Palazzo Leoni Montanari di Vicenza
7 febbraio 2017
Conferenza di p. Elia Citterio dei Fratelli Contemplativi di Gesù
Il file audio riproduce la registrazione del canto a modo di canone, sulla musica del compositore romeno Paul Costantinescu, della preghiera di Gesù (a cantare sono le clarisse di S. Agata Feltria).
Il tema delle conferenze dei vari studiosi nel percorso ideato per quest’anno dall’Istituto di Scienze Sociali “Nicolò Rezzara” di Vicenza riguarda il mondo delle emozioni. Quando sono stato invitato a partecipare all’elaborazione di questo tema in rapporto alla Filocalia dei padri orientali mi sono detto: “Questa è una vera sfida. Sembra infatti che tutta la tradizione orientale si sforzi di rinnegare le emozioni considerandole dispersive e divisorie rispetto all’integrità della persona, di cui invece ricerca l’unità di fondo”.
Tempo fa ho ascoltato una conferenza di p. Gaetano Piccolo, docente alla Università Gregoriana di Roma, sul tema degli affetti nella vita spirituale.[1] In un excursus, lungo la storia del pensiero occidentale dall’antichità fino alle moderne neuro-scienze, analizzando il conflitto, impossibile da schivare, tra ragione e cuore, tra la dimensione cognitiva e quella affettiva nell’uomo, rilevava l’insufficienza dello stesso vocabolario per definire sentimenti ed emozioni e concludeva con il sottolineare che l’equiparazione sentimenti=emozioni consacra una specie di disintegrazione dell’io. In altre parole, il processo di consapevolezza dei sentimenti coincide con l’acquisizione di una maggiore identità. Ripeteva una cosa notissima ai padri, e cioè che sono i sentimenti e non le emozioni a svelare i nostri pensieri, perché l’unità della persona si forma con la consapevolezza dei sentimenti. Dal punto di vista delle neuro-scienze, le emozioni, che costituiscono il teatro del corpo, sono ‘pubbliche’, nel senso che sono ‘registrabili’, ‘mostrabili’ attraverso una strumentazione diagnostica adeguata. Mentre i sentimenti sono ‘segreti’, noti solo al soggetto, impossibili da documentare neppure con la più sofisticata strumentazione.
Ecco, andare alla Filocalia significa trovare le vie per arrivare a questa ‘segretezza’, non tanto per venire a conoscere cosa si muova in noi, ma per scoprire quale segreto ci costituisce e ci struttura.
Se dovessi riassumere in una frase il senso del mio intervento potrei esprimermi così: rinunciare alle emozioni non significa bypassarle, ma ritornare alla luminosità di fondo del cuore in una rinnovata capacità di emozionarsi di fronte al bene, al vero e al bello. Come afferma uno degli ultimi scrittori bizantini accolti nella Filocalia: “Perciò la mente, essendo naturalmente amante del bene e del bello, brama necessariamente ciò che sotto ogni aspetto è più bello, non soltanto per possederlo, ma per essere trasfigurata in ciò che è supremamente bello, come è naturale, oltre se stessa, dal momento che la trasfigurazione che si irradia dalla mente [letteralmente: che la mente patisce] corrisponde a ciò che essa vede e a ciò di cui gode”.[2]
Nei suoi Diari (1973-1983), pubblicati in russo alla fine del 2005, a oltre vent’anni dalla morte, il famoso teologo russo emigrato negli Stati Uniti, p. Aleksandr Šmeman, scriveva: “Per questo sono autentiche e necessarie solo le parole che non ci parlano della realtà («discorso»), ma che sono esse stesse realtà: che ne sono simbolo, presenza, epifania, sacramento. La Parola di Dio. La preghiera. L’arte. Un tempo anche la teologia era fra queste parole: non semplicemente delle parole su Dio, ma parole divine, “epifania”. E continuava: “Cos’è la preghiera? È il ricordo di Dio, è la percezione della sua presenza. È la gioia nata da questa presenza. Sempre, dappertutto, in tutto”. [3]
Ecco, la tradizione orientale abbina sempre il percorso della conoscenza al percorso della preghiera. La Filocalia introduce nella scienza dei Padri e nella preghiera, perché il cuore possa ritrovare la luminosità di cui è intessuto. Conoscersi è trovare il luogo del cuore, da dove irradia la luce nella quale tutte le cose sono state create. Secondo il primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, la luce è creata il primo giorno, mentre il sole, la luna e le stelle, fonte della luce che vediamo con gli occhi fisici, sono creati solo il quarto giorno. La cosa ha fatto riflettere gli antichi rabbini, i quali hanno pensato che la luce del primo giorno fosse la luce della santità di Dio che permetteva di scorgere il mondo con uno sguardo solo. Ma quella luce fu nascosta. Il Messia renderà di nuovo capaci di quello sguardo. Ebbene, la tradizione orientale, nel suo anelito per una conoscenza integrale, per una visione d’insieme, nell’unità di ragione e passione, di Logos e Pathos, si premura proprio di accompagnare a percepire quella luce nel profondo del cuore.
Luce, che si traduce in compassione per il prossimo. Come è descritto da Dostoevskij nelle parole dello starec Zosima nel romanzo I fratelli Karamazov: “Fratelli, non abbiate paura dei peccati degli uomini, amate l’uomo anche col suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è appunto il culmine dell’amore sulla terra”.[4] Eco dell’esperienza di Isacco di Ninive: “Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone. Attraverso ciò l’immagine del Padre che è nei cieli si rivelerà in te continuamente”. Esito comunque della sua preghiera: “Metti in me la costrizione del tuo amore, perché, dietro a te, io divenga folle per il mondo. Muovi in me la compassione della tua umiltà, nella quale hai vagato per il mondo, per mezzo del vestito che hai indossato prendendo dalle nostre membra. Nella sua memoria fedele e che non viene mai meno, possa io accogliere gioioso l’umiltà della mia natura” [5].
Quella luce, secondo la tradizione romena, deriva dalla esperienza della dulceaţa lui Dumnezeu: «rădăcina bunătăţilor iasti dulceaţa lui Dumnezeu»[6], come rivela un famoso testo di Neagoe Basarab che suona: «Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio». Dulceaţa dumnezeiască rivela un’esperienza interiore specifica, quella che è maturata nel clima della tradizione esicasta che ha permeato profondamente lo spazio spirituale dell’oriente, in particolare romeno. Un uomo spirituale riuscito, oserei dire, nella tradizione romena diventa blînd (mite, mansueto, dolce), si riveste di blîndeţe, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore. È un tratto sopravvissuto a tutte le ferite della storia, forse proprio in ragione di una risposta, a livello spirituale, a tali ferite, ieri come oggi.
TRE PREMESSE.
Credo siano necessarie tre premesse, per orientare la nostra comprensione.
- Libro e contesto storico.
La spiritualità delle Chiese d’Oriente, almeno negli ultimi tre secoli, in quello che ha prodotto di più caratteristico e vivace, si ricollega in qualche modo alla Filocalia. Domandiamoci allora subito cosa sia e cosa rappresenti la Filocalia[7]. Dal greco Φιλοκαλια, letteralmente ‘amore del bello’, il termine è usato per esprimere la tensione amorosa per Dio e per tutto ciò che conduce all’unione con Lui, fonte di ogni bellezza. In generale designa una antologia di testi, come la Filocalia composta da Basilio Magno e Gregorio di Nazianzo con passi di Origene. La silloge più famosa, quella a cui noi facciamo riferimento nel nostro intervento, resta quella edita a Venezia nel 1782 da Macario di Corinto (1731-1805) con la collaborazione di Nicodemo Aghiorita (1749-1809) dal titolo: “Filocalia dei Padri neptici composta a partire dagli scritti dei padri santi e teofori nella quale, attraverso la sapienza di una vita fatta di ascesi e di contemplazione, l’intelletto è purificato, illuminato e portato alla perfezione”. Riunisce estratti e opere di 36 autori, disposti per lo più in ordine cronologico, tra il IV e il XV secolo, sul tema della conoscenza spirituale e soprattutto della preghiera del cuore e della battaglia spirituale, nel solco della tradizione esicasta in cui si riconosce in blocco l’esperienza mistica delle chiese d’oriente.[8] La pubblicazione rientrava nel più vasto programma di rinnovamento intellettuale e spirituale della nazione greca del movimento dei ‘kollyvades’, di cui Macario di Corinto e Nicodemo erano ferventi sostenitori, con il ritorno alla teologia e alla spiritualità dei Padri, nel contesto della rinnovata pratica liturgica della comunione frequente.
La vasta risonanza della Filocalia, però, nel mondo ortodosso è dovuta alla versione slavonica di Paisij Veličkovskij (1722-1794) e della sua scuola di Neamţ, in Romania, dove ben prima del 1782 ferveva il lavoro di traduzione in romeno e slavonico dei testi filocalici nel contesto di un rinnovamento della vita monastica incentrato sulla riscoperta dei Padri e della preghiera del cuore.[9] La versione di Paisij, Mosca 1793, in tre parti, comprendente 15 dei 36 autori dell’ed. greca, fu poi completata, tra gli anni 1797 e 1800, con l’aggiunta di una quarta parte, comprendente altri 9 autori dell’ed. greca e che le edizioni successive presenteranno in un unico tomo. Il suo Dobrotoljubie, noto al grande pubblico tramite i famosi “Racconti di un pellegrino russo”, è alla base della rinascita spirituale russa del sec. XIX, specie con gli starci di Optina Pustyn’, gli ispiratori dei filosofi slavofili e di scrittori come Dostoevskij.[10]
Con Paisij, che guidava una comunità di circa un migliaio di fratelli, la vita monastica torna ad essere vissuta come un ideale appassionante. La sua vera forza sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Così la Filocalia, prima che essere un libro, è l’esperienza quotidiana di una comunità di fratelli che vivono in un clima di obbedienza reciproca, da cui fiorisce l’umiltà che predispone alla pratica della preghiera incessante. In tal senso, non rappresenta soltanto il ‘deposito’ della sapienza della tradizione, ma anche il riverbero di un’esperienza che invita a condividerla. L’essenziale della Filocalia sta nel fatto che dischiude e introduce a quella ‘scienza dello spirito’, indispensabile per condurre la battaglia spirituale secondo i Padri e capace di accompagnare l’uomo nel suo cammino di perfezione in Cristo, insegnandogli a entrare nel luogo del cuore.
- Esicasmo
Come ho appena ricordato, la Filocalia, prima che essere un libro, costituisce una tradizione. Si tratta fondamentalmente dell’antica abitudine monastica di basare sui Padri, ritenuti i veri maestri della via dello spirito, la conduzione della propria battaglia interiore, assemblando a proprio ammaestramento testi ascetici e mistici attorno a temi particolari. Il tema specifico della silloge filocalica è la preghiera del cuore e l’unione della mente con Dio, tema ripreso da un filone patristico ben definito. Il filone si sviluppa a partire dai Padri dei deserti d’Egitto e di Palestina, continua nei cosiddetti Padri Sinaiti, vissuti o ricollegantisi idealmente alla spiritualità fiorita sul Sinai, per arrivare infine alla tipica tradizione del Monte Athos con il movimento esicasta dei secoli XIII e XIV. Un termine qualifica in tutta la sua estensione questa tradizione, il termine esicasmo. E una pratica di preghiera la caratterizza, la preghiera di Gesù[11]. L’esicasmo può essere definito come un sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio raggiunta attraverso la preghiera incessante. Prevede la scelta di un modo di vita appropriato (solitudine, ritiro, quiete = hesychia esteriore) e soprattutto la ricerca di una disposizione abituale dell’anima (= hesychia interiore). Questa si ottiene con la fuga da ogni genere di preoccupazioni dispersive, con l’eliminazione di ogni centro di interesse che non sia Dio; con la sobrietà (la ‘nepsis’), vale a dire esercitando una costante vigilanza sul cuore perché non si introducano pensieri cattivi, imparando a combatterli e a respingerli fin dal loro primo apparire; con la memoria continua di Dio nel senso che la vigilanza sul cuore non può che risolversi nello stare coscientemente alla presenza di Dio, memoria ottenuta con la preghiera incessante, in specie con la preghiera del cuore, che più tardi verrà chiamata ‘preghiera di Gesù’, assumendo una forma e una struttura specifica.
- Monachesimo
Non va mai dimenticato che i testi della Filocalia sono scritti per lo più da monaci per monaci. A differenza di Nicodemo l’Aghiorita, il quale voleva che tutti leggessero i testi della Filocalia nel tentativo di mettere a disposizione di tutti i tesori della tradizione, Paisij era molto più cauto. Si rendeva conto che per camminare nella via spirituale, in particolare nella preghiera, e in specie nella pratica della preghiera di Gesù, era necessaria una sperimentata guida spirituale, un regime di vita adeguato, una disciplina spirituale sperimentata. Anche se, alla fine, si convince a dare l’assenso a che i testi, che man mano traduceva per l’istruzione dei suoi discepoli, venissero pubblicati. Potrei riassumere il valore del contesto monastico per la Filocalia sottolineando l’insegnamento di Paisij che cerca di ancorare la pratica ascetica all’intelligenza spirituale, concependo il fare in funzione del contemplare, l’agire, esteriore e interiore, in funzione del vedere spirituale. Sintetizzerei in questo modo. Perché la lettura? Insieme alle fatiche ascetiche è necessario coinvolgere anche la mente, la capacità di giudizio, perché tutta la nostra vita, l’insieme della nostra condotta proceda secondo la potenza delle S. Scritture. La lettura illumina la mente e accende il desiderio di camminare nella via di Dio. Perché i Padri? Dal momento che noi, uomini passionali, non possiamo comprendere la luce delle Scritture, seguiamo i Padri ai quali, per aver avuto un cuore puro, illuminato dallo Spirito Santo, sono stati aperti i segreti del regno dei cieli, ossia le profondità della S. Scrittura. Come leggere? Non c’è alcun vantaggio se uno legge solamente nero su bianco e non si dà cura di conoscere anche la potenza di quel che legge: una lettura per la vita, insomma e non solo per esigenze o pruriti intellettuali.
UNA SPIRITUALITÀ FILOCALICA.
- A) VIAGGIO AL LUOGO DEL CUORE
UN INCONTRO RAVVICINATO.
Se mi permettete, vorrei raccontarvi una mia piccola esperienza in Romania. Nel mio primo viaggio in Romania alla scoperta degli esicasteri dove i monaci praticavano la preghiera di Gesù ero capitato a Tarcău, uno sperduto romitorio dove viveva padre Nicodim, un anziano eremita. Gli avevo posto una domanda ben specifica. Infervorato della preghiera del cuore gli avevo chiesto: “Padre, come posso imparare la preghiera del cuore?”. E lui di rimando: “Quanti anni hai?”. Rispondo: “Trentacinque”. Dopo un attimo di silenzio, continuò: “Părinte, rabdare, rabdare … Padre, pazienza, pazienza!”. Subito pensai che quella fosse una tipica risposta diplomatica per non dirmi nulla. Il fatto però sorprendente, che più mi ha impressionato, è che a distanza di anni quella semplice parola ‘rabdare’, proferita con quel tono di voce, non mi è più uscita dalle orecchie e dal cuore. E mi ha fatto capire molte più cose quella parola che non tante letture e spiegazioni che insistentemente ho poi cercato di avere in molti modi, indagando sul come si debba pregare, quale sia la tecnica appropriata, quella a me più adatta, ecc. Con questo intendo dire che la dimensione della preghiera e quindi della vita monastica (e quindi della vita cristiana) comporta una dimensione essenzialmente ‘misterica’, per usare il linguaggio degli orientali. Vale a dire, si collega a qualche cosa di vivo che dentro di noi viene continuamente sollecitato, al fatto che il Signore davvero vive nei nostri cuori, sebbene il più delle volte non lo sentiamo per niente. Ecco, la preghiera non è che il continuo ritornare al luogo della presenza del Signore nel cuore. Non si tratta semplicemente di ‘ritornare nel cuore’ inteso come un ‘ritornare in se stessi’, tanto che ‘restare in se stessi’, senza trascendere il nostro ego, sarebbe il pericolo più grave per chi prega. In effetti nasce qui l’equivoco della ‘tecnica’ della preghiera. La tecnica può al massimo insegnarci a ritornare in se stessi, ma si tratta invece di ritornare al luogo della presenza del Signore in noi stessi. L’episodio che ho narrato poc’anzi non è un semplice aneddoto, ma un’esperienza, che mi ha fatto molto pensare.
Nei testi dell’esicasmo si parla spesso di ‘preghiera pura’. Alla mia domanda, sempre nel mio viaggio in Romania, di come si debba fare per pregare in modo puro, un eremita mi ha risposto così: ” Padre, non siamo più capaci di pregare in modo puro. Era una caratteristica dei nostri Padri, i quali erano molto più santi di noi. Noi non possiamo più essere a quel livello. La preghiera pura per noi oggi è la preghiera che fa scaturire nel cuore l’amore per i fratelli”. Parlava un eremita che da più di trent’anni viveva in solitudine e raramente incontrava altre persone. Mi spiegava: “Vede, padre. Siamo in una foresta, qui passano pochissime persone, eppure il clima che respiro non è più il clima puro di un tempo. Respiro il clima del mondo di oggi, tormentato da angosce, passioni, dolori (eravamo in pieno regime comunista!). Il primo compito, il più essenziale, non è allora quello di tendere alla preghiera pura, irraggiungibile, ma di tendere ad avere il cuore pieno di amore per i fratelli. E poi scopro che non posso ottenere questo senza la preghiera”.
Dei quattro significati della parola ‘monaco’ ricordo il quarto significato, quello che, al di là di una vocazione ecclesiale specifica, mette in luce il movimento di una persona che cerca come entrare nel luogo del suo cuore. Monaco come ‘unificato’, vale a dire uno che si stacca da ogni pretesa o ricerca egoistica per essere unito a tutti i suoi fratelli, uno che è unito in se stesso perché è unito totalmente al suo Dio. Entra nel segreto della vita. Gli uomini sono animali strani, con le radici in cielo e i rami in terra, come un albero capovolto: le radici in alto, i frutti in basso. Alla coppia di simboli alto-basso, corrisponde l’altra interiore-esteriore, dentro-fuori. Ciò che viene dall’alto è ciò che è interiore, ciò che viene da dentro, dal cuore, il nostro centro vitale. Come gli orientali definiscono il cuore: il senso dei sensi.
IL CUORE COME IL SANTO DEI SANTI.
L’immagine più tradizionale dell’entrare nel luogo del cuore è quella elaborata da Gregorio Palamas (1296-1359) nella sua omelia sull’ingresso della beata Maria Vergine bambina nel tempio di Gerusalemme.[12] Immagine, che è stata ripresa nei tempi moderni da Paisij Veličkovskij a conferma dell’insegnamento della tradizione a proposito della preghiera.[13] Palamas sfrutta il dato tradizionale che la Vergine, all’età di tre anni, sia stata presentata al Sommo Sacerdote perché fosse accolta nel Santo dei Santi, che Dio riempiva con la sua Presenza e dove una volta all’anno solo il Sommo Sacerdote poteva entrare. Dice Palamas: “Essa apparve capace, per la sua estrema purezza, d’accogliere nel corpo la pienezza della deità, e non solo capace di accoglierla … ma anche capace di generare e far essere una divina familiarità per tutti gli uomini prima di lei e dopo di lei”. La Vergine è chiamata Madre della luce, Madre della preghiera, modello di vita esicasta e della preghiera incessante: “Essa sola è confine della natura creata e di quella increata e nessuno potrebbe andare verso Dio, se non attraverso di lei ed attraverso l’intermediario ch’è stato da lei generato … Scelse la vita invisibile a tutti e priva di legami, risiedendo nei penetrali del tempio, nei quali, sciolta anche da ogni vincolo materiale, rifiutata ogni relazione e superato lo stesso attaccamento al suo corpo, adattò il suo intelletto a volgersi verso se stesso, alla cura e alla preghiera incessante a Dio. E attraverso di questa, divenuta tutta di se stessa e postasi al di sopra del multiforme ammasso di ragionamenti e semplicemente di qualunque forma, costruì una nuova ed ineffabile strada verso i cieli, cioè, se così posso dire, il silenzio intellettivo”. Per arrivare a una nuova capacità di sensazioni: “Tu ci hai concesso con le sensazioni stesse di vedere l’invisibile nell’aspetto e nella forma nostra, di toccare nella materia l’immateriale e l’intangibile”.[14] Ecco i tre movimenti che compaiono descritti nella maggior parte dei testi esicasti: uno, entrare in se stessi, oltre ogni produzione mentale e ogni contenuto emotivo per essere unificati nelle proprie potenze intellettive e affettive; due, completamente intenti alla preghiera del Nome; tre, che apre al mistero dell’amore di Dio per tutte le creature avvertito con i sensi interiori dilatati. Come Dostoevskij metterà in bocca allo starec Zosima: “Giovane, non dimenticare la preghiera. Ogni volta che preghi, se la tua preghiera è sincera, in essa baluginerà un nuovo sentimento e una nuova idea che prima non conoscevi e che ti ridarà nuova forza; e capirai che la preghiera è crescita”.[15]
Il luogo del cuore è visto dalla tradizione orientale come il Santo dei Santi, il luogo della Presenza del Signore, luogo in cui entrare, lasciando ogni dispersione di tipo sensitivo e mentale, per lodare il nome del Signore, come spesso ripetono i Salmi. La domanda forse per noi, a proposito della preghiera, suonerebbe: siamo ancora capaci di lodare Dio, di ‘vedere’ la gloria del Signore venuto nel mondo e rimanere stupiti? La scoperta del luogo del cuore introduce a questa capacità di lode, allo stupore che fa rimanere in silenzio, un silenzio di pienezza e non di mancanza. La preghiera del cuore diventa come la porta di una quarta dimensione, quella attraverso la quale il cuore riceve il fuoco divino che arde e non consuma, come il fuoco del roveto ardente (cfr. Es 3, 2-3). Non è un fuoco beatificante; è un fuoco che brucia, ma lascia tracce di gioia che rende il cuore imprendibile al male, sebbene lo veda agitarsi negli abissi della coscienza. La ragione è espressa da Callisto Angelicude che si rivolge a coloro che cercano di incontrare il loro Dio: “… allora per prima cosa dobbiamo cercare di trovare il tesoro che è all’interno del nostro cuore e dobbiamo supplicare il Dio santo di riempire la nostra terra della sua misericordia”.[16]
IL PELLEGRINAGGIO VERSO IL LUOGO DEL CUORE.
Come canta un bellissimo inno, un acatisto[17], che celebra la Vergine Santissima come la madre filocalica della preghiera incessante, come iniziatrice e modello della preghiera del cuore, la garanzia più solida per una tradizione, come l’esicasmo, che ha modellato intimamente la spiritualità e la visione teologica della Chiesa ortodossa:
Come trovare riposo dai pensieri?
Madre Vergine, Santissima Vergine.
Come spezzare l’assalto congiunto delle passioni,
le tentazioni innumerevoli che ci assediano?
Renditi tu stessa per noi insegnamento agognato
capace di condurci nel cammino della spiritualizzazione.
Con esso vinceremo la nostra natura asservita,
fino alle ceneri della privazione delle passioni.
E rapiti in Te ‘Impassibilità luminosa’,
anche noi possiamo innalzare
in una lode totale e sincera
un vero e salmico: Alleluia.
Tutti i testi della Filocalia accompagnano ad arrivare a questo luogo del cuore attraverso la triplice via della purificazione, della illuminazione e della perfezione, che corrisponde al cammino della ‘deificazione’ dell’uomo, vale a dire a ritrovarci figli nel Figlio, in comunione con Dio e con i fratelli, solidali con tutte le creature. I vari testi si riferiscono o alla ‘pratica’, vale a dire al lavorio del cuore per lasciare il male e acquisire le virtù con tutte le pratiche che comportano di ascesi, mortificazione dei sensi, rinuncia alla volontà propria, osservanza dei comandamenti o alla ‘contemplazione’, vale a dire alla possibilità di innalzarsi alla visione di Dio nella luce, soprattutto tramite la preghiera del cuore, facendo esperienza dell’amore di misericordia con cui Dio viene a noi e abita in noi. Ora, al di là dei concetti, quello che i testi descrivono va compreso da dentro la tipica dinamica amorosa di persone che, affascinate l’una dall’altra, non possono vivere separate e tutto vivono in funzione dell’amore che le lega. Come anche Dante Alighieri, una volta avuto accesso alla visione di Dio, descrive nella cantica finale del Paradiso negli ultimi versi: “A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle”.[18] Come in una relazione d’amore, il cammino si snoda attraverso la purificazione dello sguardo, per cui tutte le creature e tutto della mia vita parla della storia d’amore di Dio con l’uomo, rivelazione di cui tutte le Scritture portano testimonianza; poi, attraverso l’illuminazione, si resta nell’ammirazione per Colui che è visto come il Sommo Bene, la Verità, la Bellezza, la cui realtà è percepita oltre il mondo finito e la mia storia personale, che corrisponderebbe al senso profondo e mistico delle stesse Scritture; per arrivare, attraverso il terzo stadio della perfezione, a restare come assorbito dall’amore con Dio, nello stupore della nostra piccolezza e della grandezza incommensurabile di Dio, al di là di ogni immagine e di ogni idea che ci si era fatti precedentemente, proprio come rapiti dall’amore. Il tutto vissuto, non come un movimento lineare, come se si trattasse di passare da un grado all’altro, ma come un movimento circolare, che continuamente ritorna su se stesso, raggiungendo profondità sempre più coinvolgenti perché l’insieme della nostra vita, in tutte le sue contraddizioni, si apra alla luce di Dio e la rifranga sul mondo. Nella logica dell’invocazione della preghiera: “Persevera incessantemente a gridare il Nome del Signore Gesù Cristo, affinché il cuore assorba il Signore e il Signore il cuore e i due diventino uno”.[19]
- B) LA PREGHIERA DEL CUORE
L’aspetto singolare dell’esperienza che abbiamo descritto come viaggio al luogo del cuore nelle sue tre fasi di purificazione, illuminazione, perfezione, per la tradizione esicasta, comporta un unico vissuto emotivo, all’inizio quasi irricevibile dalla nostra sensibilità. Lo esprimo con le parole dello starec Zosima: “C’è solo un modo per salvarsi: renditi responsabile di tutti i peccati degli uomini. È proprio così, amico mio, giacché non appena ti considererai sinceramente colpevole di tutto e per tutti, ti accorgerai immediatamente che quella è la verità: tu sei davvero colpevole per tutti e per tutto. Invece, riversando la tua indolenza e la tua impotenza sugli altri, finirai per condividere l’orgoglio di Satana e mormorerai contro Dio”. La preghiera di Gesù invita a prendere coscienza di questo: ‘abbi pietà di me, peccatore’! Ma lo fa all’interno di una rivelazione, nella fede cioè che il Signore ci ha fatto conoscere il suo amore. Ecco perché la formula di preghiera comincia: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio”, vale a dire posso riconoscere il mio essere peccatore solo stando davanti a colui che è tutto misericordia per me, dal momento che Gesù, il Figlio di Dio, è inviato nel mondo a mostrare la grandezza dell’amore del Padre per noi, riscattandoci da ogni peccato.
FAR DISCENDERE LA MENTE NEL CUORE.
Rispetto alla preghiera, l’affermazione più singolare della tradizione filocalica è che la mente deve discendere nel cuore. In tal senso dovrei intitolare il mio paragrafo la preghiera nel cuore, piuttosto che la preghiera del cuore. La prima cosa da sottolineare è che nella tradizione orientale l’attività intellettiva non è appannaggio specifico di una facoltà, ma di tutta la persona. Siccome si tratta di testi antichi e medievali, vale la pena di segnalare che tra un medievale e un moderno salta agli occhi subito la differenza di sensibilità. Il moderno separa l’intelligenza dal registro affettivo e riferisce separatamente alla testa l’intelligenza e al cuore gli affetti, mentre per il medievale l’intelligenza intuitiva e razionale è unica ed è riferita al cuore.[20] Così, la nozione di amore non è rapportata all’ordine dell’affettività, ma è concepito come uno strumento di intellezione del divino, delle realtà spirituali, dell’ordine voluto da Dio e il cuore è l’organo in cui si esercita l’insieme delle facoltà spirituali che sono indissociabilmente quelle dell’intelletto e quelle degli affetti. Nell’esperienza cristiana il cuore è fondamentalmente il luogo in cui lo Spirito Santo penetra e spira la carità, permettendo all’uomo la comunicazione con Dio. Come suggerisce la Sedakova, poetessa ed erede a Mosca di Sergej Averincev, in un suo saggio sulla percezione ortodossa, il cuore non è semplicemente il punto più interiore o profondo della persona, ma il luogo aperto di confine per l’incontro con l’Altro, il punto di apertura della nostra struttura psichica.[21]
Nell’invito a far discendere la mente nel cuore sono supposti due elementi precisi: la direzione del movimento, la discesa e l’unificazione delle potenze, a cui segue l’apparizione della luce. Ciò che intendo mettere in rilievo è il fatto che il movimento di discesa non risponde solo alla descrizione di una tecnica di attenzione o di concentrazione[22], preparatoria alla preghiera vera e propria, ma suggerisce come un percorso di realizzazione della persona. In effetti, le condizioni spirituali richieste all’orante, nei testi esicasti, esposte nella premessa alla formulazione dei vari metodi di preghiera, parlano sempre di obbedienza, abbandono del mondo, libertà dagli affanni della vita, umiltà, ecc. L’uomo, che è disperso all’esterno nei suoi sensi, diviso in se stesso e contraddittorio nelle sue tensioni, arroccato nell’affermazione di sé nei confronti degli altri, non può raggiungere l’unità se non ‘scendendo’. Esattamente sull’esempio del Cristo che, con l’incarnazione, si abbassa e sale poi sulla croce, in realtà scendendo fino a perdere ogni figura di bellezza, consegnato agli uomini che ne fanno quello che vogliono, ma facendo così risplendere l’amore di Dio per gli uomini, nell’intimità più assoluta con il Padre e lo Spirito Santo. Il movimento del discendere allude alla realizzazione dell’uomo come essere di comunione, ritrovando la somiglianza con Dio come uomo spirituale, in antitesi alla ricerca di sé incondizionata che caratterizza invece l’uomo carnale. Lo ‘scendere’ suppone che l’uomo possa collocarsi là dove l’amore di Dio può splendere in tutta la sua luminosità e lo Spirito agire in tutta la sua potenza unitiva.
Il primo passo di questo ‘scendere’ è il porre fine a tutti i nostri ragionamenti, cioè non basare più il proprio cammino sulla base dei propri ragionamenti ma affidarsi alla verità della parola di Dio e alla scienza dei Padri che in quella parola hanno scoperto le radici del cuore; e il secondo è quello di abbandonare ogni forma di rivendicazione che ostacola l’esperienza della comunione. Si tratta cioè di purificare la dimensione cognitiva e affettiva del nostro essere fino a farlo risplendere nella sua integrità di fondo. Integrità che si rivela come unificazione dell’energia intellettiva e volitiva nel cuore e si esprime come coscienza della consustanzialità, in Cristo, di tutti gli uomini. Di qui la luce di Dio, che non è semplicemente luce conoscitiva, ma luce di vita (cf. Gv 1,3) che sorge nel cuore e rende possibile, tramite partecipazione alle energie dello Spirito Santo, l’assunzione della persona nei segreti dell’amore di Dio: il cuore cosciente si trasforma in cuore ecclesiale.[23] L’espressione più celebrativa di questo cammino si trova nello scritto di Callisto Angelicude, L’unione divina e la vita contemplativa, testo che, nonostante il suo linguaggio neoplatonico, è stato recepito dalla Filocalia.
IL PENTIMENTO E LA MITEZZA.
Nei testi esicasti, in genere, due sono gli accessi che introducono e rendono effettiva la discesa della mente nel cuore per l’insieme della persona: l’abbandono della volontà propria e la mitezza. Nell’Epistola a un igumeno[24] di Giovanni l’eremita leggiamo: “Se uno subisce e sopporta quello che non vuole, ciò gli è considerato come una crocifissione ed egli diventa figlio della risurrezione e della vita eterna. … e non chiedete nient’altro, se non misericordia al Signore e ciò vi basti. Chiedendo misericordia in un cuore umile e degno di compassione, chiedete”.[25] L’abbandono della volontà propria e la mitezza sono interrelati strettamente e comportano la rinuncia a ogni ragionamento a livello mentale e a ogni forma di rivendicazione a livello affettivo. In sostanza, si tratta di passare dall’essere psichico all’essere spirituale. Non per nulla, la finale di molti testi esicasti, dopo aver parlato della sobrietà e della preghiera, ricorda: “Nessun fatto importuno o molesto, che tutti i giorni può capitare, ci porterà danno né ci causerà angustia finché, sapendo (che ciò è inevitabile), terremo sempre ben in mente questo pensiero. Perciò dice il divino apostolo Paolo: ‘provo diletto nelle infermità, negli oltraggi, nelle necessità’ (2Cor 12,10); ‘e tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati’ (2 Tm 3,12), ‘a lui sia gloria in eterno. Amen!’ (Rm 11,36)”.[26]
Lo conferma Callisto Angelicude: “Infatti non troveresti altrove, se tu lo cercassi, un intelletto elevato, che guarda in alto e contempla la verità, se non in un cuore che ha ricevuto la pace di Cristo e che è tutto trasformato quanto allo stato di una vita che effonde pace”.[27]
Se la discesa comporta questa totale rinuncia all’amor proprio sia in termini intellettivi che affettivi, allora si comprende come l’unificazione delle potenze non avvenga per una intensità di concentrazione, ma per l’infuocata sincerità del pentimento. Proprio come dice Angelicude: “Il pentimento è effettivamente il principio e la vivificazione dei sensi interiori, l’esito in cui avviene la conoscenza di Dio liberata dalle tenebre”.[28] Detto con le parole di Callisto e Ignazio Xanthopouloi, i quali citano Isaia di Scete: “Tre sono le virtù che illuminano sempre la mente: il non conoscere la malvagità di nessun uomo, il sopportare senza turbamento quello che accade e il beneficare quelli che fanno del male. Queste tre virtù generano altre tre virtù a loro superiori: il non conoscere la malvagità di nessun uomo genera l’amore, il sopportare senza turbamento quello che accade genera la mitezza e il beneficare quelli che fanno del male procura la pace”.[29]
Perché la preghiera non sboccia in conseguenza della capacità di usare una tecnica appropriata, ma unicamente in conseguenza della capacità di essere obbedienti ed umili, frutti appunto del pentimento. Parlo dell’obbedienza nel senso di quell’espressione così cara alla tradizione: “Ho visto il mio fratello, ho visto il mio Signore”.[30] Paisij la ripeteva spesso e diceva che su di essa era fondata l’organizzazione interiore di una Comunità, che voglia vivere fino in fondo il mistero di comunione con Dio e con i fratelli. La santità non è una perfezione che si guadagna; la santità è la capacità di vivere in sintonia con Qualcuno. Ora, a partire dalla Parola di Dio come dalla parola dei Padri che commentano quella Parola, la luce che spunta in cuore e che ci mostra poco a poco tutte le cose non proviene che da questo: quella Parola rivela, fa sentire una comunione. La santità rivela appunto la comunione tra due persone. E la vita spirituale potrebbe essere definita semplicemente così: ‘mettere Qualcuno vivente in comunione con qualcuno vivo’, Qualcuno con la ‘Q’ maiuscola con qualcuno con la ‘q’ minuscola. Ma è possibile accedere al mistero della comunione senza passare attraverso il pentimento? Con l’insistenza sul pentimento, la tradizione esicasta custodisce il meglio dell’insegnamento patristico sulla preghiera. Il pentimento porta l’anima a trovarsi dentro il mistero. La concentrazione di cui parlano i testi spirituali a proposito della pratica della preghiera non procede dallo sforzo di introspezione psicologica o di attenzione mentale; deriva dalla intensità del pentimento. La concentrazione, l’attenzione e quindi il senso della presenza del Signore è direttamente proporzionale al pentimento, e non solo al pentimento rispetto ai propri peccati, ma alla coscienza del proprio stato di peccatori. L’intensità della nostra invocazione nella preghiera risulta direttamente proporzionale alla visione interiore di quanto il nostro cuore sia asservito al e dal peccato, alle e dalle ‘passioni’. Più è vera la coscienza del nostro essere peccatori davanti a Dio, più bruciante si fa il pentimento e più vivo l’amore a Dio e al prossimo. In realtà, non sono i nostri sforzi a vincere il male; è la forza del pentimento a bruciare le nostre passioni ed ogni pensiero cattivo.[31] Qui sta tutta l’essenza della preghiera di Gesù. In questo senso va anche compresa l’affermazione patristica più volte ripetuta nella Filocalia che la preghiera, strutturata sull’attenzione e sul pentimento, costituisce l’attività propria di un uomo spirituale.
- C) LA SENSAZIONE DEL REGNO
Il realismo di questo cammino spirituale è giustificato sulla base dell’esperienza di uomini che non cercano di spiegare, ma di rendere compartecipi della grazia goduta. I testi parlano spesso di senso dell’anima, senso del cuore, di sensazione, di percezione, di esperienza, tutti termini che riferiscono la verità e la realtà di un cammino di vita. In una parola si tratta di imparare a sperimentare quel ‘regno di Dio’ che è dentro di noi, come generalmente i padri antichi traducono l’espressione del vangelo di Luca, che invece noi moderni rendiamo con: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17,21). Il riferimento scritturistico sempre presente è il racconto della creazione dell’uomo come si legge nel libro della Genesi: “Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza»” (Gn 1,26). La via spirituale conduce l’uomo ad assumere man mano quella ‘somiglianza’ con Dio in modo da vivere la propria umanità nelle potenzialità che la strutturano.
La somiglianza è strutturata sul principio di eccedenza del vangelo, che non presenta semplicemente ciò che è giusto, ma ciò che è bello davanti a Dio, ciò che lo rivela presente nel mondo. Quello a cui i testi filocalici rimandano sono le beatitudini del regno che Gesù annuncia e che potremmo interpretare così: se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato; se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti; se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse; se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio; se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza; se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini, allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini perché tutti conoscessero quell’amore.
L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli che in lui si fa manifesto e partecipabile. Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno. Ciò a cui porta una lettura attenta dei testi filocalici è di non considerare la rivelazione evangelica come un ideale di perfezione da perseguire, di fatto però irraggiungibile e perciò ininfluente sulle energie di vita dei cuori. Forse deriva da qui la sensazione, fastidiosa per dei credenti, che la sequela del Signore ci lascia piuttosto indifferenti quanto alle energie del cuore, come non ci fossimo più premurati di cogliere le beatitudini come porte di accesso al mistero di Dio che viene a noi e al mistero dei nostri cuori quanto agli aneliti che li attraversano.
Decisivo in questo cammino l’insorgere di una nuova sensazione, di una nuova capacità di sentimento. Mi rifaccio di nuovo alle parole dello starec Zosima nel romanzo di Dostoevskij: “Molte cose sulla terra ci sono nascoste, ma in compenso ci è stato donato un misterioso, recondito senso del nostro vivido legame con un altro mondo, un mondo superiore, celeste, e le radici dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti non sono qui, ma in altri mondi. Ecco perché i filosofi asseriscono che è impossibile concepire l’essenza delle cose sulla terra. Dio prese i semi da altri mondi e li seminò su questa terra, il suo giardino crebbe e tutto quello che poteva germogliare germogliò, ma ciò che è cresciuto vive ed è vivo esclusivamente in virtù di quel senso di contatto che avverte con gli altri mondi misteriosi. Se questo senso si indebolisce o scompare in te, morirà anche ciò che è cresciuto in te. Allora diventerai indifferente alla vita e comincerai persino a odiarla. Ecco quello che penso”.[32] I monaci russi, a cui Dostoevskij pensa, non avrebbero espresso le cose in questo modo, ma la sostanza di ciò che viene annunciato dallo starec Zosima è questa: se non si vive nella sensazione del Regno che è dentro di noi, che è venuto a noi nella persona di Gesù, la vita resta temibile.
L’autore, nella Filocalia, che sembra svelare questa dimensione di esperienzialità più degli altri è Diadoco di Fotica, un autore del V secolo.[33] Riporto la sua testimonianza:
“Conosco uno che ama talmente Dio, benché gema di non amarlo come vorrebbe, che la sua anima vive incessantemente di un desiderio così ardente da volere che Dio sia glorificato in lui, mentre rispetto a se stesso è come se non esistesse. Quest’uomo non si ritiene nulla davvero, anche quando riceve lodi dagli altri. Nel suo grande desiderio di umiltà, non pensa affatto alla sua dignità, ma presta il servizio divino come fanno di norma i sacerdoti. Nella sua profonda disposizione interiore di amore per Dio, cela la memoria della sua dignità nell’abisso del suo amore per Dio, seppellendovi la gloria che ne avrebbe in uno spirito di umiltà per apparire sempre ai propri occhi e nel suo giudizio solo come un servo inutile, come se la sua dignità gli fosse estranea per il desiderio di abbassamento che lo muove. Ebbene, così dovremmo fare anche noi, fuggire ogni onore, ogni gloria mondana, per l’eccesso dell’amore di colui che tanto ci ha amati.
Chi ama Dio nel sentimento del cuore, costui è stato da lui conosciuto (cfr. 1Cor 8,3). In effetti, nella misura in cui uno riceve l’amore di Dio nell’intimo dell’anima, di tanto rimane preso nell’amore di Dio. È la ragione per cui un tale uomo si trova come completamente immerso nel desiderio appassionato della illuminazione che viene dalla conoscenza fino a percepirlo fisicamente fin nelle sue ossa. Non si riconosce nemmeno più in se stesso, ma è totalmente trasfigurato dall’amore di Dio. Un uomo così è ancora in questa vita, ma in realtà non c’è più; continua ad abitare nel suo corpo, ma nella tensione dell’anima continuamente emigra verso Dio per mezzo dell’amore. Senza mai venir meno, ormai, avendo il cuore che brucia del fuoco dell’amore, resta incollato a Dio con un desiderio irresistibile, come strappato una volta per tutte all’amore di sé per mezzo dell’amore di Dio. Come dice l’apostolo: “Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi” (2Cor 5,13)”.[34]
Meno si cerca la gloria per sé, più si vede la gloria di Dio, che è amore per noi. Così, a livello del nostro sentire interiore, più l’uomo si disappropria di sé, più si riempie di Dio, con la conseguenza straordinaria che riempiendosi di Dio resta assunto nel Suo amore per tutti. A questo punto, l’uomo spirituale non è più accentrato su di sé ma acquisisce una capacità di ‘simpatia’, di benevolenza, per tutto e per tutti, ritrovandosi rigenerato nei suoi sentimenti più profondi. Ha la sensazione del regno di Dio che viene. Negli altri impariamo a riconoscere quello stesso Spirito che inabita i nostri cuori. Tale riconoscimento, che espande la nostra coscienza, fa sì che l’altro acquisti l’identità che gli è propria, emerga con il suo vero sé e non come artefatta estensione di noi stessi, un vero inoltrarsi nel mistero dell’umanità come comunione. Come lo stesso Diadoco sottolinea: “Quando uno comincia a sentire intimamente e in sovrabbondanza l’amore di Dio, allora comincia anche ad amare il prossimo con il sentimento interiore dello spirito. Di quell’amore parlano tutte le Scritture. Difatti l’amicizia secondo la carne si dissolve facilmente troppo presto, al minimo pretesto; non è vincolata al sentimento dello spirito. Perciò, se anche capitasse che un’irritazione si impadronisse dell’anima mossa da Dio, essa non scioglierebbe il legame dell’amore. Infiammandosi di nuovo al bene tramite il calore dell’amore di Dio, si richiama rapidamente e con grande gioia all’amore del prossimo, avesse anche subito da parte di qualcuno insolenze o danni. Nella dolcezza di Dio, infatti, consuma completamente l’amarezza della contesa”.[35]
Forse, per noi l’insegnamento più immediato che ci riguarda, nell’aprirci alla Filocalia, è l’invito ad innestare la tensione contemplativa nell’esperienza della fede. Siamo troppo abituati a ridurre i comandamenti alla pratica del bene senza renderci conto che il bene non è lo scopo dell’agire. Osservare i comandamenti significa viverli in funzione della gloria di Dio, vale a dire in funzione della rivelazione al nostro cuore del volto di Dio e dello splendore delle cose, di tutte le creature, dei nostri fratelli. Il fare è in funzione del vedere. E il vedere ha a che fare con la vita del cuore, la cui attività specifica è la ‘memoria’ di Dio, la preghiera come esperienza di comunione.
CONCLUSIONE
Ritorno a quello che dicevo all’inizio. Tutta la tradizione orientale mira a produrre la consapevolezza di sé, non guidando a padroneggiare il proprio vissuto emotivo, ma oltrepassandolo e indicando come riconoscere i sentimenti che ci agitano (che i padri definiscono passioni: riconoscere un pensiero significa vedere la radice di sentimento che lo provoca) e arrivare a quel luogo del cuore dove scoprire la radice di tutti i sentimenti, là dove pescano le nostre energie vitali. Il cammino si muove verso il raggiungimento dell’unificazione dell’essere (noi diremmo oggi: la realizzazione di sé), unificazione che avviene sulla linea di confine (che non è mai linea di frontiera che impedisce, ma linea di confine aperto) del visibile e dell’invisibile, del temporale e dell’eterno. L’aspetto straordinario è dato dal fatto che l’uomo si ritrova perfettamente trascendendosi, acconsentendo a quell’anelito di libertà che scopre come libertà donata per amare ed essere amato. La tensione all’intelligenza comporta il raccordo al mistero dell’amore.
I testi presenti nella Filocalia, dal punto di vista storico, non vanno oltre il medioevo. Tuttavia, al di là del linguaggio ostico alle orecchie di noi moderni, il cammino che questi nostri fratelli più sperimentati hanno intrapreso e che ci descrivono riguarda la possibilità di riuscire a prendere possesso di ciò che ci appartiene ma di cui spesso siamo all’oscuro: il regno di Dio è dentro di voi! Il punto di trascendimento dell’uomo non è che il regalo dell’umanità di quel Figlio nato, morto e risorto per noi, con il dono del suo Spirito che ci attira in quel processo di rivelazione in atto nel mondo: vivere l’umanità come una presenza donata, segno della Presenza che riempie del suo amore tutte le cose. Forse, la resistenza più grande a questa rivelazione in atto non è il male che imperversa nel mondo (il mondo non è che lo spazio dove far valere l’amore proprio là dove è più calpestato) ma l’inconsistenza della nostra fede che non sa più raccordare gli aneliti ai cammini, che non crede più alla possibilità di gustare nella propria umanità il dono della vita, capace di oltrepassare la morte, proprio quello che la fede in Gesù ci svela e che la Chiesa è chiamata a custodire.
Come dice una bella poesia di una autrice romena di cui ho scordato il nome:
Il luogo del nostro cuore? Chi mai lo conosce?
Quanti per esso pregano?
Non certo là ci conduce il vortice dei pensieri …
Il luogo del nostro cuore in Cielo dimora
e racchiude la dolce Luce di Colui che è immortale.
A pezzi vanno gli aspri abissi, in ogni uomo.
Sui monti dell’anima innevati di maledizioni
arde il fiore delle meraviglie – il Roveto Ardente –
che spazio e tempo in cenere riduce.
Signore, verso il luogo del nostro cuore? Del cuore
i passi di preghiera, spossata dal cammino,
là dove alfine la mente si desta chiara
nel meriggio della Tua Eternità.
E termino con una preghiera di Isacco di Ninive:
O Dio, rendimi degno
di comprendere il mistero del tuo amore
raffigurato nella tua economia riguardo al mondo sensibile,
nelle opere della tua creazione
e nel mistero dell’uccisione del tuo Amato.[36]
Per quanto il discorso dei padri sembri rivolto all’individuo, l’esperienza considerata è profondamente ecclesiale, comunionale: l’uomo, nella fede in Gesù, si fa solidale con i suoi fratelli, con tutte le creature, riscattando tutta la sua storia personale, perché unito al Dio che è Amore. È l’esperienza dell’umanità come vocazione alla comunione.
[1] Si può ascoltare in https://youtu.be/9jRrwpMYTgE
[2] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, n. 63, in La Filocalia, Torino 1987, Gribaudi, vol. IV, p. 445: “Ma poiché l’intelletto [noi oggi diremmo: l’anima o la mente] è per natura amante del bello, occorre brami in ogni modo ciò che è migliore, non solo per fruirne, ma anche per subire quella trasformazione in meglio che, com’è naturale, oltrepassa l’intelletto, in quanto, come è stato detto, l’intelletto subisce la trasformazione corrispondente a ciò che vede e a ciò che gode”. Si tratta di Callisto Angelicude, guida del monastero da lui fondato a Melenikon, odierna Melnik, in Bulgaria, dedicato alla Madre di Dio ‘del rifugio’ (Kataphygion), morto verso la fine del sec. XIV. Anche nella nostra tradizione latina, da più parti, si approfondisce il rapporto tra sentimenti/emozioni e conoscenza per la vita spirituale. Si veda, per esempio, Gianluca ZURRA, “I nostri sensi illumina”. Coscienza, affetti e intelligenza spirituale, Città Nuova, Roma 2009.
[3] Padre Aleksandr Šmeman nasce nel 1921 a Revel’ (l’attuale Tallinn), in una famiglia russa con ascendenti tedeschi, che poco dopo emigra in Francia. A Parigi studia all’Istituto di teologia s. Sergio e nel 1943 sposa Ul’jana Osorgina, appartenente a una famiglia russa tradizionale e molto religiosa. Ordinato sacerdote nel 1946, si trasferisce a New York nel 1951 per insegnare al Seminario teologico san Vladimir, seguendo padre Georgij Florovskij che vi si era recato due anni prima. La sua vita sarà completamente dedicata all’insegnamento e al ministero sacerdotale. Muore il 13 dicembre 1983. In italiano è apparsa La Grande Quaresima. Ascesi e liturgia nella Chiesa ortodossa, Genova 1986, Marietti. L’edizione completa dei suoi Diari è l’edizione di Mosca: Dnevniki, 1973-1983, Moskva 2005, Russkij put, pp. 720. Nell’edizione del testo russo: p. 22, venerdì, 6 aprile 1973.
[4] Il passo si trova nella parte seconda, libro VI: un monaco russo, par. III,G. Dove si parla della preghiera, dell’amore e del contatto con altri mondi.
[5] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza. Antologia, a cura di Sabino Chialà, Qiqajon, Bose 1999, p. 232, 203. Isacco di Ninive o il Siro non è un autore presente nella Filocalia, anche se molti autori della Filocalia lo citano spessissimo come il testimone per eccellenza della esperienza dello Spirito, tanto più che negli anni immediatamente precedenti l’edizione greca della Filocalia era stata pubblicata la versione greca della sua opera.
[6] In romeno: Învăţăturile lui Neagoe Basarab către fiul său Theodosie. Texte ales şi stabilit de Florica Moisil şi Dan Zamfirescu, traducerea originalului slavon G. Mihăilă, repere istorico-literare alcătuite în redacţie de Andrei Rusu, Minerva, Bucureşti 1984. In italiano: Come vivere e praticare l’esichia. Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio. Traduzione, studio introduttivo e note a cura di Adriana Mitescu, Bulzoni (biblioteca di cultura, 480), Roma 1993. Nell’edizione romena citata, p. 125, in quella italiana, p. 69. Il passo è tratto dal cap. V, “Discorso sul timore e l’amore di Dio”, conservato solo nella stesura romena.
[7] Cfr. Kallistos WARE, Philocalie, DS 12 (1984) 1336-1352; Antonios-Aimilios N. TACHIAOS, La creazione della Filocalia e il suo influsso spirituale nel mondo greco e slavo in N. KAUTCHTSCHISCHWILI, G. M. PROCHOROV, F. VON LILIENFELD E AA.VV., Nil Sorskij e l’esicasmo, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1995, p. 227-249.
[8] Si vedano i miei La fisionomia spirituale di Nicodemo Aghiorita, in AA.VV., Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia, Qiqajon, Bose 2001, p. 103-131; Nicodemo Aghiorita, in La théologie bizantine et sa tradition (XIII-XIX s.), t. II, a cura di C.C. e V. Conticello, Brepols Publishers (Corpus Christianorum), Turnhout 2002, p.905-978; La Philocalie et ses versions, p. 999-1021. Quanto all’edizione italiana della Filocalia, che segue quella greca, gli autori sono così suddivisi. Vol I: Antonio il Grande, Isaia Anacoreta, Evagrio Monaco, Cassiano il Romano, Marco l’Asceta, Esichio presbitero, Nilo asceta, Diadoco di Fotica, Giovanni Carpazio, Teodoro di Edessa; vol. II: Massimo Confessore, Talassio Libico, Giovanni Damasceno, Teognosto Alessandrino, Filoteo Sinaita, Elia Presbitero, Teofane Monaco; vol. III: Pietro Damasceno, Macario Egiziano, Simeone il Nuovo Teologo, Niceta Stethatos, Teolepto di Filadelfia, Nicefono Monaco, Gregorio Sinaita; vol. IV: Gregorio Palamas, Callisto e Ignazio Xanthopouli, Patriarca Callisto, Callisto Telicoudes, Callisto Cataphugiota, Simeone di Tessalonica, Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio Sinaita.
[9] Su Paisij Veličkovskij e il suo movimento di rinnovamento nella Chiesa ortodossa sia in Romania che in Russia si vedano PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets. Introduzione, traduzione e note a cura della comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, Scritti monastici, Abbazia di Praglia 1988; E. CITTERIO, La scuola filocalica di Paisij Veličkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto, in T. SPIDLIK, K. WARE E AA.VV., “Amore del bello. Studi sulla Filocalia”, Qiqajon, Bose 1991, 179-207; idem, La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità in N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS e AA.VV., “Paisij, lo starec”, Qiqajon, Bose 1997, 55-82; idem, L’esperienza monastica di Paisij Velickovskij. La fecondità della sua eredità: una santità come fermento di umanità, in Il monachesimo tra eredità e aperture, a cura di Maciej BIELAWSKI e Daniel HOMBERGEN, Studia anselmiana, Roma 2004, 459-469.
[10] Ecco le edizioni della Filocalia. In greco. Venezia 1782, in-folio di XVI+1207 pagine a due colonne; 2° ed. Atene 1893, in due tomi, con l’aggiunta dei capitoli 15-83, attribuiti al patriarca Callisto; 3° ed. Atene 1957-1963, in 5 tomi; 4° ed. Atene 1974-1976, in 5 tomi. In slavonico (a cura di Paisij Veličkovskij): Dobrotoljubie, Mosca 1793, in-folio di 721 pagine, in tre parti, comprendente 15 dei 36 autori dell’ed. greca. Tra gli anni 1797 e 1800 fu stampata l’aggiunta di una quarta parte, comprendente altri 9 autori. Le edizioni successive presentano in un unico tomo le quattro parti: 2° ed. 1822, 3° 1832, 4° 1840, 5° 1851, 6° 1857. Nel 1990, a Bucarest, è stata ristampata l’editio princeps del 1793 più la quarta parte, in riproduzione anastatica, in-folio di 1187 pagine, a cura di Dan Zamfirescu. In russo (a cura di Teofane il Recluso): Dobrotoljubie, Mosca 1877-1889, in 5 voll; ristampa Jordanville, New York 1963-1966. Altre due ristampe sono uscite: una a Parigi nel 1988 e una alla Lavra della Trinità di san Sergio a Sergiev Posad nel 1992. In romeno (a cura di Dumitru Stăniloae): Filocalia, Sibiu 1947-1948, voll. 1-4; Bucarest 1976-1981, voll. 5-10; Roman 1990, vol. 11; Bucarest 1991, vol. 12; Filocalia, a cura di Doina Uricariu, con uno studio introduttivo di Virgil Cândea, 2 voll., Universalia, New York-Bucureşti 2001. Chiamata ‘Filocalia de la Prodromul’ per l’iniziativa dei monaci romeni del monastero athonita di raccogliere le antiche versioni romene dei testi filocalici. Il lavoro di trascrizione dei testi, dattilografato e riunito in un unico tomo voluminoso di oltre 1600 pagine, fu concluso nel 1922. L’edizione attuale, in due volumi, ripresenta quel tomo. I testi coprono tutta la Filocalia greca del 1782 con l’aggiunta di alcuni testi: Vita di s. Nifon di Costantinopoli (estratti), Dimitri di Rostov (estratti dal titolo: Dottrina spirituale dell’uomo interiore), Basilio di Poiana Mărului (Introduzione a Filoteo Sinaita, Introduzione a Gregorio Sinaita), Paisij Veličkovskij (Sulla preghiera di Gesù), Giovanni Crisostomo (brani dalle lettere ai monaci), Nil Sorskij (la sua opera e l’introduzione ai suoi scritti di Basilio di Poiana Mărului), Giovanni di Kronštad (alcuni pensieri ). Già prima dell’edizione greca della Filocalia (Venezia 1782) e dell’edizione slavonica di Paisij (Dobrotoljubie, Mosca 1793), i romeni potevano disporre di una Filocalia romena detta ‘Filocalia de la Dragomirna’ fin dal 1769 (ms. rom. 2597 della B.A.R.), redatta dal noto copista Rafail di Dragomirna, dove nel 1763 si era installata la comunità paisiana proveniente dall’Athos, comprendente diversi autori della stessa Filocalia greca più le Introduzioni di Basilio di Poiana Mărului a Gregorio Sinaita e a Filoteo Sinaita nonché l’opera di Nil Sorskij (1433-1508). In inglese (a cura di G.E.H. Palmer, Philip Sherrard, Kallistos Ware): Philokalia, London & Boston 1979-1995, voll. 1-4 (vol. 5 in preparazione). In francese (a cura di B. Bobrinskoy, tr. di Jacques Touraille ) : Philocalie, Bellefontaine 1979-1991, fasc. 1-11. Una ristampa in due tomi a cura di O. Clément è uscita a Parigi nel 1995. In italiano (a cura di M. Benedetta Artioli e M. Francesca Lovato): Filocalia, Torino 1982-1987, in 4 voll. In greco moderno (a cura di Ant. G. Galitis ) : Φιλοκαλια, Atene 1984-1987, in 4 voll. Edizioni parziali: l’eccellente scelta di testi a cura di J. Gouillard, Petite philocalie de la prière du coeur, Parigi 1953, ha conosciuto più edizioni in varie lingue, come tedesco, spagnolo, italiano, arabo.
[11] Una messa a punto delle varie questioni inerenti all’argomento: A. RIGO, a cura, Mistici bizantini, Einaudi, Torino 2008, Introduzione, XI-XCVI (in seguito RIGO). Si vedano anche i suoi “La preghiera di Gesù”, PAROLA SPIRITO E VITA 25 (1992) 245-291; I PADRI ESICASTI. L’amore della quiete. L’esicasmo bizantino tra il XIII e XV secolo, Qiqajon, Bose 1993.
[12] GREGORIO PALAMAS, Che cos’è l’Ortodossia. Capitoli, scritti ascetici, lettere, omelie, Bompiani, Milano 2006, Omelia 53, pagg. 1502-1534.
[13] Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, Tipografia centrală, vol. II, Chişinău 1999, pp. 126-161: Composizione sulla preghiera della mente.
[14] Gregorio Palamas, Omelia 53, passim.
[15] I Fratelli Karamazov, parte seconda, libro VI: un monaco russo, par. III, G. Dove si parla della preghiera, dell’amore e del contatto con altri mondi.
[16] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, n. 83, in La Filocalia, Gribaudi, Torino 1987, vol. IV, p. 466. Il tesoro è lo Spirito e il Verbo ricevuti al battesimo, che scopriamo con il ravvivare il nostro dialogo con il Verbo nello Spirito attraverso la preghiera. L’autore di riferimento per la tradizione a questo proposito è Marco l’Asceta, con la sua opera Il battesimo, che però non è stata inserita nella Filocalia, mentre sono invece riportati i suoi La legge spirituale e A quelli che si credono giustificati. Il testo sul battesimo si può leggere in MARCO L’ASCETA, Discorsi sulla vita cristiana. Tre opuscoli spirituali, Gribaudi (La biblioteca della Filocalia), Torino 1986.
[17] L’autore merita un cenno tutto particolare. Sandu Tudor (Alexandru Teodorescu), poeta e saggista, segnato da un viaggio all’Athos nel 1929, monaco poi nel 1944 al monastero Antim con il nome di Agaton, arrestato e condannato ai lavori forzati nel lager sul Canale Danubio-Mar Nero nel 1948-49, monaco del grande abito con il nome di Daniil nel 1952 a Sihăstria e poi a Rărău, nel nord della Moldavia, quindi imprigionato come del resto tutti gli altri nel 1958 e morto nella terribile prigione di Aiud nel 1962. Per sua iniziativa si costituisce il cenacolo del Roveto ardente nel monastero Antim, a Bucarest, tra gli anni ’40 e 50, dove si riunivano intellettuali, laici ed ecclesiastici, interessati ed entusiasmati dalla riscoperta della tradizione ortodossa ed in particolare della tradizione esicasta. I partecipanti si riunivano all’inizio ogni domenica, dopo la liturgia, poi più tardi, la sera, dopo il vespro, per ascoltare delle conferenze e discutere sui temi di spiritualità, tutti connessi col grande tema della divinizzazione dell’uomo tramite la preghiera ininterrotta del Nome di Gesù. La conferenza che ha dato avvio alle riunioni del gruppo è stata presentata proprio da Sandu Tudor stesso e aveva come titolo “Il viaggio verso il luogo del cuore”. L’associazione fu sciolta dal regime comunista nel 1948, ma gli incontri si tennero fino al 1958, l’anno del processo e delle condanne al carcere duro per quasi tutti i componenti del gruppo. Il testo della sua straordinaria composizione si trova in Ieroschimonah Daniil Tudor ( Sandu Tudor), Acatiste, Ed. Christiana, Bucureşti, 1999, p. 35-55 (Inno acatisto del Roveto Ardente della Madre di Dio).
[18] Paradiso, canto XXXIII.
[19] GIOVANNI l’eremita, Epistola a un igumeno, n. 15 (si veda anche il n. 3) e 21, RIGO, 168, 171.
[20] Riprendo le osservazioni che avevo elaborato in La preghiera e la pratica della preghiera. A proposito di alcuni autori esicasti minori, in L’Athos e l’esicasmo, a cura di Antonio Manzella, Firenze 2016, Nerbini, pp.59-82. Ora anche nella tradizione del pensiero occidentale si cerca di riflettere sulla complessità del pensiero e degli affetti. Si veda, per esempio, Martha C. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2009.
[21] OL’GA SEDAKOVA, La luce della vita. Alcune considerazioni sulla percezione ortodossa, in LA NUOVA EUROPA 2, 2009, 23-41. Una bella riflessione a tale proposito si può leggere in M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Milano 1996, Raffaello Cortina, pp. 43-52 (la metafora del cuore. Frammento).
[22] “Quindi, seduto in una cella tranquilla, in disparte, in un angolo, fa’ quello che ti dico: chiudi la porta, ed eleva la tua mente al di sopra di ogni oggetto vano e temporale. Quindi appoggia la barba sul petto, volgi l’occhio del tuo corpo, assieme a tutta la tua mente, nel centro del ventre, cioè nell’ombelico. Comprimi l’inspirazione che passa per il naso, in modo da non respirare agevolmente, esplora con la mente all’interno delle viscere, per trovare il posto del cuore ove sono solite dimorare tutte le potenze dell’anima”, Metodo della santa preghiera e attenzione, RIGO, 409; “Tu, dunque, siediti e, raccogliendo la mente, introducila – la tua mente – nel naso: è la via per la quale il respiro scende nel cuore. Spingila, forzala a scendere nel cuore assieme all’aria inspirata”, NICEFORO L’ATHONITA, Trattato sulla custodia del cuore, RIGO, 428.
[23] Si possono trovare riflessioni stimolanti nell’analisi di Olivier Clément sulla preghiera di Gesù, La prière de Jésus, in J. SERR – O. CLEMENT, La prière du coeur, Abbaye de Bellefontaine 1977 (Spiritualité orientale, 6 bis), pp. 49-121.
[24] Il testo originario Esposizione di un canone del monaco Giovanni l’eremita a un certo Teofilo, ancora inedito secondo un codice della seconda metà del sec. XI, ha subito due rimaneggiamenti successivi diventati molto popolari, l’ Epistola a un igumeno e l’Epistola ai monaci, posti sotto il nome di Giovanni Crisostomo, diventando il manifesto della pratica della preghiera di Gesù. Nel Metodo e canone di Callisto e Ignazio Xanthopouloi (capp. 21, 29) figurano tra le auctoritates sulla preghiera di Gesù, a fianco di Diadoco di Fotice e di Giovanni Climaco.
[25] Cf. RIGO, 170
[26] FILOTEO SINAITA, Quaranta capitoli sulla sobrietà, n. 40.
[27] Filocalia, vol. IV, p. 345, n. 53 dei Capitoli sulla preghiera, attribuiti a Callisto patriarca.
[28] Consolazione esicastica, ed. S. Koutsas, Atene 1998: Quatre traités hésychastes inédits. Introduction, texte critique, traduction et notes, Trattato XVI, p. 123; Trattato XXII, p. 115.
[29] Metodo e canone esatto, n. 78, RIGO, 761.
[30] “Bisogna prostrarsi ai piedi dei fratelli che vengono: con questo ci prostriamo a Dio, e non a loro. Quando vedi il tuo fratello, vedi il Signore Dio tuo”, in Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di Luciana Mortari, Roma 1975, Città nuova, vol. I, p. 148 (Apollo, 3).
[31] Cf. GIOVANNI l’eremita, Epistola a un igumeno, n. 21: “La memoria può disperdere tutta la potenza del diavolo nel cuore e la memoria la può vincere e sradicare un po’ alla volta, in modo che il Nome del Signore Gesù Cristo, sceso nell’abisso del cuore, umili il dragone che ne domina i pascoli, salvi e vivifichi l’anima”, RIGO, 171.
[32] Finale parte seconda, libro VI: un monaco russo, par. III, G. Dove si parla della preghiera, dell’amore e del contatto con altri mondi.
[33] Vol. I, p. 349-396. Il testo critico greco con una versione francese è edito in Sources chrétiennes, 5 bis, a cura di E. des Places. Il testo è pubblicato anche nella collana patristica di Città Nuova: Cento considerazioni sulla fede, vol. 13, a cura di V. Messana.
[34] DIADOCO DI FOTICA, Discorso ascetico, n. 13-14, Filocalia, vol. I, p. 353-354: “So di un tale, tanto amante di Dio e pieno di desiderio di lui, perché non lo ama come vorrebbe, da trovarsi incessantemente con la sua anima in un tale acceso desiderio, che Dio è glorificato in lui ed egli è come se non fosse. Costui non sa ciò che è né gode delle stesse parole di lode; infatti per il grande desiderio dell’abbassamento egli non pensa alla propria dignità; compie il servizio divino come è legge per i sacerdoti, ma, con una grande disposizione all’amore per Dio, sottrae a se stesso il ricordo della dignità, nascondendo il vanto che viene da essa nell’abisso della carità di Dio, in spirito di umiltà per apparire sempre alla propria mente servo inutile, come chi è totalmente estraneo alla propria dignità per il desiderio dell’abbassamento. Questo anche noi dobbiamo fare, fuggire cioè ogni onore e gloria per l’eccesso della ricchezza dell’amore del Signore che ci ha tanto amato.
Chi ama Dio, col senso del cuore, è conosciuto da lui (1Cor 8,3). Infatti, uno è tanto nell’amore di Dio, quanto di esso accoglie nel senso dell’anima. Perciò ormai un tale uomo non cesserà di protendersi verso l’illuminazione della conoscenza, in un’intensa passione, finché egli ha ancora qualche sensazione, essendosi dissipata la stessa forza delle ossa. Non conoscendo più se stesso, ma totalmente trasformato dall’amore di Dio, questo tale è in questa vita e non è più in essa. Infatti, pur dimorando ancora nel proprio corpo, per la carità emigra con il moto dell’anima incessantemente, presso Dio. Ormai, ardendo costantemente nel cuore, per il fuoco della carità aderisce a Dio con un desiderio irresistibile, come chi è uscito una volta per tutte dall’amore di sé per la carità di Dio, se infatti – dice -siamo usciti da noi è per Dio; se siamo sobri, è per noi (2Cor 5,13)”.
[35] n. 15, p. 354: “Quando uno comincerà a percepire con abbondanza l’amore di Dio, allora comincerà ad amare col senso spirituale anche il prossimo; è questa la carità di cui parlano tutte le sante scritture. Infatti l’amicizia secondo la carne si dissolve troppo presto: basta un piccolo motivo, perché non è legata dal senso spirituale. Perciò dunque accade che, se si dia qualche irritazione, per l’anima sottoposta all’operazione di Dio, in essa non si scioglie il legame della carità. Infatti, infiammandosi di nuovo il calore dell’amore di Dio, viene subito richiamata rapidamente al bene, e con molta gioia accoglie l’amore del prossimo, anche se riceva da esso grande offesa o danno; poiché nella dolcezza di Dio essa consuma completamente l’amarezza della discordia”.
[36] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza. Antologia, a cura di Sabino Chialà, Qiqajon, Bose 1999, p. 237.