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Acqui Terme, 6 aprile 2003

“Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” così termina l’inno alla carità di Paolo nella sua 1 Cor 13,13.

Due sono i passi che ci possono guidare nella nostra riflessione sulla speranza:

1) Eb 8,10-12, che riprende Ger 31,33-34 (testo della prima lettura della domenica quinta di quaresima) :

“E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa

           d’Israele

           dopo quei giorni, dice il Signore:

           porrò le mie leggi nella loro mente

           e le imprimerò nei loro cuori;

           sarò il loro Dio

           ed essi saranno il mio popolo.

          Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino,

           né alcuno il proprio fratello, dicendo:

           Conosci il Signore!

           Tutti infatti mi conosceranno,

           dal più piccolo al più grande di loro.

          Perché io perdonerò le loro iniquità

           e non mi ricorderò più dei loro peccati”.

2) Fil 3,7-14:

          “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.

Per di più, ci troviamo nel bel mezzo del cammino quaresimale che ci prepara alla celebrazione della Pasqua, fonte e fondamento della nostra speranza. L’antifona che apre la preghiera quotidiana della Chiesa nel tempo di quaresima canta: “Venite, adoriamo Cristo Signore, per noi ha sofferto tentazione e morte”. E la colletta della prima domenica di quaresima prega: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”.

Parafrasando il Padre Nostro, s. Francesco così commenta l’invocazione ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’ : Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì. E’ tutto il senso del cammino quaresimale e della penitenza quaresimale: crescere nella conoscenza del Signore Gesù Cristo, crescere nella percezione dell’amore che per noi ebbe e patì, crescere nella coscienza di quello che comporta ed esige questo amore, crescere nella solidarietà con questo amore verso tutti gli uomini. Ogni richiesta che innalziamo a Dio in ultima analisi non si risolve che in questa: dacci il tuo Figlio diletto; dacci di comprendere, di accogliere, di conoscere, di compatire, di vedere, di stare e di soffrire con, di godere, di amare questo Figlio diletto che per primo amò noi. Di qui scaturisce tutta la nostra speranza.

Pensiamo al rito delle ceneri. “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. Forse che la chiesa ci deve ricordare che dobbiamo morire? Abbiamo proprio bisogno di essere convinti che dovremo morire? Certamente ognuno di noi tende a sentirsi e a comportarsi come immortale e non è male che in qualche occasione ci si ricordi che la realtà non segue i nostri sogni. Ma il senso del rito celebrato in chiesa ha tutta un’altra portata. Rammentate il racconto della creazione di Adamo, quando Dio prese della polvere della terra, la plasmò e con il suo soffio la rese essere vivente. Nel salmo 50 si dice che Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino ‘conterere’, allude proprio a questo rendere polvere il cuore. Quando ci sentiamo afflitti, quando subiamo un’offesa, un’ingiustizia, quando subiamo una prova, senza ribellarci o adirarci, è come se il nostro cuore venisse pestato fino ad essere ridotto in polvere. E’ reso polvere quando non ha più diritti da avanzare, da rivendicare. Allora, come la polvere della terra, Dio lo può plasmare di nuovo ed il nostro cuore rinasce come essere nuovo, capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo. E’ il senso appunto della penitenza quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perché possa essere di nuovo modellato da Lui. Ora, se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo, non pensate che il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente quella gioia che cerca?

La nostra speranza.

La speranza deriva dalla fede nel Signore Gesù Cristo che ci apre alla comunione con Dio e si risolve nell’amore che, provenendo da Lui, a Lui ci riconduce insieme. “Tutti infatti mi conosceranno dal più piccolo al più grande di loro. Perché io perdonerò le loro iniquità …” dice l’autore della lettera agli Ebrei riportando la nota profezia di Geremia.  ‘Tutti lo conosceranno’ …. ‘perché io perdonerò la loro iniquità’ : ecco i due passaggi nevralgici. Quel ‘perché’ dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente ‘conosciuto’ nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo contrariati od oppressi o intristiti, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore di perdono che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo ‘innalzati’ con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

Nella lettera ai Filippesi, cap. 3, v. 13, leggiamo : “Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro …”.La salvezza non è ‘posseduta’, acquisita stabilmente. E’ una salvezza continuamente data, mai soddisfatta; sempre cercata avanti, mai ancorata indietro.

La nostra riflessione verte su tre punti. Si tratta di vivere secondo una certa prospettiva, di vedere dove fa leva la speranza e di non aver paura della fatica.

1) Vivere secondo una certa prospettiva.  E’ in gioco il fattore tempo. A differenza del modo usuale di pensare,  il passato va compreso a partire dal futuro. Cosa intendo dire? Spesso nella nostra vita molte difficoltà o, perlomeno, il peso di molte difficoltà proviene dal fatto di vedere le cose in una certa prospettiva piuttosto che in un’altra. Camminiamo con le gambe avanti e gli occhi indietro.

Ad esempio, a livello della fede, è Dio a sovrastare il nostro peccato con la sua bontà. Il riconoscimento del peccato richiama in primo luogo la bontà di Dio, non la nostra condanna. Il tempo di Dio è il tempo del perdono, quindi il tempo del futuro. La bontà crea sempre uno spazio nuovo al cuore dell’altro permettendogli di entrare nuovamente nella vita, apre un tempo nuovo senza bloccare il cuore al passato. Solo Dio però sa fare questo perché lui solo è sovranamente libero, gratuito e creativo nel suo amore, può sempre aver fiducia in noi perché è inesauribile nel suo amore. Ma non dimentichiamo che il nostro cuore, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio e quindi ha nostalgia dei comportamenti secondo Dio.

Altro esempio, a livello della nostra psicologia. Quanto più facile ci è acconsentire al giudizio, al rimpianto (ho fatto male!… avrei potuto fare …) che alla fiducia (posso fare ora …). E’ assai più naturale ritrovarsi in un senso di colpa che non nel pentimento, in un giudizio di condanna che in un perdono aperto. Prevale il passato sul futuro.

Anche a livello della nostra cultura in generale vale la stessa cosa. Pensate alla diversità con cui la classicità considera il tempo rispetto al cristianesimo. Un poeta come Esiodo, un pensatore come Platone, quando dipingono il sogno umano del vivere secondo equità, giustizia, fratellanza, lo proiettano sempre nel passato. Il mito dell’età dell’oro, il mito dell’Atene primordiale, seguono tale dinamica. La visione ebraica e successivamente quella cristiana, invece, pongono l’ideale nel futuro, nell’escatologia: pensano alla Gerusalemme futura, alla seconda venuta di Gesù, al compimento del Regno di Dio che ora non si è ancora manifestato, ecc. E’ come se volessero dare consistenza e speranza ai sogni umani, agli ideali più grandi che l’uomo porta in cuore. Ma cosa differenzia un vero sogno, ricco delle energie che impegnano la propria storia in qualcosa di grande, da una  pia fantasia, per lo più consolatoria, come tante volte è stato rimproverato alla religione dal pensiero laico?

2) Siamo al secondo punto della nostra riflessione. Dove fa leva la speranza perché non si risolva in una mera fantasia?

La speranza, che procede dalla fede, fa leva sulla certezza della fedeltà di Dio. Non si tratta di dar credito alle nostre capacità, ma di credere fino in fondo a Dio, che non manca di compiere le sue promesse. Prendiamo, ad esempio, le beatitudini proclamate da Gesù. In gioco è la credibilità di Dio, la sua promessa, come se dicesse: non temete, sarete davvero felici, se non avete paura di essere poveri, di essere miti, misericordiosi, ecc. Ma questo si risolve nel fatto che l’importante è il cercare Dio, il fondarci su di Lui, l’affidarsi a Lui, piuttosto che volere i suoi doni, possibilmente in fretta, subito, con poca spesa, secondo i dettami di una certa psicologia consumistica che invade anche il campo dello spirito.

Dice il salmo 36, v. 4 : “Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore”. Se noi cerchiamo prima di esaudire i desideri del nostro cuore,  rischiamo di strumentalizzare Dio a nostro vantaggio. Non otterremo nulla. La gioia sta nell’incontro, nella comunione con Colui che dice essere sua gioia portarci alla vita e il cuore riconoscerà che in quella gioia tutti i suoi desideri si compiono. Lo stesso salmo 36, al v. 10 dice: “niente manca a coloro che lo temono. Perché? Tutto quello che Dio dà è per il giusto causa di gioia. E nella gioia non c’è nulla che faccia difetto. Anche nell’afflizione, nella prova. Spesso, nell’afflizione, noi tormentiamo noi stessi, mentre il giusto pone la sua fiducia in Dio, sta contento in Dio e non manca di nulla.

La difficoltà dell’ascesi, di quel ‘terribile’  “rinuncia a te stesso” proclamato da Gesù, dove sta? Invece di guardare le cose dal punto di vista di quello che Dio dà, le vediamo dal punto di vista di ciò che dovremmo perdere. In realtà la rinuncia non consiste nel lasciare qualcosa, ma nel liberare il cuore perché possa essere contento in Dio. Se siamo pieni di noi stessi, possiamo riempirci di un altro? Ma noi sappiamo di essere contenti solo quando sentiamo di amare e di essere amati da un altro, solo quando un altro ci riempie. La gioia riflessa sul volto di colui che amiamo raggiunge le fibre più sensibili del nostro cuore, rimandandocela maggiorata.  La fatica che ci occorre è quella che è necessaria a vincere l’illusione di prospettiva. Vorremmo credere, ma più a modo nostro, invece che credere fino in fondo al nostro Dio.

 3) Eccoci al terzo punto. Non possiamo sottrarci alla fatica. Anzi, con più precisione debbo dire: non riusciamo nella vita spirituale perché non abbiamo compreso il mistero del Regno di Dio che sboccia nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza delle nostre anime.

Così chiama la vita dell’uomo sulla terra  Gb 7,1:

 

Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra

          e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?[1]

Ma è anche detto, in Gb 19,25-27:

“Io lo so che il mio Redentore è vivo

          e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!

          Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,

          senza la mia carne, vedrò Dio.

          Io lo vedrò, io stesso,

          e i miei occhi lo contempleranno non da straniero”.

Questo passo l’ ho sempre ritenuto molto forte ed espressivo circa quello che portiamo in cuore. Giobbe si è ribellato a Dio e non ha accettato le giustificazioni che i suoi amici recavano come convalida teologica a favore di Dio che l’avrebbe punito per qualche suo peccato nascosto. Giobbe ha sempre rifiutato l’accusa della sua colpevolezza, ha sempre protestato la sua innocenza, ha combattuto con Dio e alla fine può esclamare :

“Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,

senza la mia carne, vedrò Dio.

Io lo vedrò, io stesso,

e i miei occhi lo contempleranno non da straniero” [2] .

La frase non va letta solo in riferimento a dopo che siamo morti, al contrario il suo significato di fondo si riferisce direttamente al nostro cuore. Dopo che le cose non avranno più alcun valore, io potrò vedere Dio, perché se oppongo altri valori a colui che è il valore, questi me lo oscureranno e il cuore non troverà pienezza. Con l’espressione “contempleranno non da straniero” si allude alla ‘difficoltà’che incontra l’uomo nell’andare incontro al suo Signore. Tutti facciamo l’esperienza che la realtà di Dio non è né immediata né familiare, e chi non avesse questa impressione basta che pensi ai momenti di dramma o di tragedia nella vita. A me pare che quando noi parliamo di conoscenza di Dio, non alludiamo solo al fatto che noi vorremmo conoscere questo Essere che si presenta a noi come Dio, ma esprimiamo piuttosto il desiderio che abbiamo di relazione, come se presagissimo che solo una relazione assoluta può colmare l’anelito di senso e di vita che ci rode dentro. Vedere Dio, e non da stranieri! Credo che meglio non possa essere espresso l’anelito profondo, la nostalgia profonda che portiamo in cuore. Essa non risponde solo al bisogno di conoscenza, ma anche alla fame di relazione.

Ogni cuore porta inscritto tale anelito, anche se, come dice in un suo poema Simeone Nuovo Teologo parlando del mistero di Dio: “luce alla quale tutti aspirano, ma pochi ricercano”.  Pochi, che diventano ancora meno in realtà: “ E quanto a quelli che hanno ottenuto di partecipare ai tuoi segreti, di prendere parte materialmente – in una sensazione immateriale – ai tuoi misteri terribili e per tutti indicibili, e di riconoscere, nelle cose visibili, la gloria invisibile e lo strano mistero che si è compiuto nel mondo, sono ancora molto meno – lo so fin troppo bene” [3]. Resta comunque vero per i pochi o i tanti: “Chi in realtà, avendoti conosciuto, ha bisogno della gloria del mondo? Chi dunque amandoti, andrà alla ricerca di qualche cosa d’altro …?[4].

Io sintetizzerei in tre aspetti questo anelito che ci portiamo dentro:
anelito di innocenza, bisogno di accoglienza, desiderio di pienezza, tutte esplicitazioni della nostalgia di una relazione assoluta. Ma ogni strumento o mezzo di realizzare da parte nostra una pretesa di innocenza (pensate al nostro bisogno di difenderci continuamente di fronte a Dio e agli uomini, che i Padri chiamavano spirito di autogiustificazione), di accoglienza (alludo al nostro bisogno di affetto, di benevolenza, avvertiti come un diritto esigito sugli altri) e di pienezza (come se la vita ci dovesse qualcosa)  non si risolve in ultima analisi che nella ricerca del potere di piegare cose e persone al nostro fine, fallendo evidentemente lo scopo. La tragedia umana, a livello personale come per i popoli e per le chiese, sta tutta qui: non poter rinunciare alla grandezza, ma perseguirla meschinamente. P. Dumitru Staniloae, un teologo ortodosso romeno recentemente scomparso (+ 1993), dava questa definizione del peccato: un attaccamento infinito a qualcosa di finito. Noi non possiamo rinunciare ad avere un attaccamento infinito; dobbiamo far leva sul fatto di ridare qualcosa di infinito a questo nostro attaccamento infinito. L’incontro con il Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo, la scoperta della fede e della fraternità risponde a questo scopo: aprire il cuore agli spazi ed alle dinamiche della stessa vita divina nel cui respiro siamo stati modellati e dove pescano le radici della nostra speranza.

Cristo crocifisso.

Da dove ci deriva la benedizione della speranza? “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”: è questo il grido della liturgia quaresimale. E continuando nella citazione della lettera ai Romani 8,32-39: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? …”. Come a dire: chi potrà vincerci? Chi potrà rapirci questo amore? Di che cosa abbiamo ancora bisogno per vivere se facciamo esperienza di questo amore? Che cosa potremo ancora cercare oltre questo amore? C’è ancora qualcosa che potrà parlare al nostro cuore indipendentemente da questo amore?

Se leggiamo il brano della Genesi, c. 22, sul sacrificio di Isacco nell’ottica dell’alleanza: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione … saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito ala mia voce”, non possiamo non pensare al dono del Figlio da parte di Dio all’umanità che diventa fonte di ogni benedizione, per tutti. E se uno davvero ha gustato questo dono, come può cercare benedizione in altro? Non si pensi però che il dono del Figlio all’umanità da parte del Padre sia in funzione semplicemente di un riscatto, di un sacrificio espiatorio. Il valore del dono è in funzione della grandezza dell’amore e se il Figlio testimonia questo amore fino alla morte non è per essere vittima sacrificale, ma solo per fedeltà all’amore che non viene meno nemmeno davanti all’oltraggio e all’ingiustizia. Ed è nella corrente di questo dono che i discepoli di Gesù sono chiamati a lasciarsi trascinare, fruitori in ciò di quel ‘vedere il regno di Dio venire con potenza’, sebbene per sprazzi.

Noi, di Dio, abbiamo delle immagini dentro di noi che non hanno niente a che vedere con il Dio che ci viene svelato in Gesù. Pensate per esempio all’onnipotenza di Dio, a quando ci riferiamo a Dio come onnipotente. Perdonate l’audacia: ma se Dio fosse onnipotente come diciamo, potrebbe esserci  tanta ingiustizia e sofferenza in questo mondo? Davanti all’evidenza del male o siamo costretti a negare l’esistenza di Dio oppure a cambiare radicalmente l’immagine di onnipotenza che ci facciamo. L’onnipotenza che noi riferiamo a Dio è in funzione dell’immagine mondana che abbiamo del Padre. L’onnipotenza che viene riferita a Dio da Gesù, invece, non é nell’ordine del potere ma è di un altro ordine. L’onnipotenza di Dio é quella di poter arrivare al suo scopo senza essere distolto da niente. Se Dio ha come scopo supremo che l’uomo entri a far parte della sua intimità, non c’é nulla che impedisca a Dio di perseguire questo scopo nel suo agire. E questo é l’unico motivo per cui Gesù muore sulla croce. Noi pensiamo che se il Figlio muore sulla croce, il Padre deve ben essere ‘implacabile’ o ‘crudele’ a permettere questo! Noi pensiamo: Gesù ha dovuto soffrire per riparare il peccato, come un atto di giustizia dovuto alla maestà di Dio. In questa luce, se viene messo in risalto il grande amore di Gesù per gli uomini, viceversa, viene sottolineato quanto sia ‘implacabile’ il Padre a dover esigere un simile tributo! Eppure in testa noi abbiamo una immagine del genere. Ma é questa l’immagine che emerge dai vangeli? Non so se avete mai pensato al momento della crocifissione, quando gli astanti che lo avevano condannato o per lo meno avevano accettato la sua condanna, con una punta di scherno dicono: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!» (Mt 27, 42-43). “Ha confidato in Dio, lo liberi se gli vuole bene”: è un passo che suona di derisione sulla bocca delle persone che lo pronunciano, risulta di scherno, eppure rivela una grande verità. Gesù è proprio colui che ha confidato unicamente in Dio senza contare su nient’altro. É Dio che l’ha salvato, ma non dalla morte. Gesù era così in intimità col Padre che quell’amore che il Padre dall’eternità ha sempre portato all’uomo, Gesù l’ha condiviso al punto da dire: mi faccio uno di loro perchè questo amore sia rivelato al cuore dell’uomo in tutta la sua pienezza, in tutta la sua ‘onnipotenza’, anche a costo di sentirmi abbandonato dal Padre. Egli mantiene fede a questa volontà come era nel suo progetto iniziale. Questa è l’onnipotenza di Dio, la vulnerabilità dell’amore.

E quando Gesù dichiara: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere … ma egli parlava del tempio del suo corpo” allude ad un duplice mistero:

1) Il tempio, e questa volta non più solo recinto sacro, ma la parte interiore del tempio, il santo dei santi, è il suo corpo. In Lui abita la pienezza della divinità, in Lui si trova ogni tesoro di sapienza e scienza, Lui è la via al Padre: tutte espressioni che sottolineano come la Dimora di Dio in mezzo al suo popolo sia oramai Lui stesso. E tale rivelazione avviene nel mistero pasquale, nella sua morte-sepoltura-risurrezione, dove l’amore di Dio per il suo popolo appare così sconfinato e supremo da fondare la nuova, definitiva, permanente alleanza tra Lui e gli uomini tutti.

2) ma il suo corpo non è soltanto il suo corpo fisico, ma il suo corpo mistico, di cui siamo membra, nel quale siamo innestati e conformati attraverso l’eucarestia. Così, quel Gesù, morto e risorto per noi, dandosi a noi in cibo (cfr. Gv 6), rende anche noi ‘dimore’ di Dio. Se Lui è la Dimora di Dio, assumendo Lui come cibo eucaristico, diventiamo anche noi Dimora di Dio. E avviene di noi quel che avviene di Lui.

Possiamo allora comprendere più a fondo la frase centrale del colloquio con Nicodemo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”. E possiamo comprenderla dentro quell’imperativo tremendo: ‘è necessario’, ‘bisogna’ che il Figlio dell’uomo sia innalzato, come Gesù si è premurato di ricordare più volte e in varie occasioni ai suoi discepoli. Quando in bocca a Gesù troviamo quel ‘bisogna’ dobbiamo intendere: si tratta di un evento che non è alla nostra portata, che non risponde alle nostre attese, che noi non avremmo mai immaginato perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l’intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l’intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell’uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata in modo da vivere di quella pienezza che appartiene solo a Dio. Gesù è l’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, come suggerisce il testo dell’Apocalisse 13,8 letto secondo la volgata (“in libro vitae Agni, qui occisus est ab origine mundi”). Il mistero adombrato dalla Parola di Dio è che la sofferenza non è legata al peccato, ma al dono dell’essere da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi alla natura della stessa vita trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a comunicarci perché ne diventiamo partecipi e possiamo così non subire più la morte. Se Dio conosce le nostre sofferenze non è solo perché le vede in noi, ma perché le sente sue e la salvezza che ci dona è proprio quella di farci vivere quella sofferenza in quell’abisso di amore che costituisce la rivelazione suprema della realtà di Dio. Gesù è proprio la prova e la misura dell’amore di Dio per noi e come suonano vere le parole di Paolo ai Romani 8,35.39: “chi ci separerà dall’amore di Cristo? … Io sono persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Di, in Cristo Gesù, nostro Signore“! A questo conduce l’esperienza della fede, a questo porta quella vita nuova che ci viene data al battesimo e che risulterà incomprimibile e incorruttibile di fronte a qualsiasi evento.

Allora il credere in Gesù significa credere all’Amore che Dio ha per noi. E quando Giovanni, nella sua prima lettera, ricorda: “Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16), dobbiamo intendere: noi conosciamo, perché abbiamo creduto, l’amore che Dio ha per noi, dove conoscere si riferisce ad una vera esperienza di vita, dove non c’è più posto per la condanna a cui il peccato tende ad inchiodarci. Così, l’altra espressione usata da Gesù, ‘fare la verità’, non significa solo ‘fare il bene’, ma fare la verità in se stessi per aprirci alla conoscenza dell’amore di Dio, in Cristo Gesù, per noi. Non siamo più sotto il segno della condanna, nonostante che ancora agisca la potenza del peccato nella nostra vita, perché il cuore è ‘rinato’, ha visto l’amore di Dio e a quello sta aggrappato. Ed è di qui che scaturisce la vita nuova, poco a poco, fino a sentirla prepotente in tutto l’essere.

Speranza come pazienza.

L’ultima strofa dell’inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, nel breviario monastico, canta:             Su voi, resi saldi in eterno,

                        s’edifica e innalza la Chiesa

                        che eterna, riversa sul mondo

                        da Dio, come un fiume, la pace.   Amen.

Trovo che sia una delle espressioni più belle che definiscono la chiesa, la comunità dei credenti. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: “che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace” ? Chi ci avvicina, a livello personale e comunitario, sente innanzi tutto questo? “Lasciatevi riconciliare con Dio” vuol dire: lasciatevi invadere da questo fiume di pace, lasciate che questo fiume di pace risani i vostri cuori.

            Nella nostra storia personale, prima di tutto con Dio ( ricordate il passo del vangelo in cui Pietro domanda a Gesù quante volte deve perdonare al fratello che manca nei suoi riguardi. Gesù gli risponde che deve perdonare non sette volte, ma settanta volte sette, cioè sempre. Il passo però va letto così. Devi perdonare al tuo fratello quante volte hai bisogno di domandarlo al tuo Dio, cioè sempre.) e poi con gli uomini ( si parla troppo di amore, carità e troppo poco delle condizioni che lo rendono possibile e veritiero ), pace significa essenzialmente riconciliazione. L’abbiamo appena menzionato: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo … affidando a noi la parola della riconciliazione … E poiché siamo suoi collaboratori…”. Collaboratori a che cosa? All’opera della riconciliazione. Quanto è urgente allora allargare i confini del cuore per percepire l’opera divina della riconciliazione in atto nella storia! Grazia, redenzione, salvezza, tutti termini che esprimono la realizzazione della riconciliazione tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e il mondo, in Cristo. Come possiamo ‘rivelare’ la presenza di Dio nel mondo? Come collaboratori della sua opera di riconciliazione.

            L’annuncio della fede, la celebrazione dei sacramenti, la testimonianza della carità, non tendono ad altro: lasciatevi riconciliare con Dio! Dove ‘riconciliazione’ non significa “Dio si riconcilia con  noi, riconcilia se stesso con noi”, ma solo “Dio riconcilia con Sé noi”. Si tratta di un’iniziativa divina, che trasforma, non Dio stesso che da sempre rivela la sua volontà di grazia verso gli uomini, ma l’uomo. E quando Gesù invia i suoi apostoli, li invia come annunciatori di questa iniziativa di Dio e li invia proprio a scongiurare in nome suo gli uomini perché si riconcilino con Dio. Ed è proprio questa rivelazione dell’infinito e traboccante amore di Dio , per il quale né il sacrificio del Figlio è un prezzo troppo alto né è umiliazione scongiurare gli uomini, a trasformare tutto il nostro modo di essere. Dio è in pace con noi, Dio offre la sua pace a noi, Dio ci invita a vivere nella sua pace, riassume  la rivelazione del Padre, in Gesù,  nella potenza dello Spirito.

L’antica domanda: “come conoscere Dio?” ormai ha in questo annuncio la nuova risposta, definitiva nel suo mistero nel senso che non esiste un ‘oltre’ al di là del quale si possa andare (“È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità”, Col 2,9), ma perennemente nuova e personale per ciascuno nel senso del percorso infinito, cioè mai concluso, che compie il cuore per viverne intera la verità .

E’ la risposta di chi si fa discepolo del Signore Gesù, che s. Luca descrive in tre tratti caratteristici:

– il discepolo perfetto rinuncia a tutti i beni (ha trovato la perla di grande valore, il tesoro nel campo) diventando capace di condivisione con tutti sia in senso materiale che spirituale[5].

– il discepolo di Gesù perdona. Il perdono è in funzione dell’esperienza della gratuità dell’amore misericordioso del Padre. La comunità degli uomini non può  vivere l’innocenza che  come peccatori pentiti e riconciliati e non può muoversi all’amore che nell’amore sperimentato come perdono. Dall’ esperienza di tale gratuità proviene la necessità del perdono come segno della salvezza ottenuta e l’amore degli uomini si fa testimonianza della potenza dell’amore di Dio[6].

– il discepolo vive nella pazienza, intesa come fedeltà nelle prove, in funzione della testimonianza del Risorto. Qui confluiscono tutti i richiami e gli avvertimenti all’attenzione, alla lotta contro il maligno, alla fatica nel cammino spirituale, alla costanza nella sequela, al cammino della croce sia nella vita interiore che esteriore, al dramma della lotta per la giustizia.

Preghiera conclusiva

(dello starets Ambrogio, del monastero di Optino, Russia, sec. XIX)

Signore, concedimi di ricevere con serenità tutto ciò che questo nuovo giorno mi porterà.

Aiutami ad affidarmi interamente alla tua Volontà.

Ad ogni istante di questo giorno, istruiscimi in tutto e sostienimi.

Sii la guida dei miei pensieri e dei miei sentimenti in tutte le mie azioni ed in tutte le mie parole.

Davanti all’imprevisto, aiutami a non dimenticare che tutto è retto da Te.

Insegnami a comportarmi in maniera giusta e coscienziosa con i miei fratelli, non rattristando né ferendo nessuno.

Signore, guida la mia volontà e insegnami a pregare, a sperare, a credere, ad amare, a sopportare e a perdonare.

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[1] Il versetto suona così nelle varie traduzioni:

Interconfessionale:       I giorni dell’uomo sulla terra sono un tormento

                                                                        sono giorni di duro lavoro

TOB:                                               N’est-ce pas un temps de corvée que le mortel vit sur terre?

Volgata                                          Militia est vita hominis super terram

LXX                                                Πότερον ουχὶ πειρατήριόν ἐστιν ὁ βίος ἀνθρώπου ἐπὶ τῆς γῆς ;

Russo                                              не искушение ли житие человеку на земли

                (da notare che il termine ‘искушение’ corrisponde al greco πειρασμόν, tradotto in italiano con ‘tentazione’, come nell’invocazione del Padre nostro: … non ci indurre in tentazione)

[2] cfr. anche 1Gv 3,1-2: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

[3] Cfr. SYMEON LE NOUVEAU THEOLOGIEN, Hymnes, I (SC 156), Paris 1969, Cerf ( l’inno XII: considerazioni teologiche sull’unità della divinità in tre ipostasi).

[4] ibidem

[5] Lc 14,33 : “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”;  Atti 2, 42- 47: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo”.

[6] Luca 6, 36-38: “ Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”.