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SEMINARIO VESCOVILE DI TREVISO

Giovedì, 30 marzo 2017

L’ottica che presiede al mio cercare di riflettere con voi su questo tema l’ho dedotta dalle parole con cui s. Massimo Confessore introduce il suo commento al Padre nostro: “supplico il Signore, che ci ha insegnato questa preghiera, di aprire la mia mente alla comprensione dei misteri in essa contenuti e di concedermi di esporli in modo appropriato perché se ne possa cogliere lo splendore e la potenza”.[1] Ecco la parola chiave: ‘cogliere lo splendore e la potenza’ di quello che abbiamo ricevuto, di quello che crediamo, di quello che vorremmo fare, di quello che pretendiamo annunciare. Rispetto al tema della paternità spirituale mi sono proposto di illustrare appunto quello che la grande tradizione ci ha lasciato in eredità.

Ho cercato di muovermi da due prospettive differenti ma convergenti. La prima: da quale tradizione veniamo, nel senso che ‘ci riconosciamo dentro’? La seconda: qual è la situazione in cui riconosciamo di vivere? L’accento resta comunque posto sull’oggi che ci caratterizza sia nel riconoscere l’eredità ricevuta sia nel cercare di viverla nella precarietà della nostra vicenda esistenziale. Mi sono prefisso di definire lo spazio interiore in cui tutti gli impegni e i compiti che pastoralmente esercitiamo trovano senso e compimento.

 

  1. PRIMA PROSPETTIVA: DA QUALE TRADIZIONE VENIAMO?

 

Il primo riferimento obbligato non può che essere l’ingiunzione perentoria di Gesù, che lo sviluppo successivo della vita nella chiesa sembra contraddire. Nella sua requisitoria contro l’ipocrisia degli scribi e dei farisei Matteo riporta queste parole di Gesù:

 

«Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra «voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (Mt 23,8-12).

 

Davanti a queste parole inequivocabili, la chiesa non si è fatto problema di ‘contraddirle’. Perché?

Avanzo prima alcune brevi annotazioni al testo matteano.

Il termine padre è accompagnato da quello di maestro e di guida (o capo). Ciò significa che i tre termini sono da intendere nel medesimo contesto umano delle relazioni nella comunità dei discepoli. Gesù, non solo invita a non appropriarsi di nessun titolo in funzione di un prestigio personale e dell’esercizio di un potere, più o meno segretamente ricercati come aspirazione a una grandezza umana, ma esige che la professione di fede nell’unico Padre celeste e nell’unico maestro Cristo sia resa manifesta nella vita concreta della comunità. Un discepolo che facesse valere il bisogno di essere considerato secondo parametri mondani rinnegherebbe l’insegnamento di Gesù. Se nella comunità esiste una sola istanza gerarchica, il Padre e il Cristo, ciò significa che, rispetto a tale somma istanza, tutti i membri della comunità sono uguali, sono tutti fratelli. Il termine ‘fratelli’ implica non solo la parità dei membri della comunità tra di loro, ma anche l’idea di solidarietà, due fattori costitutivi per la chiesa. L’aspirazione a fregiarsi dei titoli distrugge la fraternità della comunità dell’unico Padre celeste e dell’unico maestro Gesù. In altre parole, fraternità comporta rinuncia alla propria fama e alla propria affermazione. In effetti, il testo si conclude con l’invito al servizio, a farsi servi, con gli occhi puntati a colui che si è fatto servo con la sua vita e la sua morte: “Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,26-28).[2]

Ora, resta così essenziale quel riferimento fondante all’unico Padre celeste e all’unico maestro Gesù, che la chiesa non teme di tradire l’unica dinamica del ‘servizio’, valevole per tutti allo stesso titolo, quando riconosce la diversità dei ruoli e delle funzioni nella vita della comunità. Ciò che resta essenziale è appunto il collegamento diretto tra l’esercizio del ruolo e la dimensione del servizio perché sia manifestato concretamente, nelle relazioni ecclesiali e nell’esercizio apostolico, quell’unico fondamento.

La tensione del dinamismo del servizio in chiave apostolica/paterna è definita da Paolo nella sua lettera agli Efesini con queste parole:

«Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito. Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 14-19).

Può essere considerata come la finalità dell’azione del servizio nella chiesa, il respiro escatologico dell’agire.

E se il farsi servi gli uni degli altri è la dimensione di senso di ogni ruolo esercitato nella chiesa, lo stile che caratterizza tale servizio è descritto dalle parole di Paolo ai Tessalonicesi:

Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile. Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Tess 2,5-12).

Tre brevi annotazioni.

La prima. La domanda pungente di ogni annunciatore del vangelo suona così: è possibile annunciare il vangelo a qualcuno senza che questo ci sia diventato caro? In altre parole: se non ho accolto in benevolenza colui al quale voglio annunciare il vangelo, posso sperare che la parola del vangelo tocchi il suo cuore? In primo piano, non è messo nessun tipo di competenza; solo la disponibilità al farsi servi per amore del Cristo, sapendo che di quell’amore la mia parola e il mio atteggiamento sono allusivi. Con la sfumatura perciò che il compito dell’annuncio non è vissuto come ideale, come dovere, ma come offerta di vita (“Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari”). Ciò significa che l’annuncio non è indirizzato solo al cuore dell’altro, ma esprime anche il trasbordo di una vita che da quell’annuncio è stata conquistata.

Seconda annotazione. È singolare che Paolo usi contemporaneamente l’immagine materna e paterna. Qui si comprende come la terminologia, che si va definendo nella storia della chiesa, prima chiamando ‘padre’ il vescovo che presiede al battesimo, poi chiamando ‘padre’ o ‘padre spirituale’ l’anziano al quale ci si affida per essere guidati nel combattimento spirituale in modo da vivere la vita in Cristo, alluda al mistero di Dio che precede e da cui deriva ogni paternità terrena. In primo piano non sta la somiglianza di una paternità umana, ma il richiamo alla paternità di Dio.

Terza annotazione. La tradizione ha confermato l’esperienza dell’apostolo Paolo con il solidarizzare del padre spirituale con le fragilità dei suoi figli come primo obbligo paterno/materno (“abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio”). Nella tradizione dei padri del deserto si legge: “Questo è il compito dei monaci di Scete, dare coraggio a coloro che sono tentati e fare violenza a se stessi, per guadagnarsi reciprocamente al bene”.[3]

 

Testimonianze patristiche nella storia

Dal punto di vista del come si sono sviluppati i passaggi che hanno via via definito il contenuto e la modalità della paternità spirituale nella chiesa possiamo suggerire un processo di questo tipo.

L’espressione ‘padre spirituale’ si collega direttamente alla specificità della rivelazione evangelica. Le prime generazioni cristiane sono vissute nello stupore dell’amore di Dio per noi. E la loro fede in tale amore si condensa soprattutto nel nome di Padre, che è il nome proprio del Dio di Gesù Cristo. È a quella esperienza, all’intimità di quella rivelazione che si richiama il termine di padre che viene attribuito ai vescovi, i quali presiedono all’amministrazione dei sacramenti, specie del battesimo, che conferendo al battezzato la qualità di figlio di Dio rende il battezzatore ‘padre dopo Dio’. Ma un altro significato si va consolidando nella linea di sviluppo dell’idea di generazione continua che fonda la possibilità di una partecipazione perpetua alla paternità divina. Un passo di Origene è illuminante:

“… beato colui che è sempre generato da Dio: poiché non dirò che il giusto è stato generato da Dio una volta per tutte, ma che egli è sempre generato ad ogni opera buona, perché è in essa che Dio genera il giusto. Se ti spiego riguardo al Salvatore che il Padre non ha generato il Figlio in modo da staccarlo dalla sua generazione ma che sempre lo genera, spiegherò qualcosa di simile anche per il giusto”.[4]

Se l’evento del nascere, dell’essere generati, che caratterizza ognuno di noi che entra nel mondo, non rappresenta un fatto semplicemente naturale, ma segna la coscienza e quindi l’immagine che si ha di se stessi e del mondo, a maggior ragione la nascita dall’alto. La nascita dice che abbiamo avuto una ‘origine’ e ‘origine’ significa ‘essere-già-donato-a-se-stesso’. Figlio si nasce e si diventa, cioè si decide di esserlo; significa acconsentire, al di là di ogni rimozione, ad avere una origine.[5] A quell’origine rimandano i nostri atti e la percezione della nostra stessa identità.

Non c’è solamente il battesimo ed i sacramenti, ma tutta la crescita e la formazione spirituale. Se si dà ai vescovi il nome di padri, perché non darlo a coloro che ispireranno quei buoni pensieri o faranno fare quelle buone opere per divenire ciò che siamo, cioè figli di Dio? E nella lunga serie di atti che costituiscono come i passi verso la perfezione del neonato figlio di Dio, uno ha ritenuto l’attenzione speciale degli antichi: l’entrata nella vita monastica. Tra il novizio e l’anziano che lo accoglie si stabilisce la stessa relazione di paternità/figliolanza che sussiste tra il battezzatore e il battezzato. È all’interno di questo nuovo spazio ecclesiale che vanno definendosi i tratti, poi restati costanti nella storia dell’esperienza cristiana, di colui che viene chiamato ‘padre spirituale’ o, più semplicemente, ‘padre’. Agiranno da sicuro punto di riferimento e da modello per tutte le generazioni a venire i monaci del deserto egiziano e palestinese, così significativi per l’esperienza e la coscienza cristiana da denominare le loro gesta ed i loro detti come le vite e le parole dei ‘padri del deserto’.

Nel suo commento alla preghiera del Padre nostro, proprio alla prima invocazione ‘Padre nostro, che sei nei cieli’, Teodoro di Mopsuestia si domanda chi siano i figli di Dio e lascia rispondere il Signore stesso:

“…è la grazia dello Spirito Santo che avete ricevuta tramite me, grazia che vi è valsa l’adozione a figli. Voi avete la libertà di chiamare Dio Padre…Allora è bene che, prima di ogni altra cosa, sappiate avere comportamenti degni di quella nobiltà, poiché figli di Dio sono quelli che lo Spirito dirige … Ecco perché non voglio che voi diciate ‘Padre mio’, ma ‘Padre nostro’; il Padre è comune a tutti dal momento che comune è la grazia, da cui abbiamo ottenuto l’adozione filiale. Non è solo al Padre che dovete presentare ciò che è conveniente, ma che anche gli uni verso gli altri abbiate quella concordia che dovete custodire a vicenda, dato che siete fratelli e sotto la mano di uno stesso padre”.[6]

 

I figli di Dio sono dunque quelli che lo Spirito dirige, quelli che lo Spirito di Dio guida e governa, quelli che fanno valere la loro radice dall’alto nella propria condotta, cioè si lasciano continuamente generare dal Padre. Inevitabile la conseguenza, tremenda, sebbene alla fine consolante, che così stabilisce Cipriano:

“Mentre afferma che è suo padre il Dio che è nei cieli, dichiari anche, come prima affermazione della sua nuova rinascita, che ha rinunciato al padre terreno e corporeo, che conosce un solo padre e che ha iniziato a considerare tale colui che è nei cieli, come è scritto: «Quelli che dicono al padre e alla madre: non ti conosco, e non riconoscono i propri figli, costoro hanno custodito i tuoi insegnamenti e hanno conservato il tuo comandamento»”.[7]

Cipriano parla dei nuovi battezzati come bambini piccoli che imparano a parlare, le cui prime parole sono le parole della preghiera del Padre nostro. Allude ai riti dell’apertio e della renunciatio, allorquando, la vigilia del battesimo, al candidato venivano toccati orecchi e bocca perché diventassero capaci di ascoltare e parlare dei misteri di Dio, dopo di che seguiva il rito della rinuncia a satana. Per questo, il ‘padre terreno e corporeo’, che io tradurrei ‘padre terreno secondo la carne’ (terreno et carnali patre), non allude al padre fisico, ma al diavolo a cui si è rinunciato. Riconoscere il Padre celeste significa allora rinunciare a qualsiasi altra paternità; significa riconoscere che le proprie radici sono unicamente dall’alto.[8] Ciò comporta il fatto di riconoscere che i desideri di verità e di bene dei cuori trovano compimento solo dall’alto. L’affermazione è avvalorata, drammaticamente, dalla citazione del passo di Dt 33,9: “a lui che dice del padre e della madre: Io non li ho visti; che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli. Essi osservano la tua parola e custodiscono la tua alleanza”, passo che si rifà all’episodio del vitello d’oro quando i figli di Levi, dietro ordine di Mosè, colpirono di spada i loro fratelli (cfr. Es 32,25-29).

Nel processo del consenso alla propria origine che caratterizza il vivere e l’agire del discepolo di Gesù lungo l’arco del suo sviluppo in umanità, come dirà s. Paolo “… finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13), due altre testimonianze patristiche risultano preziose.

Gregorio di Nissa, nelle sue omelie sull’Ecclesiaste, riflettendo sull’espressione “Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire[9], segnala una prospettiva singolare. Ecco le sue parole:

“Giungesse anche per me la nascita opportuna e la morte altrettanto opportuna! Nessuno potrebbe dire che l’Ecclesiaste vuole indicare qui un parto volontario ed una morte spontanea come esempi di comportamento virtuoso. Il parto, infatti, non avviene per volontà della donna, né la morte è causata dalla libera determinazione di coloro che sono giunti alla fine della vita: nessuno potrebbe definire virtù o vizio ciò che non è in nostro potere. Pertanto conviene comprendere qual è il parto opportuno e la morte opportuna. A me sembra che si abbia un parto maturo, e non un aborto, allorché, come dice Isaia, gravidi per opera del timore di Dio, si genera la propria salvezza attraverso i travagli dell’anima (cfr. Is 26,17). In un qualche modo diveniamo padri di noi stessi; infatti, attraverso la volontà buona plasmiamo e generiamo noi stessi e ci diamo alla luce. Questo si verifica perché accogliamo in noi Dio, essendo divenuti figli di Dio, figli della Potenza, figli dell’Altissimo (cfr. Gn 1,12; Rm 8,16). Siamo invece degli aborti e ci rendiamo imperfetti e stolti, quando non è stata formata in noi, come dice l’Apostolo, la forma del Cristo (cfr. Gal 4,19)”.[10] Con il corollario, a commento dell’altra espressione “un tempo per uccidere e un tempo per curare” (Qo 3,3), della necessità di favorire la vita con il contrastare la morte: “Se non uccideremo in noi stessi ogni avversione, non saneremo infatti la disposizione all’agape, perché questa si ammala in noi a causa dell’odio. Così anche tutte le altre cose, quante perversamente vivono in noi a nostro danno, intendo la cattiva schiera delle nostre passioni e questa lotta intestina combattuta in noi stessi per i piaceri e che ci fa schiavi della legge del peccato, è tempo di ucciderle, poiché la loro morte è la guarigione di chi è infermo a causa del peccato”.[11]

Alla testimonianza di Gregorio va abbinata quella di s. Ambrogio di Milano che, riprendendo Origene, nel suo commento al vangelo di Luca riporta questa mirabile espressione:

“Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto, e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. Beata tu che hai creduto. Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio, e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio, purché, serbandosi senza macchia e libera dal peccato, custodisca con intemerato pudore la castità (in latino: secundum fidem tamen omnium fructus est Christus; omnis enim anima accipit Dei Verbum, si tamen immaculata et inmunis a vitiis intemerato castimoniam pudore custodiat)”.[12]

Segnalo per inciso che la corrispondenza che Ambrogio rileva tra l’anima e la generazione del Verbo non va intesa in senso individualistico, ma ecclesiale, secondo il significato che ha la frase evangelica di Gesù per tutti i discepoli: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14) come è spiegato da un’antica glossa bizantina: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Ogni volta che si fa riferimento al Cristo, è a questa dimensione ecclesiale che si allude. La cosa ha un doppio risvolto: evita l’appropriazione del Cristo da parte di chicchesia e riferisce la testimonianza del Cristo nel mondo all’insieme del corpo della chiesa. Per questo, anche se nella nostra coscienza questa verità è percepita molto flebilmente, la forza della fede personale sta nel riferirla alla fede della chiesa, come la liturgia insegna a pregare. Prima c’è la fede della chiesa, poi la nostra personale. Anche questo ha a che fare con la nascita dall’alto, con il mistero della nostra ‘origine’. Ad esempio, nella celebrazione eucaristica, prima di scambiarci il segno della pace, il sacerdote prega per e con tutta l’assemblea: “… non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà”. Vale sempre il principio proclamato nella lettera agli Ebrei: “Poiché anche a noi, al pari di quelli, è stata annunciata una buona novella: purtroppo però a quelli la parola udita non giovò in nulla, non essendo rimasti uniti grazie alla fede con coloro che avevano ascoltato… ” (Eb 4,2). Solo chi resta unito (συγκεκερασμένους, dal verbo συγκεράννυμι, com-misceo, coniungo) a coloro che hanno ascoltato arriva alla salvezza.

E s. Ambrogio prega:

“Risplenda la sua immagine nella nostra professione di fede, risplenda nel nostro amore, risplenda nelle opere e nei fatti, in modo che, se possibile, tutto l’aspetto di Cristo si esprima in noi. Sia lui la nostra testa … lui il nostro occhio … sia lui la nostra voce, perché per mezzo di lui possiamo parlare al Padre; sia lui la nostra mano destra perché per mezzo suo possiamo portare al Padre il nostro sacrificio …”.[13]

 

Il tesoro della tradizione dei Padri

Così, l’essere padri di se stessi, secondo la Tradizione, si riferisce a un progetto ben definito (generare il Cristo, sulla cui immagine siamo stati fatti) che non può che guardare al Figlio di Dio, fatto uomo, che attrae la nostra umanità a fiorire negli aneliti che porta inscritti. Tra l’altro, questo comporta che mentre generiamo noi stessi contribuiamo a favorire la generazione del Cristo nei nostri fratelli, in coloro che ci sono affidati come fratelli e a cui noi siamo affidati. I Padri coniugano il massimo di libertà del soggetto con l’intimità di un’obbedienza al bene, professata nella fiducia di essere creature volute e amate dal Padre che ci chiama alla comunione con lui e con i fratelli, per la nostra gioia. La forza di una visione del genere deriva dalla fede nel Figlio di Dio che si è ‘abbassato’, mostrandoci l’unica grandezza capace di riempirci senza pretese e senza vergogna, senza rivendicare nulla, senza sfruttare nessuno, senza aver bisogno di nascondere i nostri limiti, senza aver bisogno di cercare prestigio e potere su qualcuno o qualcosa per affermarsi.

Credo vada riconosciuto oggi che il secolarismo imperante, di per sé, non è negazione di Dio, ma della creatura, cioè della sua umanità. In questo senso è il clima di esaltazione delle emozioni a fronte di una reale disumanizzazione dei rapporti il vero dramma. È come se l’uomo si beasse delle infinite potenzialità che scopre senza tener conto del limite ontologico che lo segna: non accetta di essere creatura, rimuove la sua origine. Ha rimosso dalla sua coscienza la rivelazione dell’abbassamento del Figlio come il Testimone dell’amore del Padre per noi. È l’inganno dell’eterno serpente tentatore, sempre all’opera nelle sue suggestioni illusorie. All’opposto, quando i Padri ci introducono nel mistero di Dio e dell’uomo non possono che rifarsi a quel Figlio fatto uomo, che ha patito, è morto e risorto per noi, come sintetizza s. Massimo Confessore nel suo commento al Padre nostro:

“Tutto ciò che il Verbo di Dio, nella sua condizione di abbassamento, ha operato nella carne, costituisce il contenuto proprio della preghiera in forma di domanda. Essa insegna ad appropriarsi di quei beni, di cui unico vero dispensatore è Dio, il Padre, attraverso la mediazione del Figlio, nello Spirito Santo”.[14]

Ecco, qui colloco il valore della testimonianza dei Padri nella trasmissione della fede per cogliere e la dinamica e il contenuto dell’esercizio della paternità nella chiesa.  Fondamentale l’affermazione di Basilio Magno nella sua riflessione sulla teologia dello Spirito Santo:

“Ascoltare non alla leggera la lingua della teologia, ma sforzarsi in ogni parola e in ogni sillaba di scoprire il significato nascosto, non è di persone restie alla pietà, ma di persone che percepiscono lo scopo della nostra vocazione: a noi è proposto di rassomigliare a Dio, per quanto sia possibile alla natura dell’uomo. Ma la somiglianza non esiste senza conoscenza e la conoscenza dipende dagli insegnamenti”.[15]

Da dove ci vengono gli insegnamenti, da cui deriva la conoscenza, che ci può ottenere la somiglianza? La feconda scoperta della tradizione patristica nella vita cristiana si situa esattamente nell’intreccio di questi snodi: ascoltare gli insegnamenti, che portano a una conoscenza, per arrivare a una somiglianza. In altri termini, ciò che regge la tradizione patristica è il principio della divinizzazione dell’uomo come verità della salvezza dell’uomo, in Cristo, per la potenza dello Spirito Santo.[16] I Padri, siano grandi vescovi e teologi (Ireneo, Atanasio, Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno), esegeti (Origene), mistici (Isacco Siro), umili monaci (Padri del deserto), tutti insieme sono da considerare i testimoni ed i maestri di quella ‘scienza dello spirito’ che è l’arte di condurre l’uomo alla comunione con Dio svelandogli passo passo la verità del suo essere ‘ordinato a diventare dio’, secondo la bella definizione di Basilio Magno riportata da Gregorio di Nazianzo.[17] Arte e scienza dunque, che vanno intese come la capacità di tradurre in valori concreti, in valori vitali che coinvolgano tutto il nostro essere, il tesoro della fede. Qui si pone la mediazione specifica dei nostri Padri. La fede della Chiesa si radica nelle Scritture, interpretate nel senso della Tradizione, e non nelle Scritture separate dalla Tradizione né nella Tradizione staccata dalle Scritture.[18] I Padri nella fede, nella Chiesa, sono coloro che hanno custodito, difeso, testimoniato, celebrato e come sostanziato quel ‘senso’, senza il quale le stesse verità di fede perderebbero la loro consistenza e fecondità. Qui risiede tutto il tesoro che rappresentano i Padri per l’esperienza dei credenti in Cristo.

 

SECONDA PROSPETTIVA: QUAL È LA SITUAZIONE IN CUI RICONOSCIAMO DI VIVERE?

Prima di presentare le mie riflessioni, mi permetto di indicare due ‘reazioni’ alla lettura del materiale che mi è stato inviato perché prendessi visione del cammino da voi intrapreso.

La prima si riferisce a un particolare che emerge dalla ricerca dell’Osservatorio Socio-religioso Triveneto. Riguarda la determinazione delle ragioni di un particolare tipo di solitudine che i preti segnalano.[19] La solitudine è percepita più nella sua dimensione ecclesiale (55%) che in quella sociale (29%) o in quella familiare (16%). La solitudine ha sempre a che vedere con la dimensione affettiva del vivere, ma la sorpresa è stata quella di notare come la dimensione affettiva più caratteristica, in gioco nella percezione della solitudine del prete, sia di tipo ecclesiale, vale a dire riguarda i rapporti istituzionali e fraterni dell’essere prete. La cosa mi ha fatto pensare e, al di là della verità più o meno riconosciuta della difficoltà dei rapporti in seno alla chiesa, mi ha costretto a domandarmi: si tratta di una deficienza di testimonianza o allude a qualcos’altro? Mi pare di poter leggere il dato come il sintomo di una difficoltà più profonda, a livello della stessa percezione del mistero della chiesa nella vita dei credenti.

La seconda, collegata a questa, nasce dal notare l’accentuazione, nella parola dei partecipanti ai gruppi di condivisione, di indicare più le condizioni che favoriscono o impediscono l’esercizio della paternità nella chiesa e in genere nel campo educativo piuttosto che percepirsi parte in causa del cammino di fede dell’umanità di oggi. Detto con altre parole: la missione verso i figli esprime la parte più vera e più profonda di se stessi.[20]  Se non si tratta di prestazioni, ma di servizio (occorre prendere coscienza che se restiamo sul piano funzionale e non riconosciamo quello sacramentale viviamo uno svuotamento), resta essenziale vivere la pratica della ‘paternità’, comunque la si intenda, nel respiro dell’annuncio di Cristo al mondo, nella fedeltà ad una umanità chiamata a fiorire nelle sue potenzialità sia per i padri che per i figli. Non si tratta di dare qualcosa o di aspettarsi qualcosa, ma di vivere un rapporto che esprima tutta la fecondità della fede come crescita in umanità. La domanda determinante risulterebbe questa: nel compito che mi è affidato, in che cosa resto implicato nel mio cammino di umanità e di sequela del Signore? E più estesamente: nello svolgere questo compito, quale apporto posso dare perché il mondo, della mia e altrui umanità, si apra alla rivelazione del Signore nel suo amore per noi?

 

Due pressioni ingombranti

Nelle nostre comunità, l’orizzonte della fede non mi sembra che si sia dissolto o rarefatto. Ma non è più terso, non manifesta più il suo splendore. Subiamo due pressioni, psichiche più che psicologiche, estremamente potenti, che ci impediscono di rifarci allo splendore del vangelo, chiamati a viverlo oggi nella complessità del mondo moderno che intimorisce. Da una parte, stiamo diventando tutti autoreferenziali. Il sogno della realizzazione di se stessi, della ricerca della felicità, della libertà di autodeterminarsi e di esprimere se stessi, che segna nella modernità l’autonomia del soggetto rispetto a tutto ciò che sa di struttura, legge o imposizione, lavora profondamente nel nostro inconscio. È l’eredità del nostro tempo, nessuna meraviglia! E non c’è motivo di vedere nell’aspirazione all’auto-realizzazione una concessione all’individualismo. Quell’aspirazione ha presa sulla coscienza stessa. La difficoltà nasce caso mai dall’incapacità (qui sarebbe da collocare il processo di maturazione della persona) di distinguere nel proprio agire la maniera di muoversi e il contenuto che si persegue. Se a livello della maniera dell’agire la scelta è evidentemente autoreferenziale e così deve essere, ciò non significa che anche il contenuto debba essere autoreferenziale. Anzi, l’appagamento si ottiene solamente in qualcosa che ha un significato oltre e indipendentemente da noi o dai nostri desideri.[21] A modo di battuta, potrei sintetizzare così: l’obbedienza (sia di chi la dà sia di chi la riceve) si risolve nel non permettere di sognare la felicità in un posto che sia diverso da quello in cui viviamo, interiormente e esteriormente, come viene espresso dall’autore del romanzo La strada: “Al figlio raccomanda: «Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere. Io non te lo permetterò»”.[22] Questa è una pedagogia decisiva in modo particolare per gli adolescenti, ma anche per i giovani.

La seconda pressione è la percezione dell’abbandono delle posizioni, del vivere in ritirata, come se il cristianesimo avesse perduto la presa sull’uomo di oggi. Questo è molto vivo nella chiesa oggi. Non è una percezione elaborata, tuttavia strisciante e ingombrante. È però una percezione ideologica indotta, alla quale spesso si risponde sul registro sentimentale. La reazione di fuga a tale percezione porta in due direzioni: allo spiritualismo, che si rifugia in uno spazio fittizio per sfuggire alla complessità del reale (il sintomo più evidente che lo spiritualismo non è ‘spirituale’ è dato dal giudizio cattivo che coltiva sul mondo e sulle persone, giudizio intriso di tristezza) e al fondamentalismo o integrismo, che cerca di imporsi alla realtà piegandola alle proprie mire (il sintomo più evidente che il fondamentalismo non è spirituale è che è troppo serioso, che si sostituisce a Dio vincolando le persone o imponendosi con le strutture di potere, niente di più antievangelico di questo). Ma il terreno su cui questa percezione dell’abbandono delle posizioni si alimenta è proprio la dimensione ecclesiale intesa nelle sue strutture e nelle sue attività pastorali. Se viene meno il senso del mistero della chiesa, tutto si rarefà e la nostra fede personale finisce per perdere mordente, perché soggetta a continui disincanti. Fa bene Mons. Dagens, accademico di Francia,  a ricordare che la Chiesa non è la tribù cattolica, che è la struttura sacramentale della chiesa a giustificare il rinnovamento del funzionamento interno e non la penuria del clero o l’esiguità delle forze, che l’evangelizzazione non è una strategia ma una partecipazione al combattimento di Gesù per obbedire a Dio, che la chiesa è chiamata a testimoniare la novità di Dio sempre più misconosciuta, che per la chiesa non si tratta dell’apertura al mondo ma a Dio, che la chiesa è chiamata ad essere dalla parte di ciò che comincia e di ciò che germoglia.[23] E l’esercizio della paternità nella chiesa, in tutte le sue forme, non è chiamato proprio a questo: stare dalla parte di ciò che germoglia? Ma senza la percezione, anche emotiva, di questa dimensione misterica e sacramentale della chiesa, non si può non soccombere alla ‘tristezza’ dei tempi che ci chiude in rivendicazioni sterili e in solitudini invincibili, rendendoci come inaccessibile la dimensione spirituale.

 

Tenere aperta la via di Dio al mondo

Certo potremmo domandarci: perché l’accesso all’esperienza spirituale sembra così difficile? Una certa dissolvenza della verità a favore dell’esperienza soggettiva ha reso sicuramente più complicato riuscire a far percepire la novità del Dio rivelato da Gesù. Sembra che si stia cercando una cosa nuova con l’impressione che la via cristiana sia vecchia. Se il quadro storico-sociale-culturale cambia, cambia forse la natura del compito ecclesiale? Probabilmente abbiamo come perso la percezione della bellezza della via cristiana (e dico via, non solamente esperienza o credenza, perché la fede in Gesù vive del fascino di indicare una via per vivere gli aneliti della nostra umanità concretamente!) perché troppo appiattita sull’attenzione alla chiesa come istituzione, come centro di influenza sugli uomini, di cui non solo ha perso il monopolio, ma addirittura la significatività per il funzionamento della società. Credo sia una delle preoccupazioni pastorali di papa Francesco: riportare alla bellezza del vangelo l’agire della chiesa, senza altro obiettivo, perché, se del vangelo vive, si tiene giovane, feconda, e tiene aperta la via di Dio per il mondo, che costituisce il suo compito pastorale.[24]

Come la chiesa può tenere aperta la via di Dio per il mondo? Questa è la domanda ecclesiale di fondo, domanda che aggrega tutte le altre nell’esercizio della trasmissione della fede e nella cura dell’umano. È il concetto di ‘cura’ che è alla base dell’annuncio evangelico. Cura, però, non come terapia, ma nel senso di questo detto dei Padri del deserto:

Un fratello, offeso da un altro, venne dal padre Sisoes e gli disse: “Sono stato offeso da un fratello e voglio vendicarmi”. L’anziano lo esortava: “No, figliolo, lascia piuttosto a Dio la vendetta”. Ed egli: “Non mi darò pace finché non mi sarò vendicato”. Disse allora l’anziano: “Preghiamo, fratello!”. E, alzatosi, disse: “O Dio, non abbiamo più bisogno che tu ti prenda cura di noi, perché noi ci vendichiamo da soli”. A questa parole il fratello cadde ai piedi dell’anziano dicendo: “Non contenderò più con il fratello; perdonami, padre!” (Sisoes 1).[25]

La vita fraterna rientra esattamente in quel ‘prendersi cura di noi’ da parte di Dio, nell’affidarci a lui come Padre di tutti. È la forza del realismo evangelico: ‘voi siete tutti fratelli’ (Mt 23,8). Esperienza così fondante della psicologia interiore del cristiano da far dire a un padre del deserto:

“Lo stesso Apollo disse riguardo all’ospitalità dei fratelli: «Bisogna prostrarsi ai piedi dei fratelli che vengono: con questo ci prostriamo a Dio, e non a loro. Quando vedi il tuo fratello, vedi il Signore Dio tuo» [Es 20,2]. Questo – disse – l’abbiamo appreso da Abramo. E quando accogliete un ospite, costringetelo a prendere ristoro: questo ce l’ha insegnato Lot, che costringe gli angeli a fermarsi da lui”.[26]

In un’intervista al giornale Avvenire (9 febbraio 2012) il filosofo francese Jean-Luc Marion puntualizzava: “Se ci riferiamo alla triade dei valori repubblicani francesi, la libertà può forse essere garantita a livello pubblico. E, si spera, pure l’uguaglianza. Ma la fratellanza presuppone invece un padre, mentre la società laica è fondata proprio sull’assenza del padre. Il solo padre assente possibile è Dio, ma non è stato finora riconosciuto. Dunque, nei sistemi fondati sui tre valori francesi, c’è una contraddizione interna. I primi due termini non possono garantire il terzo. La fratellanza non doveva essere inclusa, perché va oltre il progetto illuministico”. Il compito della Chiesa è appunto quello di mostrare nel concreto del vivere il mistero della fraternità, proclamata rispetto all’unico Padre, che Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, ci ha fatto conoscere nel suo amore per noi. È il segreto della rivelazione di Gesù.

Ogni compito nella chiesa è la declinazione della fraternità condivisa, con Gesù e con gli uomini, specialmente i più fragili e i più deboli, e la fraternità si gioca sulla verità dell’essere tutti figli allo stesso titolo, sulla verità della propria ‘origine’ dall’alto, ‘figli dell’Altissimo’, come i nostri Padri hanno sempre insegnato e mostrato con la loro vita. È caratteristico che Gesù si distanzi dalla sua parentela terrena e si definisca in una nuova ‘consanguineità’ con i suoi discepoli: “Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre»” (Mt 12,48-50). E subito dopo annunci le sette parabole del regno che definiscono l’appartenenza alla nuova parentela. Tra i termini usati non si trova evidentemente quello di padre. Il termine designerà nei rapporti fraterni la modalità dell’esercizio della cura e della responsabilità verso i fratelli più deboli, più piccoli, che dovranno essere accolti ‘paternamente’, a imitazione del Padre che invita tutti alla sua mensa.

 

Il Vangelo: una radice, più che un ideale

A questo punto voglio sottolineare una conseguenza determinante. Se la chiesa si richiama al vangelo per fondare la sua azione nel mondo, la sua caratteristica essenziale è di rivolgersi alle persone, alle persone concrete, rispettate nella loro storia e nel loro cammino, nei loro aneliti e nelle loro debolezze, perché figli di Dio amati. Produce incomprensioni e frustrazioni inevitabili leggere il vangelo come una esposizione di ideali da perseguire, a cui esortarci e per cui esortare. Il vangelo parla di radici, di come funziona il nostro cuore, di come va coltivato nelle sue aspirazioni e aperto al dono di Dio che è Gesù, che non è per noi, ma per il mondo. Così, la fraternità non è un gruppo che sta bene insieme, ma il corpo di Cristo che si va rivelando nella storia come luogo sacramentale di salvezza per tutti gli uomini. A differenza di Luca, che esalta la prima comunità cristiana con accenti idilliaci (cfr. At 4,32), Matteo presenta la fraternità in modo fin troppo realistico, segnata da ferite e tensioni, esposta alle rotture e agli abbandoni (cfr. Mt 18). Ciò che più ancora conta, Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le persone e le ferite che vengono assunte e curate. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.

È quel ‘servizio’ che rende grandi, cioè rivelatori del regno. La traduzione di Mt 18,4 (Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli) nasconde la portata misteriosa e potente di questo passo. Il testo in realtà suona: “chi umilierà se stesso come un bambino”. Chi si disporrà verso il debole con la consapevolezza della propria debolezza, chi si volgerà al peccatore con la consapevolezza del proprio essere peccatore, chi non trarrà a sé colui che ha bisogno di Dio, vale a dire: chi perde ogni importanza che sappia di questo mondo, fosse pure nel nome di Dio, costui potrà accedere alla rivelazione di Gesù e sarà benedetto. Rispetto, ad esempio, alla molestia di un fratello che non ci sopporta o che recalcitra rispetto alla nostra presunta generosità nei suoi confronti, s. Francesco di Assisi diceva:

“E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” (FF 234).

Resta così essenziale, prima e al di sopra di ogni strategia o entusiasmo pastorale, ritornare alla percezione del mistero della fraternità che all’inizio ho delineato, nella visione dei Padri, come costituito da due elementi: uguali in dignità e solidali comunque. Su questo è fondato il riferimento a Dio che struttura la vita dei credenti. Non va dimenticato che lo spazio sottratto a Dio è riempito con la proiezione dell’io che tende a fagocitare tutto, non solo le cose, ma anche i fratelli, visti nell’ottica di una rivendicazione del nostro diritto all’amore. Il male oscuro della nostra sensibilità interiore non è l’individualismo, come spesso viene sottolineato in una critica alla nostra società odierna, ma la proiezione narcisistica di sé che non sopporta nessuno nella sua alterità perché non più radicato in un Altro che ti fa sussistere.[27] La cosa emerge in tutta la sua rilevanza proprio nella vita fraterna, nelle comunità come nelle famiglie, là dove le relazioni con i fratelli svelano le radici del nostro cuore, il dove siamo fondati.

 

Il realismo evangelico: le categorie del compimento e dell’eccedenza

Ho parlato di realismo evangelico. La dimensione spirituale sboccia sul terreno del realismo evangelico. Due sono le categorie che lo illustrano, a dispetto delle nostre percezioni psicologiche: la categoria del compimento e quella dell’eccedenza. Sono le due categorie che permettono di superare la legge, dove invece noi, solitamente, restiamo bloccati. Quando, per esempio, parliamo di maturità della persona, maturità umana e spirituale, spesso non ci accorgiamo di portare avanti un discorso moralistico che esige dalle persone determinati passi, presentati come ideali da raggiungere, invece che fornire le coordinate interiori perché le persone si sentano comprese e aiutate a scoprire ciò che si agita in loro, ciò che chiede di fiorire, ciò che le determina e le attira. Il realismo evangelico lavora nel senso di far fiorire, non di imporre o di esortare. Quando tiriamo in ballo la categoria del compimento non ci si riferisce solamente al dato dommatico che Gesù compie le profezie, ma alla rivelazione di Dio che è la sua umanità, che è la sua vita di uomo votato alla morte, rivelazione per noi sconvolgente perché parla dell’abbassamento del Figlio e del suo consegnarsi agli uomini perché ne facciano quello che vogliono, stando contemporaneamente nelle mani del Padre e solidale con noi peccatori. Ogni compimento è di natura pasquale. Ma il compimento a cui Gesù dà sostanza riguarda anche la nostra umanità sotto due aspetti:

a) rispetto alla legge, intesa nel suo senso più lato: la legge va ‘finita’, ‘portata ai confini’, aperta nel suo segreto di vita per noi. Non è un’operazione facile né indolore, ma essenziale al fiorire della nostra umanità. Nessuno sa trarsi fuori d’impiccio da solo, perché la legge, anche quando è rifiutata, non manca di esercitare il suo potere, di peso e di impedimento alla vita. Spesso viviamo di ‘reazioni’, non di ‘azioni’. Occorre essere accompagnati in questa operazione delicata, in base proprio al realismo evangelico del compimento.

b) rispetto al nostro mondo interiore: i desideri devono poter far accedere alla vita, le ferite devono poter essere sanate, le aspirazioni devono poter trovare l’orizzonte che le rende generatrici di vita, il bisogno di senso deve poter riscattare le nostre sconfitte e i nostri fallimenti, il desiderio di felicità e di bene deve poter esprimersi nell’obbedienza alla vita. Se Gesù dice di sé: “Io sono la porta” (Gv 10,9), vuol dire che è a quella porta che dobbiamo accompagnarci e quella porta attraversare. È una porta stretta per la nostra sensibilità mondana, ma prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta.

La seconda categoria è quella dell’eccedenza. L’agire di Dio è ‘eccedente’ rispetto a ciò che di lui già si sa, rispetto alle nostre attese e rispetto ai nostri giudizi, anche pii. Gesù lo mostra con la sua vita e il suo insegnamento. Posso citare due passi evangelici caratteristici a questo riguardo, tratti dal discorso della montagna dove è incastonata la proclamazione delle beatitudini secondo il Figlio dell’uomo. “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà [εὰν μὴ περισσεύσῃ] quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20); “E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario [τὶ περισσὸν ποιεῖτε]? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,47). Le espressioni, lette nel passo parallelo di Lc 6,32-35, rivelano un’altra sfumatura. Gesù domanda: rispetto a un certo comportamento, qual è la grazia che mostrate? Di quale splendore di grazia siete portatori? (Nella versione attuale il passo suona: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine [χάρις] è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. … Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,31-36). La ‘grazia’ svela appunto la radice da cui attingiamo, la grazia riporta all’adorazione dell’unico Padre, che è misericordioso con tutti e il cui amore Gesù testimonia con tutto ciò che è e che fa. Noi ci muoviamo, e già ci costa fatica, secondo il principio della reciprocità, perché sembra che l’ideale di giustizia sia il massimo a cui possiamo tendere. Gesù invece ci parla di un ‘oltre’ la giustizia, di una ricompensa che non sia tanto la paga dovuta. La giustizia di Dio è il dono della carità che racchiude tutto e tutti nella misericordia perché noi per primi abbiamo conosciuto Dio nella misericordia, come colui che perdona il nostro peccato. L’eccedenza è il superamento dell’ossessione delle relazioni simmetriche, il superamento di ogni diseguaglianza, di ogni visione ideologica e idealistica delle persone, perché offre una parola credibile alla persona concreta; riguarda la sincerità dei cuori e non semplicemente le loro azioni, tanto che Gesù sa riconoscere l’anelito dei cuori là dove nessuno l’avrebbe mai sospettato (vedi l’esempio di Matteo il pubblicano o della peccatrice nella casa di Simone). Ed è l’eccedenza a custodire integri e sani gli affetti, dal momento che è facilissimo scadere in esiti impropri con gli affetti: il legame può scadere nella dipendenza; la dedizione nella volontà di dominio; il servizio nel soddisfacimento di un proprio bisogno, ecc. L’esercizio della paternità nella chiesa non può svolgersi se non secondo il principio dell’eccedenza.

 

L’evangelizzazione reciproca

Le due categorie evangeliche del compimento e dell’eccedenza ci predispongono a raccogliere in tutta premura la richiesta che gli altri ci pongono: vogliamo esistere! Ogni persona va considerata in tre fattori costitutivi: nella sua umanità concreta, con la sua storia particolare, nel contesto di relazioni, buone e meno buone, che l’hanno intessuta e di cui vive, nel bene e nel male, tutte cose che precedono il momento dell’incontro con noi; nella sua vocazione specifica a vivere al meglio quello che è e che potrà diventare, davanti a Dio e davanti agli uomini, nel cammino che insieme possiamo intraprendere, ben attenti a favorire quello che corrisponde al suo sogno, nell’orizzonte della fede in Gesù; nel male che lo abita, che già ha condizionato le sue dinamiche, i suoi giudizi, il suo desiderare, per imparare a riconoscerlo, per non lasciarlo nel ‘non-detto’.[28] Quello che vale per la persona che ci è affidata, vale anche per noi che ce ne assumiamo la cura. Nella logica spirituale di ciò che aveva enunciato Paolo VI nella sua enciclica Evangelii nuntiandi, n. 15: «La chiesa ha sempre bisogno di essere evangelizzata, se vuole conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il vangelo». La reciproca evangelizzazione è l’espressione più immediata del contesto di fraternità nella chiesa. La stessa idea è ripresa in Evangelii gaudium n. 121: «Tutti dobbiamo lasciare che gli altri ci evangelizzino costantemente».

La vivacità e la concretezza del cammino che via via si snoda, per arrivare “fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13), mettono al riparo da tre confusioni:

1) confondere l’esito con il senso. Perché il senso non è mai nell’esito. Il senso non ha ragioni utili, ma solo ragioni vere, che però non sono immediatamente coglibili nelle contraddizioni degli eventi quotidiani e dei sentimenti che ne scaturiscono. Le ragioni vere si distinguono dalle ragioni utili perché non sono reazioni a qualcosa o a qualcuno, ma provengono da quella sincerità di cuore, quella che Gesù nel vangelo definisce: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Cercare la gloria che viene da Dio significa voler cercare solo l’aspetto ‘grazioso’ delle cose liberandosi da ogni altro vincolo. Sotto questo aspetto di ‘grazia’ le cose potrebbero benissimo essere diverse nella vita, ma non migliori. Rendersi conto di questo libera da mille rivendicazioni inutili. Detto con altre parole, nello spirito dei Padri del deserto: non vincolarti al carro del malvagio se vuoi entrare nel Giardino che hai intravisto; non cercare gratitudine da nessuno se vuoi che Dio ti riempia della sua meraviglia; non cercare concatenazioni delle cose all’infuori di quelle che ti dà la libertà della visione spirituale. Il senso oltrepassa gli esiti, ma è il senso a riempire il cuore.

2) confondere i limiti con i confini. Non esistono limiti costrittivi, ma solo confini di accesso. Non serve affannarsi nel raggiungere un ideale cercando di corrispondervi in ogni aspetto. La fatica sarebbe immane e frustrante. Invece basta scegliere un punto e scavare, scavare, fino alle sorgenti del cuore dove tutto si trova riunificato. Quel punto è commisurato su quell’unica cosa necessaria che introduce al Regno, che porta alla visione del Regno e che non si confonde con nessuna cosa, per quanto necessaria o utile. Quel punto è diverso per ciascuno e ciascuno deve poter essere accompagnato a scoprirlo. La domanda di fondo non suona: cosa devo fare per entrare nel Regno? Piuttosto: cosa devo tener presente nel mio fare perché la luce del Regno splenda e conquisti il mio cuore e renda tutto godibile?

3) confondere il peccato con l’abbandono di Dio. La Provvidenza di Dio nei nostri confronti non riguarda solo l’ispirazione e l’energia per fare il bene. Anche le condizioni di ostacolo, causate da noi con i nostri peccati o dagli altri o dagli eventi, sono rette dalla Provvidenza.  Niente impedisce a Dio di attrarci a sé; non c’è peccato che ci allontani da Lui se viene riconosciuto con umiltà. Non solo, ma non c’è evento, interiore e esteriore, che non possa essere aperto al regno di Dio. La materialità della vita, nelle sue contingenze di situazioni penose o comunque difficili, sembra giocare spesso a nostro sfavore nel realizzare quello che portiamo di grande; eppure, l’unico modo per esprimere la grandezza è quello di stare alla Provvidenza per noi nelle minime cose, in tutti gli eventi, esteriori e interiori, per far fiorire lo splendore del Regno. Niente è limite; tutto è porta di accesso. Se la realtà della vita non fosse percepita in questa eccedenza che apre sul Regno resteremmo soffocati o illusi e incapaci di vera solidarietà in umanità. In altre parole, incapaci di adorare e di vivere in letizia.

 

La vita spirituale e gli snodi fondamentali

Essere accompagnati a ‘de-centrarsi’ da noi stessi (che alla fine si risolve nel non definirsi sulla base del male che ci opprime o delle rivendicazioni che avanziamo alla vita) significa accedere alla vita secondo lo Spirito che si gioca in rapporto a tre cose:

– alla rivelazione del mistero di Dio. In primo piano non sta mai il riferimento a noi, ma a ciò che ci viene da Dio: l’intelligenza spirituale della Parola presiede alla conoscenza dei dinamismi del cuore e all’impegno nel bene per e con i fratelli;

– alla collaborazione con Dio perché si realizzi il suo sogno di stare in comunione con gli uomini. Non esiste impegno o crescita spirituale che non si riferisca alla possibilità di vivere solidali con i nostri fratelli. Di quel ‘sogno’ è intessuta la vita del Signore Gesù e di quel ‘sogno’ parlano i nostri aneliti più profondi;

– alla realizzazione della vocazione all’umanità. Nasciamo uomini, ma dobbiamo diventare umani, conforme al volere di Dio, radicati in Gesù. È l’invito a custodire e coltivare il giardino del proprio cuore come Adamo nel paradiso terrestre.

Il cammino spirituale ci riporta alla bellezza di ciò che siamo: figli di Dio, tutti allo stesso titolo, tutti invitati alla stessa mensa. Dentro quindi un contesto fraterno. Tenendo sempre presente che la vita sgorga fluente se funzionano bene questi tre snodi essenziali:

– vita fraterna e solitudine. Quando Gesù sceglie i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione suona: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. È lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,53). Non è però la fraternità a stare e a dimorare con Gesù; sono i fratelli, singolarmente presi, a stare e a dimorare con lui e proprio questo permette loro di fare fraternità. La fraternità gioca poi in senso apostolico per tutti i fratelli nel senso di radicarli sempre più nel Cristo e renderli testimoni davanti al mondo dell’amore di Gesù per tutti. Ogni tensione apostolica che non parli di quell’essere radicati in Gesù alla fine si tradurrà in attivismo, che diventerà la foglia di fico per nascondere la paura della solitudine. Ogni dinamica fraterna che non conduca a scoprirci soli con il Solo, con l’Unico, non ci libererà dalla schiavitù delle dipendenze e si tradurrà in ricerca di prestigio o di importanza presso qualcuno.

– altruismo e vita personale. Un eccesso di altruismo (idealismo) impedisce un minimo di vita personale senza cui non si può vivere in modo equilibrato, oltre le aspettative altrui e la coercizione degli eventi. Imparare a stare soli, a vivere momenti di pausa, di riposo interiore. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. La solitudine vissuta oltre il mutismo che affossa la carità e oltre il vano parlare che svia la verità.

– limiti e promessa. La vita comporta sempre un dolore, uno smarrimento, una resistenza. L’accompagnamento deve favorire l’ascolto di questo dolore, dargli spazio, fidandosi della promessa di vita che quel dolore, accettato, susciterà. La parola che arriva al cuore dell’altro (il primo altro siamo noi stessi) non può essere una parola rabbiosa, ma una parola che, essendo passata nel crogiolo della rabbia, è stata purificata dalle scorie della cronaca e delle passioni umane per accedere alla dimensione della verità, che non può mai essere una verità contro, ma per qualcuno. È la lotta per riconoscere i propri limiti, cosa che fa dire ai santi parole di verità, di cui però il nostro io spesso nemmeno vuole sentire parlare: “Beato l’uomo che conosce la sua debolezza: questa conoscenza sarà per lui fondamento e principio per tutte le cose buone e belle”; “Tutte le realtà future sarebbero fantasmi senza le debolezze di questo mondo”.[29] Noi tendiamo invece a coprire le nostre debolezze, a giustificarle o a sentircene giustificati e non a viverle come porte di accesso alla verità e alla vita, che fondamentalmente riguardano la verità dell’amore di misericordia di Dio e la vita che ne scaturisce per essere peccatori perdonati, non più ricurvi su se stessi.

È la grazia, desiderata, di un buon esercizio di paternità nella chiesa.

Elia Citterio

Fratelli Contemplativi di Gesù

www.contemplativi.it

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[1] E. Citterio, La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, pag. 214.

[2] Si veda U. LUZ, Vangelo di Matteo, Brescia 2013, Paideia, vol. 3, pag. 390-391.

[3] Giovanni Nano (Colobos) 18, in Vita e detti dei padri del deserto, Roma 1975, Città nuova, vol. I, pag. 250. Testo greco in SC 474, XI, 41, pag.157.

[4] ORIGENE, Omelie su Geremia. Introd., trad. e note a cura di L. Mortari, Roma 1995, Città nuova (collana di testi patristici,123), p. 122: omelia IX, 4.

[5] Si vedano le suggestive riflessioni di Giovanni Cesare Pagazzi, Nato dal Padre, in PAROLA SPIRITO E VITA, 1999, n. 39 (La paternità), pagg. 261-272.

[6] Les homélies catéchétiques de Théodore de Mopsueste. Reproduction phototypique du ms. Mingana syr. 561. Traduction, introduction, index par Raymond Tonneau et Robert Devreesse, Città del Vaticano 1949, Biblioteca apostolica vaticana (Studi e testi, 145), hom. XI, pp. 297-299.

[7] CIPRIANO, Trattati. Introduzione, traduzione e note a cura di Antonella Cerretani, Roma 2004, Città nuova (Testi patristici 175), La preghiera del Signore, 9, p. 152.

[8] Si veda l’edizione critica del testo di Cipriano: Saint Cyprien, L’oraison dominicale. Texte, traduction, introduction et notes par Michel Réveillaud, Paris 1964, Presses Universitaires de France, pp. 88 e 173.

[9] Qo 3,1-2. Nella versione della LXX, che Gregorio commenta, il testo suona: “Per tutto c’è un tempo e un momento opportuno per ogni cosa sotto il cielo. Tempo di partorire [generare] e tempo di morire”.

[10] GREGORIO DI NISSA, Omelie sull’Ecclesiaste, a cura di Alberto Siclari, Parma 1987, ed. Zara, Om. VI, pag. 107-108.

[11] Idem, p. 110. Gregorio riferisce la voce di Qohelet alla voce di Dio che proclama: “Io do la morte e faccio vivere” (Dt 32,39.3).

[12] S. AMBROGIO, Esposizione del vangelo secondo Luca, Roma 1978, Città Nuova (Opere esegetiche IX/I), pag. 168-169.

[13] S. AMBROGIO, Isacco o l’anima, Roma 1982, Città nuova (Opere esegetiche III), 8, 75, pag. 117.

[14] Si veda il suo commento al Padre nostro in E. CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, pag. 214.

[15] BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo. Traduzione, introduzione e note a cura di Giovanna Azzali Bernardelli, Roma 1993, Città nuova (Testi patristici, 106), I, 2, p. 87. Testo greco: SC 17bis.

[16] S. ATANASIO, Sull’incarnazione, 54 (PG 25, 192B: “il Verbo di Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio”).

[17] L’espressione ‘θεός κεκελευσμένος’ (‘ordinato a diventare dio) è di Basilio Magno, riportata da Gregorio di
Nazianzo, In laudem Basilii Magni, hom. 43, 48 (PG 36,560). L’altra espressione ‘ζῶον θεούμενον’ (‘animale che
ha ricevuto la vocazione di diventare dio’) è di Gregorio di Nazianzo, In sanctum Pascha, hom. 45, 7 (PG 36,650).
Si veda GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni. Traduzione italiana con testo a fronte, a cura di Claudio
Moreschini, Milano 2000, Bompiani (il pensiero occidentale), rispettivamente alle pagg. 1083 e 1143.

[18] Cfr. Dei Verbum, 8-10.

[19] Preti del nord est. Condizioni di vita e problemi di pastorale, a cura di A. Castegnaro, Venezia 2006, Marcianum Press. Mi riferisco all’intervento di B. Cattarinussi e D. Dal Piaz, «Una difficile identità. La condizione del prete», pagg. 33-49, in specie al paragrafo 4. Un particolare tipo di solitudine, pag. 43-46.

[20] Si vela la prolusione al convegno diocesano di Albano del 2015 di A. Semeraro, Adulti per iniziare alla fede.

[21] Si veda, per esempio, C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari 19942.

[22] C. McCarthy, La strada, Einaudi, Torino 2007, p. 144. Dal romanzo, nel 2009 il regista John Hillcoat su sceneggiatura di Joe Penhall ha tratto il film The Road.

[23] Si veda Claude DAGENS, Libera e presente. La Chiesa nella società secolarizzata, Bologna 2009, EDB, in particolare alle pagg. 46, 59, 87, 91.

[24] Come dice s. Ireneo: “Questa [la fede] l’abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa per opera dello Spirito di Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene. Alla Chiesa infatti è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura plasmata, affinché tutte le membra, partecipandone, siano vivificate; e in lei è stata deposta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, arra di incorruttibilità, conferma della nostra fede e scala della nostra salita a Dio”, Contro le eresie, III, 24,1. Nell’edizione a cura di Enzo Bellini, Milano 1981, Jaca Book, p. 295-296

[25] I Padri del deserto. Detti. Introduzione, traduzione, note di Luciana Mortari, Roma 1972, Città Nuova, p. 301.

[26] Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di Luciana Mortari, Roma 1975, Città nuova, vol. I, p. 148 (Apollo, 3).

[27] Caratteristica la preghiera quaresimale di s. Efrem che non finisce con il chiedere il dono della carità, ma quello di riconoscere i nostri peccati e non giudicare nessuno: “Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, Re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen”.

[28] Interessanti le riflessioni di Ghislain LAFONT, L’apertura del cuore oggi, in Un padre per vivere. L’esperienza della figura paterna tra istanze religiose e socio-culturali, Abbazia di Praglia 2001, il Poligrafo, pagg.247-260. L’antica pratica monastica della manifestazione dei pensieri all’anziano rispondeva a questo scopo. Lasciare il male nel non-detto significa lasciarlo prosperare.

[29] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza, Qiqajon, Comunità di Bose 1990, p. 65