’umanità di Gesù, il testimone per eccellenza dell’amore del Padre per i suoi figli.

È esattamente quello che s. Paolo si augura per la comunità di Corinto quando dice loro: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi [in voi] così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”. Ecco, la vigilanza che percorre il tempo dell’avvento non è semplicemente l’attesa di un evento ma la sensibilizzazione alla percezione di una Presenza che da dentro prorompe, si manifesta e contagia di letizia. L’invito è a oltrepassare la cronaca per intessere una storia, la storia d’amore di Dio con l’uomo.

Proprio come la preghiera della chiesa nell’avvento ci fa invocare insistentemente perché il cuore riconosca nel Signore Gesù l’opera di salvezza di Dio. Il ritornello, costante, della preghiera in questo periodo è dato dai due versetti presi dal Salmo 79: “risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (v. 3); “o Dio, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (v. 4, 8, 20). Perché si arrivi a godere di quello che lo stesso salmo proclama: “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome” (v.19).

Ora, attendere la manifestazione del Signore non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. San Paolo, dicendo che una comunità credente ‘aspetta la manifestazione del Signore’, come lo stesso verbo greco indica, allude all’atteggiamento del cuore che vive ogni tempo e ogni circostanza in funzione dell’incontro con il Signore Gesù, percepito nella grazia della sua presenza. D’altra parte, chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nel concreto della nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.

Ma c’è ancora dell’altro. Se leggiamo il passo parallelo di Lc 12,37, veniamo a sapere come si manifesterà il Signore: “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. L’accudire ai fratelli non è soltanto agire bene, ma partecipare al servizio divino dell’umanità. Come a dire: quando accogli il tuo fratello perché guardi al tuo Signore, il tuo cuore godrà dall’essere accudito dal suo Signore e non potrà non condividere con lui l’ansia di arrivare a tutti perché lo splendore della sua presenza prevalga comunque.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Avvento

II Domenica

(6 dicembre 2020)

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 84;  2Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

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La liturgia di oggi fa trasparire una corrispondenza segreta tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Il profeta Isaia riporta il comando di Dio di annunciare la liberazione del popolo in schiavitù a Babilonia, annuncio che genererà gioia e consolazione. Il vangelo di Marco riprende lo stesso annuncio con la proclamazione della buona novella. Non si tratta però di una notizia. Si tratta del movimento di irradiazione di una Presenza, una Presenza liberatrice. In cosa consista quella liberazione, che procura gioia e consolazione, lo dice il profeta Isaia: è finita la tribolazione, termine che ha una valenza di tipo militare: è finito il duro servizio di corvée imposto dal dominatore di turno. Quando Gesù inviterà a venire a lui, fonte di gioia e consolazione per i cuori, si riferirà agli uomini ‘stanchi e oppressi’ (soggetti a corvée dal demonio che li tiene sotto il suo giogo) e chiederà di prendere il suo di giogo, che è dolce e leggero (cfr. Mt 11,28-30). La buona novella, con cui si apre il vangelo di Marco, porterà consolazione al mondo quando riceverà la corsa degli apostoli, mandati da Gesù, non tanto a far conoscere che cosa è successo (il Figlio di Dio, morto e risorto) ma a rendere partecipi, a far esplodere quella liberazione ottenutaci da Gesù, testimone per eccellenza dell’amore di Dio per i suoi figli.

Qui si comprende anche perché il comando di portare consolazione comporti il preparare la strada, perché possa giungere al cuore in tutta la sua potenza. Non è una notizia, ma un coinvolgimento in qualcosa che attende di rivelarsi. Se ci si purifica da tutto ciò che impedisce la liberazione agognata, vuol dire che la liberazione è concepita come uno splendore, come un’irradiazione di luce per una Presenza amica. Del resto, la seconda lettera di Pietro riprende un antico insegnamento rabbinico: l’uomo pio non soltanto anela alla venuta del messia, ma l’affretta. Pietro dice: “mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio … fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia …Crescete invece nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo” (2Pt 3,12.14.18). La venuta del giorno del Signore non è tanto la venuta della fine del mondo, ma la venuta della luce della risurrezione, cioè dell’assunzione nella luce della risurrezione per il Cristo che opera nel nostro cuore la partecipazione al suo regno. La buona novella ha a che fare con tale reale possibilità di partecipazione alla vita di Dio.

Il fatto che l’uomo si dibatta nella fatica dell’attesa, nella incapacità ancora di accedere alla luce della risurrezione, che farebbe sentire il giogo di Gesù dolce e leggero, che darebbe quel ristoro che i cuori cercano, rende il cammino della vita tortuoso e accidentato, insidiando la fermezza della fede e il desiderio di conoscenza del Signore Gesù. Per questo il profeta, e il vangelo lo riprende, esorta a rendere le vie tortuose diritte e le vie accidentate piane. La difficoltà di fondo per il nostro cuore sta nell’illusione di potenza con cui attendiamo la manifestazione del Signore e della sua salvezza. È vero, il profeta descrive il Signore che viene con potenza, che il suo braccio esercita il dominio. Ma a cosa allude questa descrizione? La potenza di Dio non è potenza di imperio, ma di servizio, perché ridà dignità e libertà al cuore dell’uomo. Ma come il cuore può accedere alla sua dignità e alla libertà che gli è propria? L’annuncio della Buona Novella ce lo mostrerà chiaramente: la potenza di Dio è la potenza di un amore che patisce sconfitta, croce e morte, pur di farne splendere la potenza.

Che quella potenza non sia proprietà dell’uomo, ma solo frutto che viene dall’alto lo dichiara lo stesso inizio del vangelo di Marco. L’antico Testamento, nel canone cristiano delle Scritture, finisce con il profeta Malachia. E il profeta Malachia finisce con questo annuncio: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio” (Mal 3,23-24). Il vangelo di Marco si presenta con la realizzazione di questa promessa: la profezia riguardava un uomo, Giovanni Battista, che si è presentato e che ha predicato la conversione al Signore. La conversione, come preparazione ad accogliere l’opera di Dio, la salvezza, in un altro uomo, il Figlio di Dio, che realizzerà appunto il regno di Dio. Se l’uomo si domanda che vantaggio ci sia a servire il Signore quando tutto resta sempre come prima e che il giusto non ha un trattamento di favore rispetto al malvagio, almeno materialmente, allora Dio risponde: se conoscerete l’amore mio, comprenderete. Gesù risponde a quella perplessità, se non proprio a quella rivendicazione.

Noi contempleremo il nostro Dio farsi bambino, povero e indifeso; lo vedremo condannato alla morte di croce, come esautorato di tutta la sua potenza. Dov’è allora la ‘gloria del suo nome’ per cui la colletta ci fa pregare: “O Dio, Padre di ogni consolazione … parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in purezza di fede e santità di vita possa camminare verso il giorno in cui manifesterai pienamente la gloria del tuo nome”?

Ci orienta il salmo 84 che canta l’incontro del desiderio di Dio con il desiderio dell’uomo: “amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Tutto ciò che Dio ha voluto per l’uomo, nel suo amore di sempre per i suoi figli, l’uomo lo potrà ormai godere stabilmente perché “colei [Elisabetta] che portava il giusto, Giovanni Battista, ha baciato colei [Maria] che portava la pace, Gesù”. E la visione messianica del salmo si può interpretare come la manifestazione della gloria del nome di Dio al cuore dell’uomo che il Battista rivela essere il compito specifico del Messia. Come a dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se l’esperienza è autentica, allora, la riconciliazione ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica giustizia degna del cuore dell’uomo. Da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora. L’azione di Dio che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

(8 dicembre 2020)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Una prima notizia di storia della liturgia. La solennità dell’Immacolata Concezione, già celebrata in oriente fin dal sec. VIII, si è estesa in occidente nel sec. XII, accolta prima dai francescani e poi iscritta nel calendario di Roma nel 1476. Pio IX, nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus definì come dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria, che la cristianità ha visto confermata con le apparizioni di Lourdes del 1858.

Come sempre, e in modo assolutamente singolare in questo caso, i doni di Dio a una creatura rivelano la grandezza dell’amore di Dio per tutti i suoi figli. Noi tributiamo lodi e onori alla Vergine a doppio titolo: a) in ragione del compito per la quale è venuta al mondo: doveva dare alla luce Gesù; b) in ragione della sua umanità che, liberamente, accoglie il disegno di Dio su di lei. Il titolo di gloria che le compete nella sua umanità è ‘serva del Signore’, nel cui cuore si dà l’incontro tra l’amore di Dio e la libertà dell’uomo.

Tutti i titoli di onore che attribuiamo alla Vergine sono da ricondurre a questi due: madre di Dio e serva del Signore. Un titolo di gloria, segno del dono di grazia, va compreso con il suo corrispondente titolo riferito alla sua umanità. Così di lei si dice: madre e vergine insieme; regina e serva; signora degli angeli e madre dolorosa; porta del cielo e rifugio dei peccatori, e così via. In lei, perfettamente compiuti, si uniscono il progetto di Dio e la libertà dell’uomo, il dono di grazia e la risposta umana, il cielo e la terra. Per questo di se stessa può dire che Dio ha realizzato il suo disegno di misericordia. L’amore di Dio per lei, tanto da ricolmarla di ogni dono di grazia, si confonde con l’amore di Dio per l’umanità tanto da far nascere da lei il Salvatore.

La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito, come prega la colletta della festa ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, la stessa umanità condividiamo con il suo Figlio perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. La ‘benedizione’ che Paolo implora ed annuncia nell’esordio alla sua lettera agli Efesini l’ha ricoperta e intrisa in modo singolare. In lei quella benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla da desiderare di più. E tutta la storia, pur nella sua drammaticità, non è abbandonata a se stessa perché da sempre, ‘prima della creazione del mondo’, quella benedizione la sovrasta, l’accompagna e la Vergine ne è la testimone più credibile.

Secondo il racconto della Genesi, Dio proclama l’inimicizia tra il serpente e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, nell’illusione di vivere una sapienza altra rispetto alla verità del suo Dio e trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza.

La Chiesa, chiamando la madre di Dio ‘nostra Signora’, indica la via del riscatto da quella paura: “La Vergine è Signora non solo perché è libera dalla schiavitù del peccato e partecipe del dominio divino, ma anche perché è diventata causa e radice della libertà del genere umano” (Gregorio Palamas, Omelia 14,8). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. Nella sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come nella nostra miseria non cessiamo di essere destinatari dell’amore di Dio. Il suo ‘avere’ il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. ‘Il Signore è con te’ diventa, nella nostra preghiera: ‘tu che hai il Signore supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre’.

Nel vangelo lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto; si realizzi la sua promessa; si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Avvento

III Domenica

(13 dicembre 2020)

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Is 61,1-2.10-11;  Lc 1,46-54;  1Ts 5,16-24;  Gv 1,6-8.19-28

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La Chiesa presagisce imminente la festa del Natale e fa spazio alla gioia, dapprima sommessa, poi sempre più prepotente. È come se la liturgia insegnasse ad affinare i cuori per avvertire il rumore della gioia imminente, al di là delle varie oppressioni che affaticano la vita. “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4.5) canta l’antifona di ingresso. “Io gioisco pienamente nel Signore” canta il profeta Isaia che sente imminente la liberazione del popolo dai suoi tormenti. Proclamazione, a cui fa eco il cantico della Vergine che magnifica il Signore per essersi ricordato della sua misericordia. Insiste anche s. Paolo nella sua lettera ai Tessalonicesi che chiude con l’invito: “siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,16-18). La ragione? La rivela il canto al vangelo che riporta l’autocomprensione di Gesù a Nazaret, all’inizio della sua predicazione: “Lo Spirito del Signore Dio è sopra di me, mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio” (Lc 4,14). Tutto però è ancora misterioso, è solo atteso, non si è ancora manifestato. Ma Giovanni Battista ci crede, ne è così convinto che non può non proclamarlo a tutti, senza cedere a fraintendimenti.

In effetti, nella risposta agli inviati dalle autorità di Gerusalemme (la notizia è arrivata perfin là, quindi vuol dire che ha attraversato tutto il paese), Giovanni rifiuta di riconoscersi nelle figure che gli vengono proposte a giustificare quell’accorrere di gente: non è Elia, non è il profeta. La cosa strana è che, quando Gesù prenderà la parola pubblicamente, saranno proprio quelle figure che lui gli attribuirà: lui è l’Elia che deve venire, lui è il profeta, anzi il più grande dei profeti. Giovanni si evita evidentemente ogni attribuzione messianica, ma proprio colui che ha riconosciuto come Messia gli riconoscerà tutta la sua straordinaria grandezza. Nella tradizione il Battista è venerato al di sopra degli angeli e degli apostoli. È singolare che l’evangelista Giovanni introduca la testimonianza del Battista a proposito di Gesù subito dopo aver scritto: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. Questa è la testimonianza di Giovanni …” (Gv 1,18-19).  La testimonianza di Giovanni non riguarda solo l’indicazione della persona del Messia ma il fatto che il Messia sia colui che fa conoscere il Padre, sia colui che è lo Sposo di Israele. A tutti dice: io non ho diritto alla Sposa, la Sposa è sua! A questo allude l’immagine di sciogliere il laccio del sandalo.

E un’altra particolarità del vangelo di Giovanni è da notare. Giovanni nomina le persone unicamente in rapporto a Gesù: la madre di Gesù, il discepolo che Gesù amava … Così per il Battista: lui è la voce, che prepara gli uomini alla venuta del Cristo. Questo perché nel vangelo di Giovanni il Cristo è presentato come la Luce, Luce che illumina, che riscalda, che avvolge, che dilata, che fa vivere. Se nella colletta preghiamo: “donaci un cuore puro e generoso”, intendiamo: dacci un cuore che sappia accogliere in tutto il suo splendore la Luce che è il Cristo e che di lui viva.

Negli ultimi capitoli del libro di Isaia, la visione del profeta si allarga alla nuova Gerusalemme, al regno di giustizia e di pace, alla Gerusalemme come sposa del Signore, al mondo nuovo che il Signore instaurerà. Ebbene, il ‘mondo nuovo’ è quello che Gesù realizza e manifesta, così che la gioia prende campo nel cuore degli uomini oltre l’oppressione e il dolore della vita. È quanto mostra s. Paolo come conseguenza dell’aver accolto il Signore Gesù, che adempie le promesse di bene di Dio per l’uomo: “siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,16-18).

Da intendere: questo è ciò che opera il Signore Gesù nei vostri cuori, se voi l’accogliete. L’invito segue l’esortazione a vivere in pace e a perseguire sempre il bene senza mai cedere al male. In greco la frase fa cadere l’accento non sul contenuto, ma sul tempo: ‘sempre, siate lieti; ininterrottamente, pregate; in ogni cosa, rendete grazie’. Noi potremmo intendere in questo modo: come dobbiamo essere sempre? Lieti. Cosa dobbiamo fare senza interruzione? Pregare. Cosa non dobbiamo tralasciare mai? Rendere grazie. Sono le tre caratteristiche di un agire libero e generoso: gioiosi, oranti, grati. Non si tratta però di qualità da perseguire per se stesse perché desiderabili, ma di condizioni essenziali che permettono di vivere dello spirito del Messia, cioè quello di portare l’annuncio di gioia ai miseri, fasciare le piaghe ai cuori spezzati, ecc. Chi ha percepito l’amore di benevolenza di Dio sul mondo, di cui Gesù è il testimone e il rivelatore, può vivere nella letizia (non è più corroso dalla tristezza, nonostante le ragioni più che plausibili che la alimentano), diventa capace di accogliere il suo Dio nella preghiera (non resta più chiuso all’avventura con il suo Dio) e non ha più bisogno di rivendicare nulla perché rende grazie in ogni cosa. Il legame tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà la libertà interiore per stare lieto e vivere la vita in eucaristia, in rendimento di grazie. Ma la letizia che fa vivere è quella che germoglia, come dice il profeta Isaia, dall’incontro con colui che scopro essere il mio Salvatore, col quale attraversare dolori e fatiche della vita.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(20 dicembre 2020)

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2 Sam 7,1-5.8b-12.14a.16;  Sal 88;  Rm 16,25-27;  Lc 1,26-38

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Nei giorni che precedono il Natale la liturgia interroga tutti i brani evangelici che si riferiscono alla nascita di Gesù come a predisporci all’evento nella giusta prospettiva. Prepara i cuori al mistero che si svelerà. La quarta domenica di avvento viene proclamato il brano dell’annunciazione dell’angelo Gabriele. Il brano è introdotto da una precisazione temporale singolare. Il mistero principale riguarda la concezione verginale di Gesù, ma il testo si premura di collocarlo temporalmente rispetto a un altro evento, la concezione di Giovanni Battista. Da sei mesi Giovanni Battista cresce nel seno di Elisabetta. Questo significa che la nascita del Salvatore viene a coronare tutta una serie di interventi salvifici di Dio per il suo popolo. Sarà come il compimento di tutta l’azione salvifica di Dio nella premura per il suo popolo.

Il brano può essere ascoltato nella successione di cinque passaggi con una sorprendente conclusione. Ogni passaggio comporta una sua caratteristica specifica. Anzitutto il saluto dell’angelo. Il testo aveva già ricordato il nome della giovane a cui Gabriele è mandato, ma nel salutarla l’angelo usa un altro nome. La chiama ‘piena-di-grazia’. Un termine di alta consistenza, nel senso che denota tutto l’amore che la riguarda, tutti i doni di cui è arricchita, tutta la bellezza che la sua persona esprime. È perciò normale che la giovane si turbi. È il secondo passaggio. Anche questo turbamento parla della sua bellezza proprio perché mai esibita. A questa bellezza corrisponde la confessione finale: sono semplicemente serva, nulla di più. Ma l’angelo l’assicura, ecco il terzo passaggio. Le si rivolge con il suo nome, Maria e le parla nella sua lingua. Sa che conosce le Scritture, che attende la manifestazione del regno di Dio, che ama il suo Dio e ne ascolta intimamente le parole. Le parole in bocca all’angelo sono le stesse che usa il profeta Natan davanti a Davide. Con la differenza che, per Davide, suonavano come la promessa di qualcosa che si sarebbe compiuto nel futuro, mentre, per la Vergine, erano l’annuncio del compimento dell’antica promessa. L’angelo arriva a toccarla nel movimento del suo cuore fedele al suo Dio, tutta dedita al suo Dio, in attesa della manifestazione del regno di Dio nel mondo. Segue quindi il momento della delucidazione: ma come può avvenire questo? Ed è a questo momento che l’angelo le dà un segno, informandola della sua anziana cugina che è in attesa. Quello che leggiamo come “nulla è impossibile a Dio”, in realtà suona: ‘nessuna parola resta senza compimento presso Dio’. È l’assicurazione di fede che le serviva. Perciò segue l’ultimo passaggio, la consegna: Ecco la serva del Signore! È tutta la sua gloria, la sua bellezza: essere puro spazio per il desiderio di Dio di abitare in mezzo a noi. Così si manifesterà tutto l’amore di Dio per l’umanità di cui lei è, non solo totalmente partecipe, ma anche radicalmente interceditrice. Tutti guarderanno a lei per poter vivere il suo stesso mistero: lasciare Dio abitare il proprio cuore.

La conclusione, nella sua asciuttezza, è straordinaria: “E l’angelo si allontanò da lei”. Non è una semplice annotazione di cronaca. Rivela un profondo mistero. Lei non avrà più visite di angeli. Sarà la sua fede a vedere nella cronaca quotidiana, spesso difficoltosa e imprevista, il dispiegarsi del disegno di Dio fino ad accompagnare la consegna suprema del suo Figlio: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). L’annotazione corrisponde a quella segnalata appena dopo l’evento della visione misteriosa della gloria di Gesù sul Tabor: “E videro Gesù solo”. Vale a dire: videro Gesù come lo avevano sempre visto. La grandezza e vivacità della fede starà appunto nel vedere l’umanità di Gesù in tutta la sua concretezza come la rivelazione del suo essere Dio che salva. È scomparsa ogni gloria umana. Non c’è più nulla di glorioso nella discendenza di Davide che arriva fino a Giuseppe e Maria.

Il salmo 88 (89), a commento della promessa di Dio a Davide, e a maggior ragione a commento del compimento della promessa nella Vergine Maria, si apre con un’esplosione di lode per Dio che è fedele. Proprio la fedeltà di Dio, che si può ammirare negli interventi del passato a favore del suo popolo, è fondamento della fiducia nella potenza salvatrice del nostro Dio. Lo è stato per la Vergine, lo è per i discepoli di Gesù. Ma il contesto di realizzazione delle promesse di Dio, come lo è stato per la Vergine, così per i discepoli di Gesù, è sempre drammatico. Dramma, che traspare nell’annotazione: E l’angelo si allontanò da lei! La domanda che i credenti si fanno nel dramma della storia, anche se non è la stessa domanda della Vergine Maria, per quanto ne abbia condiviso la drammaticità: dov’è ora la potenza di Dio? Il salmo lo segnala molto bene. Dove vedere ora la potenza di Dio?

E la liturgia risponde: in quel bambino, nato dalla Vergine Maria! Se è vero che non c’è più nulla della gloria umana, è però vero che c’è tutta la gioia del cielo che oramai è riversata nel cuore degli uomini. Sarà quella gioia a pulire gli occhi per vedere tutto nella gloria dell’amore di Dio per l’uomo.

Forse la nostra indisponibilità ad accogliere la potenza rinnovatrice di tale letizia deriva dal fatto che non abbiamo coscienza di ciò che comporta una tale rivelazione, ci siamo stancati di attenderla. Paolo, nella sua lettera ai Romani, lo fa ben capire quando dice che questo mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, viene “ora manifestato mediante le scritture dei Profeti”. Se mai abbiamo indagato le scritture dei profeti o le profondità dei nostri cuori, come possiamo non commuoverci a quell’‘ora’ nella quale viene manifestato? Sarà il senso dell’adorazione davanti al bambino di Betlemme che domani contempleremo con le braccia aperte in attesa di tutti noi (tutte le statue del Bambino Gesù nel presepe rappresentano un bambino con le braccia aperte!).

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2020)

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Messa vespertina della vigilia:          Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                              Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                             Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                              Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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La liturgia dell’avvento ci ha insegnato ad affinare gli sguardi per poter cogliere il mistero della nascita di Gesù. Siamo ora pronti a vedere ciò che in realtà non è proprio visibile. Quale potenza mostra mai un Dio che si fa fragile e inerme bambino? Quali luci in un evento di cui nessuno sembra accorgersi, in una situazione di povertà e di totale discrezione?

La liturgia canta l’evento del natale di Gesù in termini di luce: luce che splende e illumina, luce che scalda, luce che rigenera, luce che libera. E richiama il versetto del prologo di s. Giovanni, che viene letto nella messa del giorno: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4). Sono però gli occhi del cuore a vedere la luce, perché gli occhi fisici vedono altro. Vedono un semplice neonato, in condizioni disagevoli, per quanto circondato di tenerezza. Per di più, nel dramma che incombe perché il bambino sarà cercato per essere ucciso, dovrà fuggire, nonostante la visita di sconosciuti personaggi illustri che gli presentano doni specialissimi. Vivrà nel nascondimento, fino al giorno della sua manifestazione.

Assorbiti dall’atmosfera magica dei presepi e delle liturgie natalizie, non ci rendiamo conto dell’immensa sproporzione tra la povertà del segno (un bambino nella mangiatoia) e lo splendore della visione con la letizia incontenibile che riempie i cuori. Le antiche generazioni cristiane si erano rese conto delle misteriose corrispondenze nei racconti evangelici della nascita e della morte di Gesù. I particolari della nascita si riducono a questi: la vergine che ha dato alla luce il suo bambino, lo avvolge in fasce e lo depone in una greppia. Nient’altro. Ma sono gli stessi particolari che ricorrono sul Calvario: un uomo è morto, viene deposto dalla croce e avvolto in fasce. I pittori di icone della Natività lo hanno mostrato assai bene: la greppia assomiglia alla tomba, le fasce del bambino assomigliano alle fasce mortuarie. E poi, non ci sono luci e angeli attorno alla greppia o alla grotta; questi appaiono ai pastori che vegliano le loro greggi, annunciano il loro messaggio e spariscono. Alla grotta, davanti al Bambino, vale solo il racconto dei pastori, e come loro hanno creduto all’annuncio celeste, così gli altri credono alla loro testimonianza.

S. Efrem ne descrive lo stupore con queste parole: “Quanto sei audace, o bimbo, che a tutti ti concedi. A chiunque ti viene incontro tu sorridi e di chiunque ti guarda tu hai desiderio. È come se il tuo amore avesse fame degli uomini. Non fai distinzione tra i tuoi parenti e gli estranei, tra tua madre e le serve, tra colei che ti ha allattato e le donne impure. È questa la tua audacia o il tuo amore, o tu che tutti ami?”. La liturgia bizantina gli fa eco con espressioni mirabili invitandoci però prima ad elevarci: “Eleviamoci divinamente per contemplare la divina discesa dall’alto a Betlemme, verso di noi, visibilmente” e proclama: “Gloria alla tua condiscendenza, o solo amico degli uomini”; “La tua nascita, o Cristo nostro Dio, ha fatto sorgere per il mondo la luce della conoscenza”. È il calore luminoso che si sprigiona dall’amore finalmente conosciuto nella sua concretezza che ti tocca: ‘Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito’ nella forma più accattivante e, nello stesso tempo povera, di un piccolo bambino. Fatto, che fa esclamare a Paolo nella sua lettera a Tito: “è apparsa la grazia”, “apparvero la bontà e l’amore”. Apparve, prende forma visibile, toccabile. Esperienza che risulterà evidente con la persona concreta di Gesù tanto che oramai Dio non può essere cercato che nell’umanità, perché con l’umanità si è confuso.

Ne consegue che l’uomo pienamente umano è l’immagine più trasparente di Dio e Dio risplende dall’umano, questa è la novità annunciata dal natale di Gesù. Ciò significa che, a dispetto di tutte le forze contrarie, a dispetto dell’avversario che sempre insidia l’umanità, Dio e l’uomo sono della stessa famiglia, condividono la stessa gioia. Come canta s. Efrem: “Beato chi ha fatto dimorare le tue gioie nel suo cuore e che ha smarrito in te le sue pene!”. È il mistero dell’incarnazione svelato al cuore.

La luce, che rifulge nella notte di Natale, è la luce della gioia e dell’amore eterno di Dio per l’uomo, di cui il mondo è intessuto e da cui è attraversato, la luce della Presenza e della Dimora di Dio in mezzo agli uomini, che tutta la Rivelazione testimonia e che ora trova come il suo svelamento e il suo compimento. La luce non è semplicemente per gli occhi, ma per il cuore. È la luce che si irradia dagli occhi quando il cuore è capace di commuoversi alla percezione della Presenza di Dio che si fa toccabile in quel bambino. È interessante osservare che i salmi responsoriali delle tre messe natalizie fanno parte del gruppo di salmi che la tradizione ebraica proclama in ricevimento del sabato, sacramento della Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Non si tratta solo di acutezza di sguardo, ma anche di commozione del cuore davanti all’amore del Signore che si accompagna a noi secondo le modalità della nostra umanità.

Se si rilegge l’episodio del presepe di Greccio nella vita di s. Francesco di Assisi ci rendiamo conto della logica di quella visione. “Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio di far memoria di Gesù, il desiderio di condividere con lui quello che lui vive, sente e opera, perché il cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di vedere, all’anima di gustare. Allora, la semplicità del segno parla, si spalanca su spazi immensi perché la storia umana si apre sulla storia di Dio con l’umanità e la letizia non può non spuntare.

Concludo con le bellissime parole ancora di s. Efrem: “Benedetto, lui che ha segnato la nostra anima, l’ha adornata e l’ha sposata a sé. Benedetto, lui che ha fatto del nostro corpo una tenda della sua invisibilità. Benedetto, lui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti. … Gloria a colui che mai è stato bisognoso dei nostri rendimenti di grazie, ma bisognoso perché ci ama, e assetato perché ci vuol bene, e ci ha domandato di dare a lui, perché lui potesse dare a noi molto di più. Il suo frutto si è unito alla nostra umanità, affinché mediante esso fossimo attratti verso colui che si è piegato verso di noi” perché è benedetto “colui che è all’altezza dei nostri tormenti … colui che ha trionfato nei nostri tormenti”.

BUON NATALE A TUTTI

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Natale

Santa Famiglia

(27 dicembre 2020)

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Gn 15,1-6; 21,1-3;  Sal 104;  Eb 11,8.11-12.17-19;  Lc 2,22-40

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È significativo che la tradizione non celebri l’incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.

La liturgia di oggi contempla il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio sottolineandone gli aspetti di veracità storica. Dio si fa uomo in un determinato popolo, dentro una determinata storia, rispettando certe regole: la mamma si dovrà purificare, il bambino ebreo dovrà essere circonciso, gli si darà un nome, sarà presentato al tempio e vivrà in una famiglia che gli assicurerà la crescita e l’educazione.

Due sono i personaggi che introducono a questa contemplazione: Abramo e Simeone. Proprio di Abramo Gesù dirà: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). E Simeone esultante proclama, prendendo tra le sue braccia il bambino Gesù: “i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Quando o come Abramo avrà potuto vedere il giorno di Gesù? L’ha visto profeticamente alla nascita di Isacco, il figlio della promessa, avuto in vecchiaia, ma soprattutto dopo aver riavuto il suo Isacco, amatissimo, allorché il Signore gli impedisce di sacrificarlo e gli fa trovare l’ariete per l’olocausto sul monte Moria (cfr Gn 22). E l’ha visto nella sua discendenza, in Simeone, che da Abramo deriva e che ha tenuto Gesù bambino nelle sue braccia. L’esultanza di Abramo attraversa tutta la sua discendenza per giungere a compiersi in Simeone e da Simeone risale indietro fino a ricadere sullo stesso Abramo.

Il testo del vangelo di Luca che narra della presentazione al tempio di Gesù è ricco di particolari misteriosi, particolari che tradiscono la contemplazione di un mistero, velato ma percepibile. Luca parla della loro purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lev 12,1-8). Non c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13); Luca, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, lui è il Consacrato, il Cristo di Dio; lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.

Simeone, che aspettava la consolazione di Israele, figura di tutta l’umanità in attesa, ha ricevuto la promessa che non avrebbe visto la morte prima di aver veduto il Messia del Signore, cioè colui stesso che era la consolazione di Israele, colui nel quale tutte le attese di consolazione si sarebbero compiute. E siccome si sarebbero compiute attraverso la passione della croce, Simeone vede la spada di dolore che trafiggerà la mamma di quel bambino, non solo in ragione del suo dolore di mamma, e nemmeno solo in ragione della sofferenza della divisione nel suo popolo che sperimenta in se stessa in tutta la sua tragedia, ma anche e soprattutto in ragione della sua solidarietà con il Figlio Redentore e con l’Amore del Padre che così perdutamente testimonia la sua dilezione per gli uomini.

Ma anche la visione di Simeone, come quella di Abramo, come del resto la visione di ogni credente, è una visione profetica. Tiene il bambino Gesù in braccio e vede avanti, vede in spirito, sente il mistero di quel bambino venuto a compiere tutte le attese: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. È il cantico che la chiesa innalza a compieta, tutti i giorni, come a riprova che l’esito dei nostri giorni mortali non può che risolversi in questa contemplazione di Dio. Eppure, le parole di Simeone hanno un’altra forza. Potremmo tradurle così: Signore, ora che ho potuto trattenere una tua parola, fa che sia sciolto da ogni legame che impedisce a questa parola di esprimere la sua potenza di salvezza, che impedisce al mio cuore di goderne la potenza e possa cominciare a vivere in quella pace che compie la mia attesa ed anche la tua! Sì, perché non è soltanto l’uomo ad aspettare la consolazione, è anche Dio e la consolazione di Dio è la condivisione della sua gioia e della sua pace con noi. Come dirà Gesù nella sua preghiera al Padre per noi: “perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13).

Il riferimento del ritorno a Nazaret, dove il bambino cresce in sapienza e grazia, allude al mistero di Dio che si compie nell’ordinarietà della vita. È la fede che permette agli occhi del cuore di leggere la vita quotidiana nella sua trasparenza divina. In effetti, la realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l’assunzione di un compito di grazia che fa dell’obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all’assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell’amore. Porta, che può essere intravista solo se gli occhi del cuore ‘vedono’ quanto basta per non tirarsi indietro, come è stato per Maria e Giuseppe, come è stato per Abramo, per Simeone e per Anna.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Maria SS. Madre di Dio

(1° gennaio 2021)

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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È a partire dal 1969 che l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” è stata ripristinata nel calendario liturgico in tutta la sua solennità il 1° gennaio, l’inizio del nuovo anno. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 (67) la estende a tutta l’umanità. Solennemente la Chiesa proclama che in Gesù, figlio di Israele circonciso l’ottavo giorno, la benedizione di Dio è inviata a tutta l’umanità, è destinata ogni giorno a ogni essere umano.

Con la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale benedizione si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione, che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi, Gesù Signore.

L’esperienza dei pastori alla mangiatoia di Betlemme ha a che vedere proprio con l’esperienza di quella benedizione. Il brano è percorso da un doppio movimento che caratterizza prima gli angeli e poi i pastori. E ogni movimento ha due tempi: l’annuncio e la lode. Appaiono gli angeli per annunciare il messaggio di cui sono portatori e poi lodano Dio ritornando in cielo; i pastori vanno a Betlemme a sincerarsi della veracità dei fatti e poi lodano Dio ritornando a casa loro. Consideriamo il movimento dei pastori. “I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”. I verbi sono ben collocati: prima ‘udito’ e poi ‘visto’. Esprimono la dinamica della fede, la dinamica dell’intelligenza della Parola. Prima occorre ‘udire’, ‘ascoltare’: noi non siamo produttori di messaggi, tanto meno siamo produttori di significati. Siamo invece invitati a cogliere i messaggi, ad essere testimoni degli eventi e ad assimilarne i significati. Non è però nemmeno sufficiente ascoltare, se l’ascolto non introduce alla visione, all’andare a vedere. Il che significa: se non sei disposto a praticare quello che ascolti, non potrai mai vedere e non scoprirai mai se il messaggio aveva una verità per te. E se non si arriva a vedere, il cuore non potrà convertirsi, la nostra vita non sarà interessata e non potrà mai risolversi in racconto di lode, racconto e lode che costituiranno per altri l’invito angelico: vi annuncio una gioia grande…! Se la dinamica si compie in tutta la sua estensione, la benedizione che dalla Vergine è riversata sull’umanità fa sentire i suoi effetti, ricopre i cuori e la Chiesa, a sua volta, non ha altra vocazione che di rimandare a quella benedizione per tutta la famiglia umana.

D’altro canto, la realtà dell’incarnazione comporta la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per assuefarsi all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi, custodiva e meditando significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore e il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte queste cose del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella benedizione che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio nel loro amore per noi. Se però non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Non l’ha posta semplicemente nel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘Figlio’ è la benedizione per loro.

Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo. Come canta s. Efrem: “Benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Natale

II Domenica dopo Natale

(3 gennaio 2021)

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Sir 24,1-4.8-12;  Sal 147;  Ef 1,3-6.15-18;  Gv 1,1-18

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Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi” è il ritornello della liturgia di questa domenica natalizia. Il mondo non si è accorto di nulla perché ‘nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa … il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale’, come canta l’antifona di ingresso. Ma chi ha ricevuto la grazia di poter vedere non ha potuto frenare la gioia e in quella gioia ha sentito tutta la grandezza dell’amore di Dio, tutta la bellezza della creazione, il senso e lo scopo di tutta la storia umana. La storia dell’uomo è oramai visibilmente storia di Dio, storia divina. La vecchia colletta ci faceva pregare: “Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno”. È il motivo della solenne, larga benedizione che sale dal cuore dei credenti, come riporta Paolo: “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”.

Come non interpretare allora le nostre così frequenti lamentele nella vita come una mancata rivelazione, come un’impossibilità di accedere a quel certo orizzonte, dove tutto è bagnato dalla luce di quella benedizione? E se davvero i nostri occhi si sono aperti per riconoscere la venuta tra noi di Colui che custodisce quella benedizione, perché smarrirci allora nelle paure e nelle angosce, come se qualcosa di essenziale ci mancasse ancora?

Se davvero l’uomo è fatto su Dio e per Dio, allora l’argomentazione dell’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo suona stringente: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Lui è la Verità su Dio e Dio ormai non è che il Padre del Signore Gesù Cristo e se vogliamo accedere al Padre, il Figlio è la via. Ma la verità su Dio comporta la verità sull’uomo. Perciò: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali … da Dio sono stati generati”. Il Signore Gesù Cristo, con il dono del Suo Spirito, di cui la gloria che gli angeli rivelano ai pastori è come un rimando, ci fa fruitori di quello sguardo di compiacenza del Padre su di Lui (“Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”, Mt 3,17). Ecco perciò la verità dell’incarnazione: Dio si fa uomo perché l’uomo possa farsi Dio. E si può commentare: quello che Dio da sempre ha sognato (“in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”), cioè unire a sé l’uomo per farlo partecipe della sua gioia nell’amore scambievole, nel Cristo finalmente si realizza. In lui divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

Nelle sue poesie sul mistero del Natale s. Efrem canta: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”.  Facendo parlare la stessa Madre di Dio, vede nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una visione nuova, trasformante: “Qualcuna ha un figlio? Che venga e diventi amico del mio amato. Una ha una figlia o una parente? Che venga e diventi sposa del mio caro. Uno ha un servo? Lo liberi, che venga a servire il suo Signore…. Colei che è nata libera, figlio mio, è tua ancella, se ti serve. E la schiava in te è libera, in te è consolata, poiché è stata affrancata. Un’emancipazione invisibile è posta nel suo grembo, se è te che ama”.

Se prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio dell’uomo, il compimento di ogni desiderio di verità e bellezza? É in ragione di questa possibilità che l’annuncio evangelico si rivolge a tutti, a tutte le genti, a tutto l’uomo. Ed è in ragione di questo annuncio che il credente in Cristo vive ormai la sua vita, pronto a donarla perché la gioia dell’altro si compia e su tutti risplenda la gloria del Signore. Ma come attendere alla gioia dell’altro se questa non prorompe, profonda, limpida, nel proprio cuore?

Quando s. Gregorio di Nissa si domanda quale sia quel regno dei cieli che si trova dentro di noi (cfr. Lc 17,21) non può che rispondere: “Di cos’altro si può trattare, se non della gioia che si riversa dall’alto nelle anime tramite lo Spirito? Essa è come l’immagine, la garanzia e la prova della gioia eterna di cui godranno le anime dei santi nel secolo che attendono”. Proprio ciò che chiediamo nella colletta, con la richiesta di fare anche noi la stessa esperienza dell’apostolo Giovanni e di entrare anche noi in quel circolo di benedizione che descrive Paolo. A tal punto che, se davvero quella benedizione è sopra di noi e sgorga profonda dal nostro cuore, come cercare altrove quello di cui ha bisogno il nostro cuore, come avere paura di veder scemare la speranza che portiamo, come volere dal prossimo quello che invece a lui dobbiamo nel segno della condivisione di quella benedizione? Del resto, è proprio questo l’argomento e l’orizzonte della preghiera, luogo di adorazione e di memoria perché e finché quella benedizione ci conquisti e conquisti il mondo con la sua pace.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Epifania del Signore

(6 gennaio 2021)

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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La festa di oggi viene presentata così nel Martirologio romano: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. La domanda dei Magi: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?” poteva essere formulata solo da un pagano. Un israelita avrebbe chiesto: “Dov’è colui che è nato, il re di Israele?”. Matteo fa presagire così che il titolo ‘re dei giudei’ ricomparirà nella motivazione della condanna sulla croce. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. L’episodio dell’adorazione dei Magi non sembra potersi ricondurre a un evento storico preciso, ma, nella logica narrativa di Matteo, la rivelazione è che Dio guida la storia perché sia conosciuto il suo Figlio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. Lo esprime molto bene s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando scrive: “[tutte le genti, tutti gli uomini] sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sembri la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità dell’amore del prossimo, testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, perché solo così potremo scoprire la grandezza del suo amore. Come canta s. Efrem: “Siete diventati figli di Dio, fratelli e amici di Cristo, congiunti dello Spirito nel battesimo, figli della luce in virtù delle acque. Benedetto colui che ha moltiplicato la vostra bellezza”.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Battesimo del Signore

(10 gennaio 2021)

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Is 55,1-11;  Is 12,2-6;  1Gv 5,1-9;  Mc 1,7-11

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Gesù viene al Giordano per farsi battezzare. È il suo primo atto pubblico, quello di mettersi in fila con i peccatori, solidale con loro. Marco vede realizzate le profezie e l’attesa messianica di Israele ricordando la dichiarazione di Mosè in Dt 18,15: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”. Viene a farsi battezzare, lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Forse non è inutile notare che il Giordano è il fiume della terra che scorre più in basso, raggiungendo circa i 500 m sotto il livello del mare. Anche questo dettaglio serve a presentare la salvezza operata da Dio secondo la cifra dell’abbassamento, della debolezza, della stoltezza, che Paolo chiamerà più forte e più sapiente degli uomini, e che Giovanni chiamerà gloria ed elevazione.

Nell’immagine dell’Innocente, solidale con i peccatori, Gesù è descritto nel suo compito messianico e nella sua gloria specifica, quella che l’apostolo Giovanni racconta contemplata “come del Figlio unigenito, che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

Il racconto di Marco è densissimo di allusioni. Se i profeti (cf. Ml 3,22) motivavano l’invito a emendarsi mirando al passato, richiamando cioè Mosè e la Legge, con il Battista oramai si guarda al futuro, alla venuta di colui che battezzerà in Spirito Santo. L’azione dello Spirito è di far sì che l’uomo appartenga a Dio (cf. Ez 36,28; Is 44,5) e denominarlo Santo, oltre che alludere alla natura divina, significa sottolinearne l’azione specifica: introdurre l’uomo nella sfera divina, consacrarlo nella fedeltà a Dio. Con il suo battesimo, a differenza di tutti coloro che ricevono il battesimo di Giovanni, Gesù non confessa la sua complicità con il male, ma manifesta la disposizione di offerta totale di sé: si impegna a compiere la sua missione a favore degli uomini disposto a non risparmiare nemmeno la sua vita. Si tratta di compiere l’esodo definitivo per il nuovo popolo dell’alleanza. Non per nulla, la prima azione che lo Spirito fa compiere a Gesù è di ritirarsi nel deserto per essere tentato. Vale a dire: la sua opera messianica si compirà stando totalmente dalla parte di Dio senza mescolarvi alcuna forma di gloria umana, perché solo così si manifesterà in tutto il suo splendore l’amore di Dio per gli uomini.

Marco è l’unico a usare il verbo ‘squarciare’ a proposito dei cieli che si aprono. Lo stesso verbo ricorre alla fine del vangelo quando, dopo che Gesù è spirato, “il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo” (Mc 15,38). L’annotazione è ulteriormente convalidata dall’intervento di un pagano, il centurione, che vedendo Gesù spirare in quel modo dichiara: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39). Non c’è più separazione tra il cielo e la terra e di conseguenza non c’è più separazione tra Israele e le nazioni, perché unica è la famiglia di Dio. Non c’è più chiusura tra cielo e terra, tra Dio e uomo e lo Spirito scende su Gesù come nel suo luogo desiderato. Come a dire: colui che si consegna per amore degli uomini è il luogo naturale dello Spirito di Dio. Con l’allusione, nell’immagine della colomba, allo Spirito Creatore di Gn 1,2, il quale in Gesù porta a compimento la creazione dell’uomo, portandola alla pienezza umana, ricolma di Spirito. Se con l’ultimo profeta, Malachia, la tradizione ha visto ritirarsi lo Spirito nel santuario celeste perché nessun nuovo profeta era sorto da allora, ora, con la discesa dello Spirito su Gesù, il santuario celeste è lui. Nell’Antico Testamento, lo Spirito Santo è indicato come lo Spirito del santuario, dal momento che è il Tempio, al suo centro, nel Santo dei Santi, a contenere la Shekhinah, la Presenza, l’Inabitazione. Ora la Shekhinah, la Presenza, è in quel profeta di Nazaret, che la voce proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”.

In quel ‘Figlio mio, l’amato’ risuona l’eco dell’esperienza di Abramo al quale viene chiesto di sacrificare Isacco, il figlio unico, che amava (cf. Gen 22,2). O ancora, l’eco della parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo, che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, a maggior ragione rivela la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. L’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento” rivela tutta la profondità del mistero. ‘In te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in lui si può contemplare tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità.

Chiamare Gesù ‘il Figlio mio’ non esprime solo la qualità di essere di Gesù per cui Dio, oramai, è il Padre di Gesù, ma anche la sottolineatura che il Figlio agisce e si comporta come Dio, il Padre. La dedizione di Gesù in favore degli uomini, per cui il battesimo è simbolo della morte volontariamente accettata, come riporta il canto al vangelo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”, è la rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. Il Padre rivela che il suo atteggiamento verso gli uomini è lo stesso manifestato da Gesù. In Gesù possiamo vedere chi è Dio. Tutto il vangelo sarà lì a mostrarlo, nelle parole come nelle azioni di Gesù. Non solo. Ma l’aspetto di consolazione del cuore è dato dal fatto che l’umanità è considerata oramai in quello sguardo di compiacenza del Padre. Non c’è motivo alcuno di vedere Dio avversario come non c’è motivo di considerare alcuno avversario o nemico. Tutto il cammino spirituale dell’uomo non è che teso a entrare a godere tutta la gioia di quella compiacenza condividendo con Gesù la fioritura in umanità come luogo di gloria della divinità.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

II Domenica

(17 gennaio 2021)

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1 Sam 3,3b-10.19;  Sal 39;  1Cor 6,13c-15a.17-20;  Gv 1,35-42

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Tutti i vangeli riportano la scelta degli apostoli da parte di Gesù. Matteo e Marco sembrano riferirsi a un fulmine a ciel sereno: Gesù chiama e loro seguono. Luca si premura di indicare la circostanza per cui la sequela di Gesù appare più che giustificata. Narra di una pesca miracolosa dopo la quale gli apostoli sono indotti a seguire Gesù. Il racconto di Giovanni sembra il più realistico. I primi discepoli di Gesù sono tutti discepoli del Battista e prima che Gesù li chiami a seguirlo abbandonando le loro cose, hanno avuto modo di conoscerlo personalmente. Il brano di oggi è appunto il resoconto di un’esperienza singolare, la scoperta del Messia da parte di Andrea e di un altro discepolo, che poi la tradizione ha riconosciuto come Giovanni. L’emozione dell’incontro è stata tale che tutto il vangelo non farà che dare storia a quella rivelazione degli inizi perché chiunque ascolti si ritrovi nella stessa dinamica vissuta dai discepoli.

In effetti, tutto fa pensare a ricordi personali dell’evangelista a proposito dell’esperienza che l’ha segnato per tutta la vita. Giovanni racconta l’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza. Se, all’inizio del suo vangelo, Giovanni dichiara: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14), ebbene, ha cominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, su invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea.

La domanda che rivolgono a Gesù: “Rabbì, dove dimori?” attraversa tutto il racconto del vangelo per concludersi con l’affermazione/risposta di Gesù all’ultima cena: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). In greco viene usato sempre lo stesso verbo. È come se Gesù, ancora rispondendo alla domanda iniziale dei suoi discepoli: “dove dimori?”, alla fine dicesse: siete venuti da me, avete visto che dimoro nell’amore del Padre per voi e così voi, ora, rimanete in questo stesso amore. È a questa esperienza che Giovanni allude quando annota: “andarono dunque e videro dove egli dimorava”. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. La carica emotiva di quella scoperta, infatti, è rivelata in tutta la sua forza nell’ultima cena allorquando Gesù, con il paragone della vite e dei tralci, innesta i suoi discepoli nel segreto del Padre, coinvolti nella stessa intimità sua con il Padre. In quel contesto Gesù non chiamerà più servi i suoi discepoli, ma amici, partecipi dei suoi segreti. Sarà l’esito della sequela di Gesù, come dell’ascolto, attento e orante, della Parola. Assolutamente caratteristica la coppia di verbi: seguire/rimanere.

Le condizioni che permettono al cuore di condividere quei segreti sono indicate dalla prima lettura e dal salmo responsoriale. La prontezza di Samuele a rispondere rivela la libertà di cuore nell’obbedienza, che è la porta di accesso alla visione. Dio non si sottrae mai alla mediazione umana: Giovanni Battista media per Giovanni ed Andrea, Eli per Samuele. Accogliere il mistero di questa mediazione significa custodire una libertà e una purità di cuore nei confronti di Dio. Detto con le parole del salmo 39 (40): non vengo a fare una certa cosa, di cui ho ascoltato l’invito e che condivido, ma vengo perché sono con te e poi farò quello che mi si chiederà. É l’apertura di cuore che conta, non la disponibilità a un certo progetto. Il brano però fa intravedere la drammaticità che comporta l’apertura di cuore. La prima rivelazione che il giovane Samuele riceve riguarda la condanna della casa di Eli, suo maestro e padre nella fede. Non vorrebbe rivelarla ma non è nemmeno disposto a mentire. La prontezza di obbedienza che gli ha ottenuto la visita di Dio gli ottiene anche la sincerità con Eli e la pace del cuore, nella totale fiducia in Dio.

L’obbedienza alla parola non si riferisce in generale alle parole che ascoltiamo quotidianamente leggendo le Scritture, ma a quelle parole che parlano al nostro cuore, capaci di imprimere una direzione alla nostra vita, fonte di lotta e di gioia per la nostra vita, dandoci orizzonti di senso e di esperienza significativi. Proprio quello che il salmo commenta, in riferimento al Messia: “Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo” (Sal 39,8-9). Quando Gesù, invitandoci a rimanere in lui, a dimorare in lui, ci associa alla sua esperienza nel fare la volontà del Padre, vuole indurci a vivere la vita in modo da mostrare quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli. Avere la sua legge nell’intimo significa preferire la comunione con i suoi figli a qualsiasi altra cosa. Ed è quello che la liturgia eucaristica vuole ottenere quando ci fa invocare lo Spirito Santo dopo la consacrazione: formare un cuor solo e un’anima sola. Stessa cosa che viene chiesta con la preghiera dopo la comunione: “Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché saziati dall’unico pane del cielo, nell’unica fede siamo resi un solo corpo”.

Per i discepoli di Gesù, seguire il Signore significa andare con il Signore, semplicemente stando con lui, in tutte le vicende della vita. Seguire Gesù comporta il desiderio di vivere con lui e come lui, così come Gesù stesso dichiarerà poco prima di subire la passione: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Essere dove è lui significa rimanere ad ogni costo nell’amore del Padre per noi perché tutti sono invitati alla stessa mensa. Quando Gesù sceglierà i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione sarà: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Sarà lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,53).

Così, dall’esperienza del vivere con Gesù scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni anche tu! È l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa gloria risplendano anche per lui.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

III Domenica

(24 gennaio 2021)

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Gio 3,1-5.10;  Sal 24;  1Cor 7,29-31;  Mc 1,14-20

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Come intendere l’annuncio di Gesù che ‘il tempo è compiuto’? Non significa solo che ormai i tempi dell’attesa sono compiuti e quello che Dio aveva promesso ora lo realizza. Perché qualcosa si deve ancora compiere, e solo alla fine, sulla croce, Gesù dirà: «È compiuto!» (Gv 19,30). L’invito di Gesù, che riprende la predicazione del Battista, ha a che fare direttamente con l’esperienza che la sua predicazione aveva suscitato. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo parla di un tempo breve: “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29). L’espressione è ripresa dal gergo marinaresco quando i marinai imbrogliano le vele chiudendole rapidamente per sottrarle all’azione del vento mediante la manovra dei cavi che si chiamano imbrogli. Non si tratta di cogliere il fatto che le attese sono compiute, ma che le uniche possibilità di vita sono l’accoglimento del tempo di Dio che entra nel nostro presente, dell’eterno che entra nel temporale, del compimento che si fa accessibile. E noi potremmo spiegare: è tale la gioia dell’amore salvatore di Dio, sperimentato in Gesù, che tutto il resto passa in secondo piano. Tutto in questo nostro mondo e in questa nostra storia ha valore, ma tutto va vissuto nell’ottica di quella verità, percepita come la grazia lungamente attesa e finalmente godibile. La nostra cronaca, quello che facciamo e ci succede, prende senso dalla storia di Dio che ci investe alimentando le radici della nostra vita. Così, non c’è più alcun tempo che non possa essere raggiunto dalla rivelazione dell’amore di Dio. Il tempo breve, il tempo che ci riguarda, è ormai il tempo compiuto, dove tutto si compie.

Dire che ‘il regno di Dio è vicino’ allude al fatto che nella persona di Gesù il regno si svela, si lascia toccare. È vicino nel senso che si è approssimato a noi, ne possiamo godere la grazia. Grazia che ci apparirà in ragione della conversione del nostro cuore. Con Gesù la conversione, che costituisce la reazione alla percezione della prossimità del Regno in Gesù, comporta il lasciarsi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che in lui si compie per noi. Credere al vangelo comporta il ritenere Dio sufficientemente potente per compiere, in Gesù, la sua promessa per noi, capace quindi di soddisfare gli aneliti del nostro cuore. Tutto questo dobbiamo imparare a percepire nell’annuncio di Gesù.

Il brano di Giona illustra splendidamente che l’annuncio di Gesù riguarda tutti, ebrei e gentili, ironizzando sull’ira del profeta che, conoscendo la natura misericordiosa di Dio, non vuole sia condivisa dai pagani. Il profeta, che sa come Dio sia “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore”, secondo la rivelazione a Mosè sul Sinai, testimonia controvoglia che le premure di Dio sono estese a tutti, pagani compresi. La conversione degli uomini resta fondata sulla natura compassionevole di Dio. E quando il salmo responsoriale fa pregare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, non si riferisce prima di tutto alle vie che l’uomo deve percorrere per piacere a Dio, ma alla via di Dio che mostra compassione, intendendo: “fa’, o Signore, che sia toccato dalla tua compassione, possa ritornare a sentire il tuo amore diventando solidale con tutti i miei fratelli, perché a tutti si rivolge la tua compassione”.

Il convertirsi comporta essenzialmente il fidarsi del dono di Dio, che è Gesù per noi e si traduce essenzialmente nella sequela di Gesù. Quello, appunto, che Marco sottolinea con la chiamata dei discepoli, figura di ogni vocazione al seguito di Gesù. Attenzione però. Non si tratta di qualcosa di miracolistico o di fascino irresistibile. Spesso si sottolinea la risposta immediata dei discepoli come esempio di comportamento rispetto alla parola ascoltata. Ma rischiamo di costruirci una realtà ideale che non risponde alla vita dei cuori. Se i discepoli rispondono subito all’invito di Gesù è perché si sono sentiti onorati della chiamata di un tale Maestro. Loro lo conoscevano da tempo, l’avevano scoperto con Giovanni Battista al Giordano, erano stati in sua compagnia e avevano goduto del suo insegnamento. Quando il Battista viene incarcerato, tutti tornano a casa, in Galilea e Gesù, invece di tornare a Nazaret, sceglie di abitare nella città di questi primi discepoli. Così, quando decide di costituire il primo gruppo di apostoli, non ha che da riferirsi a Pietro e Andrea, a Giacomo e Giovanni. Diventano i compagni del Messia! Questo è l’onore di cui si sentono investiti. Naturalmente, avranno modo col tempo di entrare nel segreto di Gesù, di abbandonare le loro idee messianiche troppo impastate di gloria umana. Ma per loro, che da questo momento abbandonano attività e affetti, il mondo non costituirà più motivo di interesse prevalente per il loro cuore. Gesù diventerà per loro via, verità e vita piena.

È del resto assai caratteristico che nel vangelo la conversione sia espressa dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di seguire, ma più direttamente di andare dietro, di stare dietro, di mettersi dietro a Gesù. In questo, si può ancora ascoltare l’eco delle parole di Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle, cioè solo praticando i miei comandamenti (cfr Es 33,20). Quando Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non volere starmi davanti! (cf. Mc 8,37). Alla fine del vangelo di Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel venire dietro a, in quel camminare dietro a sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca in speranza di vita, come ci indica la preghiera dopo la comunione: “fa che ci rallegriamo sempre del tuo dono, sorgente inesauribile di vita nuova”. Nuova, non nel senso di altra, ma trasformata, pescante in quella novità di vita che ci viene dal Signore Gesù, che ci ha fatto conoscere l’amore di Dio per i suoi figli.

Se si dice che Gesù predica il vangelo di Dio, ciò significa che Dio si è fatto grazia per l’uomo, che Dio fa grazia di sé, in Gesù, agli uomini, verità che anche gli apostoli annunceranno al mondo, con la sottolineatura che a loro basterà annunciare Gesù. Così, cantare con il salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, oltre a significare la possibilità di conoscere l’amore salvatore di Dio in Gesù, significa domandare di indurci a seguirlo come gli apostoli in modo da godere della potenza di salvezza del suo vangelo, potenza che non concerne soltanto noi, ma tutto il mondo. Gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione. Sarebbe questo il senso di: vi farò pescatori di uomini. Per gli apostoli come per noi, seguire Gesù dice soprattutto l’intimità di vita con lui che ci ha conquistati, intimità così incontenibile che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. Se Gesù ci ha fatto conoscere le vie di Dio, fino a diventare lui stesso “la via”, è perché la via è il perdono. È venuto ad insegnare agli uomini a conoscere e riconoscere i propri peccati senza disperare, ma aprendosi al cammino di ritorno a Dio che comincia proprio dal sapersi amati e perdonati in anticipo, in modo totalmente immeritato.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(31 gennaio 2021)

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Dt 18,15-20;  Sal 94;  1Cor 7,32-35;  Mc 1,21-28

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Tutti i vangeli sinottici riportano l’annotazione di stupore della gente che ascoltava Gesù: “egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (Mc 1,22). Non viene spiegato in cosa consista questa autorità; soltanto la si registra. E alla fine Marco annota: “Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono” (Mc 1,27). È facile vedere l’effetto di questa autorevolezza (scaccia gli spiriti impuri) ma non se ne rivela ancora la natura.

Se facciamo valere il collegamento con la prima lettura, possiamo farci un’idea più precisa della natura dell’autorità di Gesù che tanto stupisce. Il brano del Deuteronomio è tratto dal secondo grande discorso di Mosè al popolo prima di entrare nella terra promessa. Mosè sta mettendo in guardia la sua gente perché, una volta entrata in quella terra, non dovrà assolutamente assumere i modi di comportamento delle nazioni che là vi abitano. Elenca loro i vari abomini dei pagani (immolazione di figli per le nuove costruzioni, negromanzia, divinazione, magia, sortilegi) e ricorda a Israele che dovrà stare attaccato solamente al suo Dio in modo puro: “Tu sarai irreprensibile verso il Signore, tuo Dio” (Dt 18,13). Subito dopo, Mosè ricorda loro che, anche se lui non ci sarà più, il Signore susciterà un profeta pari a lui, perché il popolo sia confermato nel suo attaccamento al Signore. Questa promessa di Mosè è stata letta dalla tradizione rabbinica come l’annuncio del messia e la tradizione cristiana l’ha riferita a Gesù. Ma quello che è straordinario è la considerazione dei due personaggi, Mosè e Gesù, secondo la descrizione delle Scritture.

Mosè è elogiato nella Scrittura come l’uomo che conosceva il Signore faccia a faccia (Dt 34,10), come l’uomo della casa di Dio con il quale Dio parla bocca a bocca (Nm 12,8) e non in sogni come ai profeti, di cui si dice che era un uomo assai umile (mite) più di qualunque altro sulla faccia della terra (Nm 12,3). La Scrittura però annota che quel parlare faccia a faccia non comporta la visione della faccia di Dio, perché chi vede Dio muore, ma il fatto di vedere come la forma di Dio, come una persona vista di spalla (cfr. Es 33,20-23; Nm 12,8).

La solenne presentazione di Gesù nel prologo del vangelo di Giovanni riporta chiaramente: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato [narrato, spiegato senza veli, raccontato, fatto conoscere]” (Gv 1,18). E quando Gesù vuole presentarsi ai suoi discepoli dirà: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,27-29). Gesù si qualifica come Mosè: uomo mite e umile. Solo che quella qualifica è direttamente rivelativa della natura stessa di Dio. Per questo viene detto che chi vede Gesù vede il Padre.

Ecco perché il suo insegnamento è nuovo, dato con autorità. Perché pesca in questa comunanza di vita con il Padre che ama i suoi figli. Perché in Gesù si rivela la potenza dell’amore misericordioso di Dio che viene a salvare l’uomo. La sua autorità si esprime con il far conoscere il Signore, proprio nel movimento di rivelazione di quello che il salmo 144,3 proclama: “Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore?” [nelle antiche versioni greca e latina: perché tu ti sia fatto a lui conoscere?]. Ed ecco perché chi si affida a questa ‘autorità’ non può che rimanerne saziato, non resterà sulla sua fame. È la dimensione più segreta dell’agire di Gesù, che fino alla fine resterà come velata, fino a che la sua passione, morte e risurrezione non svelerà compiutamente l’amore straordinario che lo muove nel desiderio di attirare tutti nell’intimità con il Padre.

Un altro dettaglio del brano del Deuteronomio suona strano ed è la motivazione che il popolo dà al bisogno di un profeta. Tutto il popolo aveva assistito alla rivelazione del Signore che parlava dal fuoco sull’Oreb e non regge alla paura, tanto da invitare Mosè a fare da mediatore tra loro e il Signore. Il capitolo 5 del libro del Deuteronomio lo esprime chiaramente: “Se continuiamo a udire ancora la voce del Signore, nostro Dio, moriremo. Chi, infatti, tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo? … Accostati tu e ascolta tutto ciò che il Signore, nostro Dio, ti avrà detto: noi lo ascolteremo e lo faremo” (Dt 5,25-26.27). E Dio stesso commenta: “Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e osservare tutti i miei comandi …!” (Dt 5,29). Così, la richiesta di un mediatore procede da un profondo timore del Signore in cuori che vogliono essere fedeli all’alleanza con il proprio Dio.

Così, di fronte a Gesù che insegna con autorità, la deduzione per noi risulta la seguente: siamo ancora capaci di fremere di timore davanti alla parola di Gesù? Sappiamo ancora cosa comporta l’ascoltare la parola del Signore che parla dal fuoco? Siamo nella disposizione d’animo degli israeliti che, davanti all’avventura dell’alleanza con il loro Dio, dichiarano: noi l’ascolteremo e lo faremo? Perché a questo si riferisce l’esperienza drammatica della ‘novità’ dell’insegnamento di Gesù. Un insegnamento che va al di là di ogni buona dottrina e conduce direttamente all’incontro col proprio Dio. La meraviglia degli astanti risalta proprio dall’osservazione che parola e potenza dicono la salvezza operante di Dio in mezzo a loro. Gesù non solo ‘è pari’ a Mosé nelle due caratteristiche singolari, ma che Mosè è solo un’allusione a Colui che è inviato per mostrare la potenza di salvezza di Dio per il suo popolo. Gesù è l’unico mediatore di salvezza perché nessun spirito impuro ha presa su di lui e perciò può liberare tutti dagli spiriti impuri.

Se ha potere sui demoni è perché sottrae alla loro influenza gli uomini e li rimette nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di guarigione, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i peccati, cosa che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato all’uomo. È la novità che suscita stupore, sbalordimento, esultanza, perché il male è vinto e l’uomo ritorna nella signoria di Dio che vuole gli uomini commensali al suo amore e alla sua gioia.

Così, presentare Gesù come profeta, il cui insegnamento è nuovo, diverso rispetto a quello degli scribi, porta allusione al mistero dell’intimità tra lui e il Padre. Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori a questo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso anche per noi all’intimità da lui goduta. Dire poi che Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni, equivale a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore sempre e comunque.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

V Domenica

(7 febbraio 2021)

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Gb 7,1-4. 6-7;  Sal 146;  1Cor 9,16-19.22-23;  Mc 1, 29-39

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Dei possibili aspetti sotto i quali considerare il brano evangelico odierno, la liturgia sceglie una prospettiva precisa, definita dalla colletta così: “O Padre, che con amorevole cura ti accosti all’umanità sofferente …”. Gesù è considerato nella sua premura per i deboli, ammalati e indemoniati, nella volontà di arrivare a tutti. L’esempio di Paolo si riferisce proprio a quella premura, instancabile, accondiscendente, estesa a tutti: “… mi sono fatto servo di tutti … mi sono fatto debole per i deboli … mi sono fatto tutto a tutti … Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io” (1Cor 9,19-22).

Il rovescio della medaglia è ben descritto dal brano del libro di Giobbe, dove Giobbe esprime tutta la sua afflizione e disperazione per l’incomprensibilità della situazione che l’ha sorpreso. Non ne può più e si lamenta col Signore. Il cap. 7 di Giobbe termina con una forte rivendicazione di dignità come contro Dio lasciando parlare tutta l’amarezza del suo cuore: “Perché mi hai preso a bersaglio e sono diventato un peso per me?” (Gb 7,20). La forza della rivendicazione di Giobbe però è sottolineata da antichi manoscritti ebraici e dalla versione greca della LXX: “Perché hai fatto di me un tuo accusatore? Sono un peso per te?” Oppure anche: “In che cosa sono un peso per te?”, riferendosi al fatto che l’uomo è peccatore e si sente come accusato da Dio, accusa che Giobbe ritorce contro Dio: perché non mi sopporti? Lasciami in pace, non pensare più a me!

Alla rivendicazione di Giobbe fa riscontro, stranamente, il salmo 147, che invece è un inno di lode al Signore. Sì, perché il salmo si esprime nella lode al Signore in quanto “risana i cuori affranti e fascia le loro ferite” (LXX: ‘guarisce coloro che hanno il cuore spezzato e fascia le loro fratture’); “il Signore sostiene i poveri” (LXX: ‘il Signore solleva i miti’). Ecco, Dio è scoperto nella sua premura per la fragilità dell’uomo ed è tale atteggiamento che viene attribuito a Gesù nel suo curare i malati e scacciare i demoni che tormentano il cuore dell’uomo. È lo stesso atteggiamento che risalta in Paolo, il quale si era definito come ‘collaboratore della gioia’ dei suoi fratelli (2Cor 1,24). La guarigione è in rapporto alla gioia del regno di Dio che viene svelato, che viene fatto toccare, che viene fatto risplendere, pur nelle fragilità e debolezze della vita.

Marco annota che Gesù si era ritirato tutto solo a pregare. Solo in tre occasioni Marco parla della preghiera di Gesù: qui, dopo la moltiplicazione dei pani quando Gesù teme di essere frainteso e deve sottrarsi alla folla e nel Getsemani prima della passione. Tutti e tre i casi riguardano il segreto della sua persona nella sua intimità con il Padre che lo ha inviato nel mondo ‘per noi e per la nostra salvezza’. Anche il suo guarire dalle malattie, il suo scacciare i demoni, il suo predicare, riguarda quell’invio e la volontà di salvezza del Padre che ne è all’origine, come del resto la sua obbedienza di Figlio. La inquietudine di arrivare a tutti e, come via via si verrà a sapere, di arrivare a Gerusalemme, parla di quella volontà di salvezza di cui lui è, non solo il Testimone, ma il Realizzatore. Così che il regno di Dio predicato, fatto toccare nella sua potenza di salvezza con il guarire e il cacciare i demoni, si risolve nel rivelare il segreto della sua persona, nel farsi accogliere come l’Inviato che fa entrare nel regno che è la sua stessa umanità. In quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.

La preghiera di Gesù non ha forse a che fare con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio prima ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio? Se gli uomini non percepissero l’eco di quel desiderio di Dio, potrebbero mai pregare davvero? Potrebbero mai essere solidali con i loro fratelli e farsi raggiungere dal Suo amore tanto da essere rinnovati totalmente? Il fatto che Gesù si ritiri da solo a pregare esprime proprio l’immensità del desiderio di Dio per l’uomo e quando i discepoli gli annunciano che lo cercano, non torna ma va altrove perché tutti deve raggiungere. E si può leggere anche così: Gesù deve percorrere tutta la terra del nostro cuore; se in qualche parte siamo stati guariti, altre parti attendono la guarigione, fino a che tutto in noi possa risplendere del suo amore salvatore.

La potenza della supplica deriva dall’intensità della coscienza del male che ci ferisce insieme al desiderio di guarigione che ci attrae al Signore Gesù, solidali in umanità con tutti. La preghiera si risolve nel desiderio di sperimentare l’amore salvatore di Dio, non però nel senso di essere preservati dagli effetti dell’azione dei demoni (il male non scompare e non scomparirà dalla scena del mondo) ma nel senso di non essere più asserviti ai loro scopi perversi. A tal punto che, proprio quando il male sembrerà prevalere, come con il Signore Gesù in croce, esso sarà definitivamente vinto perché svuotato del suo scopo perverso, cioè quello di dividere gli uomini da Dio e tra di loro.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(14 febbraio 2021)

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Lv 13,1-2.45-46;  Sal 31;  1Cor 10,31-11,1;  Mc 1,40-45

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Oggi le letture parlano di lebbra, le preghiere di peccato. È esattamente la corrispondenza da cogliere, intuendo la natura del peccato nell’orrore della lebbra. L’antifona di introduzione subito richiama alla realtà della vita dell’uomo. Se Dio deve essere per noi rifugio e fortezza, vuol dire che la vita dell’uomo si gioca in continue prove, afflizioni di ogni genere, insidie e attacchi di nemici, paure e tormenti. Il salmo allora proclama: Per la tua misericordia salvami! E chi ha già fatto questa esperienza la ricorda ai suoi fratelli: Rendete saldo il vostro cuore nella speranza in Dio. Così termina il salmo 30, il salmo dell’antifona di introduzione.

Marco presenta il lebbroso che riesce ad arrivare a Gesù come uno che ha spiato i movimenti di Gesù per sorprenderlo quando è solo. In effetti, non grida per richiamare l’attenzione, per avvertire che si avvicina un uomo impuro, come la legge prescriveva. Matteo, invece, che non bada alle incongruenze del suo racconto (classica quella della descrizione dell’entrata di Gesù in Gerusalemme a cavallo dell’asina e del puledro!) presenta l’episodio come il primo miracolo che Gesù compie scendendo dalla montagna, dove aveva appena proclamato le sue beatitudini, con tutta la folla che lo circonda. E siccome le beatitudini sono la rivelazione della fraternità in Dio, guarire dalla lebbra vuol dire allora ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, in libertà e gratuità, toccati da Dio. Così, la vita santa, quella in rapporto alla santità di Dio goduto nel suo desiderio di comunione con noi, non è più definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo a noi nella sua compassione. Il nesso guarigione/purificazione, da leggere in rapporto alla beatitudine: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, acquista la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo.

Marco annota: “Ne ebbe compassione”. Antichi codici riportano la lezione “Si sdegnò”, ad indicare il coinvolgimento di Gesù davanti al lebbroso. In effetti, lo statuto del lebbroso secondo la legge era terribile, come riporta la prima lettura del Levitico. La sua malattia, oltre il peso sociale dell’esclusione, comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio. Quando Gesù guarisce il lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la condizione interiore del malato restituendolo ad una vita santa. Proprio qui si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di là di quella guarigione. Il testo, a proposito della lebbra, non parla di guarigione, ma di purificazione.

Tutti e tre i sinottici riportano la volontà espressa di Gesù: “Lo voglio, sii purificato”. Non è da leggere soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e angosciato, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanziano. È come se dicesse: ‘ardo dal desiderio di mostrarvi quanto è grande l’amore del Padre’, ‘bramo che il suo amore vi raggiunga’, ‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la sua luce’. Nel suo volere va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era il segno per eccellenza.

Rivado ad almeno altri tre passi evangelici che sottolineano la espressa volontà di bene di Gesù. Quando Gesù è a tavola con gli amici pubblicani di Matteo risponde alle insinuazioni dei farisei con il rimando al profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio” (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7). Quel ‘voglio’ allude al mistero di Dio nella sua compassione verso i suoi figli. Quando Gesù è nel Getsemani prega: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Il volere del Padre sta tutto nel manifestare la grandezza del suo amore, volere che Gesù intimamente condivide nella sua umanità. Quando Gesù innalza la sua preghiera sacerdotale a favore dei suoi discepoli dice: “voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io” (Gv 17,24).

La vecchia colletta ci faceva pregare: “Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono”. Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. I peccati nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono. Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio che torna a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.

Quando il lebbroso guarito, nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto”. In realtà però il testo dice semplicemente: “cominciò a proclamare molto e a divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia.

Per questo la preghiera caratteristica della liturgia di oggi è il salmo 32: “Ho detto: ‘Confesserò al Signore le mie iniquità’ e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. L’audacia del lebbroso che, contravvenendo alla legge, si avvicina a Gesù, corrisponde nel salmo all’audacia del peccatore che decide di manifestare il suo peccato. La compassione di Gesù che ottiene la guarigione/purificazione del lebbroso corrisponde alla misericordia perdonante di Dio che fa la beatitudine del peccatore, il quale ritrova la gioia dell’alleanza con il suo Signore. E i Padri commentano: “Brevissima è la regola: piace a Dio colui cui piace Dio” (Agostino); “Lui che si dispiace di se stesso soddisfa il Signore poiché quando noi ci scontriamo con noi stessi cerchiamo la verità, ma quando noi cerchiamo di lodare noi stessi le nostre parole sono piene di falsità” (Cassiodoro); “Una persona retta accusa se stessa sin dall’inizio del suo discorso” (Evagrio Pontico). Senza dimenticare che, se l’uomo arriva a manifestare il suo peccato, è perché la misericordia di Dio già ha lavorato il suo cuore, che è così pronto a tornare luminoso.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

Mercoledì delle Ceneri

(17 febbraio 2021)

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Gl 2,12-18;  Sal 50;  2Cor 5,20-6,2;  Mt 6,1-6.16-18

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Qual è il senso dell’austero rito delle ceneri? Certamente ognuno di noi tende a sentirsi e a comportarsi come immortale e che ci venga ricordato in qualche occasione che la realtà non segue i nostri sogni non è male. Ma il significato del rito è altro.

Se riandiamo al secondo racconto della creazione, leggiamo: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). Nel salmo responsoriale della liturgia di oggi, il salmo penitenziale per antonomasia, proclamiamo: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51,19). Il termine contrito, dal latino ‘conterere’, allude al rendere polvere il cuore. E quando il cuore è ridotto in polvere? Quando subiamo afflizioni o un’offesa o un’ingiustizia, quando subiamo una prova, senza ribellarci o adirarci. È reso polvere quando non ha più diritti da avanzare, da rivendicare. Allora, come polvere della terra, può essere consegnato a Dio perché lo plasmi di nuovo, perché lo renda capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo. Sarebbe il senso appunto della penitenza quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perché possa essere di nuovo modellato da Lui. La verità da scoprire è quella di un cuore che si ritrova con nuove energie per vivere l’avventura della vita, solidali e attenti ai nostri fratelli, e trovare la gioia che cerca, nonostante i tormenti che incontra.

Vorrei solo offrire qualche suggerimento di prospettiva per il cammino quaresimale a partire dal salmo 50 (51). Il salmo è attribuito a Davide: “Di Davide. Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea”. L’episodio è narrato in 2Sam 12,1-14, allorquando Dio invia il profeta Natan a Davide, dopo il suo peccato di adulterio e di assassinio. Il salmo presenta con lo stesso realismo il peccato di Davide e l’invio a lui del profeta usando lo stesso verbo ‘andare’. E un antico commentatore ebraico annota: “Con la stessa sincerità con cui era andato da Betsabea, Davide si rivolse a Dio e gli disse il suo canto. Perciò fu subito perdonato”.

E il canto comincia con:

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;

nella tua grande misericordia

cancella la mia iniquità”.

I termini ebraici ‘aver pietà, amore e misericordia’, comportano sfumature di significato che l’italiano non riesce a rendere. Sono proferiti a partire da un’emozione e un’intensità drammatica, da dentro un rapporto, ferito, di intimità. Chi li pronuncia sa che ha ricevuto un’attenzione di benevolenza da parte del proprio Signore, a fronte di una grave mancanza nei suoi confronti. Non si tratta di pietà come di compassione strappata, ma di grazia di accoglienza tanto che il peccatore non si sente solo ‘graziato’ (evita la condanna e la punizione), ma soprattutto ‘grazioso’ (bello e desiderato) agli occhi del suo Signore.

Amore corrisponde al termine ebraico ‘hesed’, che nelle antiche versioni viene sempre reso con misericordia. Nelle Scritture designa la quintessenza di Dio, sempre pronto a perdonare, ad accogliere, ad attirare a sé nella sua bontà. In tutto l’Antico Testamento, misericordioso è detto solo di Dio! Gli uomini devoti, in Israele, sono coloro che continuano a sperare nella sua bontà e nella sua misericordia (Sal 32/33,18; 147,11).  Il termine non allude solo al sentimento, ma all’azione che deriva dal sentimento. E posso conoscere il sentimento di una persona a partire dall’azione che lo caratterizza. Si rifà alla grande rivelazione del nome di Dio dopo il peccato del vitello d’oro allorquando Mosè, sul Sinai, sente proclamare: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”. L’azione più assoluta di Dio nei nostri confronti è l’invio del suo Figlio!

E quello che in italiano rendiamo con ‘nella tua grande misericordia’, in ebraico suona ‘per le tue viscere d’amore’ (rachamekha). Il termine ebraico deriva da rechem, utero, che non designa solo l’amore viscerale della mamma per il suo figlio, ma anche la matrice che dà vita. La sfumatura di significato risulta essere: l’amore perdonante di Dio, amore sentito visceralmente, porta vita, fa’ sì che faccia sgorgare di nuovo fluente la vita perché Dio è il Dio della vita. Quello che il salmo invoca più avanti: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito” (vv. 12-13). Il cuore nuovo, condotto dallo Spirito, che estende a tutti l’amore misericordioso di Dio perché la vita torni amabile e desiderabile.

Il brano evangelico descrive l’atteggiamento penitenziale in tre ambiti: elemosina, preghiera e digiuno. La dimensione negativa è stigmatizzata nell’ipocrisia, mentre la dimensione positiva risulta sottolineata dalla capacità di relazionarsi al prossimo (l’elemosina, oltre che una sorta di restituzione, è un atto fraterno, una condivisione, un riconoscimento del prossimo come nostro fratello) e a Dio (la preghiera è abolizione del teatro, cioè del fare le cose per essere visti sia dagli altri che da se stessi; il digiuno serve come sostegno alla preghiera, all’agire interiore pulito e retto, contrassegnato dalla gioia del cuore che va incontro al proprio Dio e di conseguenza è libero di incontrare i suoi fratelli).

L’ipocrisia è la deviazione dello scopo di un’azione (la faccio per me piuttosto che per Dio) con l’aggravante del bisogno di fare teatro (faccio un’azione davanti agli uomini piuttosto che al cospetto di Dio). L’ipocrisia può essere soggettiva, vale a dire che perseguo scopi meschini e interessati nel compiere un’azione buona oppure semplicemente oggettiva, nel senso che io sono in buona fede, ma mi limito all’azione esteriore senza coinvolgere la conversione del cuore. Una penitenza di questo tipo non solo non porta frutti secondo lo Spirito, ma macchia il cuore nel senso che lo rende insensibile al mistero di Dio e dell’uomo. L’elemento che suggerisce meglio la corrispondenza dell’azione esteriore con la conversione interiore del cuore è appunto la gioia, quel senso di levità, di non seriosità con cui si compiono le buone opere, lontani da quel dannato senso di importanza che ci diamo o da quell’ottuso bisogno di affermazione presso gli altri che ci divora. È significativo che la chiesa, all’inizio del cammino quaresimale, ricordi proprio questa condizione di levità con cui occorre compiere tutte le opere di penitenza. È il modo più autentico per far rimarcare come le opere di penitenza non riguardino che la conversione del cuore e la conversione del cuore non consista in altro che in una capacità di fare incontro con Dio, con il prossimo, con noi stessi. La ricompensa promessa non ha nulla a che fare con la paga dovuta al lavoro fatto; riguarda solo la rivelazione e la pienezza che gusta il cuore quando viene incontrato da Qualcuno di cui porta il desiderio, quando si apre alla vita di una relazione che trasforma totalmente il suo modo di vedere e di sentire. Come spesso esorta la chiesa: Offri a Dio, come sacrificio, la lode!

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(21 febbraio 2021)

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Gn 9,8-15;  Sal 24;  1Pt 3,18-22;  Mc 1,12-15

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L’antica colletta di questa domenica esprimeva bene la tensione del cuore di tutto il cammino quaresimale: “O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”. Lo sguardo è tutto orientato a quel Signore Gesù, che per noi ‘patì, morì, fu sepolto, risuscitò, rendendoci il suo Spirito’.

Il salmo responsoriale invoca: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri” (Sal 24/25,4). Le vie sono quelle indicate dal Signore Gesù, lui che, alla fine del suo tragitto terreno, poco prima di subire la passione, rivela ai suoi discepoli: Io sono la via, la verità e la vita. Questo stesso salmo racchiude una proclamazione speciale per il cuore dell’uomo: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (v. 14). Il testo ebraico però suona: “Il segreto di Adonaj è per quanti lo temono e la sua alleanza per farla loro conoscere”. Il ‘segreto’, nella tradizione esegetica ebraica, è il quarto senso, il senso mistico, quello che si apre solo a coloro che servono il Signore con cuore sincero e integro. Quel ‘segreto’, che apre all’intimità con Dio e fa riposare il cuore nell’amore infinito di Dio, è quello che corrisponde all’affermazione stupefacente di Gesù, sempre nell’ultima cena: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 14,15). Quando Gesù chiama i suoi discepoli amici, questi non sono ancora pronti. Di lì a poco, nonostante tutta quella intimità goduta, si disperderanno e lo abbandoneranno, ma Gesù sa che ritorneranno, che si ‘convertiranno’ proprio perché hanno goduto un poco di quell’intimità donata gratuitamente a loro. Il tradimento avverrà perché non sanno ancora quali sono le vie di Dio, hanno ancora bisogno di vederle, di riconoscerle e finalmente cedere alla grandezza misericordiosa del suo amore.

Quello che per noi sembra impossibile da accettare è il collegamento tra Spirito e tentazione. Marco, nel riportare le tentazioni di Gesù, sorvola sulla lotta drammatica che Gesù sopporta nella sua umanità per non cedere alle lusinghe del tentatore, come nei passi paralleli di Matteo e Luca (nella sostanza, il giocare sul potere e sul prestigio piuttosto che sull’amore per conquistare gli uomini). Lotta che si ripresenterà in maniera radicale sulla croce: se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce… Là Gesù mostrerà in tutta la sua estensione e definitività la vittoria sul maligno perché prevarrà, assoluto, solo l’amore di Dio per i suoi figli. Marco mostra in Gesù il nuovo Adamo, come il primo Adamo nel paradiso terrestre prima del peccato. Ma collega comunque Spirito e tentazione. Gesù, dopo il battesimo, è pieno di Spirito Santo e la prima cosa che lo Spirito lo induce a fare è di spingerlo nel deserto per essere tentato da satana.

Due sono le cose da notare. Prima, il fatto stesso della tentazione. Gesù è ricolmo di Spirito Santo e subisce la tentazione. Possiamo pensare: in discussione non è messa la sua potenza, ma la modalità con cui si esprimerà. La sua vittoria non avrà nulla di mondano, come il tentatore sembra suggerirgli per realizzare la sua missione, bensì si rivelerà nella debolezza e nella follia della croce. In tal senso, l’annotazione che stava con le bestie selvatiche e che gli angeli lo servivano, allude alla ritrovata armonia della creazione come era uscita dalle mani di Dio. Quell’esito, però, sarà ottenuto con l’umiltà e la mitezza del Figlio di Dio che si consegna nelle mani degli uomini perché ne facciano quello che vogliono e così si rivelerà la grandezza dell’amore del Signore per i suoi figli.

La seconda, la tentazione avviene nel deserto. Il deserto è il luogo della grazia e della tentazione, dell’alleanza e della infedeltà, della manna e del vitello d’oro. “Il Signore parlò a Mosé nel deserto” (Nm 3,14; 9,1); “Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto” (Es 7,16); “Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè” (Es 16,2); “Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16). In particolare, nominare il deserto, significa far riferimento all’alleanza del Sinai. Gesù è presentato come colui che rinnoverà l’alleanza di Dio con il suo popolo, un’alleanza definitiva ed eterna che segue e compie le altre precedenti alleanze, quelle con Adamo, Noè (vedi la prima lettura), Abramo e Mosè.

Ancora, l’accenno alle bestie selvatiche e agli angeli, nel deserto, può essere spiegato con questa bellissima annotazione di Origene: “Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta, mentre l’egiziano se vorrà attraversarlo, verrà sommerso e l’acqua non diventerà per lui come muraglia a destra e a sinistra. Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio”. Sarà proprio quello che ci ottiene la nuova alleanza di Gesù firmata nel suo sangue.

Vittorioso sul diavolo, Gesù inizia la sua ‘evangelizzazione’: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Se leggiamo in parallelo i vangeli sinottici, ci accorgiamo che di queste quattro espressioni che definiscono l’annuncio di Gesù, due sono singolari di Marco: “il tempo è compiuto”, “credete al vangelo”. Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù” (Mc 1,1). Mettere in bocca a Gesù, come prima parola di annuncio, ‘il tempo è compiuto’ e ‘credete al vangelo’, significa orientare il lettore all’insieme del vangelo, che è costituito dalla persona stessa di Gesù. Ma qual è il vangelo annunziato da Gesù se non la rivelazione dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre (ecco perché i suggerimenti del diavolo sono illusori, in quanto non si possono rifare a questa novità, che rivela tutta la gratuità dell’agire di Dio nel suo amore per gli uomini), è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Di questo Gesù sarà il Testimone e il Donatore.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(28 febbraio 2021)

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Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18;  Sal 115;  Rm 8,31b-34;  Mc 9,2-10

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La liturgia si introduce con l’esclamazione appassionata: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26/27,8-9). Il tuo volto cerco, non altro, non ricompense, non benefici, il tuo volto soltanto. Collocate nel salmo, queste parole seguono lo scioglimento del dramma dell’attacco dei nemici che non sono riusciti a piegarci, proprio per l’intervento del Signore. E l’attacco è vinto perché il cuore non si è allontanato dall’invito che ascolta dallo stesso Signore: “Cercate il mio volto”.

A differenza però di quello che ci attenderemmo, la liturgia non insiste sulla visione del volto di Gesù trasfigurato, ma sulla tensione che quella rivelazione comporta. Nel brano della Genesi, che riporta il dramma di Abramo per il sacrificio del figlio Isacco, leggiamo: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito …”. Stessa sottolineatura nel grido dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?”. Gesù, nella discussione con i farisei dopo il perdono della donna adultera, ricorda loro: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). Si ricollega alla gioia del riavere il figlio Isacco, che aveva accettato di offrire al Signore in sacrificio, come sarà per lui con la risurrezione. Con la differenza che Isacco è stato risparmiato, Gesù no. Ma il senso è il medesimo, tanto che per Abramo, per quella sua fede e per quella sua gioia che si trasmette a tutta l’umanità, la Scrittura riporta: “Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce” (Gn 22,18).

Negli antichi racconti ebraici dell’obbedienza di Abramo alla voce del Signore che gli chiede di offrigli in olocausto il figlio della promessa, il figlio unico, l’amato, veniamo a sapere che la prova ha riguardato tanto Abramo quanto Isacco. Alla richiesta del padre di svelargli ciò che ha in cuore, il figlio risponde: “Per quanto è vivo il Signore, e per quanto è viva l’anima tua, giuro che nulla dentro di me mi induce a deviare a destra o a sinistra da quanto Egli ti ha ordinato. E dico: Benedetto sia il Signore che quest’oggi ha scelto me come Suo olocausto”. Davanti all’obbedienza di Abramo il Signore dice agli angeli: “Avete visto come il mio amato Abramo proclama nel mondo l’unicità del mio Nome? Se al momento della creazione, quando diceste: ‘Che è l’uomo da ricordarTi di lui, il figlio dell’uomo ché Tu ne debba aver cura’ (Sal 8,5), vi avessi prestato ascolto, chi Mi avrebbe più celebrato nel mondo?”. E davanti alle rimostranze di Abramo al Signore dopo aver superato la prova: “E allora, perché mi hai torturato in questo modo? Dio risponde: “Era Mio desiderio che il mondo ti conoscesse e si convincesse che non senza ragione avevo scelto te fra tutte le nazioni: ora il genere umano è testimone che tu temi Dio”.

Gesù riprende e unisce in se stesso la posizione di Abramo e di Isacco e per questo risplende della bellezza che vince ogni tenebra. Di una bellezza, però, che viene contemplata in un contesto drammatico. Dal vangelo di Luca conosciamo il contenuto del colloquio tra Gesù, Elia e Mosè, mentre il suo volto risplendeva e gli apostoli nemmeno potevano sostenerlo. Parlavano della sua dipartita. Parlavano del suo esodo pasquale. Nel vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”. I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani.

I discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze. Quale il senso?

Lo illustra assai bene Leone Magno nella sua omelia LI: “Una tale trasformazione tendeva principalmente a rimuovere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, sicché l’umiliazione della passione, volontariamente accettata, non venisse a turbare la fede di chi aveva contemplato l’eminente dignità, seppur nascosta, del Cristo. Intanto, secondo un disegno altrettanto previdente, era dato fondamento alla speranza della santa Chiesa, nel senso che tutto il corpo di Cristo veniva a conoscere quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e le singole membra potevano scambiarsi la promessa di compartecipazione all’onore che risplendeva nel loro capo”.

L’aggiunta della voce celeste al Tabor, rispetto alla stessa voce al momento del battesimo al Giordano, cioè “Ascoltatelo!”, assume questa valenza. Lui ha ascoltato il Padre nell’obbedienza al suo essere inviato al mondo come testimone dell’amore del Padre per i suoi figli. Noi siamo invitati ad ascoltare il Figlio nel nostro essere inviati al mondo per testimoniare la grandezza del suo amore. Io leggerei: non allontanatevi dal mio amore, entrate e rimanete in questo movimento di amore che solo può salvare il mondo. Il cammino quaresimale punta proprio a renderci permeabili all’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita, misura di vita. Cercare di ascoltare Gesù, di seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata espressione di amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca a quell’amore, capace di far risplendere anche il volto degli uomini. Qui si comprende perché il cammino quaresimale sia lotta, lotta perché sia superata ogni forma di egoismo e il cuore viva del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore e dividendoci dai fratelli.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(7 marzo 2021)

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Es 20,1-17;  Sal 18;  1Cor 1,22-25;  Gv 2,13-25

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Giovanni ha raccontato i primi eventi attorno alla figura di Gesù raggruppandoli in una settimana ideale, sulla falsariga della prima settimana della creazione. Il miracolo alle nozze di Cana, con la trasformazione dell’acqua in vino, aveva come sanzionato il passaggio dall’Antica alla Nuova Alleanza che si compie in Gesù. L’attenzione dell’evangelista si sposta subito a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua. È però ancora la ‘Pasqua dei Giudei’; non è ancora la ‘Pasqua’, come Giovanni riporterà al cap. 13 quando introduce i racconti della passione con l’Ultima Cena. Il passaggio dalla ‘Pasqua dei Giudei’ alla ‘Pasqua’ di Gesù è richiamato con l’episodio della purificazione del tempio.

Gesù costruisce una frusta di cordicelle, che corrisponde al flagello messianico, secondo antichi racconti ebraici, nella sua opera di purificazione dal male e che riprende due tradizioni profetiche, quella di Zaccaria 14,21 (“In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti”) e di Malachia (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”). Quando Gesù risponde ai capi che gli chiedono un segno di autenticazione della sua autorità, dice: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Il termine che usa, però, non è ‘tempio’ riferito al complesso degli edifici (Gesù scaccia i venditori dal recinto del tempio, luogo al quale anche i pagani potevano accedere) ma alla cappella interna, al ‘Santo dei santi’ dove era creduta sussistere la Presenza. Riprende l’immagine della tenda nel deserto, luogo della Presenza del Signore.

È caratteristico che la Liturgia abbini al racconto evangelico il passo del Decalogo. Per la tradizione ebraica il primo comandamento suona: “Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (Es 20,2). Dio non è designato come Creatore, ma è colto nella prospettiva del destino degli uomini tanto che la conoscenza di lui riguarda sempre la loro storia: Dio non può che essere il mio Dio, se no non può nemmeno essere conosciuto. La parola proclamata non dice che Dio esiste, ma chi è il mio Dio. Non solo, ma viene designato in rapporto all’evento della liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto. Il che significa che Dio è nominato come il Dio della libertà nella storia e ciò comporta che la storia sia una continua rivelazione della graduale crescita della libertà e della giustizia sulla terra.

Ma se ascoltiamo il brano nel contesto della storia di Israele veniamo a intuire dove si colloca il passaggio dall’Antica Alleanza alla Nuova. Le dieci parole sono state scritte due volte. La prima, per opera diretta di Dio (“Le parole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole”, Es 32,16). Quelle tavole però sono state poi scagliate da Mosè ai piedi della montagna frantumandole, inorridito al vedere il popolo in adorazione del vitello d’oro. La seconda, scritte da Mosè su tavole intagliate da lui, per comando di Dio, dopo che Mosè ha interceduto per il popolo e ha ottenuto il perdono del Signore. Sono queste seconde tavole che verranno custodite nella Tenda del Convegno. Quando i profeti annunceranno la nuova alleanza, la presenteranno come un’alleanza non più scritta su tavole di pietra ma sul cuore di carne. In altri termini, la parola di vita (le dieci parole) non verranno ascoltate dall’esterno, ma dall’interno. Ed è quello che realizzerà Gesù nel suo stesso corpo, diventato il vero tempio della Presenza.

Quando il salmo responsoriale descrive la natura dei comandamenti di Dio in termini di limpidezza e luminosità partecipandoci la santità di Dio, che è splendore di amore per noi, allude proprio all’opera di Gesù. Potremmo domandarci: da dove deriva alla parola di Dio quella radicale limpidezza e luminosità, che l’umanità di Gesù mostra in tutto il suo splendore? Dal fatto che, come riporta s. Paolo a proposito di Gesù, quella parola è scevra di ogni riferimento alla potenza e alla sapienza del mondo: “noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25).

Poco prima di andare incontro alla sua passione, concludendo il colloquio con i discepoli nell’ultima cena, Gesù dirà: “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla” (Gv 14,30), in realtà dicendo: il principe di questo mondo cercherà in ogni modo di trovare qualcosa che è suo in me ma non troverà nulla perché tutto in me è amore del Padre per voi. Di qui deriva la limpidezza e la luminosità della parola di Dio, di cui Gesù appunto è la testimonianza vivente.

I discepoli quando potranno cogliere questo? Certo, conoscono le Scritture. Si ricordano del salmo 69,10: “mi divora lo zelo per la tua casa” vedendo Gesù scacciare venditori e cambiavalute dal tempio. Ma l’evangelista annota: “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22). Ecco espressa la dinamica di intelligenza e delle Scritture e del Verbo di Dio: l’uno illumina le altre e queste ne definiscono le coordinate di comprensione. Ma la chiave dell’intelligenza è ormai Gesù nel suo mistero pasquale. In effetti, nessuno è ancora pronto a riconoscere la portata vera di ciò che intende Gesù. Solo con la sua Pasqua la santità della Legge si compirà in ‘grazia e verità’, secondo la grandezza dell’amore misericordioso del Signore che attira tutti a Sé. Solo allora risulterà fondante di ogni possibile santità la fede in quel Gesù che, come esprime il canto al vangelo riprendendo una sua espressione nel colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”.

Accogliendo quel Figlio, dato a noi nella sua morte e risurrezione, il suo comandamento ci riporta a integrità e armonia nel nostro essere (è immacolato), con la sua sapienza dall’alto ci fa bambini desiderosi del Padre e del suo Regno (è fedele), infonde gioia al cuore (è retto), ci ridà uno sguardo luminoso per tutto e per tutti (è splendente), in modo da farci vivere i giudizi del Signore nella nostra vita come espressione del suo amore misericordioso, di cui aneliamo l’esperienza. E siccome tutto questo lo viviamo in fragilità e precarietà, restiamo umili domandando di essere liberati dal male che non riusciamo a padroneggiare o a vedere, cercando di tenerci sempre alla sua presenza, nella verità della sua parola che sempre parla al nostro cuore.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(14 marzo 2021)

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2 Cr 36,14-16.19-23;  Sal 136;  Ef 2,4-10;  Gv 3,14-21

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La liturgia quaresimale orienta gli occhi dei credenti alla Pasqua di Gesù. Oggi lo fa con l’immagine del salire del popolo a Gerusalemme dopo la liberazione dalla schiavitù di Babilonia, in collegamento al salire di Gesù a Gerusalemme per la sua Pasqua e la ripresa da parte di Gesù dell’immagine simbolica del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto, applicandola a sé. La rivelazione suprema, ultima e ultimativa di Dio, sarà appunto il Figlio, l’amato, l’Unigenito, innalzato sulla croce: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

La dichiarazione di Gesù a Nicodemo prende la sua intensità da quell’“infatti”, “è così che”, riferito all’esempio precedente del serpente di bronzo innalzato nel deserto. L’amare ha comportato, come dirà s. Paolo di Gesù: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). Mistero, che Giovanni, consapevole del compimento delle profezie, aveva descritto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), eco appunto della profezia di Zaccaria 12,10: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto”.

Così, la sfumatura di significato risulta essere ormai questa: Gesù non solo ha dato la vita per noi, ma ha dato la vita a noi, quella vita che nemmeno l’ingiustizia più obbrobriosa, la violenza più ignominiosa, riesce a scalfire, a mortificare, perché quella vita è amore effuso. Quell’amore deriva dall’alto, da Dio, che così svela il suo segreto per il mondo. Gesù ne dà testimonianza con l’allusione al serpente di bronzo secondo la narrazione di Numeri 21,4-9. Come il serpente di bronzo, innalzato nel deserto, recava guarigione (letteralmente: vita) a coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù sta istruendo Nicodemo, che era venuto, di notte, a chiedere delucidazioni sul suo insegnamento e lo introduce al mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo, di cui Gesù è il sigillo definitivo. La forza del ragionamento di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo la possibilità di accesso a tale rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con Lui, che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?

Spesso gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. È la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando in basso viene vilipeso e calpestato. È la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento sulla croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.

È del resto caratteristico che Gesù parli della sua morte in croce come giudizio e in termini di luce. La luce è il primo atto di creazione. Nella luce tutto il mondo è stato come posto, restandone intessuto. Quella luce però è stata oscurata e quando il Messia viene farà vedere quella luce. La farà vedere in sé perché lui è luce, lui è tutto splendore di amore del Padre per noi, quell’amore, che è la luce della santità, che si fa vita, che si impone come vita. Mentre la tenebra si impone come morte. Il fatto che la rivelazione di quella luce si manifesterà sulla croce implica che la vita è versata nella morte, non solo che la vita vince la morte. Non verrà mai meno la dimensione pasquale nel vivere l’amore.

Se poi Gesù si premura di ricordare a Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, vuol dire che si tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, vuol dire che noi non avremmo mai immaginato si dovesse passare per quella strada, perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l’intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l’intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell’uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata con la capacità di un nuovo modo di esistenza: invece di un’esistenza autocentrata, si accede a un’esistenza comunionale, relazionale, donata.

L’aspetto straordinario di questa rivelazione è svelato da Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Ef 2,10). Significa che quando facciamo il bene accogliamo l’amore eterno di Dio nello spazio del nostro tempo perché la sua presenza risplenda nella nostra umanità. E se potessimo vedere che tutto nella nostra vita è finalizzato a questo, beati i nostri occhi e beato il cuore diventato capace dei segreti di Dio!

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(21 marzo 2021)

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Ger 31,31-34;  Sal 50;  Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

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Ci avviciniamo alla Pasqua e la liturgia segue Gesù nel suo venire a Gerusalemme per la sua Pasqua. È entrato osannato in città, la folla gli era andata incontro con rami di palma avendo saputo del miracolo di Lazzaro. Ora si fanno avanti dei proseliti (pagani simpatizzanti della religione ebraica) e chiedono di vedere Gesù. È la domanda perno di questa liturgia: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. La richiesta è presentata a Filippo, il quale la riporta ad Andrea e insieme la presentano a Gesù. La risposta di Gesù suona strana se ci immaginiamo la scena come una questione di conoscenza di circostanza. Gesù intercetta la domanda come un desiderio di rivelazione. Come Mosè, quando dice a Dio: “mostrami la tua gloria”.

Il nome Gesù (in aramaico Yeshu’a, tardiva trascrizione aramaica del nome Yehoshu’a, Giosuè, che significa ‘Dio salva’) allude al mistero della salvezza secondo le promesse di Dio al suo popolo, tenendo conto della modalità singolare con cui Dio si mostra salvatore. Come riporta Gesù di sé nel suo colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, non significa solamente che il Figlio è venuto nel mondo, ma che la sua testimonianza dell’amore del Padre per i suoi figli si è giocata con il morire in croce, calpestato e vilipeso. Proprio come dice l’autore della lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

L’esito drammatico, a cui fa riferimento inconsapevole la domanda dei proseliti, è sottolineato con la manifestazione dei sentimenti di Gesù: “Adesso l’anima mia è turbata”. Se pensiamo che il vangelo di Giovanni non riporta la preghiera di Gesù al Getsemani, qui abbiamo descritto ciò che i lettori del vangelo già sapevano dagli altri racconti: “la mia nima è triste fino alla morte”. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio Gesù, il volto visibile del Padre.

Gesù si paragona al chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto. Il paragone era usato sia nella tradizione rabbinica che poi in san Paolo come immagine della risurrezione. L’immagine verte sulla qualità del frutto, che designa la potenza di una vita non più mortificabile, non più soggetta alla morte, quella vita che il Signore ci rende perché ci fa partecipi della sua, in intimità con il Padre. E la vita, che non è più soggetta alla morte, è lo splendore di un amore che nessuna ingiustizia e violenza piega o mortifica. Per questo Gesù continua nella sua spiegazione con la massima dell’amare o dell’odiare la propria vita: “Chi ama la propria vita, la perde [la distrugge] e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Odiare, contrapposto ad amare, ha il significato di non considerare come un valore supremo. Ne deriva il significato: chi non teme nemmeno la propria morte è sovranamente libero, per amare totalmente. Chi non teme la propria morte disarma il potere perverso del male e lo caccia fuori dal mondo, cioè lo esclude dalla vita. Evidentemente, non si tratta di un’azione puntuale, ma di un processo, secondo il paragone del chicco di grano che porta frutto, perché interessa tutto il corso della vita.

E come è di Gesù, così sarà del suo discepolo. Questo cerca Gesù: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. Per tre volte nel vangelo di Giovanni Gesù ripete la stessa cosa. Qui, in 14,3 e 17,24. Dove è Gesù? Gesù è nell’amore del Padre per i suoi figli, così anche i discepoli saranno nell’amore di Gesù per tutti, godendo di quella vita in Dio che è splendore di amore per noi. ‘Servire’, ‘seguire’, hanno il valore di essere messi a parte del segreto di Dio nel suo amore per il mondo, che in Gesù, proprio quando è innalzato sulla croce, risplende luminoso. Il suo essere levato in alto non allude semplicemente al morire, ma al trasformarsi in potenza vivificante e salvatrice dalla morte, che a noi si comunica per vivere della sua stessa vita.

Così, se riprendiamo la promessa di Dio nella profezia di Geremia, possiamo notare come i due passaggi nevralgici siano dati dalle espressioni: “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore, nella carne del nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

I cuori torneranno puri proprio quando torneranno a lasciarsi commuovere alla visione del ‘crocifisso’, come fa intendere la domanda dei proseliti. Il brano di Geremia è tratto dal cap. 31 che  descrive l’amore di Dio in termini commoventi: “Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele” (Ger 31,3) che si può rendere con: ‘così, è per amicizia che io ti attiro a me’. E più avanti: “Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza” (Ger 31,20), che si potrebbe rendere: ‘ogni volta che ne parlo, ancora e ancora devo pronunciare il suo nome; e nel mio cuore, che emozione per lui! Io l’amo, sì, io l’amo’.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

(28 marzo 2021)

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Vangelo dell’ingresso a Gerusalemme:  Mc 11,1-10

Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Mc 14,1 – 15,47

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All’inizio della “Grande Settimana”, con la celebrazione dell’ingresso festoso di Gesù in Gerusalemme e la proclamazione del vangelo della sua passione, ciò che colpisce subito è la presenza osannante della città intera all’inizio e il suo silenzio assordante poi. La festa all’inizio e la presa di distanza poi. Il primo indizio di tale ambiguità, che fa risaltare però tutto il mistero della consegna di Gesù alla sua passione, è dato dalla stessa espressione che usa Gesù mandando due discepoli a prelevare il puledro su cui cavalcherà trionfante. A chi chiederà loro ragione di quello che stanno facendo, Gesù dice di rispondere: “Il Signore ne ha bisogno”. È l’unica volta in tutto il vangelo che Gesù viene denominato con il termine ‘il Signore’. Quello è il termine con cui i primi cristiani hanno chiamato Gesù risorto. È il termine che nell’Antico Testamento designa Dio o il Re-Messia. Siamo avvertiti. Quello che sta per prendere avvio è il compimento delle promesse di Dio, la venuta del Regno e la manifestazione del Messia come Salvatore.

L’adesione della gente è entusiasta. Intravede la realizzazione delle profezie, si emoziona davanti a quel profeta che sembra rispondere finalmente alla lunga attesa del popolo. Nessuno però immagina cosa comporterà quell’ingresso in città. Gesù è il solo a saperlo. Mi ricordo di una bella intuizione di s. Teresa d’Avila la quale, sentendo questa solitudine di Gesù, si fa sua compagna, non per la festa, ma per la passione imminente.

È il canto al vangelo a costituire la nota dominante della celebrazione di oggi: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. È la ripresa del passo di Fil 2,8, che però sottolinea l’umiliazione che ciò ha comportato: “umiliò se stesso facendosi obbediente”. Nello stesso brano l’obbedienza di Gesù prima è presentata con ‘svuotò se stesso’, sottolineando il suo divenire uomo da Dio che era, poi con ‘umiliò se stesso’, sottolineando il suo farsi schiavo da uomo che era. Nell’ottica di una obbedienza all’amore del Padre per noi, perché risplenda solo l’amore di Dio per noi.

Nella prima parte della celebrazione, la frase di lode e stupore che risuona sulla bocca di tutti davanti all’entrata di Gesù in Gerusalemme, riportata da tutti i vangeli, suona: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Corrisponde alla percezione che Gesù ha di se stesso: lui è l’Inviato, colui che è mandato a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi. Di lì a poco, anche se nessuno dei suoi discepoli si accorge di quanto sta avvenendo, si conoscerà finalmente il segreto di Gesù. Ma i vari vangeli aggiungono anche che l’Inviato è il re di Israele, il Messia, e tutta la scena dell’ingresso in Gerusalemme ha i caratteri di una regalità messianica riconosciuta, anche se non ancora compresa. In particolare, Luca aggiunge un’annotazione particolarissima: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”. All’inizio del vangelo di Luca gli angeli, alla nascita del Messia, avevano cantato: “pace in terra”; ora, nell’imminenza della morte del Messia, i discepoli cantano: “pace in cielo”. Dio, con la morte del Messia, finisce la sua creazione: tutto è compiuto perché l’amore di Dio splenda su tutto e in ogni dove. Si realizza la profezia di Michea 5,4: “Egli stesso sarà la pace”.

La liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa e partecipante, con l’uomo dei dolori, con l’uomo umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di introdurci al mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino a una morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della settimana santa.

Viene letto il terzo carme del Servo di Jahvé (Is 50,4-7), figura di Gesù flagellato e deriso, che l’assemblea riprende con il salmo 21 (22), ripetendo come versetto responsoriale il primo versetto: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Parole, che riascolteremo nella solenne proclamazione del vangelo della Passione. Se un non cristiano leggesse questo salmo, dopo che abbia letto la descrizione della passione di Gesù nei vangeli, non potrebbe non restare profondamente meravigliato della precisione con cui il salmo elenca le varie angherie che Gesù subisce: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: ‘Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!’ …un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte ...”.

E ascoltando la narrazione della passione di Gesù, nel racconto di Marco, colpisce il silenzio di Gesù. Nel processo Gesù tace davanti ai suoi accusatori. Risponde solo alla domanda del sommo sacerdote confermando che lui è il Messia e il Figlio di Dio, secondo la profezia di Dan 7,13, passo che i sacerdoti conoscevano bene e da cui deducono le loro ragioni per condannare quel millantatore. Davanti a Pilato non risponde alle accuse ma solo alla domanda: “Tu sei il re dei Giudei?” con quel “Tu lo dici”, che però Pilato non prende come motivo di accusa nei suoi confronti. Gesù si attiene alla figura del Servo sofferente che non apre la bocca (Is 53,7). Non si tratta di credere ad una sua parola, ma a Lui, per come si è presentato fino ad allora e per come morirà sulla croce, testimone dell’amore del Padre per noi, oltre ogni violenza e ingiustizia.

Se il racconto della passione si apre con la scena della donna che versa il profumo sul capo di Gesù, significa che il mistero di Gesù può essere colto solo nell’allusione al significato della sua morte redentrice. Se nessuno si era accorto di ciò che si andava preparando, una donna sola, nella tenerezza del suo amore, intuisce il segreto di Gesù. Versargli sul capo un unguento preziosissimo (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio) risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l’amore che quella morte significa ed esprime. I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga e impregna tutto perché l’amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama profumo di Cristo, allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore – così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati! Sarebbe il frutto più autentico di un commosso ascolto della passione di Gesù.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Risurrezione del Signore

(4 aprile 2021)

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At 10, 34a. 37-43;  Sal 117;  Col 3, 1-4;  Gv 20, 1-9

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La gioia della risurrezione scaturisce da un cuore che può essere definito così: beato colui che nell’Uomo sofferente ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell’amore del Padre; beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini; beato colui che ha l’intelligenza allenata per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell’amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna, di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito.

Lungo la settimana santa era più volte risuonata la profezia di Isaia: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12). Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più potenti: “… poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.

La celebrazione della passione del Signore aveva rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini, colte nel mistero della sua obbedienza al Padre. L’obbedienza del Figlio di Dio, che non gli ha fatto preferire nulla a noi, nemmeno la sua gloria divina, in ciò condividendo con il Padre e lo Spirito Santo la passione d’amore per noi uomini, suoi figli, induce noi a non preferire nulla a Lui, e in ciò condividendo la sua obbedienza all’amore senza ricercare altra contropartita. Di qui scaturisce quella salvezza che risana i cuori e li abilita alla vita in Dio, alla vita non più soggetta alla morte, cioè non più dominata da tutto ciò che attiene alla morte, causata dall’accoglimento dell’illusione demoniaca.

Nell’ufficio della santa passione nel rito bizantino, la liturgia addita tre personaggi per suscitare i sentimenti dei cuori nei confronti di quell’Uomo disprezzato e maltrattato, senza più apparenza né bellezza: Giuda, con l’insistente annotazione: “ … ma non ha voluto comprendere l’iniquo Giuda”; il ladrone sulla croce: “Ricordati anche di noi nel tuo regno”; la Vergine, sua Madre, straziata dalla spada del dolore, tormentata dalle doglie che non aveva sofferto nel parto, con gli angeli che assistono e dicono: ‘Incomprensibile Signore, gloria a te!’, mentre lei supplica: “Dimmi una parola, o Verbo, non passare accanto a me in silenzio …”. 

Nel riposo del sabato la Chiesa ha contemplato: “Per riempire della tua gloria tutte le cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli uomini”.

Con la veglia pasquale viene aperto il mistero della morte e risurrezione di Gesù: se la morte è l’ultimo nemico che deve essere annientato, allora vuol dire che non c’è nemico che abbia potere su Colui che l’ha vinta. E se l’ha vinta come primogenito di tanti fratelli, allora vuol dire che la sua stessa vita, non più segnata dalla morte, diventa la nostra vita, quella che può segnare e vivificare il nostro vivere quotidiano, sempre tallonato e ferito dalla morte e spirituale e fisica.

Nell’annuncio al mondo della risurrezione di Gesù, la Chiesa proclama che vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell’essere e dell’agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr. Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il bisogno dell’uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l’uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Nella gioia esultante per il Signore risorto, gli angeli dicono alle donne che si erano recate al sepolcro: “Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui”. Bisogna intendere: Gesù non è più confinato in un posto perché dovunque lo si può vedere e sentire. Come aveva promesso che sarebbe restato con noi fino alla fine del mondo. Dice una preghiera: “Oh, la tua divina, la tua dolcissima voce amica! Con verità hai promesso, Cristo, che saresti rimasto con noi fino alla fine dei secoli. E noi fedeli esultiamo, possedendo quest’ancora di speranza”.

L’augurio è proprio quello di sentire la sua voce, come la Maddalena, come i discepoli e non solo quella degli angeli che ci dicono che è vivo. Quella voce che potremo udire e riconoscere nelle parole di vita del suo vangelo quando penetrano nel nostro cuore, quando rivelano quella forza prodigiosa di vita perché in esse sentiamo l’eco di quella ‘dolcissima voce amica’, di Colui che, vivo, vive in mezzo a noi.

Nel racconto di Giovanni, la domenica di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è proprio Maria Maddalena, quella che per prima sente la ‘dolcissima voce amica’ chiamarla per nome. Essa viveva un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei il Signore era l’Assente; non poteva che sentirlo così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. E Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro: “Vide e credette”. Il brano evangelico introduce al mistero della risurrezione con un crescendo rispetto alla ‘potenza’ del vedere espressa in greco da tre verbi. Prima semplicemente si guarda (Maria Maddalena vede la pietra tolta dal sepolcro e Giovanni, arrivato per primo al sepolcro, guarda da fuori nel sepolcro e vede i teli), poi si osserva attentamente, si contempla (Pietro, entrato nel sepolcro, guarda attentamente i teli e il sudario posto in un luogo a parte), infine si conosce, si intuisce intimamente la verità delle cose (Giovanni, entrato nel sepolcro, vede e crede). È l’ascesa suggerita dall’evangelista per fare esperienza del mistero della risurrezione, assolutamente imprevedibile per gli uomini.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, è capace di far vincere ogni paura. Perché anche noi possiamo dire al termine della nostra vita: “l’abbiamo amato sino alla fine’, ‘abbiamo amato i nostri fratelli sino alla fine’, come meglio abbiamo potuto. L’augurio pasquale più bello!

CRISTO È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO!

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

II Domenica di Pasqua

(11 aprile 2021)

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At 4,32-35;  Sal 117;  1Gv 5,1-6;  Gv 20,19-31

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Se la liturgia latina celebra la domenica della misericordia, quella bizantina la celebra come la domenica di Tommaso. A differenza del proverbio popolare che, di Tommaso, ha ritenuto la sua incredulità e testardaggine, la liturgia ne coglie invece tutta l’audacia e l’ardore. Come proclama un’antifona della liturgia bizantina: “Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci alla manifestazione del mistero di Gesù, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione”.

Tommaso non è un tentennante, un dubbioso. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso così sul serio la vicenda di Gesù che non vuole illudersi. Quando Gesù gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: si trova tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero: ‘mio Signore e mio Dio’, la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel mio, c’è tutto l’anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c’è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture. È l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio. Del resto, è la conclusione a cui il narratore evangelico guida i possibili lettori.

Se, da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore’.

Ma è singolare che la fede, alla fine del vangelo di Giovanni, sia presentata sotto il segno del senso del tatto e non della vista, come è tipico dell’evangelista Giovanni, rappresentato dalla tradizione con l’immagine dell’aquila dallo sguardo acutissimo. Mi sembra che si possa leggere la cosa in questo modo. La fede non ci porta oltre questo mondo in alto, ma ci mantiene quaggiù nella veracità dell’incontro con il Risorto, colto nell’esperienza realistica dei sensi che si è tradotta nell’aderire totalmente al Dio vivente e al suo Regno ormai toccabile. È il senso della professione di fede di Tommaso ‘mio Signore e mio Dio’, da pronunciare qui, nella storia nostra, perché qui è lo spazio della missione ricevuta da Gesù: ‘Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi’.

A dire il vero non si tratta di essere mandati nel mondo per fare qualche cosa. Il termine è usato in senso assoluto. Significa che il credente, in tutto ciò che fa, resta collegato, tramite Gesù, al mistero stesso del Padre, che aveva mandato Gesù per mostrare la grandezza del suo amore. A questo si riferisce l’annotazione della prima lettura: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù” (At 4,33). Luca abbina la forza della professione di fede nel Risorto al fatto della comunanza di beni tra i discepoli. In un doppio senso: è la realizzazione della remissione dei debiti ogni sette anni, come descritta da Dt 15,4: “Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” e, nello stesso tempo, allude all’esperienza di una fraternità condivisa, forse come eco di un proverbio greco sull’amicizia: “fra loro tutto era comune”.

Una bella preghiera della liturgia bizantina pasquale canta: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo ‘fratelli’ anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte ed ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. Questo opera lo Spirito Santo, quello che Gesù ‘soffia’ sugli apostoli la sera di Pasqua: renderci un corpo solo e un’anima sola, con lui e tra di noi. Da qui deriva la forza che rende credibile e convincente la proclamazione della risurrezione del Signore, che abita vivo nei nostri cuori e in mezzo a noi. Come sottolinea la prima lettera di Giovanni: è la gioia della risurrezione che sgombera i cuori da ogni timore e quindi da ogni attaccamento a se stessi, rendendoli splendenti della compassione del Cristo per l’umanità, partecipi di quella pace che rivela la gloria di Dio tra gli uomini. Se Giovanni definisce l’amore come osservanza dei comandamenti è perché l’osservanza è colta nella dimensione più segreta del cuore: la gioia deriva dalla comunione con l’amato e la comunione si gioca in tutta intimità, alle sorgenti del cuore. Non è il sentire a definire l’amore (ci si potrebbe illudere) ma l’agire in intimità.

Il sigillo della rivelazione pasquale è la pace che Gesù Risorto ci offre. Si tratta della pace messianica, quella che racchiude tutti i doni di Dio rendendoceli disponibili. Gesù la proclama e la offre definendola in rapporto a tre cose:

1) in rapporto alle sue piaghe. Mentre dà la sua pace mostra le mani e il costato. Quella pace ci deriva dalle sue piaghe e le sue piaghe ci confermano che il Signore risorto è il Gesù che ha patito, tanto la sua passione e morte ha fatto risplendere l’amore di Dio per gli uomini. Sarà così anche per i suoi discepoli: è la condizione della condivisione della rivelazione del vangelo. La gioia della presenza del Signore risalterà proprio là dove il discepolo è chiamato al martirio in qualunque prova della vita.

2) in rapporto alla missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Non si tratta semplicemente del fatto che i discepoli sono inviati ad annunciare al mondo la buona notizia, ma del fatto che l’annunceranno nella stessa modalità nella quale Gesù l’ha annunciato e cioè che come Gesù non dice e non fa se non quello che sente e vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19), così i discepoli nei confronti del loro Maestro.

3) in rapporto allo Spirito Santo, di cui Gesù ci ha ottenuto l’effusione sulla croce. L’opera dello Spirito è la riconciliazione con Dio ed energia di comunione. Se Luca, nella prima lettura, descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è appunto la comunione.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

III Domenica di Pasqua

(18 aprile 2021)

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At 3,13-15.17-19;  Sal 4;  1Gv 2,1-5a;  Lc 24,35-48

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Il canto al vangelo (“Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentre ci parli”) riprende l’espressione di meraviglia e commozione dei due discepoli di Emmaus dopo il riconoscimento del loro Maestro. Si ripetono a vicenda: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [letteralmente: ci apriva] le Scritture?” (Lc 24,32). Potremmo rendere, più alla lettera: ‘non bruciava il nostro cuore (oppure: non sentivamo ardere il nostro cuore, non avevamo il cuore incendiato) mentre ci parlava lungo il cammino, quando apriva le Scritture a noi?’. La dinamica segreta svelata risulta essere questa: se il cuore non arde non si apre. È la percezione di calore del cuore che dà intelligenza di ciò che viene detto. È costante l’annotazione della tradizione: senza fuoco le Scritture restano chiuse. Ascoltare senza sentir ardere il cuore non farà aprire nessuna porta. Luca usa lo stesso verbo ‘aprire’ per l’azione di Gesù tanto nei confronti delle Scritture, come i due discepoli ricordano commossi, quanto nei confronti della mente dei discepoli, come la fine del brano riporta: “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45). L’annotazione è singolare perché è sempre Gesù, accolto, riconosciuto come il Vivente crocifisso, che apre il cuore e le Scritture. Ciò significa che il segreto desiderio e del cuore e delle Scritture è sempre lui, il Testimone dell’amore del Padre per i suoi figli. Vuol dire che sia il cuore che le Scritture non aspirano ad altro se non all’esperienza dell’amore di Dio.

La testimonianza, a cui i discepoli sono invitati, non consiste semplicemente nel riferire a tutti che Gesù, il crocifisso, è risorto – notizia, del resto, assolutamente sconvolgente – ma nel fatto che, proprio perché Gesù è risorto, allora l’uomo può essere sentirsi perdonato e ritrovare la via della comunione con Dio nell’esperienza del suo amore, solidale con tutti. Così dice Gesù alla fine: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,46-47). Per questo la prova, se così si può chiamare, della risurrezione di Gesù, riguarda non l’emozione sconvolgente ed entusiasmante del vedere il Signore risorto (tra l’altro, i vangeli annotano sino alla fine che i discepoli stentano a credere, hanno paura, nonostante le ripetute apparizioni del risorto, a testimoniare che la risurrezione non fa parte dell’orizzonte umano e che si colloca sul confine tra questo mondo e il mondo futuro), ma il fatto di collegare il risorto al crocifisso. La testimonianza suprema è il fatto che Gesù ha patito ed è morto mostrando la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini e la risurrezione è la conferma che questo amore è vita eterna, vita divina comunicata a noi perché anche noi, in Gesù, possiamo vivere del suo stesso amore. Non per nulla Luca, quando descrive le caratteristiche dei discepoli di Gesù, le riconduce a tre: i discepoli sono ‘poveri’ (lasciano i beni), sono perdonanti (lasciano se stessi), sono lieti nella persecuzione (lasciano il mondo) perché il Risorto vive in loro.

Tanto che, diversamente da come ci saremmo aspettati, pure noi lettori moderni, sembra che il carico della prova della risurrezione non stia nel corpo ormai glorioso di Gesù, ma nel raccordo dell’evento salvifico di Gesù alle Scritture. Noi professiamo nel Credo: ‘il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture’, come del resto sempre i vangeli annotano. Quel ‘secondo le Scritture’ risulta essenziale per l’esperienza cristiana, perché, se Gesù è il Salvatore, lo è secondo il disegno di Dio che è iniziato fin dalla creazione del mondo, è proseguito nell’elezione del popolo di Israele, nell’invio dei profeti fino all’invio del Figlio, la cui azione si estende a tutti i popoli di tutti i tempi.

Pietro, nella sua predicazione, come proclama la prima lettura, collega la risurrezione al Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio dei nostri padri “che ha glorificato il suo servo Gesù…” (At 3,13). Servo, in greco, sta per figlio e richiama l’invio del Figlio che si fa servo obbediente fino alla morte di croce per mostrare in tutto il suo splendore l’amore del Padre per noi. La vicenda di Gesù si colloca all’interno dell’alleanza di Dio con il suo popolo, all’interno dell’alleanza di Dio con gli uomini fin dalla creazione. È dalla testimonianza del Suo amore che scaturisce per noi la vita abbondante, quella vita eterna non più mortificabile nella tensione dell’amore che la origina e la muove. Ecco perché il senso proclamato della risurrezione è nella conversione, vale a dire la possibilità di vivere nella comunione col proprio Dio nel suo amore per tutti i suoi figli. Di questo i discepoli di Gesù sono testimoni per il mondo.

Come richiama la colletta: “O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri i nostri cuori all’intelligenza delle Scritture, perché diventiamo i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”, la conversione, nelle esortazioni degli apostoli, è sembra abbinata al perdono dei peccati. Pietro, invitando a convertirsi, in realtà richiama l’invito che percorre tutte le Scritture: ritornate a Me, ritornate a godere la Mia promessa di vita piena, la Mia alleanza con voi! L’espressione italiana ‘cambiare vita’ significa in realtà: ritornare a Dio. Quel ritorno allude al fatto di fissare lo sguardo su ciò che Dio ha compiuto, vale a dire al Cristo che doveva soffrire e il terzo giorno risorgere dai morti. Come misteriosamente aveva preannunciato il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità. Mi piace ricordare un antico detto talmudico: prima di creare il mondo, Dio ha creato il ritorno a Lui, la teshuvah. Il senso del mondo sta nell’amore preveniente di Dio, sempre, comunque. Ad indicare che la risurrezione di Gesù proprio questo fa risaltare: l’amore di Dio splende su tutto, in tutto e noi, guidati dalle Scritture, in Gesù possiamo vederlo all’opera e con lui viverlo.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

IV Domenica di Pasqua

(25 aprile 2021)

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At 4,8-12;  Sal 117;  1Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

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Prima di definirsi ‘il pastore buono’ (in greco è usato l’aggettivo bello), Gesù si definisce secondo una duplice immagine. Si presenta prima come colui che entra dalla porta perché è conosciuto dal guardiano. Poco oltre Gesù dirà: “il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Tale conoscenza è definita in rapporto al loro amore, totalmente condiviso, per le pecore. Quando Gesù dice che conosce il Padre allude fondamentalmente all’unità del loro sentire e agire in rapporto ai figli, che il Padre vuole nella piena comunione con Sé per partecipare loro la gioia del suo amore. Se Gesù dice di conoscere il Padre, lo dice in rapporto al suo amore per noi e il Padre conosce lui in rapporto alla sua radicale disponibilità a manifestarlo a noi in tutto il suo splendore.

Poi usa l’immagine della porta. Lui è la porta che introduce alla comunione della gioia dell’amore del Padre: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). È l’abbondanza messianica, quel ‘di più’ che solo il Messia poteva ottenerci e tale che sopravanza ogni tipo di merito, perché ciò che riempie il cuore dell’uomo è solo questa sovrabbondanza che proviene da lui e non la giustizia che proviene dalle nostre opere. Non è vano ricordare che, se il vangelo definisce questa porta come la porta stretta, è perché l’uomo con fatica abbandona la sua pretesa di giustizia per far posto a tale sovrabbondanza. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta.

Poi la terza immagine: ‘il buon pastore’. Con questa immagine Gesù allude al come ci ha gratificato della vita in abbondanza, dandoci cioè la sua. Il testo evangelico, a dire la verità, è più preciso. Non dice semplicemente che dà la vita per noi, ma che la pone, la mette a disposizione, la mette in gioco totalmente. L’allusione è che Gesù, che pone la sua vita per noi, va colto nel mistero del Padre che gli ha comandato questo, nel mistero dell’amore eterno di Dio per i suoi figli. Il passo significativo di riferimento è l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (Fil 2,6-9).

Dignità filiale, che Giovanni, nella sua prima lettera, definisce in questi termini: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,1-2). Passo che Paolo commenterà con la conclusione del suo stupendo inno alla carità: “Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12). È la tensione di intelligenza delle Scritture e della vita intera, oltre ogni psicologia o psichismo: conoscere come si è conosciuti. In altre parole, ciò che il paradiso svelerà sarà questo: un’esplosione di umanità allorquando tutto sarà visto percorso da questa abbondanza di amore, e precisamente in tutto ciò in cui si è espressa la nostra vita. Non solo tutto sarà consumato nell’amore ma che tutto è stato intriso di questo amore.

E quando Pietro dichiara: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12), vuole alludere alla dinamica di amore del Padre che ha accolto e raccolto tutti i suoi figli nell’unico Figlio, testimone del suo amore per noi. È una dichiarazione inclusiva, non esclusiva. Non vuol semplicemente dire che non ci si salva se non per mezzo della conoscenza diretta di Gesù, ma che ogni ricerca di salvezza, comunque sia vissuta dagli uomini, è mediata da Gesù, a lui si riferisce, perché a lui guarda il Padre, perché in lui riposa tutta la sua compiacenza.

Ora, la ragione di amore del Padre per il Figlio, è la stessa ragione di amore che vale per i discepoli di Gesù. Gesù è amato dal Padre perché pone la sua vita per noi, così noi siamo amati da Gesù perché poniamo la nostra vita per i fratelli. Non è una ragione di merito, ma una ragione fontale, di sorgente. Vale a dire, possiamo scoprire l’amore di Dio nel fatto di porre la nostra vita per i fratelli e lo possiamo fare nell’energia di Colui che ce l’ottiene con la sua morte e risurrezione. Per questo Giovanni dice che Gesù è stato inviato e muore in croce “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Se Gesù è il buon pastore, lo è per questo.

Di fronte ad ogni tipo di ingiustizia, di afflizione, di oppressione, interiore ed esteriore, potessimo dire con Gesù: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso”! Significherebbe diventare collaboratori con Dio alla sua opera di salvezza, quella di radunare i figli di Dio dispersi. Significherebbe non permettere che il nostro cuore ceda alla divisione con qualche fratello scavando fossati o respingendolo lontano da noi, perché in tal caso daremmo più importanza all’agire di un uomo che all’agire di Dio e ci sottrarremmo alla comunione con Lui, che non ha altro desiderio se non quello di attrarre alla sua comunione tutti i suoi figli. Quel desiderio si fa comando per il Figlio e tale è il senso di ogni comandamento: lasciare agire solo la forza dell’intimità di un amore. Quella intimità procura abbondanza di vita che si esprime con il metterla a disposizione di tutti in modo che niente e nessuno distolga da quella suprema dinamica.

L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la vita; solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. È il dono del Risorto a coloro che credono in lui. È la speranza che la chiesa deve al mondo per la sua fede nel Risorto che la raduna.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

V Domenica di Pasqua

(2 maggio 2021)

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At 9,26-31;  Sal 21;  1Gv 3,18-24;  Gv 15,1-8

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L’immagine della vite ha risonanze profondissime nelle Scritture, soprattutto in rapporto alle premure di Dio per il suo popolo. Si possono leggere i passi di Os 10,1, Is 5,1-7, Ger 2,21. In particolare, però, la vite ricorre nelle parabole di Gesù: nella parabola degli operai inviati alla vigna (Mt 20,1-16), nella parabola dei due figli invitati ad andare a lavorare nella vigna (Mt 21,28-30) e, con accenti assolutamente evocativi, nella parabola dei vignaioli assassini (Mt 21,33-42) dove l’amore di Dio per il suo popolo appare proprio folle.

La vite, per il vino che se ne ricava pestando gli acini e facendo fermentare il mosto, richiama il sacrificio pasquale di Gesù; il vino, frutto della vite, richiama il sangue, il mistero eucaristico, lo Spirito Santo, il regno di Dio.

Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). In rapporto a cosa vale quel ‘fare’? La preghiera dopo la comunione sembra suggerire la direzione in cui guardare: “fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato alla pienezza della vita nuova”. Tre i termini significativi: vita, nuova, pienezza. Quando Gesù si paragona alla vite e paragona noi ai tralci allude all’evento pasquale che aveva indicato poco prima, parlando ai discepoli della sua dipartita e del suo ritorno: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Quella vita, che lui ha donato e che diventa in noi radice di vita nuova perché ci fa partecipi della sua, è piena nel senso che non è più mortificabile da nulla. Vale a dire: l’amore del Padre, che Gesù ha fatto splendere nella e con la sua vita, viene immesso in noi in modo da essere anche noi inviati al mondo per mostrarlo nel suo splendore, stando radicati in Gesù.

Senza questo radicamento in Gesù nulla può essere compiuto di quello che è gradito al Padre e che ci procura vita nuova e piena. Se, all’inizio del vangelo, i discepoli cercano dove dimora Gesù e stanno con lui, ora questa ricerca si è approfondita e ricevono la promessa che potranno dimorare in lui, non semplicemente con lui. È il frutto dell’evento pasquale. È caratteristico che il salmo responsoriale di oggi sia il salmo 21(22), il salmo della passione, dato che comincia con l’angosciosa affermazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e termina con la proclamazione del frutto di quella passione: “Al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”, espressione che nell’ebraico e nelle versioni greca e latina suona più precisamente: “(proclameranno la sua giustizia) al popolo che sarà generato, che il Signore ha fatto”. Il poter dimorare in Gesù suppone che Gesù abbia rivelato il suo segreto in tutti gli aspetti che lo caratterizzano, fino a che lo scopo per cui era venuto fosse manifestato in tutta la sua densità e bellezza: Gesù muore, risorge ed entra nella gloria del Padre per essere sempre in noi e noi in lui e condividere la sua stessa intimità di vita con il Padre, vita che è amore per noi, incessantemente donata.

La discepolanza rispetto a Gesù è condizionata alla verità/profondità dell’essere in lui. Quello che Gesù dice: “Chi rimane in me, e io in lui…”. Qui l’immagine della vite e dei tralci acquista tutto il suo spessore di rivelazione. L’immagine cela la realtà della dinamicità e continuità del progresso del discepolo in ragione dell’intimità del rapporto con Gesù, rapporto che può essere sempre più profondo, sempre più stabile. Tanto che la potatura inevitabile per portare più frutto, al di là dell’immagine, significa: più si resta in Gesù, più si porta frutto e il frutto non è che l’intimità sempre più grande, sempre più sincera, sempre più profonda, con Gesù che dimora in noi. Quell’intimità non verte su un ripiegamento intimistico, tutt’altro. Quell’intimità parla della condivisione con Gesù nel suo essere inviato al mondo perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Due sono gli aspetti singolari di questa intimità che è fatta gustare al discepolo. Primo aspetto: è bandita ogni banalità, vale il tutto o niente, nel senso che il tralcio che non rimane nella vite verrà tagliato e bruciato. Come a dire: la parola del Signore diventa per noi la parola della nostra vita quotidiana e si fa radice di vita in ogni occasione. Cercare la vita fuori o contro quella parola significa perdersi. Così la discepolanza è concepita nel rifiuto di vivere egoisticamente perché sarebbe un vivere separati da Gesù e dai fratelli.

Secondo aspetto: il progredire nell’essere discepoli di Gesù è concepito nei termini di una presenza personale vissuta nella intimità più grande possibile. Il che equivale a dire che progredire significa far sì che in noi Gesù, il Signore, diventi sempre più dolce, più amante, più vero, più presente insomma nella sua umanità luminosa che dà consistenza alla nostra. Credo corrisponda a quello che dirà san Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Quando Giovanni, nella sua prima lettera, dice: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1Gv 3,18), possiamo intendere: siamo invitati ad amare con l’agire, nel concreto della vita quotidiana, ma pescando nell’intimità con Gesù. La vita viene concepita come un’obbedienza alla dinamica dell’amore. Ed è esattamente quello che Gesù sottolinea più volte ai discepoli nell’ultima cena, insistendo sul riferimento a lui quanto al ‘come’: amatevi come io ho amato voi; rimanete in me come io rimango in voi …. Quel ‘come’ corrisponde alla verità esperita dell’essere in lui.

Posso ancora aggiungere un aspetto rispetto al portar frutto che riguarda anche l’intelligenza delle Scritture, colte nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo alla gioia del suo Dio. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di inglobare tutti. La gloria del Padre è appunto il diventare discepoli di Gesù rispetto alla ragione della sua venuta tra noi, cioè mostrare la grandezza dell’amore del Padre per tutti.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

VI Domenica di Pasqua

(9 maggio 2021)

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At 10, 25-27. 34-35. 44-48;  Sal 97;  1Gv 4, 7-10;  Gv 15, 9-17

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Continuando nella meditazione sul mistero della nostra vita in Cristo, al paragone della vite e dei tralci Gesù aggiunge una nota personale: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… come io ho osservato i comandamenti del Padre mio … questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”.

In questo intensissimo brano, dagli accenti estremamente confidenziali, si aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.

Ho osservato una particolarità che a me sembra oltremodo significativa. Gesù parla di amore, gioia e comandamento, ma nei versetti 9,10 e 11, si legge una specificazione singolare. “Rimanete nel mio amore”, in greco: nell’amore quello mio; “perché la mia gioia sia in voi”, la gioia quella mia; “questo è il mio comandamento”, il comandamento quello mio. È come se il testo volesse insistere sulla natura, sulla qualità di quell’amore, di quella gioia e di quel comandamento. Se Gesù intesse il suo discorso su tre come, è perché allude a ciò che lo caratterizza in proprio. Evidentemente il come non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione), io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la storia.

Lo proclamiamo con il salmo 97/98, salmo che fa parte dei cinque salmi con cui gli ebrei ricevono liturgicamente il Sabato (salmi 95-99), con l’espressione: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”, ragion per cui si è invitati a cantare in modo nuovo: “cantate al Signore un canto nuovo”. Se il cuore si apre al mistero del Figlio, inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre e a riunire i figli di Dio dispersi, allora non può non sentire compiersi la promessa di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, gioia che qualche versetto più avanti verrà definita: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22).

La gioia è collegata all’esperienza dell’amore, amore che lascia sgorgare fluente la vita. È caratteristico il legame dell’amore con la vita. L’amore rende la vita degna di essere vissuta perché l’amore dà vita, porta vita. Ma perché questo sia effettivo e duraturo, deve valere anche l’aggiunta: l’amore fa dare la propria vita, come è stato per Gesù. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici”. Il che non comporta solo il morire per l’altro, ma il mettere a disposizione la propria vita per l’altro di modo che la propria vita diventi per l’altro alimento, calore, rifugio, riposo, senza alcun limite. Mi sembra risieda proprio in questo particolare aspetto la promessa di Dio all’uomo: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23), ripreso dal canto al vangelo. Come a dire: il venire di Dio ed il suo dimorare nel cuore dell’uomo che osserva la parola di Gesù comporta il renderlo partecipe della sua stessa vita, comporta il metterlo a parte dei suoi segreti e della sua sapienza di vita. E questo Gesù chiama: “perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La gioia è il frutto più autentico non semplicemente dell’amore, ma dell’amore che si è trasformato in vita piena, donata, consegnata.

I passaggi sarebbero così compresi: la gioia di Gesù è quella che scaturisce dall’amore condiviso in pienezza con il Padre per noi. Il sigillo di verità di questo amore è il dare la vita, mentre l’effetto è quello di rendere partecipi dei segreti di Dio i discepoli. Tanto che Gesù non li chiama più servi (il termine ‘servo’ è l’epiteto più nobile e glorioso per l’uomo che vive in comunione con il suo Dio, come è spesso ripetuto di Mosé ‘servo del Signore’) ma amici, cioè conoscitori dei segreti di Dio nel suo amore per noi. Secondo Isacco Siro, l’amore e la gioia sono gli ultimi due passaggi di una serie di quattro: “A misura della tua umiltà, ti sarà data la capacità di sopportare le tue difficoltà; a misura della tua capacità di sopportare, si alleggerisce il peso della tua anima ed essa è consolata nelle sue afflizioni; a misura della sua consolazione, si accresce il tuo amore per Dio; e a misura del tuo amore, si accresce la tua gioia nello Spirito”. E il movimento continua: a misura della tua gioia si accresce l’umiltà, ecc. (…)

Forse l’aspetto più paradossale di questo parlare di Gesù è definire l’amore in termini di comando, di comandamento. Per la nostra psicologia è incomprensibile. Ma l’insistenza sul comandamento, riferito allo stesso volere del Padre per il Figlio, è finalizzato a sottrarre l’amore ad ogni autocentratura. Il comandamento si fa ispirazione del cuore, tensione di intimità nel vivere l’amore. Sono delineati come tre livelli concentrici di realtà: tra il Padre e Gesù, tra Gesù e noi, tra di noi. Il comandamento dell’amore vicendevole pesca nell’intimità di amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi. Fa da perno la persona del Figlio, inviato dal Padre, che si dà a noi nel suo amore salvatore. I comandamenti del Padre sono la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia. Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine ‘rimanere’). La dinamica dell’amore è tale che o si estende a tutti o si perde, nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri. Non sarebbe più un amore come quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una concretezza che ne qualifica la verità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del Padre. Tanto che Gesù può riassumere i comandamenti in uno solo: l’amore vicendevole, che deriva dall’intimità di vita con il proprio Dio Salvatore. Se alla fine non si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento, vuol dire che quel comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Non si accede all’amore per entusiasmo, ma per intima compassione, goduta e condivisa.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

Ascensione del Signore

(16 maggio 2021)

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At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 4,1-13;  Mc 16,15-20

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L’immagine più potente, che definisce il senso dell’ascensione, mi sembra sia quella descritta da s. Ambrogio nel commento del salmo 23, dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle porte celesti: “Chi è questo re della gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antichi ed entri il re della gloria”: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”.

Ecco: il senso dell’ascensione risiede in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio. Tuttavia, non sembra che la narrazione dei Vangeli e degli Atti degli apostoli sia su questo che insista. Il contesto del racconto dell’ascensione comporta due orizzonti di senso che si sovrappongono: l’orizzonte della missione degli apostoli nel mondo e l’orizzonte della interiorizzazione della presenza di Gesù nel cuore degli apostoli, che lo sperimenteranno sempre con loro proprio nel loro essere inviati al mondo.

Il vangelo di Marco termina con le parole: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto” (16,20).

Il vangelo di Matteo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28,18).

Il vangelo di Luca: “Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (24,51).

Le immagini della tradizione per indicare l’ascensione, vale a dire il salire al cielo e sedere alla destra del Padre, tradotte in un linguaggio a noi più comprensibile, suonerebbero così: Gesù ha compiuto tutto il tragitto terreno della sua testimonianza dell’amore del Padre per gli uomini e ora, con il dono del suo Spirito, vive in noi trascinandoci nella stessa dinamica di rivelazione dell’amore del Padre per tutti i suoi figli, dovunque si trovino, perché per tutti lui è morto e risorto e tutti hanno il diritto di essere messi a parte del suo segreto. In questo senso, suona potente la sua dichiarazione: “io ho vinto il mondo” (Gv 16,33) perché “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31) [‘contro di me non può nulla’ = in me non ha nulla, non trova nulla che gli possa appartenere, su di me non ha alcuna influenza]. Il fatto che Gesù sia nella gloria significa che l’amore del Padre, che ci ha testimoniato nella sua umanità e che ci comunica con il dono del suo Spirito, è a riprova di ogni attacco del maligno, perché in totale comunione con Dio e con i fratelli. Così, la spiritualizzazione dell’uomo non è la rarefazione dell’umano, ma suo compimento. Lo Spirito di Gesù agisce nell’esprimere l’impronta trinitaria su cui l’uomo è formato e favorendo la vita di tutti per ritrovare la propria, tanto che lo spazio di manifestazione del divino è oramai l’umanità.

Di qui deriva la sottolineatura, nel vangelo di Matteo, di compiutezza, universalità, totalità del mistero che si compie perché per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere … tutti i popoli … tutto ciò che vi ho comandato … tutti i giorni”. Nel vangelo di Luca viene sottolineato lo stato interiore dei discepoli che trovano nella benedizione di Gesù il segno della sua presenza in loro da riempirli di gioia. Nel vangelo di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù nei suoi discepoli non va vista nella capacità di fare miracoli, come sembrerebbe far supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo. Va vista piuttosto in riferimento alla capacità della predicazione, che può riempire il cuore, che parla a tutti della sua presenza viva, senza che il mondo la possa soffocare. La molla segreta di tale capacità è lo stesso desiderio di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai discepoli per raggiungere tutto il mondo.

Di fronte ad una rivelazione del genere, perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa/invito di Gesù? Non è certo scontato per noi arrivare a dire: riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c’è nulla in me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna e aperto all’amore dei fratelli perché tu sei in noi e con noi! Non è forse questo l’effetto auspicabile della fede in Gesù asceso al cielo alla destra del Padre?

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Pasqua

Pentecoste

(23 maggio 2021)

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At 2,1-11;  Sal 103 ; Gal 5,16-25;  Gv 15, 26-27; 16, 12-15

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“O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” canta s. Efrem e la liturgia di oggi, con il canto al vangelo, proclama: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”.

Quando Gesù, nell’ultima cena, aveva promesso l’invio dello Spirito Santo dopo che lui se ne fosse andato, aveva suscitato tristezza negli apostoli. Aveva parlato in modo velato e poi si era spiegato, tanto che gli apostoli avevano concluso: adesso capiamo, adesso crediamo! E lui: ma se tra qualche ora mi lascerete solo e vi disperderete! La cosa strana è che proprio per quell’eventualità lui aveva parlato. E proprio perché aveva tenuto conto di quella eventualità le sue parole sono così rivelative. In sostanza Gesù dice: se prima, quando ero con voi, io stesso vi custodivo, ora, che me ne vado, sarà lo Spirito a custodirvi. Quello che ho fatto io, lo farà anche lui, vale a dire: custodirvi dal maligno in modo che non vi inganni e vi attiri nella sua orbita (intelligenza della parola); mostrarvi la grandezza dell’amore del Padre (fede in Gesù); disporvi, stando uniti a me, a mostrare a tutti quell’amore (amore vicendevole). È la promessa di Gesù: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,13-14). Questo può avvenire solo dopo che Gesù avrà mostrato fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’uomo. In effetti, lo Spirito guida non tanto alla verità (moto a luogo) ma nella verità (stato in luogo). Il che significa che la guida dello Spirito non è tesa a farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che nulla può mortificare. Quello che appunto domandiamo con la preghiera allo Spirito, che è luce e fuoco.

E quando si sottolinea che lo Spirito dirà tutto ciò che ha udito, non si fa semplicemente riferimento alle parole di Gesù che troviamo nei vangeli, ma al colloquio eterno di Dio in se stesso a proposito della creazione e della salvezza dell’uomo, scopo di tutta la creazione. Quel colloquio riguarda il destino di comunione dell’uomo nella gioia dell’amore del suo Dio, destino che si gioca sull’immolazione dell’Agnello prima della fondazione del mondo (Ap 13,8). Lo Spirito ha udito tutto quello che il Padre e il Figlio si dicono dall’eternità nella condivisione del loro amore folle per l’uomo. Quella memoria si incendierà nel nostro cuore, del contenuto di quella memoria incendierà il nostro cuore. Il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto.

È allora caratteristico che nel giorno di Pentecoste lo Spirito appaia sotto l’immagine delle ‘lingue come di fuoco’. Lingua e fuoco: le due immagini dello Spirito. Il fuoco allude all’amore e la lingua alla comunione, nel senso che non ci può essere comunione se non nell’amore. Lo Spirito, mentre spira l’amore nei nostri cuori, apre alla comunione rendendo le differenze suscitatrici di gioia e non di gelosia o timore, come invece suggerisce il principe di questo mondo. Il miracolo di Pentecoste possiamo esprimerlo così: i vari idiomi si unificano in un’unica lingua, la diversità si apre alla comunione e tutti comprendono la stessa cosa. Ciò che accomuna, comunque, è solo l’opera di Dio, riconosciuto nel suo amore per gli uomini. Tutti mantengono la proprietà dei rispettivi linguaggi, ma tutti esprimono l’identica cosa: i cuori parlano oramai un’unica lingua. A differenza dell’esperimento della torre di Babele, quando gli uomini parlavano l’unica lingua del dominatore di turno in ordine al sogno di grandezza di qualche potente, ma i cuori erano schiavizzati, zittiti nella propria lingua. É il miracolo operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. Come ripeteva s. Francesco d’Assisi: avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù, che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quella dinamica lavora a che tutti si ritrovino nell’unica famiglia di Dio, tutti invitati alla mensa del suo amore. E per questo, nella preghiera della Chiesa, nel canone eucaristico, lo Spirito è invocato perché ci riunisca in un solo corpo.

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Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Santissima Trinità

(30 maggio 2021)

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Dt 4,32-34.39-40;  Sal 32;  Rm 8,14-17;  Mt 28,16-20

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L’antifona di ingresso della liturgia di oggi esprime molto bene il senso della confessione di fede nella Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. È la stessa cosa che proclamano i beati in paradiso: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello” (Ap 7,10). Corrisponde alla comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti.

Lo proclama la prima lettura del Deuteronomio, presa dal primo discorso di Mosè al popolo, a conclusione della sua traversata del deserto, in procinto di entrare nella terra promessa. Sono tutte persone che non hanno visto nulla di quello che Mosè sta raccontando perché coloro che sono stati liberati dalla schiavitù dell’Egitto e hanno assistito alla rivelazione di Dio sul Sinai sono tutti morti nel deserto. Sono lì ad ascoltare i loro figli e Mosè li incalza con due potenti ‘ragionamenti’. È mai successo che un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco e sia rimasto vivo? Oppure, si è mai visto da qualche parte che un dio andasse a scegliersi un popolo combattendo per lui e liberandolo dalla schiavitù? Sono le due ‘evidenze’, la rivelazione al Sinai e la liberazione dall’Egitto, che Mosè ricorda per convincere la sua gente a seguire il Signore. Ecco, confessare il proprio Signore significa proclamare l’esperienza di quelle due evidenze. Certo, noi oggi, purtroppo, non abbiamo naturalmente una concezione di Dio così viva da pensare che la cosa più prodigiosa sia effettivamente la sua conoscenza o l’esperienza del suo soccorso. Dice il salmo 144, 3: “Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero?”, reso dalla Volgata e dalla versione greca: ‘cos’è l’uomo che ti sei fatto conoscere a lui?’. Possiamo però comprendere bene i nostri padri che di quella concezione sono stati i testimoni primi.

Proclamare la Trinità significa, prima di tutto, aver accolto la testimonianza di Gesù, aver riconosciuto che in lui si è rivelato lo splendore dell’amore del Padre per noi, con lo Spirito Santo che ci apre il cuore a quella rivelazione. Proclamando il Credo, nella liturgia, diciamo: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, accetto di rispondere all’alleanza che ha voluto offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica è percepita come memoriale dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia, che diventa sacra, storia di salvezza.

Ed è caratteristico che il brano di vangelo, il quale riporta la confessione di fede battesimale, insista su due aspetti strettamente correlati: mentre fa leva sul fatto che il Signore Gesù ci accompagnerà lungo la storia, fino alla fine dei tempi, invita ad annunciare al mondo quello che Gesù ha insegnato e trasmesso. Intimità e missione, ecco i due perni della fede. Fede rivolta al Signore Gesù, ma radicata nel mistero di intimità di Gesù con il Padre e testimoniata nella missione al mondo con il dono dello Spirito, che guida i discepoli a fare esperienza dell’amore di Dio.

Quando Gesù aveva promesso lo Spirito, l’aveva descritto come colui che ci avrebbe guidati a tutta la verità (cfr. Gv 16,13). Il che significa: farà vivere ogni circostanza nella logica di quell’amore del Padre che Gesù ci ha fatto conoscere, non permettendo che ci possa essere evento capace di mortificare quella esperienza.

Non bisogna dimenticare che l’invocazione del Padre come Abbà, così tipica della preghiera di Gesù al Padre, sulle labbra di Gesù compare solo nella sua preghiera al Getsemani (Mc 14,36), cioè nel momento più angoscioso della sua vita terrena. Le altre due volte, nel Nuovo Testamento, che compare quell’appellativo, è messo sulle labbra dei credenti come proferito dallo Spirito Santo nei nostri cuori: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15); “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!” (Gal 4,6). Non posso non pensare che la circostanza nella quale quell’invocazione sgorgherà più potente sarà quella nella quale la prova opprimerà. L’intimità sta insieme all’angoscia perché così è stato per Gesù e così sarà per la nostra umanità, chiamata alla mensa dell’amore di Dio, insieme a tutti i fratelli. Gesù, che è sempre con noi, ci innesta nel suo movimento di rivelazione al mondo dell’amore di Dio, riunendo tutti alla stessa mensa, perché tutti chiamati allo stesso destino. Questo comporta la proclamazione della fede nella Trinità.

Rifacendomi ai versi di Dante, poeta del paradiso, avverrà anche per noi quello che è avvenuto per lui nella sua ascesa verso Dio:

Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo

cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,

sì che m’inebriava il dolce canto.

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso

de l’universo; per che mia ebbrezza

intrava per l’udire e per lo viso (Par XXVII).

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Corpus Domini

(6 giugno 2021)

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Es 24, 3-8;  Sal 115;  Eb 9, 11-15;  Mc 14, 12-16. 22-26

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L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

La celebrazione di oggi verte tutta sul tema dell’alleanza nelle sue tre dimensioni: la dimensione celebrativa-sacrificale, la dimensione misterica o sacramentale, la dimensione escatologica. L’alleanza sinaitica, che la lettura del cap. 24 del libro dell’Esodo commenta, è sigillata dall’aspersione con il sangue degli animali uccisi per l’olocausto e dall’obbedienza del popolo che si dichiara pronto a eseguire ciò che il Signore aveva comandato e che Mosè fa conoscere loro. Tra l’altro, l’espressione singolare con cui il libro dell’Esodo riporta la volontà del popolo (“Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”, Es 25,7), è stata interpretata dalla Tradizione come la norma di intelligenza delle Scritture e della crescita spirituale: metto in pratica e comprendo, faccio e ascolto (ascolto, cioè, l’ispirazione interiore del comandamento, impossibile da cogliere senza la disponibilità a praticarlo, per la fiducia in Colui la cui promessa di vita è iscritta nella parola che mi rivolge). Quella alleanza sinaitica, che si compie definitivamente nella nuova alleanza, spiegata dalla seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, è sigillata nel sangue di Gesù.

La nuova alleanza, nella sua dimensione misterica, è celebrata con gli apostoli nel Cenacolo ed è sigillata con il dono del Corpo e del Sangue di Gesù, oramai vero cibo e vera bevanda per l’accesso al Regno di Dio. Così che la comunione con Dio, frutto della nuova alleanza, è sigillata dalla fraternità in Cristo dei discepoli, vissuta nell’amore vicendevole, come annuncio del Regno.

La celebrazione eucaristica è animata proprio dalla tensione al Regno che i discepoli sono chiamati ad annunciare al mondo, radicati in Cristo, nell’attesa del compimento ultimo nel regno dei cieli. Come proclama la colletta: “Signore, che ci hai radunati intorno al tuo altare per offrirti il sacrificio della nuova alleanza, purifica i nostri cuori, perché alla cena dell’Agnello possiamo pregustare la Pasqua eterna della Gerusalemme del cielo”. Pensiero ripreso nella orazione dopo la comunione: “Donaci, o Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.

Sono però soprattutto i tre prefazi che suggeriscono le porte di accesso allo splendore di questa festa.

Il primo si incentra sul memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e in esso rimanere.

Il secondo celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché l’umanità, diffusa su  tutta la terra, sia illuminata dall’unica fede e riunita dall’unico amore”. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria”. È il mistero della santità come mistero di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.

Il terzo celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. È la celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai meno va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.

Tre sono i verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “… a te per primo si offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘non preferì nulla all’amore che lo consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per gli uomini, in tutta intimità con il Padre’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo sacrificio quanto lo splendore dell’amore del Padre, che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito, che ci fa vivere in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui.

La cosa straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini.

In effetti, se ci domandiamo qual è la virtù specifica dell’Eucarestia, a cosa tende, non possiamo non rispondere con s. Agostino: “La virtù propria di questo nutrimento è quello di produrre l’unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo” (Disc. 272). L’amen che rispondiamo al ‘corpo di Cristo’ proferito dal sacerdote al momento della comunione eucaristica ha proprio questo significato: sì, riconosco di far parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Sacratissimo Cuore di Gesù

(11 giugno 2021)

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Os 11,1.3-4.8c-9; Is 12,2-6; Ef 3,8-12.14-19; Gv 19,31-37

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Il simbolo più eloquente dell’amore di Dio per l’uomo, almeno nella liturgia latina, è il ‘sacratissimo cuore di Gesù’ che la lancia del soldato apre sul mondo, spalancando sull’universo il segreto di Dio. L’antifona d’ingresso della festa canta: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la sua determinazione all’amore per l’uomo, una determinazione che non si lascia vincere da nessuna diffidenza e cattiveria. Dio resta solidale con l’uomo comunque. Il Cuore di Gesù svela questo piano e lo rende noto a tutti, a chiunque, per sempre.

Lo ripete s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando descrive l’annuncio evangelico del mistero nascosto da secoli in Dio e ora rivelato al mondo dicendo: “… secondo il progetto eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore …”. Con lo straordinario invito finale: “Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza …” (Ef 3,11.17-19).

Esperienza certamente fascinosa ma per nulla scontata. Se interrogo il mio cuore, nella sua fatica del vivere, non posso non domandarmi: ma perché resto così insensibile davanti al suo cuore spalancato?  Perché non mi faccio toccare? I comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella risonanza per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti?  Eppure, come dice misteriosamente il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Profezia, che il vangelo di Giovanni interpreta come figura della morte in croce di Gesù (cfr Gv 19,37). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto con altri occhi. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante, che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità.

Acquistano una risonanza insospettata le parole di Giovanni nella sua prima lettera se le riferiamo direttamente al Cuore di Gesù: “… davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). È Dio a sovrastare il nostro peccato con la sua bontà. Il riconoscimento del peccato richiama in primo luogo la bontà di Dio, non la nostra condanna. La bontà crea sempre uno spazio nuovo al cuore dell’altro permettendogli di entrare nuovamente nella vita, apre un tempo nuovo senza bloccare il cuore al passato. Il Suo amore è più grande del nostro peccato. E proprio questa esperienza è la garanzia più solida della nostra speranza che ci apre alla comunione con Dio e con i fratelli, pacificando noi stessi.

Giovanni è testimone oculare: “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34). Evidentemente, non allude solo al fatto visto, ma al significato che ne ha dedotto, significato che corrisponde a quanto aveva scritto all’inizio del suo vangelo: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità … Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,14.18). Il cuore squarciato illustra quella gloria e il fatto viene narrato perché anche chi legge possa ritrovarsi nella stessa esperienza del discepolo prediletto. Non si tratta di una informazione di cronaca, ma dello svelamento di un segreto capace di rinnovare tutta la vita. Quella gloria appare a chi guarderà verso quel trafitto sentendosi trafitto dalla intensità del suo amore e dal dolore di non averlo compreso prima. Vedremo allora, come dice il profeta Osea, l’opera di Dio per noi: “A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro” (Os 11,3). Così prega la colletta: “Padre di infinita bontà e tenerezza… donaci di attingere dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce la sublime conoscenza del tuo amore …”.

Mi piace riportare un aneddoto delle fonti francescane. Vi si narra di un sogno rivelatore di due eretici, poi convertiti. Avevano visto il Signore Gesù chinarsi sul petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ad un certo punto, Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi apparve perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro Signore; poi Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco (FF 2547). Ma di Francesco si dice che avesse costantemente davanti agli occhi il suo dolce Gesù, crocifisso: “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra (FF 522).

Non è che l’uomo abbia motivi così evidenti per amare Dio; ma se sosta in preghiera quei motivi incominciano ad apparire al cuore e tutti alla fine si riducono all’esperienza del venir come rinchiusi nel fianco aperto di Cristo, spalancato sul mondo, resi ormai suoi compagni di testimonianza dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XI Domenica

(13 giugno 2021)

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Ez 17,22-24;  Sal 91;  2Cor 5,6-10;  Mc 4, 26-34

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Il brano di vangelo di oggi è introdotto dall’avvertimento: “Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più. Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mc 4,24). Applicato alle parabole del regno, risulta quanto mai significativa la spiegazione di Beda il Venerabile: “Continuate a ricordare e a indagare con tutta la vostra attenzione la Parola che avete ascoltato poiché a colui che ama la Parola sarà data anche l’intelligenza di capire l’oggetto del suo amore, ma chi non ama la Parola che ascolta, anche se per ingegno naturale o per cultura sembra intenderne il significato, non gioirà di alcuna dolcezza della vera sapienza”.

Il racconto delle due parabole è la ripresa dell’invito iniziale del vangelo di Marco: “Credete al vangelo” (Mc 1,15), che, per essere percepito nella sua reale novità, potremmo tradurre: ‘abbiate fede in questa buona notizia’, ‘fidatevi di questa buona notizia’. In una duplice direzione, come del resto sottolineano le due parabole del seme gettato nella terra e del granello di senape: a) ciascun cuore è invitato ad accogliere il seme della parola di Gesù, che, crescendo, costruisce una nuova fraternità dallo spirito evangelico; b) questa nuova comunità agisce nel mondo crescendo e attirando al Signore Gesù gli uomini di ogni dove, sempre custodendo la modestia dell’opera di Dio che non si impone, ma che affascina e attira.

Le parabole in effetti sono costruite sul contrasto tra il seme e il frutto, tra il seme piccolissimo e la pianta grande. Sottolineano la potenza del seme e l’esito finale certo. La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Il paragone del seme vale anche per la fede: “se aveste fede quanto un granellino di senape …” (Lc 17,6). Non da intendere: basta che abbiate almeno un pochino di fede. Piuttosto: aveste una fede genuina, grande come un minutissimo seme di senape! I semi di senape sono così minuti che, se si mettono sul palmo della mano e si capovolge la mano come per rovesciarli per terra, nemmeno cadono giù. Era proverbiale l’immagine della piccolezza del seme di senape. Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della vita, al peso dei malvagi nella vita. Non importa se abbiamo una fede grande o piccola, basta che sia genuina e questa ha la potenza di fare miracoli, cioè di fare spazio al regno di Dio che viene, in ogni cosa.

L’allusione si deduce dai termini che il vangelo di Marco usa, inusuali per una semplice descrizione. Ad esempio, non usa il verbo ‘nidificare’ ma ‘accamparsi’, ‘porre la tenda’; per dire che il frutto matura usa il verbo ‘consegnare’ (allusione alla consegna di Gesù agli uomini, alla consegna dei discepoli a Gesù!); per la mietitura che è arrivata usa l’espressione di Gioele 4,13 in cui si parla del raccolto che è presente, vale a dire che il messaggio di Gesù è destinato a tutti i popoli e tutti lo riconosceranno. Così la piccolezza del seme non è solo allusiva dell’inizio insignificante, ma dell’irrilevanza sociale della comunità dei credenti.

Come viene cantato al vangelo: “Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo: chiunque trova lui, ha la vita eterna”, la parola del Signore ha tanta potenza che basta accoglierne una in verità per riunificare tutto di noi attorno, su e dentro di essa. Così, davanti al dramma del male che ci accompagna, resta la fiducia ancora più grande della potenza della parola di Dio, di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui, come s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi proclama: “sempre pieni di fiducia … siamo pieni di fiducia”.

Se all’immagine del seme si sovrappone quella del granello, come è il caso della parabola del granello di senape, allora l’allusione più feconda resta ancora quella che suggeriscono i Padri, s. Ambrogio in particolare: “Anche il Signore è un chicco di senapa. Egli era immune da ogni offesa, ma il popolo lo ignorava, come un chicco di senapa, perché non lo aveva ancora mai toccato. Preferì di essere sfatto, perché noi potessimo dire: Noi siamo per Dio il profumo di Cristo (2Cor 2,15)”. Ambrogio pensa alla fede, che è semplice, ma se viene macerata dalle avversità, essa effonde l’incanto della sua forza. Pensa i martiri come chicchi di senape che, fatti a pezzi dalla spada, sparsero per i confini del mondo il fascino del loro martirio. Altri Padri parlano del grano di senape che rivela la sua qualità con grandissima potenza se viene triturato, alludendo alla passione di Gesù.

L’aspetto singolare, poi, dell’immagine della pianta che cresce fino a permettere agli uccelli di nidificare è il capovolgimento di prospettiva rispetto al suo uso profetico tradizionale. Se, nel brano di Ezechiele, l’immagine indicava l’umiliazione dei due potenti regni antagonisti del Medio Oriente antico, Egitto e Assiria, nell’intelligenza evangelica l’immagine perde tutto il sapore di potenza mondana e si applica al regno di Dio che cresce a tal punto da attirare tutte le nazioni. L’inizio è insignificante, la modalità di crescita nascosta, ma l’esito fecondo.

Aggiungo ancora che Luca, all’immagine del seme, unisce quella del lievito, per mostrare come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XII Domenica

(20 giugno 2021)

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Gb 38,1.8-11;  Sal 106;  2Cor 5,14-17;  Mc 4,35-41

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Il brano evangelico di oggi può essere ascoltato secondo tre rimandi caratteristici: un rimando alle Scritture, un rimando alla storia di Gesù, un rimando alla storia dei discepoli. L’antifona di ingresso ci fornisce la finestra di luce appropriata: “Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, e sii la sua guida per sempre”. Si tratta del v. 9 del salmo 27/28, la cui versione recente, più in linea con il testo ebraico e greco, suona: “Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, sii loro pastore e sostegno per sempre”. Questa invocazione risuona alla fine della liturgia eucaristica celebrata secondo il rito bizantino, dopo che i fedeli hanno ricevuto la comunione e il sacerdote invoca sui fedeli la benedizione di Dio: “O Signore, tu che benedici coloro che ti benedicono e santifichi quelli che hanno fiducia in te, salva il tuo popolo e benedici la tua eredità. Custodisci tutta quanta la tua Chiesa, santifica coloro che amano il decoro della tua casa…”. Ecco, l’intervento di Gesù per calmare il mare allude proprio al suo essere Pastore, al Dio che è pastore del suo popolo.

Collegare l’immagine di Gesù, che comanda al vento e al mare, con quella di Dio che parla a Giobbe in mezzo all’uragano, non ha lo scopo di lasciare i lettori del vangelo a bocca aperta. Suonerebbe banale l’esibizione di potenza da parte di Gesù che domina il mare. Se Dio parla di mezzo al turbine a Giobbe (siamo alla fine del libro, quando Dio ormai ha conquistato Giobbe all’incontro con lui e lo elogia davanti ai suoi amici perché ha pensato più rettamente di loro) è per introdurlo al mistero di un incontro, che apre al senso del vivere. La vita è assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così Gesù, che si è messo a dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato dai discepoli per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare.

In effetti il brano si inserisce nella storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo alla tempesta e viene svegliato dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha semplicemente il sapore di cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più profondo. Il mare in tempesta assume il valore simbolico delle potenze del male che Dio domina. In effetti, i verbi usati da Marco nel descrivere la scena non si addicono tanto ad un’azione di potenza sul mare, ma si riferiscono all’azione di un esorcismo: ‘minacciò’, ‘taci’, verbi che si ritrovano in altre esperienze di esorcismo narrate nei vangeli. L’allusione alla lotta contro il male è evidente. E quando Dio svelerà tutta la sua potenza contro il male? Quando si addormenterà sulla croce e attraverso quel sonno sconvolgerà il regno degli inferi. La morte in croce di Gesù viene spesso percepita come un sonno perché poi si sveglia, perché poi risuscita e su di lui la morte non avrà più alcun potere e il male è vinto.

Vale poi il rimando alla storia dei discepoli. Questi hanno accettato di stare con il loro Maestro, lo stanno imparando a conoscere e Gesù si premura di introdurli poco a poco nel suo mistero. Nella stessa giornata, i cui eventi coprono il racconto dei capitoli 4 e 5 di Marco, sono riunite sia la proclamazione delle parabole sul regno che la realizzazione di alcuni miracoli. Quella parola di Gesù, che illustra la realtà del regno di Dio nelle parabole e nelle spiegazioni private ai suoi discepoli, è la medesima che ha il potere di calmare la tempesta, guarire l’indemoniato e l’emorroissa, risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte a quelle parole e a quella parola potente, i discepoli non possono non domandarsi, profondamente toccati nel loro intimo: davanti a chi ci troviamo? Chi è dunque costui? È il significato più diretto del brano. Il canto al vangelo ce lo sottolinea con la condivisione dei sentimenti dei discepoli nell’esclamazione della gente di fronte al miracolo di Gesù che risuscita il figlio della vedova di Nain: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (cf. Lc 7,16). Prelude allo stupore dei commensali di fronte al comportamento di Gesù che rimanda la peccatrice perdonata: “Chi è costui che perdona anche i peccati?” (cf. Lc 7,49). Vi è pure adombrata la storia nostra di credenti, per sentirci molte volte oggetto del rimprovero amorevole di Gesù: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete così paura del male? Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi inganni? Gesù è amorevole nel fare il rimprovero perché sa che il cuore dell’uomo, per quanto desideri la vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e che occorre un lungo tragitto per collocarsi stabilmente nella fiducia.

Di fronte alla scena evangelica, possiamo ancora insistere sul perché i discepoli hanno avuto paura. Detto in altre parole: quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo che il male serpeggia dentro di noi e non è una novità, sappiamo che ci lambisce. Ma: quando comincia ad avere la meglio su di noi? Un particolare del racconto ci può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva ordinata Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo all’altra riva”. Nel passo parallelo di Matteo è tanto evidente che si dice: “Salito sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono” (Mt 8,23). Tutto ciò che quella traversata comporta sta dentro il comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente dimenticato che era stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata, probabilmente non si sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha fatti sentire soli, in balia delle onde. La fede è appunto percezione di compagnia, una compagnia di alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di fronte al male, ma se la vive in compagnia del proprio Signore è tutt’altra cosa. Così è la nostra vita, una traversata tra i marosi, all’interno e all’esterno. Vivere la vita dentro un’obbedienza a un’alleanza, che sperimentiamo a nostro favore, significa allora non permettere al male di ghermirci, significa non essere in balia degli inevitabili marosi. Sarebbe il senso della scena nella sua valenza ecclesiale: la barca è la chiesa che attraversa il mare di questo mondo in subbuglio; sebbene Gesù dorma, è sulla barca e la fede lo risveglia e le onde non l’affondano.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(27 giugno 2021)

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Sap 1,13-15; 2,23-24;  Sal 29;  2Cor 8,7.9.13-15;  Mc 5,21-43

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Se entriamo nel brano evangelico attraverso la porta della prima lettura e del canto al vangelo tutto acquista un sapore diverso. I primi due capitoli del libro della Sapienza oppongono l’agire di Dio per la vita e la scelta degli empi per la morte. Il ragionamento degli empi è introdotto con le parole: “Dicono fra loro sragionando” e si conclude con l’annotazione: “Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio …”. I segreti di Dio però non sono semplicemente quelli che vengono enunciati nel brano della Sapienza: la ricompensa del giusto e l’immortalità dell’uomo. Un particolare è assolutamente illuminante. Il ragionamento degli empi è ripreso nel vangelo di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “… facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso! É il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (Mt 27,42-43). I segreti di Dio riguardano quel Figlio, venuto perché gli uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza. Come dice il canto al vangelo: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo” (2Tm 1,10). Qui Paolo, alla fine della sua vita, nell’imminenza del martirio, sintetizza il senso del vangelo nello splendore della vita che il Signore Gesù ha fatto scaturire per l’uomo riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il testo greco non riporta ‘ha vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece risplendere’, dice con più precisione ‘ha reso inefficace la morte’, vale a dire ha svigorito la morte di tutto il suo potere, potendola ormai patire senza subirne la condanna. Ha lo stesso valore dell’espressione: satana gli viene contro con tutto il suo potere ma non trovando nulla di suo in lui non lo può distogliere dal suo compito di mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e quanto lui ama il Padre (cf. Gv 14,30-31). È vinta definitivamente l’invidia del diavolo e il cuore dell’uomo può tornare a splendere dell’amore di Dio che fa sgorgare la vita.

Così, i miracoli, narrati nel brano di oggi con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono alla potenza salvatrice del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo, amore che farà risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando il potere della morte sarà esautorato. Del resto, i miracoli narrati rivelano la potenza di salvezza della parola di Gesù nel suo svelare il regno di Dio che viene con le parabole del regno, da renderci familiari di Dio, riuniti alla sua mensa. È chiaro che, se i miracoli sono l’occasione di rivelazione del Figlio di Dio, perché tale rivelazione conquisti è necessaria la fede.

Di due personaggi è mostrata la fede: del capo della sinagoga, Giairo e di una donna, l’emorroissa. Alcuni particolari sono assolutamente singolari. Gesù era stato precedentemente scomunicato dalla sinagoga (cfr. Mc 3,6 e 3,22) e proprio uno dei capi insiste, prostrandosi ai piedi di Gesù, perché venga a guarire sua figlia agli estremi e che muore prima che possano arrivare a casa. Ma Giairo continua a credere, anche quando tutti ormai lo dissuadono. Il brano suggerisce almeno due cose. La prima: quando Gesù è supplicato con fede, interviene. Il testo annota: “Andò con lui”. Gesù accompagna chi ha fede in lui nel tempo e lungo la strada per ottenere la grazia, che avviene in condizioni insperate o disperate. Gesù salva e fa vivere: questo significa fare il bene, come aveva espressamente dichiarato in sinagoga davanti all’uomo della mano inaridita (cfr. Mc 3,1-6). La seconda: il contrario della fede non è la non fede, ma la presa in giro, la derisione, come il testo annota rispetto alla gente che piangeva e urlava forte: “E lo deridevano” (Mc 5,40). Stessa derisione che avviene sotto la croce! Non semplicemente la resistenza a credere, ma la presa in giro, quel senso di superiorità che prende le distanze mettendo in ridicolo. Così si resta nella impossibilità di avere la vita!

L’emorroissa, la donna che per la sua malattia era dichiarata immonda (cf. Lv 15,25-27), nella calca generale, è l’unica a toccare Gesù. Gesù se ne accorge perché chi lo tocca nella fede permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così lui, che è il Santo, santifica; lui, che è il Salvatore, salva; lui, che è il Potente, soccorre e guarisce. Chi non ha vivo il senso della propria immondezza, della propria miseria, non può avere fede sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello (o della frangia, come nel passo parallelo di Matteo, simbolo dell’obbedienza alla parola di Dio) ha fatto pensare al vestito del Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può accalcare attorno alla Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla folla dei discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si accosta anche a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che racchiudeva e l’anima è guarita. E la parola, come il suo corpo, è lì (pensiamo alla celebrazione eucaristica) proprio nell’attesa di lasciar uscire la potenza che racchiude e rivelare l’amore per cui è stata proferita ed è stata inviata. Gesù resta nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’ in pace e sii guarito dal tuo male! Un commento di s. Efrem annota: la donna è testimone della divinità di Gesù come Gesù è testimone della sua fede!

La tua fede: è la fiducia nel Messia salvatore, in colui che ci può accogliere e guarire e far vivere dell’amore del Padre, rendendo splendore alla nostra umanità.

Va’ in pace: dopo l’incontro con il Salvatore nulla è più come prima, come tanti episodi dei vangeli dimostrano, perché il cuore ha potuto gustare qualcosa che frantuma le sue pretese e rivendicazioni disponendoci a vivere riconciliati e luminosi.

Sii guarita: si torna a vivere nella luce della santità di Dio, che è amore per noi, diventato radice e forza dei nostri comportamenti e del nostro orizzonte interiore.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(4 luglio 2021)

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Ez 2,2-5;  Sal 122;  2Cor 12,7-10;  Mc 6,1-6

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La liturgia di oggi mette in risalto il contrasto tra la fantasia d’amore di Dio per il suo popolo e la resistenza del popolo ad accogliere l’amore del suo Dio. Arduo spiegare la cosa, ma è un’evidenza della storia, un’evidenza della nostra storia.

La prima lettura sottolinea la tenacia di Dio verso il suo popolo. Il brano è straordinario perché, nonostante il pronosticato fallimento, Dio manda il suo profeta tra gli esiliati a Babilonia. Non succederà nulla, ma almeno sapranno che ho mandato loro un profeta. In altri termini: sapranno che non li ho abbandonati! La premura quindi è per il profeta stesso: tu non temere, annuncia loro quello che ti dirò. Tradotto con altre parole, ecco quello che potranno capire: la storia di Dio con il suo popolo continua, continua sempre, Dio non si stanca mai di inseguire, di venire a cercare. E il salmo responsoriale traduce in supplica quello che il popolo capirà col tempo: “A te alzo i miei occhi … finché abbia pietà di noi”.

Il brano evangelico, in modo ancora più drammatico, illustra la stessa cosa. Gesù viene a Nazareth, il luogo che l’ha visto crescere, e non è accolto, viene rifiutato. Se mettiamo a confronto i tre vangeli sinottici l’evento ci appare in tutta la sua drammaticità. Marco narra l’episodio dopo il racconto dei miracoli di Gesù ed è l’unico ad apporre una firma all’evento: “E si meravigliava della loro incredulità”. Luca è l’unico a spiegare la diffidenza dei suoi concittadini: sembra suggerire che non abbiano accolto di buon grado il ricordo della preferenza dei pagani da parte di Dio (la vedova di Zarepta di Sidone al tempo del profeta Elia e Naaman il siro ai tempi di Eliseo) e così contrastano la predicazione di Gesù, come gelosi dei doni di Dio. Per Luca, che pone l’evento all’inizio dell’attività di Gesù, l’esito negativo della prima predicazione di Gesù a Nazaret è la prefigurazione del rifiuto finale di Gesù e della sua morte in croce. Matteo invece sembra suggerire altro perché il passo di oggi fa da contrappunto alla scelta di Gesù, con la proclamazione delle parabole del regno, di chiamare madre e fratelli i suoi discepoli, ai quali “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11). Alla fine, però, gli ascoltatori non comprendono e Matteo li definisce come coloro che non vogliono essere familiari di Dio.

L’episodio della predicazione di Gesù a Nazaret illustra bene la premura di Dio. La scena è racchiusa da due identici sentimenti di valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, diffidente, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù, che si vede costretto a fuggire: “E si meravigliava della loro incredulità”. Una meraviglia, quella di Gesù, però, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, come il resto del racconto evangelico proverà, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività ovunque.

Noi non ci accorgiamo che spesso la nostra incredulità nasconde una cattiva idea di Dio. A dire il vero non si tratta realmente di una mancanza di fede, ma di diffidenza, di riserva mentale. Come per i concittadini di Gesù descritti da Luca 4,16-31: gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani, come se questa preferenza comportasse un’accusa ai suoi figli. Così è per noi: è vero che ci accorgiamo che Gesù insegna cose belle, cose degne della massima stima, ma essere disposti ad accoglierlo e seguirlo nella sua rivelazione di Dio e nel suo servizio agli uomini non ci è agevole.

La liturgia ci invita allora a cogliere il nodo essenziale della vita: la salvezza è data dalla potenza di Dio ma ha bisogno di essere accolta con fede, senza riserve mentali. Il problema più o meno può essere posto così: perché la grazia non compie tutto ciò che promette? Pensiamo al perdono che domandiamo a Dio per i nostri peccati. Perché, pur chiedendolo sinceramente e ottenendolo, non agisce in profondità da trasformarci completamente? Forse che Dio vincola il suo perdono? Non sarebbe morto per noi! Pensiamo alla richiesta di una virtù: “Signore, fammi umile”. Perché dopo la richiesta restiamo ancora in preda all’orgoglio e all’egoismo? Forse che Dio è geloso dei suoi doni? Non ci avrebbe dato il suo Figlio! Ecco dunque la meraviglia di Gesù: la nostra incredulità.

Dio non si stanca però della nostra incredulità perché sa che il nostro cuore ha bisogno di tempo per cedere, per arrendersi, per sciogliere le sue paure, le sue resistenze, le sue ambiguità. L’importante è non lasciare mai il Signore, lasciarsi sempre riaccostare da lui tanto che, come dice la colletta: “perché riconosciamo la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio, e nella nostra debolezza sperimentiamo la potenza della sua risurrezione”. Il movimento suggerito dalla preghiera è appunto quello di imparare a vedere la gloria, cioè lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, proprio nell’umiliazione del Figlio che si consegna agli uomini perché sappiano quanto lui ama il Padre e quanto è grande il suo amore per noi. Il che significa riconoscersi dentro una provvidenza di bene per noi, stando solidale con i sentimenti di Dio, in favore dei fratelli. Così facendo, potremo sperimentare la potenza della vita che viene da Dio accogliendo in pace le infermità e le afflizioni della nostra storia perché non sono queste ad allontanarci dalla comunione con Colui che il nostro cuore cerca e di cui potente è la salvezza.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(11 luglio 2021)

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Am 7,12-15;  Sal 84;  Ef 1,3-14;  Mc 6,7-13

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L’antica colletta: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”, mostra la radice da dove l’annuncio apostolico prende linfa e vigore. Chi annuncia, mandato dal Signore, ha già sperimentato quel ‘non avere nulla di più caro del Figlio’, lo stesso che invia e l’unico che può colmare i cuori nei loro aneliti e nelle loro angosce.

Il canto al vangelo: “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (cfr. Ef 1,17-18), mostra come l’annuncio apostolico alimenti la speranza iscritta nei cuori, sebbene spesso sepolta e perduta.

Matteo e Luca, per sottolineare l’urgenza e la radicalità dell’invio, negano all’apostolo perfino il bastone e i sandali. Mi sembra che a quella urgenza e radicalità si possano collegare le parole di Paolo agli Efesini quando ricorda loro che tutte le cose devono essere ricondotte a Cristo (Ef 1,10). Usa un’immagine particolare, quella del ‘capitolo’, come era chiamata l’asta attorno a cui veniva avvolto il rotolo di pergamena che costituiva il volume. La missione degli apostoli tende appunto a ri-capitolare tutto in Cristo. All’urgenza della missione si può anche ricollegare il racconto della vocazione del profeta Amos. Caratteristica la successione dei verbi nel resoconto autobiografico del profeta: mi prese, mi chiamò, vai! Prima viene coinvolto nell’alleanza con Dio, poi gli è mostrata come sarà chiamato a vivere quella alleanza, infine gli viene ingiunto di eseguire il compito affidatogli.

Per Marco, invece, nella tenuta dell’apostolo (bastone, sandali, una veste sola), si può ravvisare l’allusione alla tenuta da viaggio del popolo all’uscita dall’Egitto, raccontata in Es 12,11. Gli apostoli guidano il nuovo esodo con l’annuncio del Regno di Dio che in Gesù si manifesta. Ogni annuncio nella Chiesa ha così un sapore pasquale: comporta l’esodo dall’Egitto e l’accoglienza del regno di Dio, dentro l’esperienza della manifestazione della potenza di salvezza di Dio.

Il gesto dello scuotere la polvere dai piedi, quando non dovessero accogliere l’annuncio, – gesto comune al pio israelita quando saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme proveniente da territori pagani non volendo contaminare il sacro suolo d’Israele -, assume anche questo significato: la pace che non avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi, se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi; non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. La responsabilità dei discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa apparire davvero desiderabile.

Marco, quando aveva riportato la scelta degli apostoli da parte di Gesù, aveva annotato: “Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,14). Gesù, mandando in missione gli apostoli, non fa che estendere a tutti quello che lui ha fatto con loro. Gli apostoli annunciano il regno di Dio che è vicino cacciando i demoni e predispongono le persone a stare con Gesù. Quale sarà il segno che li contraddistinguerà? Marco è l’unico a riportare che gli apostoli sono inviati due a due, come sigillo di fraternità per la pace ottenuta con la rivelazione del Signore Gesù salvatore. Quella pace ha un volto misterioso, invisibile, che riluce, ma nel nostro cuore, ed è il volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, costatabile, amabile, che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le ripeteranno, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l’efficacia appare dalla fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella non da soli, ma a due a due.

È la stessa rivelazione del Padre Nostro, allorquando la fraternità vissuta (‘venga il tuo regno’, venga cioè lo Spirito del Signore a renderci un corpo solo e un’anima sola, così come preghiamo anche nel canone eucaristico) rivela a tutti il volto di Dio come Padre, rivela il suo amore per gli uomini. E come ottenere questo senza la preghiera: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio”, lui che ha rivelato in tutto il suo splendore l’amore di Dio per gli uomini e la grandezza della vocazione dell’uomo? Credo sia assai significativo che la chiesa vincoli l’intelligenza della verità al fatto di percepirla capace di interferire con le radici del nostro cuore (‘donaci di non avere nulla di più caro’), dentro cioè la possibilità di un’esperienza che renda la verità amabile e rigenerante.

Nel salmo responsoriale si canta: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere annunciatori di quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù. Per questo il salmo, dopo avere supplicato: “Mostraci, Signore, la tua misericordia”, aggiunge: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio” (antica versione greca e latina), vale a dire: nella misericordia posso ascoltare la parola d’amore che spingerà il mio cuore a vivere nella misericordia perché l’amore sia condiviso.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(18 luglio 2021)

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Ger 23,1-6;  Sal 22;  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

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Il brano evangelico di oggi, in verità, serve da introduzione al miracolo della moltiplicazione dei pani, che sarà proclamato nelle cinque domeniche successive a partire dal testo di Giovanni 6. Anche nei commenti antichi il brano è letto nella prospettiva del banchetto messianico, simbolo della salvezza definitiva offerta da Dio al suo popolo, che viene enunciato con la moltiplicazione dei pani per sfamare la folla.

È singolare che Gesù inviti i discepoli a starsene in disparte, a cercare un luogo solitario per riposare e che contemporaneamente si trovino davanti una folla numerosa, per la quale Gesù sente profonda compassione. Quando i discepoli annunceranno il regno di Dio non faranno che far arrivare ai cuori l’eco di quella ‘compassione’, di quella ‘profonda commozione’ di Gesù, buon pastore, mandato a riunire i figli di Dio dispersi. L’annuncio che non provenga dalla condivisione, dalla solidarietà con quella ‘compassione’, sarà piatto e ripetitivo e non toccherà i cuori. D’altra parte, se i discepoli non impareranno a starsene in disparte con il loro Signore, non sentiranno la profondità di quella ‘compassione’ e non potranno annunciare ‘con potenza’ il regno di Dio. La vivacità, la vitalità, nel senso che porta vita, della parola di Dio trova qui le sue radici. D’altronde è la stessa dinamica dei doni di Dio, della stessa elezione del popolo, della chiamata alla fede. Essere scelti dal Signore non è in funzione di un privilegio, ma di una intimità per farsi eco presso tutti di quella ‘compassione’ che tutti raggiunge, perché non si dà pace finché uno solo resti escluso.

Inviando gli apostoli in missione, Gesù li aveva forniti delle stesse sue prerogative: ‘scacciare i demoni, guarire ogni malattia e infermità’. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall’alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un ‘chiamato’, un ‘inviato’, lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla numerosa.

Del resto, è caratteristico che il brano odierno sia introdotto dal canto al vangelo: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27). Il primo ascolto, quello che rende la parola feconda per il cuore, è per la voce di colui che è riconosciuto come il proprio pastore. Si tratta di ascoltare a partire da una relazione amicale, di fiducia. È questo ascolto che permette di seguire Gesù. E non tanto nel fare qualcosa, ma nel farlo entrando nei suoi segreti, nel farlo conoscendone lo scopo e il perché, nel farlo in intimità con lui. Così, quando il testo evangelico annota che la gente era ‘come pecore che non hanno pastore’, intende contrapporre l’azione di Gesù all’azione del tentatore. Le suggestioni che vengono dal tentatore, e che spesso abbindolano i cuori, non conducono mai a una comunione di fraternità. Il male non unisce, ma separa; dà soddisfazioni, ma non riposo; vincola all’individualità e a un predominio, non genera comunione e non produce umiltà e gratitudine, che sono le caratteristiche del riposo goduto; lascia dispersi e oppressi.

Nel brano di oggi la compassione di Gesù si esercita nel parlare alla folla a lungo, insegnando i misteri del regno dei cieli, mentre, più avanti, in Mc 8,2, la compassione si eserciterà nello sfamare la folla. Parola e pane, Verbo e Corpo, come nella liturgia eucaristica: l’insegnamento della parola dà il senso del sacrificio e della comunione eucaristica, rendendoci una cosa sola con il Signore. Per questo il nome profetico che, alla vigilia del crollo di Gerusalemme sotto l’invasione assira, Geremia preannuncia per l’Inviato del Signore che ricostituirà il suo popolo, sarà: “Signore-nostra-giustizia”. Intendendo ‘giustizia’ dal punto di vista di Dio, cioè come l’offerta della sua pace e del suo perdono pieno di compassione per noi. Esattamente quello che Paolo, nella lettera agli Efesini, proclama: “Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva …” (Ef 2,14). Non ci sono più motivi di separazione tra gli uomini se Gesù li ha uniti nella sua pace. Cadono barriere e diffidenze se si guardano i fratelli nel nome di Gesù, che li ha tutti riuniti come figli dell’Altissimo, di cui la beatitudine proclama: ‘beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9). Perché quella pace pesca nel mistero delle ‘viscere di compassione’ di Dio per i suoi figli, di cui le Scritture sono la testimonianza luminosa.

La compassione di Gesù per l’umanità è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. In essa prendono senso e valore tutti i suoi gesti e le sue parole, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra. Molte volte nei vangeli si parla della compassione di Gesù. Gesù ha compassione delle folle, del lebbroso, della vedova di Nain, dei ciechi di Gerico. Le sue parabole illustrano spesso il mistero della compassione: il padre che vede il figlio prodigo ritornare, il padrone che rimette il debito al servo insolvente, il samaritano che raccoglie il malcapitato e lo cura amorevolmente. A sottolineare che l’amore di Gesù, che si identifica con il Signore, pastore del suo popolo, non è vincolato a nulla, ma procede dal suo stesso essere, dalla sua totale intimità con il Padre che vuole i suoi figli assisi alla sua mensa e che tutti attira a sé.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(25 luglio 2021)

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2Re4,42-44;  Sal 144;  Ef 4,1-6;  Gv 6,1-15

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Per cinque domeniche successive la liturgia mette da parte il racconto del vangelo di Marco per proclamare il cap. 6 del vangelo di Giovanni. Partendo dal miracolo della moltiplicazione dei pani per sfamare una folla numerosa, Giovanni ne svela il contenuto simbolico e lo commenta con un lungo discorso di Gesù.

La rivelazione di Gesù, che l’evangelista vuole presentare, è ottenuta sovrapponendo il racconto del miracolo con la trama della storia di Israele e la celebrazione liturgica dell’eucaristia nella chiesa. La moltiplicazione dei pani per sfamare la gente (cfr. 2Re 4,42-44) è un gesto messianico e la folla sente giusto, anche se poi interpreterà male. Il commento della gente: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo” riprende la profezia di Dt 18,15-21, quando Mosè promette la venuta di un profeta pari a lui che Dio susciterà. Quella profezia aveva assunto un carattere messianico preciso ed è quello che la gente coglie stupefatta.

Molti particolari, soprattutto nel passo parallelo di Mc 6,30-44, proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta erba, in occasione di un pasto, con una disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. È lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare la definitiva alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo che possa colmare i desideri degli uomini. I verbi usati per descrivere il miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della celebrazione eucaristica.

Nel racconto di Giovanni alcuni dettagli sono tipici della sua ‘comprensione’ del mistero di Gesù che vuole condividere ai lettori. Gesù, dopo essere salito sul monte, ‘alza gli occhi’. Non è un’indicazione di cronaca, cioè alza gli occhi per vedere la gente che l’ha seguito. Solo in un’altra occasione, nel vangelo di Giovanni, si descrive Gesù che alza gli occhi, cioè all’inizio del cap. 17, prima della grande preghiera sacerdotale nell’ultima cena. Quello che sta per compiere o per pronunciare deriva dall’intimità con il Padre, di cui ne svela il mistero di misericordia per l’uomo. Tanto più che l’annotazione che era vicina la Pasqua dei Giudei e che i pani offerti da un ragazzo sono pani d’orzo, con l’allusione alla festa degli Azzimi che segnava l’inizio della mietitura dell’orzo, voleva significare: la vera Pasqua sarà quella celebrata da Gesù con la sua immolazione sulla croce, il vero Pane sceso dal cielo è il suo Corpo. La stessa raccomandazione di Gesù di raccogliere i pezzi avanzati, con riferimento al passo del miracolo di Eliseo raccontato nella prima lettura e alla figura di Rut che tiene gli avanzi per portarli a sua suocera (cf. Rut 2,14, che la tradizione rabbinica interpreta in senso messianico: “Ne mangiò per il tempo presente, ne mangiò a sazietà per i giorni del Messia e ne mise da parte gli avanzi per il tempo futuro”) non vogliono sottolineare solo l’abbondanza della grazia, ma anche che il pane che distribuirà Gesù non è come la manna, che era proibito conservare, ma sarà il vero cibo di vita.

Nel nostro racconto Filippo, con la sua risposta, dà l’idea della grandezza del miracolo (la cifra di 200 denari è una cifra alta, se si tiene conto che un denaro era la paga giornaliera di un bracciante), mentre Andrea, con la sua solerzia, scova il ragazzo che dispone dei cinque pani. Il valore di queste annotazioni sta nel fatto di sottolineare la modalità con cui Gesù opera il miracolo: Gesù non crea i pani, li moltiplica solo. Un’altra volta si era trovato alle prese con la fame e si era sentito provocare: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane” (Mt 4,3). Ora non è più lui ad avere fame; è la gente, ma la posta in gioco non cambia. La dinamica sotterranea descritta è la seguente: Dio agisce in condivisione profonda con l’umanità degli uomini. Non agisce da prestigiatore o da illusionista, non vuole catturare o soggiogare nessuno: il miracolo è in funzione del suo mistero, capace di parlare al cuore dell’uomo, di suscitare la sua libertà e la sua condivisione, in termini umani. Dio moltiplica quel poco di noi che possiamo presentare, senza sostituirsi a noi, senza comprarci. Un esegeta commentava: se dò tutto quello che ho, il mio prossimo riceverà tutto quello che desidera. E volere che crei in noi la grazia, quando rifiutiamo di affidargli quel poco che siamo, sarebbe come condannarci alla delusione sicura. Nello stesso contesto si situa la collaborazione degli uomini all’opera di Dio. Gesù non ha solo bisogno dei cinque pani e due pesci del ragazzo, ma anche della collaborazione dei discepoli che distribuiscono il cibo moltiplicato, che raccolgono gli avanzi, che collaborano alla gioia di Dio e degli uomini. È il mistero della Chiesa, il segreto della potenza evangelica dell’amore fraterno. Anche questo è un aspetto dell’agire di Dio in condivisione dell’umanità degli uomini.

La difficoltà per noi, come risulterà dall’esito finale del racconto, deriva dal fatto che andiamo a Dio pensando di attirarlo per i nostri scopi (Gesù non accetterà di essere proclamato re se non dalla croce) invece che aprire i nostri cuori al suo segreto.

Da sottolineare ancora un’altra dinamica, presente nel testo, quella che corre tra l’offerta della parola e l’offerta di cibo. Gesù si era sentito commosso davanti a tutta quella gente, aveva cercato di insegnare loro tante cose, aveva rivolto loro una parola vera, di consolazione, di ristoro, di salvezza. Come avrebbe potuto non preoccuparsi della loro fatica, della loro fame? Annunciare così una parola vera a qualcuno significa nello stesso tempo farsi carico dei suoi bisogni, significa condividere quello che si ha e creare spazi di condivisione sempre più allargati. Senza questo risvolto, cadrebbe anche la verità del nostro parlare. Sarà mai possibile annunciare il vangelo a qualcuno, se questo qualcuno non ci diventa caro? E una persona ci può essere cara se non ci facciamo carico dei suoi bisogni? Tutt’altra questione è poi considerare l’esito di questo farsi carico. Gesù sapeva dell’insuccesso a cui andava incontro, ma non si sottrae al miracolo della moltiplicazione dei pani, come non si era sottratto all’annunzio della parola.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XVIII Domenica

(1° agosto 2021)

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Es 16,2-4.12-15;  Sal 77;  Ef 4,17.20-24;  Gv 6,24-35

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Prima di ascoltare la conversazione/discussione tra Gesù e la gente che era accorsa a Cafarnao alla sua ricerca dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, vorrei segnalare due particolari. Anche i discepoli ascolteranno quella conversazione. Avevano appena assistito a un altro miracolo, che la gente non aveva visto: Gesù era venuto loro incontro sulla barca in mezzo al lago camminando sulle acque e come di colpo, appena preso sulla barca, toccano terra. Eppure, anche per loro, le parole di Gesù suoneranno ostiche. Non lasceranno il loro maestro, come verrà annotato alla fine del racconto, a differenza della gente che si ritira dal seguire Gesù, ma anche per loro il discorso di Gesù risulterà incomprensibile. Il secondo particolare sono le allusioni scritturistiche nascoste in tutto il brano. Ne cito solo due. Gesù si presenta come il ‘Pane disceso dal cielo’, quindi come cibo. Ora, il cibo è in rapporto alla vita, e il passo da tenere bene a mente è l’affermazione solenne del prologo del vangelo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Quando Gesù si definisce pane è a questa rivelazione che si riferisce. Per indicare poi l’assolutezza di questo riferimento, Gesù si riferisce al suo battesimo al Giordano quando si aprono i cieli e ode la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17). L’aspetto straordinario di questa allusione è dato dal fatto che viene riportato negli stessi termini della sposa nel Cantico 8,6: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore”. Vuol dire che la relazione a cui si allude è una relazione di intimità di amore sconfinato. Presentandosi come ‘cibo per la vita eterna’, Gesù allude a quella relazione a noi partecipata perché è lui che fa conoscere il Padre nel suo amore per noi, è lui a introdurci nella sua stessa intimità con il Padre.

La conversazione/discussione si muove su una traiettoria di questo tipo: Gesù invita a darsi da fare per la vita eterna e la gente domanda cosa debba fare per realizzare le opere di Dio che introducono alla vita eterna; Gesù ricorda che unica è l’opera di Dio, quella di credere nel Figlio; la gente allora chiede quale sia il segno che permette loro di fidarsi ricordando la vicenda della manna, rimasta nella coscienza di Israele come il segno della premura di Dio per il suo popolo; Gesù risponde che la manna è lui, è lui a testimoniare la premura di Dio per il suo popolo e per l’umanità.

Vorrei indugiare sulla domanda su cui si apre tutta la conversazione. Applicata a noi suona: perché andiamo a Gesù? Cosa cerchiamo? Il salmo responsoriale, il Sal 77 (78), ripercorrendo la storia della traversata del deserto con gli eventi prodigiosi dell’acqua dalla roccia, della manna e delle quaglie, focalizza il dubbio serpeggiante nel cuore di Israele così: “Sarà capace Dio di preparare una tavola nel deserto? … Pane e carne?”. E formula l’accusa: l’uomo ha cuore incostante e spirito infedele, non è retto nel cuore.

Consapevole di questa situazione, la chiesa fa pregare con colletta di oggi: “O Dio … risveglia in noi il desiderio della tua parola, perché possiamo saziare la fame di verità che hai posto nel nostro cuore”. Sì, è molto facile dimenticare, come dice sempre il salmo responsoriale “Dimenticarono le sue opere, le meraviglie che aveva loro mostrato … non ebbero fede in Dio e non confidarono nella sua salvezza” (Sal 77/78, 11.22). Dimenticarono proprio quello che lo stesso salmo proclama: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli …” (v. 3). In sostanza il salmo vuol definire l’esperienza di Israele nel deserto così: hanno visto, sì, certi fatti straordinari (la manna), ma l’oggetto del loro racconto è altro; loro vogliono raccontare le meraviglie del Signore. Dicono la storia, ma raccontano Dio. Non si sono solo sfamati mangiando la manna, ne hanno colto il valore di segno: Dio li guidava, adempiva le sue promesse, restava fedele al suo amore per loro. Dio aveva dato la manna al popolo confermandosi così il loro Dio, secondo il racconto dell’Esodo, ripreso anche dalla prima lettura. E Gesù cosa dà? Questo chiede la gente. La risposta di Gesù introduce al suo mistero, che è il mistero dell’amore di Dio per il mondo. Ogni dettaglio acquista qui una risonanza particolarissima: gli aggettivi, i verbi, le espressioni. Gesù sottolinea il dono attuale di Dio: “è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero”; “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”, cioè la sua, quella piena di Spirito Santo, di cui fa dono facendo dono di se stesso. Accogliere il Figlio come l’Inviato significa accogliere la storia dell’amore di Dio per l’uomo; significa radicare in quell’amore l’intelligibilità della nostra vita e avere la vita, quella che dura per la vita eterna, cioè quella che, custodita dalla potenza dell’amore di Dio per noi, risulta insopprimibile e inattaccabile.

Quindi, come non volere questo pane? Ma il pane non è più qualcosa, non si riferisce più a un prodigio: riguarda la sua persona, riguarda il prodigio dell’amore di Dio che nel Figlio fa grazia di sé agli uomini perché gli uomini possano, nel Figlio, fare grazia di loro a tutti e così far splendere la signoria di Dio nel mondo, ormai trasfigurato nello Spirito. A questo punto si intravede tutta la rischiosità e la radicalità del passaggio: dare fiducia al Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette libertà, verità e vita. Qui i cuori comprendono di essere sull’orlo dell’abisso: o ti trattieni nelle tue sicurezze di un tempo o ti abbandoni ad una fiducia che senti nascere ma di cui non sei per nulla padrone.

Difatti l’esito non sarà scontato. Alcuni rinunciano, altri accettano; di quelli che rinunciano, alcuni accetteranno poi; di quelli che accettano, alcuni lasceranno dopo. Resta comunque sempre l’offerta del Signore che non si stanca dei suoi figli e di cui ricerca sempre l’adesione del cuore. Nel racconto di Giovanni, la folla rivela molto bene i desideri che portiamo in cuore, senza però alla fine trovare soddisfazione perché incagliata nel suo passato piuttosto che affascinata per il futuro di Dio: l’urgenza etica per una qualità di vita accettabile, l’apertura al mistero di Dio che si manifesta, la fame del pane della vita. Gesù però si darà premura di illustrare sempre più precisamente il senso del mistero della sua persona come risposta a quei desideri.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(8 agosto 2021)

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1Re 19,4-8;  Sal 33;  Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

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Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù, narrato nel cap. 6 di Giovanni, può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Davanti alla difficoltà di riconoscere la sua provenienza divina, Gesù esorta: “non mormorate tra voi”. Mormorare vuol dire prendere le distanze, vuol dire sfiduciare, uscire da una storia con qualcuno. Ma appena si esce da una ‘storia con’, tutto si fa incomprensibile e soprattutto si resta nell’impossibilità di soddisfare i desideri del cuore, si resta cioè sulla propria fame.

Poi aggiunge: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza: “Che significa essere attratti dal piacere? Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore (Sal 36,4). Che se il poeta ha potuto dire: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere’ [“trahit sua quemque voluptas”, Virgilio, Egloghe 2], non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo. Se i sensi del corpo hanno i loro piaceri, perché l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: ‘I figli degli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali; s’inebriano per l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie; poiché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce noi vediamo la luce’ (Sal 35,8-10)” [Commento al vangelo di Giovanni, 26,4].

Solo un cuore che ama sa però cosa significa questo. Solo un cuore che ha conosciuto l’amore sa di cosa si parla qui. È come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cfr. Sal 36,4).  Il salmo non dice che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Gesù cita anche il profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34), eco di Isaia 54,13: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore”. Ora, proprio nel Cristo siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere personalmente Dio, accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio, per cui scade nella mormorazione.

Come sempre nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni hanno un valore intensivo. Tutto può suonare in una certa ovvietà, materiale o religiosa, eppure tutto può avere sfumature insospettate. I verbi usati: discendere, mangiare, vedere, credere, imparare, hanno tutti risonanze, scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che, pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Loro ne conoscono la sua origine: conoscono la famiglia, la provenienza (cfr. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente, potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del Signore e il suo amore e proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori non riescono a vedere?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Tanto, che san Paolo riassume il senso della rivelazione di Gesù nell’espressione ‘Dio fa grazia di sé a noi in Cristo’, resa in italiano con “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio …”. Perché mangiare il pane disceso dal cielo, questo significa! Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che, invece di accogliere la grazia, ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. Se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2021)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla, con il rendere inefficace, vuoto, ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa della sua assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia visibile a tutti! E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Guardando alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, i fedeli non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”, e ripetere con il poeta: “Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

In lei i credenti possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). È la lettura evangelica della messa vespertina nella vigilia. Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Come Gesù ha detto di sé: “viene il principe del mondo; in me non ha nulla” (cfr. Gv 14,30). In lui c’è solo la parola del Padre, lui è la Parola del Padre, niente che sappia di questo mondo abita in lui e quindi il diavolo non trova nulla di suo in lui e così lui può esprimere in tutto il suo splendore l’amore infinito del Padre per noi. Così è della madre di Gesù.

Se poi colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio, racchiusa nella sua parola, di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio, che Dio ha di incontrare l’uomo, finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa maternità spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Da interpretare: ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il proprio Dio. Per questo la Chiesa prega oggi la Vergine gloriosa dicendo con l’orazione alle offerte: “… per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”. Così come è stato per lei.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(22 agosto 2021)

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Gs 24,1-2a.15-17.18b;  Sal 33;  Ef 5,21-32;  Gv 6,60-69

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L’esito dell’incontro con Gesù è drammatico. Non sono soltanto i giudei a sfiduciarlo, ma gli stessi discepoli: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Il brano poi rivela tutta la sua drammaticità con l’accenno a Giuda Iscariota, colui che consegnerà il maestro nelle mani dei suoi avversari, anche se la liturgia di oggi omette quei versetti. È Gesù stesso a sottolinearlo: “Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!” (Gv 6,70). L’elezione non mette al riparo dalla tentazione. Nulla è scontato, se tutto è grazia. Davanti all’abbandono di tanti, Gesù non abbassa la posta in gioco per essere accettato e passa la palla ai suoi apostoli: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Non è un’espressione altezzosa, come se fosse pronto a cambiare i suoi piani. Esprime invece tutta l’accoratezza e i sentimenti del cuore di Gesù per i suoi apostoli, come in un amore quando vuole assolutamente il contraccambio ma in libertà. E Pietro, a nome di tutti, risponde da dentro questo sentimento di Gesù che li aveva affascinati: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,67). Non comprendono, come tutti gli altri, ma rimangono, si fidano, non vogliono uscire da quell’amore che li ha toccati.

È un problema serio: l’uomo può scandalizzarsi di Dio. Facilmente l’uomo si scandalizza di Dio. Forse per le attese/pretese che non abbandonano mai il cuore dell’uomo. La prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, ne illustra la ragione di fondo. Il popolo d’Israele era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, e con la sola eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si vuole servire? Quale dio servire? La scelta è appunto tra Dio e gli dèi, gli idoli. L’insegnamento di fondo è che l’uomo non dispone di libertà assoluta; ha la libertà di scegliere chi servire. Nel linguaggio della Scrittura ‘servire’ Dio allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima, sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. E il ‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. Ma per quale verità si è disposti ad impegnarsi?

Lo esprime bene il popolo: “Perciò anche noi serviremo il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (Gs 24,18). ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri; c’è soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi. Di fronte a Gesù, questo appunto risalta: lui mostra il Dio che si appressa a noi. Come in lui Dio serve noi, così noi in lui serviamo Dio, vale a dire lo riconosciamo nel suo amore per noi. Come ripetiamo nel salmo responsoriale, il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi. Perché l’amore di Dio si mostra nell’umanità di Gesù sotto le categorie della debolezza e della stoltezza al giudizio del mondo, che è lo stesso giudizio della carne, quella che Gesù dice non servire a nulla per trovare e avere la vita.

Due particolari del brano evangelico sono particolarmente espressivi. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non banalizza il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, ma sul dinamismo che lo caratterizza: “Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito…”. Da cogliere è la ‘intenzione’ di Dio, che va diritta al cuore. È quanto fa Pietro rispondendo a Gesù. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore, perché intuisce che lì può trovare la vita.

Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del suo rifiuto? È Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga. La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato. È il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza con i suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. È lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, toccata da una gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza però sempre misteriosa, imprevedibile e decisamente drammatica.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(29 agosto 2021)

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Dt 4,1-2.6-8;  Sal 14;  Gc 1,17-18.21b-22.27;  Mc 7,1-8.14-15.21-23

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La grande questione che oggi la liturgia propone è come acquisire l’intelligenza della vita. Gesù appunto rimprovera i suoi discepoli: “Così neanche voi siete capaci di comprendere?” (Mc 7,18). Nel libro del Deuteronomio, Mosè dice al popolo: “Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente” (Dt 4,6). Interessante notare la ragione di tale intelligenza: “Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,7). Ecco, la vicinanza di Dio, la percezione della sua vicinanza, l’esperienza custodita della sua vicinanza, questa è la radice di intelligenza. Il che significa che il cuore dell’uomo ha bisogno di quella ‘prossimità’ per fiorire nella sua umanità. E, nello stesso tempo, significa che è la parola di Dio a nutrire il cuore dell’uomo, a custodire il suo cuore.

A sottolineare la verità, niente affatto scontata, di questa intuizione santa, il testo del Deuteronomio aveva premesso: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio” (Dt 4,2). Solo il comandamento di Dio ha il potere di portare la vita. Ma è così facile per l’uomo aggiungere e togliere, rivestendo i suoi ideali o i suoi obblighi di coscienza con la nobiltà del comandamento di Dio. Quando però l’esecuzione del bene non porta vita, vuol dire che al comandamento di Dio abbiamo aggiunto o tolto e proprio in quell’aggiungere o togliere ci esponiamo all’illusione e poi alla delusione.

Ben a proposito, quindi, la Scrittura dice: non aggiungere né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un comandamento, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Posso mangiare e avrò la conoscenza…! E incontra la morte.

L’aspetto misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto al nostro cuore, abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter accogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge, fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose [parole] che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita”.

La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14 (15), il quale riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur nobile, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica deriva spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, obblighi, esclusivamente umani. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore, ma solo con l’apparenza, con la società, con i vincoli di coscienza. Le parole di Gesù si riferiscono a un problema particolare, quello della purità rituale quanto al cibo (negli Atti degli apostoli, ascolteremo ancora Pietro dire che nella sua bocca non è mai entrato nulla di impuro!) ma hanno un valore generale. Forse, non teniamo sufficientemente in conto che l’osservazione di Gesù sul fatto che è dal cuore che proviene ciò che può contaminare l’uomo e non dai cibi, stabilisce una perfetta uguaglianza tra gli uomini. Ogni pratica rituale è separante nel senso che stabilisce confini e distanze tra gli uomini, mentre Gesù plaude a una solidarietà piena, davanti a Dio, di tutti gli uomini. Ciò che rende impuro l’uomo vale allo stesso modo per tutti gli uomini. Così non ci sono più distinzioni tra gli uomini, perché tutti siamo confrontati con le stesse cose e con lo stesso bisogno di invocare Dio.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(5 settembre 2021)

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Is 35,4-7a;  Sal 145;  Gc 2,1-5;  Mc 7,31-37

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I gesti e le parole di Gesù hanno un’alta valenza simbolica perché toccare gli orecchi e la lingua sono diventati specifici gesti battesimali che ancora oggi sono ripetuti nel rito del battesimo dei bambini. Il rito dell’effeta (dal brano evangelico odierno: effatà, àpriti) con le parole: “Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”, è l’ultimo rito nell’amministrazione del battesimo, dopo l’unzione del sacro crisma, la consegna della veste bianca e del cero acceso. La nuova nascita non può che risolversi nella proclamazione del ‘Padre celeste’ secondo la preghiera insegnataci da Gesù. Si tratta di entrare nella stessa intimità che Gesù ha con il Padre. Al rito dell’effeta segue appunto la proclamazione del Padre nostro. E anticamente, quando i battezzandi erano adulti, la Chiesa si riferiva loro come a bambini piccoli che imparano a parlare. E quale parola si suggerisce loro di dire? “Padre nostro” e non: ’padre mio’, rinunciando così ad ogni dipendenza nei confronti di qualsiasi altro padre terreno e carnale, cioè al diavolo. Proprio in questa rinuncia a una paternità terrena e carnale e nel riconoscimento di avere ormai un unico Padre celeste, si aprono gli orecchi per ascoltare la Parola di vita e si apre la bocca per proclamare la lode di Dio.

La lode finale in bocca alla gente che aveva visto il miracolo suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. È la lode che sorge spontanea davanti all’agire misericordioso e potente di Gesù. Per rendere meglio il significato di quella lode si potrebbe tradurre: ha fatto tutto in modo bello, in modo buono! L’espressione non può non richiamare la costatazione di Dio nei giorni della creazione. Dopo aver creato i vari esseri, Dio vede che è cosa buona. Per sei volte risuona l’espressione, finché alla fine, dopo aver creato l’uomo, Dio vede che è cosa molto buona. La differenza tra le prime espressioni e l’ultima è data dal fatto che con l’uomo Dio è riconosciuto Creatore, è riconosciuto nella sua Bontà. È l’uomo che raccoglie il senso della lode di tutte le cose per riferirlo a Dio. E quando l’uomo si fa lode di Dio nella sua stessa vita, allora Dio è adorato e glorificato nel suo essere Creatore e Salvatore. Tutto riprende il suo splendore e appare la santità di Dio nel mondo come amore per noi.

Da questo punto di vista, il salmo responsoriale di oggi è espressivo di come Dio vive il suo amore per noi. Gesù stesso se ne attribuisce la descrizione perché, quando i discepoli di Giovanni gli chiedono cosa devono riferire al loro maestro in carcere, dice: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11,4-6).  Così Gesù ha vissuto e annunciato il regno di Dio, mediante il lasciar regnare il Padre su di sé e su tutti quelli che lo incontrano. Perché il salmo 145 (146) descrive come Dio manifesta il suo regno sigillando la sua presentazione con l’affermazione: Dio mantiene la fedeltà per sempre, Dio rimane fedele per sempre. L’aspetto straordinario di questa descrizione dell’agire di Dio sta nel fatto che collega creazione e redenzione, riportando sotto un’unica luce tutto il mondo: nelle cose e nell’uomo splende l’amore di Dio che soccorre. Corollario di questa intuizione profonda è il fatto che la perfezione dell’uomo è descritta nel suo diventare lode di Dio nel mondo. La lode sposta il baricentro dell’uomo, non più centrato su di sé, ma tutto teso al suo Signore riconosciuto per l’immensità e la fedeltà del suo amore. Gesù è proprio questo che svela, proprio di questo si fa testimone tra di noi. Tutte le sue parabole parlano di questo. Tutta la sua vita illustra questo. Così la lode della gente non è una semplice annotazione di cronaca, ma diventa indicazione di percorso. La via della perfezione è diventare lode, farsi lode, trasparenza dello splendore dell’amore di Dio per il mondo.

Nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo: ‘venga il tuo regno’, intendiamo: possiamo lasciar regnare su di noi il Padre nel suo amore, come ha regnato sul suo Figlio. Così, nella tradizione, per riassumere il senso del cammino di ascesa verso Dio, che comporta la fioritura in umanità, apertamente si proclama: Cristo regni in noi! La nostra vita diventi manifestazione del regno di Dio che Gesù ha reso visibile e toccabile.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(12 settembre 2021)

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Is 50,5-9a;  Sal 114;  Gc 2,14-18;  Mc 8,27-35

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Siamo al centro del vangelo di Marco. Gesù prende così sul serio la risposta di Pietro che decide di svelare il suo futuro di messia sofferente. È il primo annuncio della passione nel vangelo di Marco. La differenza di risposte alla domanda di Gesù di chi lui sia sta in questo: la gente si riferisce a Gesù, la cui figura affascina, come a colui che è stato inviato a preparare l’arrivo del Messia, mentre Pietro confessa che Gesù è proprio il Messia. Si tratta dello stesso quesito di Giovanni Battista: sei tu o dobbiamo aspettarne un altro? Pietro riconosce che è lui il Messia, confessione che induce Gesù a svelare il suo segreto.

Pietro però non è ancora pronto a rinunciare all’idea di Messia che si era fatto. In effetti, il vangelo non riporta che Gesù abbia cominciato a parlare del suo destino di passione, ma annota: “cominciò ad insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto…” (Mc 8,31). I due termini indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso; vi si giunge per rivelazione, dall’alto. Non si vuole sottolineare una necessità di destino, ma il segreto di un amore che si consegna, un segreto di cui si è messi a parte. Non solo, ma che “dall’alto” corrisponde allo “star dietro” a Gesù. Pietro non può comprendere perché, invece di star dietro a Gesù, vuole mettersi davanti, come a far da suggeritore al suo Maestro e si prende il rimprovero: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. In quel rimprovero però c’è tutta la pedagogia di Dio con l’uomo e Pietro ne farà tesoro. Gesù riprende la rivelazione di Dio raccontata in Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè che potrà vederlo solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola, si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo camminando dietro il Maestro si potrà vederlo in verità fino alla ‘contemplazione’ (termine caratteristico per indicare la visione di realtà supreme, oltre la materialità della vista) della croce, là dove risplende l’amore di Dio per gli uomini, convincendo i cuori che solo da quell’amore scaturisce la vita per l’uomo e che solo in quell’amore la dignità della vita si fa godibile.

Quando Gesù estende a tutti la sua ammonizione non fa che rendere coglibile da tutti ciò che aveva detto a Pietro. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù, che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia a ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Il ‘rinnegare se stessi’ ha il valore: nego me per tenere te, rinuncio alle mie paure per dare spazio alla fiducia di te, non resto bloccato nel mio passato, e di vissuto e di inconscio, per aprirmi al futuro che mi viene incontro e mi segnala il dono di Dio. In questo senso vale quello che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere vivacemente percepibile al nostro cuore tale verità.

Perché si possa avverare per ciascuno di noi quello che invoca la bellissima preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”. Quell’azione ci apre alla conoscenza del segreto di Gesù, che ci rende partecipi della sua stessa dinamica di vita e di amore, oltre ogni impedimento. Avverrà come un incontro, profondissimo, intimissimo, dell’ascoltarsi a vicenda di Dio e dell’uomo, come suggerisce il brano del terzo canto del servo del Signore: “mi ha aperto l’orecchio” e il salmo commenta: “ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo”. L’orecchio di Dio e quello dell’uomo tesi all’ascolto reciproco. Anche così può essere descritto il nostro ‘star dietro’ a Gesù. Da intendere però, come insegna la tradizione chassidica, in questo modo: “Un uomo entusiasta di Dio vagò nell’universo fino ad arrivare alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali, ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(19 settembre 2021)

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Sap 2,12.17-20;  Sal 53,  Gc 3,16-4,3,  Mc 9,30-37

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Il brano del libro della Sapienza ci introduce perfettamente nei sentimenti di Gesù che vuole illustrare il mistero della sua persona. Il passo non va letto solo come un annuncio profetico della passione di Gesù, ma per la prospettiva nella quale la profezia dona la sua luce. Il brano riporta il discorso degli empi introducendolo con le parole: “Dicono fra loro sragionando…” e concludendolo: “Non conoscono i segreti di Dio”. Ecco, la rivelazione di Gesù consiste nell’essere messi a parte dei segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. E l’annuncio della passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla mente degli uomini, eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.

Se si confrontano i passi paralleli di Marco 9 e di Matteo 18, potremmo interpretare la discussione dei discepoli tra di loro in questo modo. Marco si preoccupa di non tradire l’insegnamento di Gesù. Per lui, ‘grande’ allude al voler essere ‘primo’ in ordine di prestigio, di importanza e quindi la discussione riguarda chi fra loro sia da ritenersi primo. Matteo invece si preoccupa di non fallire l’entrata nel regno dei cieli. Per lui ‘grande’ allude alla conversione per il regno dei cieli: chi entra nel regno dei cieli?

La ricerca della grandezza è tema sensibile per il cuore dell’uomo. Gesù non condanna i discepoli; accetta che l’uomo desideri essere grande. La sfida è appunto: quale grandezza cercare? Così al desiderio di grandezza dell’uomo segue l’indicazione della sapienza dall’alto che indica la strada e la natura della grandezza secondo Dio, come fa pregare la colletta: “O Dio, Padre di tutti gli uomini…donaci la sapienza dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”. La qualità della grandezza gradita a Dio è nell’ordine della comunione, della gioia per l’altro, della gioia condivisa con il Maestro: questo è il senso del servizio.

Quando, nel testo di Marco, Gesù dice: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”, pone se stesso a modello della grandezza. Di sé dice: “Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Dopo aver lavato i piedi agli apostoli dice: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,13-17).

Voler essere il servo di tutti significa allora voler essere trovato in Cristo. Voler essere il primo significa voler essere ritrovato in colui che è il Primo e che si è fatto servo di tutti.  Qui si scopre la grandezza che Dio gradisce. Lo dice l’annuncio della passione: quel Figlio, che sarà esaltato, dovrà patire. Da intendere: non certo che il ‘soffrire’ abbia qualche titolo di merito per ottenere grandezza, ma che è preferibile custodire l’amore per l’altro comunque; non certo che occorra rassegnarsi al male, ma che si accetti il fatto che il bene sia comunque preferibile e quindi si attraversi il male senza perdere il bene.

Quando, nel racconto dell’Apocalisse, il Figlio d’uomo compare in visione a Giovanni, si presenta con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente”. Quelle parole non attestano semplicemente la verità personale del Risorto, ma la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio ai suoi figli che Gesù ha mostrato in tutto il suo splendore. Da intendere: io, che sono il primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene.

L’esempio dei bambini ci illustra perché questa è la via per il regno dei cieli. Nel testo di Marco Gesù prende un bambino e dice: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me” (Mc 9,36). Essere ultimo non significa essere dietro a tutti gli altri, ma solo servo di tutti perché l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona più significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di Dio. Con il corollario evidente, anche se assolutamente mai scontato: non c’è grandezza vera se non nel preferire tutti a noi stessi perché solo così l’amore di Dio splende. Accogliere un bambino, quindi al di là di ogni riconoscimento mondano del bene che si compie, significa vivere la propria umanità come espressione della gloria del Signore. Significa far splendere in questo mondo la gloria del Signore.

Se però leggiamo il passo parallelo di Mt 18,1-5, il riferimento ai bambini acquista un significato ancora più profondo. Nel testo di Matteo leggiamo: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”. Purtroppo, la traduzione ‘si farà piccolo’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Allora il riferimento al bambino può essere compreso sia nel senso della confidenza verso il Padre sia nel senso della debolezza estrema patita e diventata luogo di gloria. A tal punto, che Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, cioè con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è risuscitato.

Quando accogliamo un uomo senza altra qualificazione se non quella della sua ‘umanità’, senza altro titolo di importanza o di merito o di demerito, allora accogliamo Gesù. E lo possiamo fare perché già abbiamo imparato a godere dell’intimità con il Padre, che in quella ‘umanità’ ha posto la sua compiacenza e di cui abbiamo potuto fare esperienza credendo al Figlio dell’Uomo dato per noi. Così diventare come bambini comporta l’esperienza di una umanità che non ha bisogno di altri titoli di gloria, proprio come davanti ai bambini non si guarda ad altro se non che sono bambini.

Se Giacomo, nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando, nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(26 settembre 2021)

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Nm 11,25-29;  Sal 18;  Gc 5,1-6;  Mc 9,38-43.45.47-48

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Siamo sempre nell’ottica della questione della grandezza. Se prima la domanda era: chi è grande?, ora la domanda suona come un avvertimento: guai a vivere la grandezza sulla testa di qualcuno; guai a non tener conto dei piccoli!

Il brano di Marco, al di là del contenuto specifico delle parole di Gesù, sottolinea due realtà: l’estrema preziosità della fede nel Signore Gesù e la tensione per il Regno, segreto della vita. Ambedue le realtà sono suggerite dal canto al vangelo: “La tua parola, Signore, è verità; consacraci nella verità” (cf. Gv 17,17). Come se, davanti alla proclamazione del vangelo, pregassimo: fa’ che viviamo della verità delle tue parole, aderendovi intimamente, in tutta evidenza per il nostro cuore. In questo brano, Gesù proclama la verità sotto forma di promessa e sotto forma di minaccia. La promessa è rivolta a chi non ha ancora aderito a lui e la minaccia a chi ha già aderito, ma il contenuto della promessa e della minaccia è il medesimo: quanto è preziosa per la nostra vita la conoscenza dei misteri del Regno!

L’uomo però non sa vedere. Anche l’uomo zelante per Dio rischia di non saper vedere, come Giosuè, il servitore di Mosè. L’episodio del dono dello Spirito ai settanta anziani, tra i quali sono stati annoverati anche i due uomini rimasti nell’accampamento, Eldad e Medad, non va visto solo a conferma dell’atteggiamento di Gesù che non vuole venga impedita l’azione di Dio dovunque si manifesti, a differenza dei discepoli che vorrebbero invece limitarla al loro gruppo (“Chi non è contro di noi è per noi”). Va visto in rapporto alla necessità dell’effusione dello Spirito per accedere ai misteri del Regno. Mosè non può essere geloso della visita di Dio perché se Dio visita è appunto per attrarre tutti a Sé; così i discepoli non possono essere gelosi del dono dello Spirito perché quel dono è dato proprio perché tutti entrino nei misteri di Dio. Così, nel salmo responsoriale, la supplica è quella di essere liberati dai peccati nascosti, soprattutto dal peccato di orgoglio che impedisce di vedere in modo puro i doni di Dio: “Assolvimi dai peccati nascosti. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere…”.

In rapporto a questa supplica, coloro che hanno responsabilità nella chiesa sono i primi destinatari della minaccia di Gesù: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me…”. La fede in lui è così preziosa che chi, con il suo comportamento altero o litigioso oppure con la sua eccessiva severità verso i fratelli più deboli, la rende impraticabile o impossibile a tenersi, sarà condannato. L’aggiunta del paragone, che sarebbe meglio che fosse gettato in mare con appesa al collo una macina da mulino, allude al tradimento di Giuda (cf. Mt 26,24) per sottolineare questa equazione: ricevere un discepolo di Cristo equivale a ricevere il Cristo, ma scandalizzare un discepolo di Cristo equivale a tradire il Cristo. Scandalo, in questo contesto, è riferito allo scoraggiamento che si istilla nei deboli con un atteggiamento troppo severo di fronte alle loro mancanze.

Rispetto a chi non ha ancora fede in lui, Gesù dice: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico che non perderà la sua ricompensa”. Gesù ritiene fatta a sé ogni attenzione o cortesia rivolta ai suoi discepoli. E potremmo dedurre per tutti in generale: anche un semplice bicchiere d’acqua è degno di ricompensa, se offerto in rettitudine di cuore! L’aspetto misterioso consiste appunto nel fatto che ogni minima cosa, fatta nel nome di Cristo, apre sul mistero del regno dei cieli, che Gesù è venuto ad indicarci presente, fruibile. Nel nome di Gesù ogni minima azione può aprirsi sul regno dei cieli e ciò è accessibile a tutti perché a tutti Gesù rende vicino il Regno.

Rispetto invece ai suoi discepoli, Gesù dice: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala … Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo … Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna …”. Il senso delle sue parole potrebbe essere così interpretato: se l’uomo ha il coraggio di agire seguendo i desideri più profondi del suo cuore, nell’esperienza della fede, allora abbandonerà i desideri superficiali, momentanei, che sono in contrasto con quelli. Posso portare un esempio. Vengo offeso da un fratello. Il mio cuore mi convince di esigere scuse da lui per ristabilire il mio diritto e se il fratello tarda o si rifiuta io resto nella mia offesa, anche se, a volte, è solo il senso della mia importanza ad essere ferito o la mia vanità o la mia presunzione. Vuoi ottenere il tuo diritto? Rischi di perderti completamente. La tua importanza ti impedisce (=scandalizza) di entrare nel regno dei cieli? Abbandonala, tagliala via e tu entrerai nel regno. La difesa del tuo diritto ti fa entrare in guerra con il tuo fratello? Lascialo, taglialo via e tu vedrai il regno dei cieli. Vuoi prevalere sul tuo fratello? Taglia via quella volontà, stagli invece sottomesso: scoprirai la grazia del Regno.

I misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù, fuoco e sale della vita. Non per nulla il capitolo 9 di Marco termina con queste parole misteriose: “Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale … Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. Potremmo interpretare: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore (ecco il fuoco) e rinuncerete sia a ogni forma di ambizione e rivalità che di impoverimento di desideri e di tensione spirituale (ecco il sale) , vivrete custoditi e lieti, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di Dio in voi, come frutto del dono dello Spirito Santo e godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato.

S. Simeone il Nuovo Teologo (949-1022), dopo aver accompagnato l’ascesa del fedele fino alla visione di Dio, termina il suo discorso con questa esortazione: “Gesù ha accettato di assumere il volto di ciascun povero e si è fatto simile a ogni povero, perché nessuno di coloro che credono in lui s’innalzi sopra il fratello, ma ciascuno, guardando al suo fratello e al suo prossimo come a Dio, consideri piuttosto se stesso più piccolo del fratello come si considera più piccolo di Colui che lo ha fatto, e, come accoglie e onora lui, onori il fratello e versi tutte le sue sostanze per il suo servizio, come Cristo e Dio nostro ha versato il suo sangue per la nostra salvezza”.

Gli atteggiamenti interiori che rivelano l’esperienza del Regno si riducono così a due: gioire del bene (sia quello fatto da noi che da altri, in qualsiasi condizione) e non ferire mai la coscienza del prossimo, specie dei deboli e dei piccoli. Allora potremo cantare con il salmo responsoriale: “i precetti del Signore fanno gioire il cuore”.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(3 ottobre 2021)

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Gn 2,18-24;  Sal 127;  Eb 2,9-11;  Mc 10,2-16

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Per comprendere il brano evangelico di oggi dobbiamo collocarlo nel contesto religioso del tempo. La domanda dei farisei, domanda tranello, non verteva tanto sul carattere lecito del divorzio, che anche la Legge consentiva (Dt 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”), ma a quale condizione lo fosse. Nella controversia tra le due scuole di Hillel e Shammai, ai tempi di Gesù prevaleva la prima, più rigorista: il divorzio è lecito solo a una condizione, in caso cioè di unione illegittima o di adulterio, mentre più tardi prevalse la seconda, più lassista: il divorzio è lecito per qualsiasi motivo. La legge sul divorzio proteggeva la donna dall’accusa di adulterio, perché le permetteva un nuovo matrimonio.

Tutti sapevano che il ripudio era una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avvallato con un’indicazione precisa. I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così di accusarlo

La risposta di Gesù, se si colloca nell’interpretazione più rigorista della legge mosaica, affronta la questione in una prospettiva completamente diversa. Gesù, contrapponendo comandamento a concessione, arriva al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama l’atto della creazione: “Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola” (cf. Gen 1,27; 2,24). Faccio notare che nel testo ebraico quel ‘si unirà’ non ha una marcata valenza sessuale, valenza che si accentuerà nelle versioni e nei commenti successivi. Quella benedizione di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella benedizione costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio.

Gesù si riferisce al secondo racconto della creazione dove l’uomo non è più considerato come coronamento del cosmo, bensì suo principio. Quando, con l’antifona di ingresso, proclamiamo: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, alludiamo alla parola: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Tutte le cose sono date all’uomo, ma in nessuna cosa l’uomo trova il suo compimento, la sua felicità, perché questo non è il volere di Dio per lui. Da notare che Adamo godeva pienamente della pace con Dio, non era ancora venuto il peccato a turbare l’armonia con Dio e con il creato.

Dio è Uno, ma non è solo. In questo mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle persone, rivelato da Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce, l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la donna, che non è tratta come Adamo e tutte le cose dalla polvere del suolo, ma dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.

Lo sottolinea anche la liturgia con il canto al vangelo: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Come a suggerire: l’amore, che ha le sue origini in Dio, rende uomini e donne di pari dignità perché solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è proprio la consumazione dell’amore di Dio che si rivela in essi. Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino in fondo la decisione di quell’amore.

In effetti, la radicalità della sua posizione si sposa con le esigenze del Regno, senza l’apertura al quale il suo insegnamento è impraticabile. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima passione.

Così, l’indissolubilità del matrimonio diventa una esigenza del regime messianico insieme a tutto il resto. Proprio in questo trova senso il paragone dei bambini che leggiamo subito dopo: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”. Vi è l’allusione alle beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli …”. I bambini sono l’immagine dei discepoli che non hanno titolo di importanza o prestigio, che non si aspettano nulla, che non esercitano alcun potere, che possono confidare solo in Chi vuole loro bene. Di essi è il regno dei cieli, di quanti cioè hanno posto in esso tutta la loro confidenza e in nient’altro, non cercando quindi ricchezze o prestigio o finendo di servirsi di Dio invece che essere suoi servi. L’insegnamento di Gesù è chiaro e i discepoli restano pensierosi. Dovranno fare ancora tanta strada insieme al loro Maestro per accogliere queste sue parole e viverne la potenza.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(10 ottobre 2021)

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Sap 7,7-11;  Sal 89;  Eb 4,12-13;  Mc 10,17-30

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Un’altra delle affermazioni evangeliche che lasciano senza parole: “E chi può essere salvato? … Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”. La forza delle parole di Gesù è direttamente proporzionale allo stupore per la scoperta del regno di Dio. Senza quella scoperta, le sue parole non hanno senso. Senza l’intuizione dell’eccellenza della sapienza non valgono le rinunce ai beni di questo mondo.

La prima lettura illustra come sia da intendere l’impossibilità per l’uomo di ‘salvarsi’, cioè di entrare in intimità con Dio e vivere in comunione con lui e con tutti i suoi figli. Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘dolcezza del Signore’, di ‘saldezza’ dell’agire dell’uomo. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende luminoso. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza.

Si possono percepire risonanze straordinariamente potenti. Nel Cantico dei cantici si legge: “Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo” (Cant. 8, 7). E questo perché aveva appena proclamato: “Le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina”. Letteralmente ‘una fiamma di Jah [YHWH]’, cioè la manifestazione al cuore della verità di Dio. La sapienza è la capacità di non contrabbandare questo amore goduto con le ricchezze del mondo che passano. In effetti, il salmo responsoriale non fa che sottolineare il fluire inesorabile del tempo, dove ricchezza-salute-bellezza [piacere] svaniscono con lui. Per questo si chiede: “Saziaci con il tuo amore”.

Se il canto al vangelo riprende la prima beatitudine “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, l’accento non va posto sul fatto di non avere beni, ma di essere felici perché non si è distratti da nessun bene che perisce. La povertà è beata solo perché fa sperimentare la beatitudine dell’amore, nel senso che non si perde in nient’altro che non sia l’amore. Ed è per questo che Gesù rimarca che solo Dio è buono. Solo Dio può colmare, può riempire di vita, di vita immortificabile, perché il suo amore non viene mai meno, ci è sempre riversato in seno, dà compimento ai nostri desideri grandi. E questo è l’annuncio tipico del Regno, l’annuncio singolare di Gesù.

Ma non tutti sono pronti ad accoglierlo. La figura di questo giovane, che si presenta desideroso e se ne va via triste, fa molto riflettere. La sua risposta assomiglia alla risposta del figlio maggiore della parabola di Gesù: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici” (Lc 15). Ha osservato tutto, perché non è soddisfatto? Quando Gesù, venendo incontro al suo desiderio, gli fa presente che gli manca una cosa sola, parla proprio di quella cosa che darebbe compimento al suo stesso desiderio, quella cosa che farebbe sì che la sua osservanza fiorisse in gioia e gratitudine. Altrove Gesù aveva detto: “Di una cosa sola c’è bisogno”. Quell’unica cosa necessaria è quella che durerà sempre, vale a dire quella in cui l’uomo si troverà servito dal suo Signore godendo del suo amore.

A dire il vero, la posizione del giovane ricco è fondamentalmente quella dei discepoli che restano sbigottiti. In fondo, pensano allo stesso modo. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono però capaci di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano, lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno dall’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro. Dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la promessa che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore la prima beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di esse è il regno dei cieli” (Mt 5,3).

Se Gesù sottolinea che la cosa riesce impossibile agli uomini, intende dire che è impossibile secondo le vedute che hanno gli uomini, mantenendo le vedute proprie degli uomini, ma non secondo le loro possibilità, tra le quali, la prima, è proprio quella di dare credito di fiducia al loro Dio. Ed è esattamente quello che i discepoli sono invitati a fare tanto che, alla fine, Gesù confermerà i suoi discepoli nel seguirlo fino in fondo, rendendoli partecipi del suo stesso vissuto: ‘Viene il principe del mondo ma in me non ha nulla e perciò non mi potrà sottrarre l’amore per voi che condivido con il Padre in tutta intimità e anche per voi sarà così’. È l’esito che il giovane ricco rifiuta perché mantiene la sua veduta. Pensa che il dono di Dio segua il principio dell’addizione: a quello che ho vorrei si aggiungesse quello che è da Dio. Invece – ed è lo sbigottimento dell’uomo!- la grazia viaggia sul principio di sottrazione: avrai se lasci e quello che avrai ti ridarà maggiorato quello che hai lasciato. È avvenuto per Salomone, è avvenuto per gli apostoli, è avvenuto per i santi, avviene anche per noi.

Se paragoniamo la richiesta della sapienza da parte di Salomone e quella del giovane ricco comprendiamo la distanza che li separa. Salomone è già re, è ricco, ma chiede a Dio la cosa che solo da Lui può provenire e che lui, Salomone, reputa come la cosa più preziosa: la sapienza. La sua richiesta è tesa alla realizzazione del compito per cui è stato chiamato: reggere il popolo con giustizia e rettitudine. E proprio perché ottiene da Dio la cosa principale, quella più preziosa ai suoi occhi, non mancherà di alcun altro bene. La richiesta del giovane ricco rivela invece che per lui la sequela del Signore non è così preziosa; sarebbe desiderabile, gli appare bella, ma non la cosa più preziosa. Vorrebbe solo essere più soddisfatto. Non desidera l’intimità con il suo Dio a tal punto da disprezzare quello che ha già pur di averla.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(17 ottobre 2021)

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Is 53,2a.3a.10-11;  Sal 32;  Eb 4.14-16;  Mc 10,35-45

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Per la terza volta Gesù annuncia la sua passione descrivendola dettagliatamente, parole che la prima lettura riprende con il quarto carme del Servo del Signore nella visione del profeta Isaia. L’annuncio del profeta, però, non va ascoltato nella tragicità degli eventi dolorosi che fa intravedere, ma nella logica del salmo 32 che lo commenta, cantato come salmo responsoriale, a partire dal versetto 11: “Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni”. Il disegno del Signore, il disegno del suo amore per l’uomo dall’eternità, quello di cui domandiamo nel salmo: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”, non è che l’abbassamento del Figlio, abbassamento nel cui spazio gli uomini sono collocati per apprendere l’amore del loro Dio, mentre tutti gli eventi della vita sono retti dalla Provvidenza di Dio che ci vuole partecipi del frutto che quell’abbassamento ci ha procurato. Questa rivelazione, tutta la liturgia oggi si premura di sottolineare con la solenne dichiarazione di Gesù: “il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, ripreso dal canto al vangelo.

La rivelazione di Gesù può essere così intesa: se su di noi è l’amore del Signore, non ci saranno più contese e divisioni tra noi, perché i cuori saranno conquistati alla sua gloria, cioè allo splendore del suo amore, che si rivela nel Cristo che patisce e muore per noi. Gesù spiega queste cose rispondendo al desiderio di gloria dei due discepoli, che sono, con Pietro, tra i preferiti. La richiesta dei due discepoli non procede da cuori vanesi o boriosi. Effettivamente sono discepoli che seguiranno il maestro fino alla fine e Gesù riconosce la loro lealtà. Non dimentichiamo che, insieme a Pietro, questi due discepoli sono quelli che hanno ricevuto un nome nuovo da Gesù, a differenza di tutti gli altri. Nell’elenco degli apostoli (cfr. Mc 3,16-19), Giacomo e Giovanni vengono subito dopo Pietro e sono denominati ‘Boanerghes’, figli del tuono. Insieme a Pietro, accompagnano Gesù nei momenti più significativi e misteriosi e hanno sentito la voce dal cielo: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Sono presenti al Getsemani. E Gesù sa che sono disposti a seguirlo fin nella sua passione [di fatto Giacomo morì martire verso l’anno 44 a Gerusalemme, secondo At 12,2, mentre la tradizione che, fondandosi su questo passo, fa martire Giovanni è chiaramente posteriore. Anche in questo risalta la ‘misteriosità’ della parola di Dio: in che senso Giovanni ha bevuto il calice della passione, se non è morto martire?]. Eppure, la loro richiesta di sedere a fianco del Messia vittorioso è inaccoglibile e non certo per evitare la gelosia degli altri.

In poche parole, Gesù rifiuta ogni collegamento tra il desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito da Dio solo. Non che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne scaturirebbe un fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione profonda credo risieda nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro, volere la gloria per sé significa uscire da quella dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa assolutezza Gesù richiama e rimanda. È l’assolutezza che lui ha vissuto e che il profeta Isaia ben delinea nella sua profezia sul Servo del Signore, proclamato nella prima lettura.

Del resto si concatena bene a questa anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo:“…chi vuole diventare grande  tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. La domanda di fondo suona: perché voler essere grandi comporta il servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Non per nulla Gesù si definisce come colui che serve e dà la propria vita in riscatto per molti. Non viene semplicemente detto che Gesù è il prezzo pagato per il nostro riscatto, ma più propriamente che la sua vita diventa fonte di vita per noi perché anche noi possiamo dare la nostra perché altri l’abbiano e a loro volta diventino capaci di darla. Si tratta di attivare il circolo virtuoso dell’amore. Qui non è sottolineata la generosità di chi si offre in sacrificio, ma la natura del sacrificio, che è quella di liberare la vita altrui, di far risplendere l’amore di Dio capace di dare la vita. Non è un’azione di merito, ma di mistica.

L’assoluta importanza della cosa risalta anche dal fatto che Gesù riprende l’ammonizione proprio nell’ultima cena, poco prima di subire la sua passione È proprio il servire a procurare questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto sa troppo di questo mondo, sul quale esercita il suo potere il diavolo. Se non porta lì, vuol dire che il dinamismo del sacrificio di Gesù, dinamismo di amore sotto la duplice forma di docilità filiale verso Dio e di solidarietà fraterna aperta a tutti, non ci ha toccati. Ma se quel dinamismo non ci ha toccati, allora non siamo discepoli di Gesù e la nostra sequela di lui è illusoria. Occorre lasciare ogni tipo di potere e prestigio se si vuole condividere la grandezza dell’amore, che in Gesù splende di tutta la sua bellezza in umanità.

Nel brano di Marco, rispetto alla grandezza vale il servizio vicendevole (nel testo: sarà vostro servitore), rispetto al primato vale l’essere ultimi nel senso di essere schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo di tutti). Nell’ultima cena, Gesù si muove non solo come servitore, ma come schiavo e in questo rivela il segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo potesse condividere quel segreto, si troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe la sua vita nella dinamica di liberare la dignità degli uomini in modo che sia esaltato l’amore di Dio per loro.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(24 ottobre 2021)

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Ger 31,7-9;  Sal 125;  Eb 5,1-6;  Mc 10,46-52

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L’intensità del brano di oggi, che precede immediatamente l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, è tutta concentrata nei titoli con cui Bartimeo, mendicante cieco, si rivolge a Gesù: Figlio di Davide, Rabbunì. Notiamo subito una cosa. I verbi usati nel racconto hanno accenti assolutamente speciali. Tutti i verbi del brano sono intensivi: Bartimeo grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro un’emozione che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e, appena lo vede, non può che mettersi a seguirlo. Tutto il racconto assume una valenza simbolica precisa, che la liturgia fa risaltare.

Bartimeo, troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato. Quando gli si presenta l’occasione, tutto scoppia, prorompe, e lui perde ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio.

I particolari che illustrano la tensione interiore di Bartimeo sono appunto i titoli con cui si rivolge a Gesù: il primo, Figlio di Davide, gridato e il secondo, Rabbunì, sussurrato. Nei vangeli i due titoli sono assolutamente singolari. Come invocazione verso Gesù, Figlio di Davide, solo il cieco o i ciechi di Gerico e la donna cananea lo usano. Il titolo, come tale, appartiene alla genealogia di Gesù e alla proclamazione della folla nel suo ingresso trionfale in Gerusalemme. È il titolo che legittima la rivendicazione messianica di Gesù, che lo inserisce nella storia di Israele secondo la promessa di Dio al suo popolo e cela tutte le attese dell’uomo nel vedere realizzate proprio le promesse di Dio. Allude al mistero stesso di Gesù, l’Inviato, Colui che mostra la grandezza dell’amore del Padre al suo popolo, ma che ha valenza universale, tanto che è la cananea, pagana, a usarlo riconoscendo l’estrema generosità di Dio per l’umanità.

L’altro titolo, Rabbunì, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù, cela tutto un mondo. Quel modo di riferirsi a Gesù fiorisce solo sulle labbra di un’altra persona: Maria Maddalena. Quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16), ella risponde: Rabbunì! Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto ricco di intimità, assolutamente personale, riassume la sua storia, contiene tutto il suo cuore di donna e di discepola. Per Bartimeo quell’appellativo cela tutto il desiderio che aveva a lungo lavorato il suo cuore, esprime una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie, il Paradiso nel quale tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori. La richiesta del cieco di ‘vedere’ è correlata al ‘vedere’ dei discepoli che hanno seguito Gesù fin sul calvario e i cui cuori si aprono alla visione del Risorto. Quel ‘vedere’ non è il semplice guardare, ma il riconoscere, il vedere dall’alto, l’entrare nella contemplazione del segreto di Dio nel suo amore per l’uomo.

Ora, questo è proprio l’esito della preghiera: tornare ad avere il cuore che vede svelarsi e compiersi nel concreto della vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità. La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e per Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo risplenda della Sua presenza.

La prima lettura fa presagire il contesto drammatico in cui si compiono le promesse di Dio. È tratta dal cap. 31 di Geremia, il capitolo che descrive il ritorno degli esuli da Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore e tutto sarà riedificato nuovamente. Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso. Ma a noi sfugge la dimensione drammatica delle promesse di Dio, come sfugge la tensione emotiva del cuore del cieco che ha tanto atteso il suo momento. Geremia vede in sogno la realizzazione del ritorno del popolo dall’esilio e legge il suo sogno come la profezia del futuro. In realtà, attorno a lui, a Gerusalemme, tutto è distrutto, la città svuotata, le sofferenze immani e la prostrazione abissale. Ma Dio non può venir meno alle sue promesse e il profeta vede, spera, crede, lotta per rianimare e consolare.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

(31 ottobre 2021)

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Dt 6,2-6;  Sal 17;  Eb 7,23-28;  Mc 12,28b-34

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Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa che il cuore enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore, che arriva all’uomo nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme la nostra storia. Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza. Più ci si percepisce dentro quella storia di salvezza e più la proclamazione di Dio è assoluta e coinvolgente. Gli antichi commentatori ebrei spiegano la compassione del loro Dio in questi termini: Dio aveva previsto che il suo popolo l’avrebbe rigettato, ma lo volle liberare lo stesso per amore del suo nome; Dio aveva previsto la ribellione del suo popolo, ma anche visto che il suo popolo avrebbe proclamato: “Dio è il mio Dio” (Es 15,2) e “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7), commuovendosi davanti al popolo che avrebbe professato l’impegno incondizionato di obbedienza al proprio Dio prima ancora di udire i comandamenti che avrebbe ricevuto. È appunto quel Dio così esperito che merita di essere amato con tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.

L’espressione del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” comporta tanti aspetti segreti. Anzitutto ricorda che ‘nostro/mio’ ed ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza.  Secondo la bellissima espressione di Origene tale è la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”. L’amore è una questione di appartenenza nell’intimità, all’opposto dell’appartenenza come possesso, perché l’amore esalta la libertà e la libertà l’amore.

La dichiarazione di Gesù allo scriba costituisce la preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante, denominata ‘Shema’, dalla prima parola iniziale: ascolta, Israele! L’ebreo prega Dio dicendo al suo popolo: ascolta!, eco appunto dell’invito di Dio ai suoi figli. La cosa straordinaria è che il nome del popolo contiene il nome di Dio; non solo, ma il nome del popolo finalizza la preghiera a uno scopo ben preciso. Israele è il nome che viene assunto da Giacobbe dopo la lotta con l’angelo. È un nome di benedizione. La lotta con l’angelo era per ottenere la sua benedizione, cioè la manifestazione di Dio. Si danno due etimologie di questo nome a seconda del verbo ebraico a cui si fa riferimento: Israele, colui che combatte con Dio (per ottenere la sua manifestazione, e vince); Israele, colui che ha visto (l’angelo di) JHWH. In ogni caso, il movimento interiore è per la visione, è per la conoscenza in intimità di Dio. L’invito ‘ascolta’ è teso al fatto di conoscere Dio, conoscere il suo amore e coglierlo nella sua azione redentiva nella storia.

Se consideriamo la proclamazione nella concatenazione dei passaggi della sua formulazione dobbiamo distinguere tre punti. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. In Dio l’uomo scopre le sue radici. L’atteggiamento che meglio corrisponde, da parte dell’uomo, a questo invito, è la disponibilità ad ascoltare comunque prima di udire che cosa viene detto; a mettere in pratica comunque, prima che ci vengano dette le cose da fare. Proprio come riportavo sopra di Es 24,7.

Poi segue: ‘Il Signore è il nostro Dio’. Prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una solidarietà. È il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio.

Quindi: Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso a un segreto, a un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Proprio come conclude Gesù elogiando lo scriba (mi pare l’unica volta in cui i vangeli presentano molto benevolmente la figura di uno scriba!): “Non sei lontano dal regno di Dio”. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverlo compiutamente. Ma come è possibile se non riusciamo a percepirci prima raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un amore che ci precede? La ‘scoperta’ della fede in Gesù ci colloca proprio dentro quella prospettiva. È per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia di quella scoperta, viene elogiato.

Del resto, nella risposta di Gesù viene descritto tutto il movimento di intelligenza delle Scritture, che non può non portare a far condividere con tutti quello che ormai è percepito come il tesoro del cuore, per cui dal primo comandamento si passa direttamente al secondo, quello dell’amore del prossimo. Non però nel senso che l’amore per l’uomo è parallelo, per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso che l’amore per l’uomo non sarà totale che a partire dall’amore per Dio. La fede è sempre all’origine della carità, sebbene sia la carità a verificare la sincerità della fede. Così tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito e che è tesa a mostrare il mistero della fraternità come rivelazione della presenza di Dio nel mondo, parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa la scoperta di quel che comporta l’incontro col Signore Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30); poi si compie in noi la sua promessa, come viene proclamato nel canto al vangelo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Consapevoli sempre che “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1° novembre 2021)

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è splendore di amore immolato.

Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Mi piace riandare all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena nel 1311 quando l’enorme pala (tre metri per cinque) della Maestà di Duccio da Buoninsegna fu scortata dalla bottega dell’artista alla cattedrale in trionfo, tra gli applausi della cittadinanza e posta sull’altare. La visione di tutti quei santi schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.

Il nesso che la liturgia di oggi sottolinea in modo evidente, sebbene sia colto flebilmente dalla nostra coscienza pensante, è il nesso santità/felicità. Le beatitudini di Gesù lo proclamano con la potenza che scaturisce dal dono del regno di Dio che si fa come evidente e che gli uomini scoprono con un sentimento di gioia incontenibile: felici voi se siete poveri … se siete miti… se siete misericordiosi… se siete portatori di pace, ecc. È quella ‘perfetta letizia’ che ha invaso il cuore e che non è scacciata più da nulla, nemmeno dalle afflizioni più ingiuriose, perché mai si separa dalla sorte del suo Signore, divenuto ormai il ristoro dell’anima, il suo riposo. Capace di far dire, come ricorda s. Francesco di Assisi: l’afflizione del tuo cuore è affare tra te e Dio, mentre i tuoi fratelli hanno diritto alla tua gioia; non tenere i tuoi beni come costituissero la tua gioia, perché quando te li toccassero, sparirebbe la tua gioia; non rivendicare diritti perché quando non te li riconoscessero resteresti schiacciato.

E come questo è possibile per noi, che conosciamo bene la fatica e l’oppressione del vivere quotidiano? In effetti, non si può evitare fatica e oppressione nella vita. Tutto sta a portare le fatiche giuste, le fatiche che procurano i frutti desiderati dal cuore. Ed è quello che garantisce il Signore con il dono di Sé come ristoro, come riposo per il nostro cuore, il segreto felice della santità. È strano: c’è una fatica che si assomma e che finisce per opprimere; c’è una fatica invece che moltiplica la gioia e la ‘leggerezza’ del procedere, che rinnova le energie e dà impulso di vita. È la fatica delle beatitudini, che mortificano le nostre illusioni ed i nostri sogni di esibizione, ma che rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita. È la storia della santità, come la vediamo nelle vite dei santi e come ciascuno la può percepire nel suo cuore, quotidianamente, ogni volta che si lascia sorprendere dalla gioia del regno. Così allora suonano per il nostro cuore le beatitudini proclamate come segno di riconoscimento della santità:

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fin tanto che la terra del loro cuore sarà tutta diventata cielo

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce.

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di perseguire questa pace ottenutaci dal Figlio di Dio

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che promette.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “… fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Solennità e feste

Commemorazione dei defunti

(2 novembre 2021)

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Gb 19,23-27 – Is 25,6-9 – Sap 3,1-9

Sal 26 (27) – 24 (25) – 41 (42)

Rm 5,5-11 – Rm 8,14-23 – Ap 21,1-7

Gv 6,37-40 – Mt 25,31-46 – Mt 5,1-12

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Se ieri, festa di tutti i santi, la chiesa guardava al mistero dell’amore di Dio per l’uomo dal cielo, oggi, commemorazione di tutti i defunti, lo guarda dalla terra. È lo stesso mistero di salvezza celebrato ieri ma contemplato nella logica degli affetti umani, che di quel mistero sono la cifra visibile.

Applico alla celebrazione odierna quello che la Chiesa vive nella sua preghiera eucaristica: “Per mezzo del tuo Figlio, splendore d’eterna gloria, fatto uomo per noi, hai raccolto tutte le genti nell’unità della Chiesa. Con la forza del tuo Spirito continui a radunare in una sola famiglia i popoli della terra, e offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo regno. Così la Chiesa risplende come segno della tua fedeltà all’alleanza promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore” (Preghiera eucaristica V/D). Tra l’altro, la preghiera per i defunti “L’eterno riposo” pesca in uno scritto cristiano in aggiunta al libro di Esdra, conosciuto nella sua redazione latina come il quarto libro di Esdra, attribuendo al sacerdote-scriba Esdra la visione profetica delle nazioni che si convertono al Signore a formare il nuovo popolo di Dio. Vedendo i popoli venire alla fede promette loro il riposo messianico nella luce meravigliosa dell’amore di Dio (4Esd 2,34-35).

Fare memoria dei nostri defunti significa alludere a quella forza unificante di Dio che ci raccoglie alla mensa del suo amore, dove tutti siamo invitati. Significa fondare la nostra speranza nel suo amore salvatore e misericordioso, oltre il dolore della separazione. La liturgia di oggi suscita un grande senso di solidarietà umana. Non si tratta solo di tenere viva la memoria dei propri cari, ma di fare esperienza di una solidarietà in umanità che gli affetti sanno custodire. È qualcosa che rivela la percezione di una realtà misteriosa, ma potente, coinvolgente, insopprimibile. La radice la ravviso nel brano del giudizio finale narrato da Matteo, il medesimo brano che viene proclamato anche nella solennità di tutti i santi. Con il suo giudizio il re manifesterà il segreto dell’agire di Dio fin dalla fondazione del mondo, lungo tutta la storia. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi. La solidarietà negli affetti parla di questo ‘segreto’ di Dio.

La memoria per i nostri defunti tiene vivo nell’anima questo segreto nella prospettiva della supplica che si riveli loro in tutta la sua potenza, come capace finalmente di dare compimento ai desideri che hanno lavorato la terra dei cuori loro e nostri. Le letture di oggi definiscono i salvati come ‘nel riposo’ di Dio e si prega perché i defunti, coloro che ci hanno preceduto nel regno di Dio, godano il ‘riposo’ di Dio.

Quel ‘riposo’ allude al compimento di un atto di creazione particolare. Nel primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, il testo dice che, dopo aver creato tutte le cose: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Se i sei giorni precedenti non sono bastati a completare il lavoro, che cosa allora è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo, rispondono gli antichi rabbini (cf. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita abbondante, vita eterna. Proprio secondo la promessa di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28) e soprattutto “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25,34).

Con il ricevere il regno che è preparato fin dalla fondazione del mondo, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita e della nostra. Ciò che da sempre ha mosso il cuore di Dio, ora, finalmente, si vede realizzato. In effetti, il riposo allude anzitutto alla condivisione dei sentimenti di Dio, al riposo dell’amore suo che tanta pena si è dato per convincere e conquistare; è il ristoro che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo. Da far dire al profeta Isaia: “E si dirà in quel giorno: Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza” (Is 25,9).

La particolarità della liturgia di oggi è data dal fatto che la chiesa supplica il suo Signore perché quel riposo sia condiviso da tutti i suoi figli, che intercede presso di lui per tutti loro, fiduciosa nella misericordia immensa di Dio che si è dato pena per i suoi figli, nessuno escluso. La supplica procede dalla fiducia nella promessa di Dio che vuole con sé i suoi figli, ma anche dal desiderio, pieno di speranza, che finalmente potrà avverarsi, come dice Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Da interpretare anche così: ‘dopo che sarà stata distrutta questa mia pelle, è nella mia carne che contemplerò Dio … i miei occhi lo vedranno e lui non sarà un estraneo’. Se questo desiderio alberga in ogni cuore, la chiesa supplica perché tutti possano vederlo realizzato, possano sentirlo finalmente come la verità del loro cuore.

E le letture tratte da s. Paolo aggiungono che addirittura la nostra stessa carne rifiorirà incorruttibile, addirittura nella nostra stessa carne sperimenteremo l’amore salvatore del Signore che dà la vita. È l’altra caratteristica della liturgia di oggi: la chiesa professa la sua fede nella risurrezione della carne, la sua speranza nella potenza di Dio che esprimerà la vittoria sulla morte nella nostra stessa carne, insieme ai nostri cari.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(7 novembre 2021)

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1Re 17,10-16;  Sal 145;  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

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L’esempio della vedova è l’ultimo insegnamento di Gesù nel tempio secondo il vangelo di Marco. Poi Gesù esce dal tempio e ne profetizza la distruzione con il richiamo a vegliare. Segue subito dopo il racconto degli eventi della passione. Evidente il contrasto tra l’atteggiamento dei farisei alla ricerca di prestigio e onore rispetto a quello della vedova, che Gesù elogia a sua insaputa. Gesù cosa elogia della vedova?

Il testo dice: “: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Se traduciamo letteralmente si potrebbe rendere: “i ricchi hanno preso sul loro superfluo, lei, vedova, ha preso sulla sua indigenza tutto quello che aveva, che costituiva tutta la sua vita”. Oppure, ancora più significativamente: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”.

Tutta la liturgia di oggi comporta una stranezza di fondo. Dio ordina al profeta Elia di rifugiarsi a Sarepta, in territorio pagano, perché una vedova provvederà a lui, ma quella donna non ha di che sfamarlo. Come vedova già viveva di elemosine e ora che è tempo di carestia raccoglie solo briciole. Eppure, proprio a lei il profeta viene inviato per la sua sopravvivenza. Prima, nella sua solitudine, il profeta riceveva cibo dai corvi, termine che alcuni commentatori rendono con ‘arabi’ intendendo che un israelita viene aiutato proprio da uno straniero. Gesù, che si è messo in posizione di osservazione davanti al tesoro del tempio, elogia una povera vedova per i due spiccioli che vi aveva buttato restando senza più risorse lei per vivere.

Sì, il nostro Dio è un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti … portatori di pace … misericordiosi …”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di Colui che il mio cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose, vale a dire il tempio e il popolo per cui si portavano le monete al tesoro. E in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.

Gesù, elogiando la vedova, vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna, che vuole ottemperare al comando di Dio di portare l’offerta al tempio, come era richiesto a tutti gli ebrei, si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze sembrano giocare a sfavore.

Come annota Madeleine Delbrel commentando la prima beatitudine: “Non pensate che la nostra gioia sia trascorrere i giorni a vuotare le nostre mani, le nostre menti, i nostri cuori. La nostra gioia è trascorrere i giorni a scavare nelle nostre mani, nelle nostre menti, nei nostri cuori un posto per il Regno dei Cieli che passa. Perché è straordinario saperlo così imminente, saper Dio così vicino. È prodigioso sapere il suo amore tanto possibile in noi e su di noi. E come non aprirgli questa porta unica e semplice che è la povertà di spirito?”.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita del profeta e la sua. Così, rispetto alla prima beatitudine, la vedova è tra quei poveri nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri in spirito toccheranno il regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi.

Un’antica orazione salmica di tradizione spagnola a commento del salmo 146, il salmo responsoriale, recita: “Signore, che rialzi i curvati, liberi i prigionieri e illumini i ciechi, rialza anche noi quando i peccati ci avvincono e illuminaci quando la nebbia dell’ignoranza ci circonda, affinché la nostra anima sempre ti lodi e la nostra vita inneggi a te con fedele dedizione e umile servizio. E poiché è tuo dono ciò che noi siamo, ti serva tutta la nostra vita”. Il salmo 146 è il primo dei cinque salmi che ogni mattina vengono proclamati insieme nella liturgia ebraica, l’Hallel quotidiano. I dieci alleluja che li caratterizzano sono paragonabili alle dieci parole con cui Dio ha creato il mondo (“Dio disse” ricorre dieci volte) e alla dieci parole dell’alleanza del Sinai. Creazione e alleanza percepite sotto il segno della lode, dentro una vita aperta allo splendore del regno. Questo la vedova elogiata da Gesù viveva nella sua indigenza per la fede nel suo Dio.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(14 novembre 2021)

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Dn 12,1-3;  Sal 15;  Eb 10,11-14.18;  Mc 13, 24-32

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Il ciclo dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa contempla le cose ultime per collocare nella loro vera luce le cose presenti. Gesù era appena uscito dal tempio dopo aver elogiato l’offerta dei due spiccioli della vedova e i discepoli lo invitano a contemplare le meraviglie della sua costruzione. Siamo al cap. 13 di Marco e l’evangelista mette in bocca a Gesù un lungo discorso di stampo apocalittico. Mescola in un’unica sequenza gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente. Con la predizione della rovina del tempio, avvenuta per opera dei romani nell’anno 70 d.C., mentre i lavori di ricostruzione, iniziati sotto Erode il Grande negli anni 20/19 a.C., si erano conclusi nell’anno 64 d.C., Gesù mette in guardia i suoi discepoli: sappiate sfuggire all’inganno, vegliate! Quell’avvertimento, Vegliate, è l’ultima parola del cap. 13, quella che introduce il racconto della passione di Gesù. Tutto è orientato alla manifestazione della gloria del Signore crocifisso, non semplicemente nel suo aspetto giudicante alla fine dei tempi, ma nel suo aspetto di rivelazione dell’amore del Padre per i suoi figli che costituisce l’unico mistero significativo per il nostro cuore. Così prega la colletta: “donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio”. La stessa immagine suggerisce il canto al vangelo: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,36), da intendere: possiate essere degni di veder manifestato in voi l’amore del Signore in modo tale da vivere la vostra vita nel segno del suo splendore.

L’antifona di ingresso, che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia, offre il contesto di intelligenza per le parole di Gesù: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò, e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi»”. È la testimonianza del profeta fatta recapitare per lettera agli esiliati in Babilonia invitati ad accettare la prova nell’attesa dell’intervento liberatore del Signore, senza cedere a false promesse di falsi profeti per false e presunte liberazioni che non ci saranno. Se Gesù è venuto per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi, proprio in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi. L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini penetranti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da lui discende e che a lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di lui, progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è sempre il medesimo: badate bene, state attenti, vegliate! Non ingannate il vostro cuore, non lasciatevi ingannare!

Perché “chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mc 13,13). La consolazione scaturisce dalla lucidità della coscienza che Lui “è vicino, è alle porte” per indicarci “il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 15,11). Nel bene e nel male che accade, Lui è vicino, possiamo attenderne la manifestazione al nostro cuore, certi che il futuro si decide sulla fedeltà alla sua parola, certi che il male verrà riscattato. Come diceva Gesù a proposito della malattia di Lazzaro: “questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio” (Gv 11,4).

Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli sia che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il nostro agire, nell’oggi che ci è dato, sia teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Così, ogni evento della fine non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero consuma la storia aprendola al suo fine, alla rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno tanto dolore? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si convince un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio. Proprio come canta l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”. Da intendere: veniamo custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così ne resta conquistato, in modo tale che quell’amore risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra radice di vita.

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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXXIV Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

(21 novembre 2021)

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Dn 7,13-14;  Sal 92;  Ap 1,5-8;  Gv 18,33b-37

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Termina l’anno liturgico e il pensiero corre alla fine della storia. E cosa si manifesterà alla fine della storia? Il regno di Dio nel suo splendore. È lo stesso regno che si poteva cogliere presente nella storia, regno che alcuni hanno visto, altri hanno negato, alcuni hanno cercato, altri se ne sono infischiati. Alla fine, tutti si accorgeranno che a quel regno convergevano tutti i desideri del cuore dell’uomo.

La scena evangelica di Gesù davanti a Pilato va letta in rapporto a quella suprema manifestazione. Interessante osservare come sia costruita. Gesù, ormai nelle mani delle autorità religiose di Gerusalemme, viene condotto a Pilato, governatore pagano di Gerusalemme. Pilato chiede: quale accusa portate contro quest’uomo? Rispondono che Gesù è un malfattore, senza nulla specificare, ma sottintendendo che ha fatto qualcosa degno di morte. E dal momento che a loro non è permesso mettere a morte, lo consegnano all’autorità pagana, l’unica che poteva far eseguire una condanna a morte. Quando Pilato rientra nel pretorio e fa chiamare Gesù, prima di chiedere che cosa abbia fatto di male, gli chiede: tu sei re dei Giudei? Non usa l’espressione tradizionale ‘re di Israele’, dal significato messianico, improprio sulla bocca di un romano. Per lui, il fatto che sia reo di morte per le autorità giudaiche comporta che si sia fatto passare per re. E quando Pilato chiede a Gesù cosa abbia fatto di male, Gesù risponde parlando della propria regalità. E abbina il suo essere re alla testimonianza della verità. È questo il passaggio determinante che va compreso.

Nel linguaggio biblico verità e fedeltà sono espresse da un unico termine ‘èmet’. A differenza della lingua greca per la quale la verità è la rivelazione di ciò che è nascosto, nella lingua ebraica la verità è ciò che resta fedele a se stesso, che rimane stabile senza cambiamenti. Ora, la verità e la fedeltà che di Dio si professa in tutte le Scritture è la sua misericordia, il suo amore misericordioso, che non viene mai meno nonostante le ribellioni dell’uomo. Potremmo dire: la verità di Dio è la fedeltà ininterrotta al suo amore per l’uomo. Gesù è proprio il Testimone per eccellenza di quella verità e lo ricorda proprio nel momento in cui appare che, se condanna ci sarà (Pilato cerca in qualche maniera di difendere il prigioniero che gli è stato consegnato), sarà una condanna di croce, perché sarà emessa dall’autorità pagana. Così, l’accusa delle autorità religiose (è un malfattore) acquisterà anche l’ignominia della condanna dei pagani (Gesù, crocifisso, tra due ladroni).

Nel vangelo di Giovanni, almeno per tre volte è menzionato che la condanna a morte che Gesù subirà sarà la crocifissione: Gv 3,14; 8,28; 12,32-33. Il termine che la connota è ‘innalzato’, a significare, da una parte, la condanna a quel tipo di patibolo e, dall’altra, al significato salvifico che la morte di croce comporta. Significato che qui è espresso con il denominare Gesù re. A questo proposito, se colleghiamo il brano di vangelo al brano dell’Apocalisse della seconda lettura, otteniamo un approfondimento di significato straordinario. Nel testo dell’Apocalisse, Gesù, il Crocifisso, è chiamato “Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”. Tutti termini che si riferiscono alla grandezza e infinitezza dell’Amore misericordioso di Dio per l’uomo, Amore che ha posto in essere le cose, le ha guidate al loro compimento nel fatto di partecipare alla dinamica di questo amore che tutto avvolge e tutto fa splendere. Nella definizione di Dio non rientra la qualifica ‘Colui che sarà’, come verrebbe spontaneo aggiungere alle prime due: Colui che è e che era. Perché il futuro non è che la potenza del presente infinitamente dilatato fino a comprendere tutti i tempi e l’eternità. Perché di questo si tratta con Gesù, proclamato re: l’Amore di Dio è vittorioso su tutto. Re va abbinato a Onnipotente nell’amore. E qui risalta ancora più stridente l’accusa delle autorità giudaiche con cui Gesù è stato consegnato a Pilato: è un malfattore (letteralmente: fa cosa cattiva). Lui, che incarna la Bontà di Dio per l’uomo, proprio di lui viene detto che fa cosa cattiva!

Il re messianico, colui che avrebbe inaugurato l’era messianica, era designato proprio con l’espressione ‘colui che viene’, espressione che era risuonata festosa, pochi giorni prima, sulla bocca dei discepoli all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme. Per mettere maggiormente in risalto il valore dell’espressione sarebbe bene tradurre: ‘Benedetto nel nome del Signore colui che viene!’. Se teniamo presente che quell’espressione risuona come definizione di Dio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) e che l’ultima parola della Bibbia si raccoglie in un doppio grido da e per Colui che viene: “Sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), allora se ne può intuire la densità di significato. Colui che da sempre è stato atteso, colui che da sempre si attende, Colui che riassume tutte le nostre attese è proprio Lui, il re dei Giudei, sotto processo, condannato, giustiziato. Perché a questo è destinato colui che proclama la verità, colui il cui regno non è e non appartiene a questo mondo, ma di cui il senso è noto e svelato soltanto da Lui.

Quando dice che il suo regno non è di questo mondo, non vuol dire che non riguarda questo mondo, ma più semplicemente e più potentemente che proprio perché non è di questo mondo, può essere in questo mondo, può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale. Lo proclamerà dall’alto della croce quando si svelerà la profezia messianica: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). È la verità dell’amore del Padre per tutti i suoi figli che in lui splende.