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Giornata di studio presso l’Istituto Teologico di Assisi sulla Beata Angela da Foligno.

Assisi, 6 marzo 2010

p. Elia Citterio, Fratelli Contemplativi di Gesù

 

Introduzione

Quello che intendo proporre in questo mio intervento è la formulazione di una risposta all’interrogativo: dove sento il fascino della beata Angela da Foligno, almeno rispetto al Libro di lei che conosciamo? Nella mia indagine ho tenuto conto di una prospettiva specifica, quella di considerare Angela da Foligno come testimone della tradizione nella via spirituale, sottolineando in modo specifico il termine ‘testimone’, data la sua originalità e statura. Non seguirò però la pista felicemente battuta da Mons. Giovanni Benedetti nel suo ultimo pregevolissimo lavoro,[1] dove rilegge il Libro di Angela in dialogo con le fonti della tradizione cristiana patristica e medioevale. Cercherò, invece, di concentrare la mia attenzione sulle dinamiche di fondo che definiscono il percorso spirituale di Angela cogliendole all’interno delle varie tappe del suo cammino. Se tradizionalmente il suo cammino viene presentato in chiave ascensionale, in continui superamenti contemplativi, fino alle soglie della ‘visio beatifica’, io cercherò di coglierlo nei suoi radicamenti, nelle radici che lo rendono possibile e, per giunta, fruibile in qualche maniera anche per noi.

Quando si affrontano temi che investono cultura e sensibilità tipiche dell’epoca medievale, dobbiamo sempre tener presente, noi moderni, i nostri filtri mentali. Ho già avuto modo di imbattermi in questa difficoltà nell’affrontare il movimento di spiritualità esicasta del mondo bizantino medievale dove l’attività intellettiva non è appannaggio specifico di una facoltà, ma di tutta la persona.[2] La differenza di sensibilità tra un medievale e un moderno è evidente. Il moderno separa l’intelligenza dal registro affettivo e riferisce separatamente alla testa l’intelligenza e al cuore gli affetti, mentre per il medievale l’intelligenza intuitiva e razionale è unica ed è riferita al cuore. Così, la nozione di amore non è rapportata all’ordine dell’affettività, ma è concepito come uno strumento di intellezione del divino, delle realtà spirituali, dell’ordine voluto da Dio e il cuore è l’organo in cui si esercita l’insieme delle facoltà spirituali che sono indissociabilmente quelle dell’intelletto e quelle degli affetti. Nell’esperienza cristiana il cuore è fondamentalmente il luogo in cui lo Spirito Santo penetra e spira la caritas, permettendo all’uomo la comunicazione-comunione con Dio.[3] Come suggerisce una poetessa russa, la Sedakova, erede a Mosca di Sergej Averincev, in un suo saggio sulla percezione ortodossa, il cuore non è semplicemente il punto più interiore o profondo della persona, ma il luogo aperto di confine per l’incontro con l’Altro, il punto di apertura della nostra struttura psichica.[4]

Anche se con Angela da Foligno abbiamo a che fare con una storia e una sensibilità più comuni a noi, ciò nondimeno ci sfuggono certi passaggi e movimenti della sua anima. Non solo per l’arditezza delle esperienze che riesce difficile comprendere nel loro reale valore, ma anche per le dinamiche interiori che le collegano e le consentono, dinamiche sulle quali cercherò di appuntare il mio sguardo. Tenendo sempre in debito conto l’ammonizione di Gregorio Sinaita (1275-1347): “Chi cerca le ragioni dei comandamenti senza i comandamenti e desidera trovarle con lo studio e la lettura è simile a colui che immagina un’ombra invece della verità. Le ragioni della verità sono partecipate da quelli che partecipano alla verità”.[5]

I tre termini di riferimento

Secondo l’espressione coniata da Bernard McGinn, Angela è una delle quattro ‘evangeliste’ della mistica duecentesca. La qualifica non sottolinea semplicemente la statura spirituale di queste donne (Angela, Hadewijch, Mectilde e Margherita Porete), ma vuole rimarcare il fatto che esse dovettero sostenere che il loro messaggio proveniva direttamente da Dio in modo analogo a quello della Bibbia. Tra le quattro, Angela spicca per la sua identità specificamente francescana e per l’assenza, nella sua esposizione, dell’influsso del lessico dell’amore cortese.[6]

Credo sia utile fornire qualche breve coordinata storica. La crisi spirituale di Angela, nata nel 1248, maritata con figli, sfocia nell’esperienza della conversione nel 1285 ca., inducendola a condurre una vita penitente, osteggiata e derisa. Con la morte della madre, del marito e dei figli nel giro di poco tempo, inizia a disfarsi delle sue proprietà fino a condurre vita da penitente nella più estrema povertà, accolta nel terz’ordine francescano. Nel 1291, in un pellegrinaggio ad Assisi, vive la straordinaria esperienza di dolcezza della manifestazione della Trinità e subito dopo della cocente delusione dell’abbandono da farle gridare, in modo come isterico, senza ritegno, sul sagrato della basilica di s. Francesco: “Amore non conosciuto, perché? Perché m’abbandoni?”. Sarà a frate Arnaldo, suo confessore e parente, che in quell’occasione l’aveva aspramente redarguita per il suo comportamento, che Angela poi rivelerà il suo itinerario spirituale, con i suoi segreti e le sue tappe. Ne viene fuori il ‘Memoriale’, la prima parte del Libro che, a ritroso da quell’esperienza di Assisi, narra dei primi venti passi, seguiti poi dalle altre sette tappe supplementari il cui racconto contempla gli eventi fino al 1296. In quell’anno il testo è approvato dal card. Giacomo Colonna e comincia a circolare. Al ‘Memoriale’ verrà poi aggiunta una serie di 36 ‘Istruzioni’ che riflettono l’insegnamento di Angela nel periodo in cui funse da maestra di un gruppo di laici e francescani che si erano raccolti intorno a lei, tra il 1296 e il 1309, anno della morte.

Benché tra il Memoriale e le Istruzioni, redatte da più mani, esista evidentemente una differenza di narrazione e di linguaggio, il Libro può essere considerato nella sua unità e nella mia analisi sfrutterò ambedue le parti. La differenza tra il Memoriale e le Istruzioni è la differenza che passa da un dettato sul proprio vissuto a un dettato consapevole della responsabilità di un compito. In ciò ravviso una dinamica comune alle Scritture: ogni rivelazione di Dio a qualcuno comporta sempre una missione davanti al popolo. Sia la rivelazione che la missione fa parte però dell’esperienza della vita e i due aspetti sono inscindibili.

Ho raccolto le mie riflessioni a partire dai tre termini che reputo estremamente significativi nel Libro della beata Angela: esperienza – verità – trasformazione.[7]  Attraverso la loro analisi potremo comprendere come, nell’itinerario di Angela da Foligno, il frutto ricercato non possa che essere l’amore; sempre lungo una determinata via, che è la compagnia di povertà-dolore-disprezzo e obbedienza del Dio uomo passionato; ad una precisa condizione, che è la ‘sincerità’ dell’anima, perseguita in modo sempre più radicale.

Rilevo da subito che il prologo del Libro colloca la comprensione della via spirituale di Angela all’interno della grande tradizione della chiesa. Il testo riporta:

“L’esperienza dei veri fedeli giunge a far conoscere sperimentalmente, a penetrare, e a toccare con mano il Verbo della vita che si è incarnato, come egli stesso promette nel Vangelo: «Se uno mi ama, osserva la mia parola. Allora il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e abiteremo in lui» (Gv 14,23); e ancora: «A chi mi ama, mi manifesterò». A quanti gli sono fedeli Dio concede con la massima larghezza questa esperienza e la dottrina di questa esperienza”.[8]

Nella chiesa d’oriente e d’occidente, quei versetti del vangelo di Giovanni costituiscono le coordinate esperibili della promessa di Gesù ai suoi discepoli e di un vivere santo evangelicamente inteso. Introducono al frutto segreto ricercato da chiunque voglia fare il bene e non vuole ripararsi semplicemente dalle sue paure o esibirsi sotto qualsiasi forma: godere dell’intimità con colui che il cuore cerca, di cui vuole sentire nell’intimo il balsamo ristoratore. La promessa è modellata sulla realtà stessa goduta da Gesù. Come se dicesse: io ascolto ciò che dice il Padre e perciò compio i suoi comandamenti in forza dell’intimità di comunione con lui. Così il mondo sa che amo il Padre e che il Padre è in me. L’uno svela la realtà dell’altro e l’amore ne custodisce la verità. Se anche voi, miei discepoli, ascolterete le mie parole e le compirete perché rimanete in me, allora diventerete partecipi della mia stessa comunione con il Padre e potrete entrare in quei segreti di amore tenuti in serbo per voi fin dalla fondazione del mondo.[9] É la cornice ideale per leggere l’esperienza di vita della beata Angela.

Esperienza.

Quando Angela parla di esperienza si riferisce al compimento di quella promessa, che così diventa veritiera per la sua anima. Esperienza non allude semplicemente a quanto ella prova, sente, vede, percepisce, ma precisamente all’esperibilità, per la sua persona, della promessa di Gesù. Non solo, ma di questa esperibilità lei ne ha conoscenza, vale a dire la può formulare, benché in modo allusivo e questo tanto più quanto più il suo cammino si fa ardito. La formulazione, sebbene allusiva, ricalca i dati della fede comune della chiesa, tanto che la sua preoccupazione è quella di non essere ingannata. Il che significa che è preoccupata che quanto va vivendo e dicendo, sebbene non lo deduca dalla parola santa scritta, non sia in contrasto con essa. Più le sue percezioni sono intense, più avverte l’urgenza di essere assicurata di non cadere nell’inganno. La formulazione dell’esperienza, quella che i trascrittori dei suoi racconti chiamano la dottrina, avviene secondo il discernimento di condividere la fede della chiesa nell’esperienza dei suoi santi.

L’esperienza ha due versanti, uno sulla sua umanità coinvolta totalmente e sempre più radicalmente nel suo desiderio di Dio e uno sulla possibilità stessa di dire ‘Dio’ in termini veritieri a fronte dell’esperienza che ne ha. É quello che, nelle Istruzioni soprattutto, chiama ‘conoscenza di Dio e conoscenza di sé’, due facce della stessa medaglia. Questo tipo di ‘conoscenza’ si colloca in un processo di trasformazione che impegna l’anima e Dio in un rapporto sempre più stretto e misterioso. In effetti, non si tratta dello sforzo di conoscenza di Dio (quello che la beata chiama ‘esteriore’, per lettura e studio) ma essenzialmente di un aprirsi all’esperienza di Dio che comporta una determinata coscienza di sé. Nel linguaggio delle Istruzioni alla profondità e alla misteriosità del processo si allude con il termine ‘abisso’ o con i verbi corrispondenti (‘inabissata’) e ciò vale per l’anima come per Dio. Si tratta di due abissi che si richiamano, non però uno davanti all’altro, ma uno nell’altro, fino a perdersi completamente, senza confusione. Ripresi nella formula felice di Angela, eco in questo più dell’oriente cristiano che della tradizione latina: “il mio Dio si è fatto carne per farmi Dio!”.[10]

La tensione verso Dio in Angela è il mistero della sua vita. Nel passo diciannovesimo, dopo la narrazione della prima grande esperienza della dolcezza di Dio nella contemplazione dell’umanità e divinità del Cristo, prima ancora che avesse avuto modo di distribuire tutti i suoi beni ai poveri, fa parlare il suo desiderio:

“Signore, quanto io faccio non è che per trovarti. Ti troverò quando tutto sarà compiuto?” e subito dopo: “Non voglio oro, né argento, e se mi donassi il mondo intero, non vorrei che Te”.[11]

Parlando dei sette speciali benefici che vengono concessi dalla bontà di Dio, intravediamo la tensione della sua anima nelle parole:

“Il sesto dono è il dono della sapienza. Signore, fammi degna di conoscere e d’intendere l’ardentissimo amore col quale ci hai elargito il dono della tua sapienza. Oh, veramente, questo è il dono dei doni: poter avere esperienza di te nella verità!”. [12]

La fede per lei ha questa potenza di esperienza, come riferisce nel passo diciassettesimo:

“Al paragone la fede avuta finora mi pareva cosa morta e le mie lagrime passate quasi frutto di violenza. Da questo momento soffersi davvero la realtà della passione di Cristo e il dolore della Madre di Cristo: allora, qualunque cosa facessi, per quanto grande, mi pareva poca cosa, e anelavo a una più grande penitenza. Mi seppellii così nella passione di Cristo e mi fu data speranza che in essa avrei trovato la mia libertà”.[13]

É quello che, sempre nello stesso passo, aveva intuito in un giorno di quaresima allorquando, segregata in casa e assorta nella meditazione di un passo della Scrittura, arde dal desiderio di averne piena intelligenza:

“Vuoi fare esperienza di quanto ti dico? … Poi colui che mi guidava aggiunse che l’intelligenza del Vangelo era cosa talmente più alta che se uno lo comprendesse, non solo si dimenticherebbe di ogni cosa terrena, ma anche totalmente di se stesso … Da quel giorno rimasero stabilmente in me tanta certezza e tanta luce e amore per Dio, che andavo ripetendo, perfettamente convinta, che nulla si predica del diletto di Dio”.[14]

É così attratta da Dio[15] che, come racconta nel passo supplementare quarto, dopo aver percepito l’opera di salvezza di Dio per l’uomo in un’altissima illuminazione,  dichiara:

“Ora mi sento così contenta e sicura che, se sapessi in modo certo che dovrò finire dannata, per nessun motivo potrei dolermi di ciò, né per questo mi sforzerei meno e meno mi impegnerei nel pregare e nell’onorarlo”.[16]

La stessa verità che richiama, in positivo, quando afferma:

“E così l’anima, se vuol giungere a questa perfezione d’amore perfetto – che si dà tutto, che si mette al servizio di Dio non in vista di un premio che aspetta di ricevere da lui in questo mondo o nel futuro, ma per Dio stesso che è buono, anzi il Bene, degno di essere amato per sé – deve entrare nella via giusta e camminare per questa via retta coi piedi di un amore puro, vero e ordinato”.[17]

Ma la sua ‘fissazione’ interiore resta quel Gesù uomo passionato, di cui impara a condividere la passione d’amore e di dolore per gli uomini, allargando la sua vista come oltre la sua umanità e perdendosi nel segreto di Dio che dall’eternità ha amato i suoi figli e ha voluto la passione del suo Figlio. Alla fine della sua vita non può che dichiarare:

“Non faccio altro testamento che questo: vi raccomando quest’amore scambievole. Vi lascio in eredità tutto ciò che possiedo: la vita di Cristo, la povertà, il dolore e il disprezzo”.[18]

Riprende l’esempio di s. Francesco:

“Non posso guardare ad alcun santo che in modo più singolare mi faccia vedere la via del libro della vita, cioè il modello della vita di colui che è Dio-Uomo, Gesù. Né vedo alcun santo che tanto fissasse i suoi occhi su questo modello, come lui che mai rimosse da Gesù gli occhi della sua anima. E questo fu palese anche nella sua vita di uomo. E poiché san Francesco si fissò totalmente in lui, fu ripieno di ogni sapienza, e di questa sapienza riempì il mondo intero e lo riempie ancora”.[19]

Fino a perdersi ormai sulla soglia del paradiso:

“O nulla sconosciuto, o nulla sconosciuto!”.[20]

Alla fin fine, l’esperienza di Dio ha a che fare con la legge dell’esperienza dell’amore che Angela vive. L’amore di Dio è colto quanto più l’anima tende a lui con tutta se stessa avendo coscienza del suo peccato. Il cammino è lungo e va dalla coscienza dei peccati e dal dolore per essi, come testimoniato dai primi passi, fino all’esperienza radicale del proprio essere nulla, tipica degli ultimi passi. Ma i passaggi sono significativi solo se colti nel movimento di Dio che si fa ‘nulla’ per me perché io ‘sia’.[21] Senza la percezione di questo movimento di Dio per noi, vana sarebbe la nostra ascesa e vuota di senso la nostra storia. Le nostre ‘penitenze’ si ridurrebbero a soddisfacimenti di sensi di colpa e risulterebbero una parodia dell’amore.

La bellezza dell’anima è colta a partire dalla sua totale indegnità, che risalta proprio dentro un amore che a lei si rivela e viene ad abitarla. Nella coscienza dell’anima valgono contemporaneamente i due poli, la sua indegnità e la gratuità dell’amore che la visita riempiendola. Così, a volte, prevale l’angoscia terrificante della propria malizia, a volte la dolcezza luminosa del venire di Dio. Per questo Angela appunta il suo sguardo fisso sull’uomo passionato che rivela non solo il suo grande amore per noi (“Non ti ho amato per scherzo”, “Non ti ho servito con finzione”, “Non ti ho conosciuto standomene lontano”)[22] ma il segreto di Dio per l’uomo custodito fin dall’eternità. Lo rivela una visione nella tenebra, del settimo passo supplementare, quando celebra in versi la gioia dell’umanità di Gesù:

“Ti lodo Dio, mio diletto, nella tua croce ho posto il mio letto. Per cuscino e capezzale ho trovato la povertà. Per mio riposo all’altro lato del letto ho trovato il dolore e il disprezzo. … In quel suo letto io trovo il mio riposo perché in quel suo letto egli nacque visse e morì; e perché il Padre amò questo suo letto prima ancora che l’uomo peccasse. Dio amò l’amore che lega insieme questa compagnia – povertà, dolore e disprezzo – e tanto la predilesse che volle darla come compagna al Figlio suo; e il Figlio volle continuamente riposare in questo letto e sempre lo amò e consentì col Padre.  Ciò spiega perché questo è il mio letto: poiché in esso – che è la stessa croce di Cristo, che lui portò sempre nel cuore e molto di più nell’anima – io ho trovato il mio posto e il mio riposo”.[23]

Non per nulla Angela fa riferimento diverse volte al fatto che la passione del Figlio sia voluta dall’eternità, fin da prima del peccato. Dal punto di vista teologico, l’idea non aveva una formulazione adeguata e non l’avrà per molto tempo fino ad oggi, ma l’esperienza prevale sulla teologia e impegna la teologia a farsene una ragione.[24] Il nostro nulla è drammaticamente evidente, ma dentro un rapporto, così che la coscienza del nulla non distrugge ma allarga a dismisura i confini. La comprensione del peccato all’interno dell’amore di Dio per l’uomo fin dall’eternità, svelato nel suo Figlio incarnato e passionato, permette un’esperienza di Dio molto più radicale e una coscienza di sé più libera.

Forse, si deve questa possibilità all’esperienza straordinariamente singolare di s. Francesco di Assisi che vive l’umanità del Signore Gesù, nella sua estrema povertà di beni, affetti e di se stesso, in una parola nel suo annichilamento, come riporta sempre Angela, non come una diminuzione o nascondimento di gloria, ma come la ‘sua’ gloria, come la gloria tipica di Dio:

 “Ma Dio volle che mi venisse rivelato ancor di più nella sua povertà: lo vedevo povero di amici e di congiunti, lo vedevo povero di se stesso, così povero che non si capiva come aiutarlo. Di solito si dice che in quel momento la potenza di Dio era nascosta per umiltà: benché si dica ciò pure io dico che non lo era”.[25]

É per questo che Francesco sceglie di stabilirsi nella povertà perfetta la quale, prima che povertà di beni, è povertà di rivendicazioni negli affetti, è povertà di se stesso per la comunione dando il diritto a tutti di fargli del male senza per questo perdere la carità di Dio.[26] Detto con le parole di un autore moderno:

“En Jésus-Christ, le témoignage éclate dans cette désappropriation absolue qui fait de la divinité de Jésus-Christ la symbiose de cette pauvreté absolue à la fois de Dieu et de l’homme, pauvreté selon l’esprit, pauvreté qui est l’essence de l’amour: on ne peut aimer vraiment que dans la désappropriation, en faisant de soi un espace illimité pour accueillir l’être aimé”.[27]

Il mistero della povertà ha a che fare con il mistero della Trinità. Anche per questo, in Angela, la sua trasformazione nel Cristo crocifisso si accompagna con l’inabitazione in Dio.[28]

Verità.

Emerge però subito il problema: come non restare ingannati? Come non illudersi? Angela non cerca semplicemente una sicurezza soggettiva tranquillizzante, ma una coscienza di verità incontrovertibile. La esige per sé e la chiede a Dio. Nell’esperienza di Dio come di colui che “va in cerca di noi con tale amore e con tale sviscerato desiderio, dando tutto se stesso” [29] diventa urgente imparare a discernere come rispondergli camminando sempre nella via diritta e in assoluta sincerità.

“Figli miei, a che valgono le rivelazioni, le visioni, i sentimenti del cuore, le dolcezze spirituali, ogni sapienza, ogni elevazione a Dio, ogni contemplazione mistica, se l’uomo non possiede l’esatta conoscenza di sé e di Dio? Vi dico, in verità, che tutte queste cose sono proprio un niente”.[30]

Detto in termini positivi:

“ Questo nostro Dio, Dio increato, Dio incarnato, Bene sommo e perfetto è tutto amore; e perciò ama con tutto se stesso e vuole essere amato allo stesso modo. É per questo motivo che vuole che i suoi figli siano tutti trasformati in lui per mezzo dell’amore. … E così l’anima, se vuol giungere a questa perfezione d’amore perfetto … deve entrare nella via giusta e camminare per questa via retta coi piedi di un amore puro, vero e ordinato. Il primo passo o gradino che l’anima che vuol giungere a Dio deve fare quando si inoltra in questa via, è di pervenire alla conoscenza di Dio nella verità … conoscerlo in sé, comprenderne l’essenza, la bellezza, la dolcezza, l’altezza, la virtù, la bontà, significa arrivare al sommo Bene attraverso l’esperienza di lui, Bontà somma”.[31]

Ma l’amore, nell’esperienza realistica di Angela, però, è anche questo:

“Nulla esiste al mondo, né uomo né diavolo né alcuna cosa, che io consideri così sospetto come l’amore, poiché l’amore penetra dentro l’anima più di ogni altra cosa. E non vi è nulla che sappia impossessarsi di tutto il cuore e farlo prigioniero come l’amore. Per cui, se non si dispone di armi capaci a difenderla, l’anima facilmente precipita e fa gran rovina”.[32]

Il problema nasce proprio qui: su quale via. La scelta di Angela è chiarissima: la via è quella della povertà. Non però semplicemente la povertà come virtù, ma la povertà nelle sue radici divine come espressione dell’amore di Dio che ha voluto il suo Figlio in compagnia di povertà, dolore, disprezzo e obbedienza vera.

“Il Padre ci ha tracciato la via perché potessimo arrivarvi [= al vero amore] e questa via è il Figlio suo, l’Amato, che lui volle fosse figlio di povertà, di dolore, di disprezzo e di vera obbedienza”.[33]

Povertà dunque come condivisione della vita del Figlio di Dio, come trasformazione in lui. La povertà, più che uno strumento per il progresso, è un criterio di discernimento della sincerità del desiderio di Dio e della verità della trasformazione in lui.

É assolutamente determinante nell’esperienza di Angela l’orizzonte interpretativo in cui colloca la povertà. Nell’Istruzione XXVII si introduce così:

“Chi potrà meritare questi dolcissimi doni di Dio, sappia che è già consumato e perfetto nel dolcissimo Signore Gesù, e che è diventato un altro dolce Gesù per la grazia della trasformazione. E quanto più avanzerà per questa strada, tanto più in lui crescerà l’essere del dolce Gesù”.[34]

La povertà ha che fare con il diventare ‘un altro dolce Gesù’. Elenca sette doni, ma in realtà i doni sono uno solo: condividere la vita del Figlio di Dio fatto uomo, vita che si esprime in tre aspetti specifici: povertà – disprezzo – dolore. Gli altri costituiscono le condizioni per godere quei tre aspetti specifici, vale a dire: l’indegnità dell’anima di fronte ai tre doni tanto da poter sempre ricominciare daccapo per non aver mai posseduto quei doni; la preghiera insistente per poterli condividere con il Signore perché la propria vita e la propria gioia siano tutte nella perfetta trasformazione in quei tre doni; il timore assoluto di potersene allontanare e, infine, il non giudicare nessuno ma reputarsi più vili di tutti e indegni della grazia di Dio.[35]

Due osservazioni sono necessarie. La prima: povertà-dolore-disprezzo, termini che esprimono la realtà dell’abbassamento totale vissuto dal Figlio di Dio incarnato e morto per noi, sono accompagnati spesso dall’aggiunta: ‘e vera obbedienza’ o ‘e perfetta obbedienza’. L’accompagnamento di questa aggiunta fa accedere alla ragione di fondo, alla dimensione fontale dell’essere di Gesù che vive il segreto del Padre nel suo amore sviscerato agli uomini. Dice a partire da che cosa, su cosa fa leva, che cosa esprime, dove mira la vita di Gesù nella povertà-dolore-disprezzo. Aggiunge la dimensione trinitaria alla vita di Gesù. Credo che tutto ciò corrisponda alle espressioni evangeliche: “non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato” (Gv 8,28);  “chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45); “E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me” (Gv 12,50); “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto” (Gv 14,6-7). Angela non lo sottolinea mai espressamente, ma la combinazione di povertà-dolore-disprezzo con obbedienza lo richiede sia dal punto di vista teologico che da quello spirituale. Perché anche per l’uomo vale la stessa dinamica. La decisione di seguire Gesù nella sua via radicale di povertà, se non procedesse e non si sviluppasse all’interno di un processo di trasformazione che attinge all’intimità con Dio, non potrebbe raggiungere i frutti sperati, cioè l’amore puro. In questo contesto si comprende come la povertà sia esattamente il contrario della superbia.[36]

Seconda osservazione. Il fatto di sottolineare che, a livello della nostra coscienza umana, la cosa principale sia quella di non giudicare nessuno e di ritenersi più vili di tutti, allude alla direzione del movimento che l’anima vive nella sua scelta della povertà radicale. L’anima sceglie di accondiscendere al movimento di abbassamento di Dio nel suo amore per l’uomo vivendolo come lui in una espropriazione di se stessi radicale, in modo da poter condividere la carità di Dio sempre e comunque.

E proprio qui si innesta l’aspetto forse più rilevante di un certo modo di intendere l’esperienza di fede in Angela: il movimento interiore è vissuto come un movimento di rivelazione. Alla stessa stregua delle Scritture. Come testimone della tradizione cito Gregorio Magno, che indica chiaramente come la tensione all’intelligenza delle Scritture comporti il raccordo delle stesse alla carità. Nelle Scritture si tratta di scrutare la carità di Dio  per l’uomo e contemporaneamente di coglierla come il senso ultimativo del mondo e dell’uomo. La corrispondenza che fa emergere è la seguente: tutte le Scritture parlano della carità di Dio e tutte le Scritture comportano l’assimilazione della potenza della carità perché la vita di Dio si comunichi all’uomo. Su questa corrispondenza la Scrittura si forma e si struttura fin dall’AT. Le Scritture narrano la predilezione di Dio per il suo popolo (carità come elezione) e contemporaneamente la risposta del popolo alla predilezione di Dio (carità come santità), in funzione di intercessione perché tutti diano gloria a Dio, riconoscendo cioè la verità del suo amore per gli uomini. Questa corrispondenza attraversa anche il NT e la chiesa diventa lo spazio di rivelazione della carità di Dio per il mondo.[37]

Se si mettono insieme i passi del Libro relativi al rapporto di Angela con le Scritture vediamo confermata e condivisa nella sua esperienza la posizione di Gregorio Magno.

“Beati non coloro che leggono le mie Scritture, ma quelli che le mettono in pratica; e diceva che tutta la Scrittura trova il suo compimento nella vita di Cristo, e che lei questo aveva capito”.[38]

 “La Scrittura divina sta a tale altezza che non c’è uomo così sapiente sulla terra, anche se dotato di scienza e spirito, che possa intenderla così a fondo che essa non superi il suo intelletto. … Poiché la mia anima viene spesso innalzata fino ai segreti di Dio e contempla i misteri di Dio, capisco come fu fatta la Scrittura: come sia difficile e facile allo stesso tempo, come sembra dire e contraddire, come alcuni non riescano a trarre da essa alcuna utilità, come coloro che non la osservano si dannino ed essa si compia in loro; come altri invece osservandola in essa si salvino”.[39]

“Quando è in me questo amore, non vorrei sentire nessuna persona parlarmi della passione e vorrei che non mi si nominasse neppure Dio, poiché in quel momento sento tale amore con tale forza che ogni altra cosa costituisce come un impedimento, perché è inferiore ad esso. E mi sembra che il Vangelo e le parole di Dio che mi sono state dette siano qualcosa di inferiore rispetto a questo amore, poiché in esso vedo cose più grandi”.[40]

“Capisco conseguentemente come tutte le verità che ci sono state dette dalla Scrittura o da tutti gli uomini fin dall’inizio del mondo, non costituiscano che una piccola parte dell’intera sostanza di Dio, quasi metà di un granellino di frumento a confronto di tutto il creato”.[41]

Il contenuto di tutto questo, però, riguarda sempre la manifestazione di Dio nel suo amore per l’uomo, che è inenarrabile e infinito, di cui le Scritture sono solo la testimonianza e che Angela definisce come il settimo dono di Dio all’anima, quello di degnarsi di farsi conoscere Amore e di farsi amare. [42] Angela gode e soffre di questa ‘testimonianza’ con tutta la sua persona e dentro la sua persona, perdutamente. Ma la nota caratteristica dell’amore che si trova nell’uomo non sarà l’ardore, bensì l’umiltà e un’umiltà dolce, benigna, perché “conoscendosi e scoprendo di essere un nulla, si innalzerà di più nella conoscenza e nella lode dell’indicibile bontà di Dio, che lei comprende attraverso questa umiltà. Da qui cominciano a nascere le virtù”. [43]

“In verità, questa umiltà di cuore e questa mansuetudine egli la pose come fondamento e radice solidissima di tutte le virtù. A nulla vale la mortificazione, l’asprezza del digiuno, la povertà … Tutte queste cose sono niente senza l’umiltà di cuore”.[44]

Trasformazione

L’itinerario che dall’umiltà porta alla conoscenza di Dio e di se stessi è un processo di trasformazione continuo. La testimonianza di un redattore delle Istruzioni è chiara:

“Da parte mia sono convinto che … tutte le parole … stiano a dimostrare che quell’anima si trovi in un processo di continua trasformazione in Dio, luce tutta infinita, e in un sentimento, finora mai provato con tale intensità, di Gesù crocifisso e sofferente”.[45]

La ragione? Dio

“ama con tutto se stesso e vuole essere amato allo stesso modo. È per questo motivo che vuole che tutti i suoi figli siano tutti trasformati in lui per mezzo dell’amore”.[46]

Così la trasformazione ha sempre a che fare con l’amore e la misura di tale amore è dedotta sempre dal Dio incarnato e passionato. Per l’uomo si tratta sempre di discernere come arrivare e mantenersi nell’amore puro, perché in amore vale questa legge:

“Questo è il segno del vero amore, che colui che ama non si trasforma parzialmente, ma totalmente nell’Amato”.[47]

Prima ancora di conoscere per quale via la beata invita a camminare, il modo migliore, per noi, di sincerarci di essere nella via dell’amore puro è vedere quali sono gli effetti che lei registra dopo le sue sublimi visioni. Quando, nel settimo passo supplementare, ha quella visione di Dio che si presenta all’anima, annota:

“E l’anima che lo avverte presente, molto si umilia, prova confusione per i suoi peccati, riceve preziosi doni di sapienza e larga consolazione e gioia divine”.[48]

E più avanti, uscendo dallo stato supremo di vedersi sola con Dio, dice di accorgersi di questo:

“mi vedo piena di peccati, schiava di essi, falsa e immonda, tutta inganno ed errore, ma non perdo la mia pace. In me rimane una continua unzione divina, che è la più alta fra tutte, e superiore a quante io abbia ricevuto in vita mia”.[49]

Dopo l’indicibile manifestazione di Dio all’anima, dopo aver vista la sua anima in tanta nobiltà e altezza e aver goduto dell’incontro con Dio, aggiunge:

“Quando, dopo ciò, l’anima rientrò in sé, scoprì un fatto nuovo: ora le piaceva sopportare ogni ingiuria e pena per Dio e sentiva che nessuna cosa, che potesse essere detta e compiuta, avrebbe potuto mai separarla da Dio”.[50]

Il che significa che la linea di sviluppo della trasformazione in vista e tramite l’amore si gioca nella lotta serrata tra umiltà e superbia, nella contrapposizione tra innalzamento e abbassamento.[51] Nel linguaggio di Angela, nella mortificazione e nella penitenza, che spiega così:

“Questa fu la compagnia dalla quale Cristo fu sempre accompagnato durante tutta la sua mortificata esistenza. E tale mortificazione durò finché durò la sua vita di uomo e per essa salì al cielo nella sua umanità. Per essa l’anima può e deve camminare verso Dio e in Dio”.[52]

Tanto da sostenere:

“Questa è la durata e il termine della penitenza: finché l’uomo vive. La grandezza di ogni uomo sta nella misura in cui sa sostenerla. In ciò consiste la trasformazione dell’anima nella volontà di Dio”.[53]

Ma la mortificazione, la penitenza, per Angela, si risolve nella povertà-dolore-disprezzo-obbedienza che il Signore Gesù vive nella sua umanità come rivelazione della gloria dell’amore di Dio per l’uomo. Se quella è la via della sua umanità, non ne esiste un’altra per noi. E quando vuole darne ragione a livello del vissuto per la nostra coscienza, non ha di meglio che sottolineare come quella via sia necessaria per togliere in noi ogni forma di vanità e di ipocrisia che non ci consentono di godere fino in fondo dell’amore di Dio e di rispondervi in sincerità.[54] A questo riguardo Angela usa un’ironia tagliente per descrivere come in realtà noi non vogliamo seguire la via di Gesù:

“C’è oggi una sola persona capace di vivere con una simile compagnia? Una persona disposta a fuggire gli onori e amare il disprezzo? Che ami essere avvilita e disprezzata per il bene che compie, e rifiuti ogni lode ed elogio? Non ce n’è, lo so bene, tranne quelle poche che sono congiunte, attraverso l’amore perfetto, al loro capo che è Cristo. … Si trovano piuttosto anime capaci di parlare così: ‘Io amo Cristo e voglio amarlo e non mi importa se il mondo non vuole onorarmi; ma arrivare al punto di desiderare di essere disprezzata e calpestata, questo no. Vivo anzi perennemente in ansia nel timore che gli altri non vogliano trattarmi male e che Dio non lo permetta!’. Una tale persona, è chiaro, ha poca fede, poca giustizia e poco amore”.[55]

Così, ecco le tre qualità che deve possedere chi ama:

“La prima è di lasciarsi trasformare nella volontà dell’Amato. La volontà dell’Amato mi sembra sia la via che l’Amato ci mostra attraverso se stesso. Ci mostra infatti la povertà, il dolore, il disprezzo e la vera obbedienza … La seconda consiste nel desiderare ardentemente di trasformare se stessi fino a possedere le proprietà dell’Amato. Di queste proprietà voglio indicarne soltanto tre, perché ognuno di voi le conosce meglio di me. La prima è l’amore, che ci fa amare ogni creatura come si conviene; la seconda sta nell’essere veramente umili e benigni; la terza proprietà che Dio concede ai suoi figli legittimi è il non essere più soggetti a mutazioni interiori … La terza qualità è di essere totalmente trasformati in Dio”.[56]

Ciò che colpisce noi moderni è la sottolineatura ‘mortificante’ della via indicata, tanto da descrivere l’umanità di Gesù in termini angosciosi, per noi assolutamente irricevibili,[57] insieme però al fascino del frutto perseguito, che è un amore libero e sovrano. Un’immagine potente di questa ambivalenza è data dall’esperienza dello sguardo di Gesù, amoroso e fedele, amaro e addolorato, come riportata nell’Istruzione XXX, che descrive una sua riflessione sull’Eucaristia. I due aspetti sono inscindibili e anche se noi non possiamo condividere una certa sua sensibilità, desideriamo però gli stessi frutti, per me riassunti, secondo la potenza di quel movimento di ‘abbassamento’ che consente a Angela di condividere la bellezza e l’angoscia dell’amore di Dio:

“Figli miei, fate ogni sforzo per avere questa carità nei riguardi di ogni uomo, poiché io vi dico in verità che la mia anima ha più ricevuto da Dio quando ha pianto e sofferto con tutto il cuore per i peccati del prossimo che quando ha pianto per i propri peccati. Non c’è infatti maggiore carità qui sulla terra che soffrire per i peccati del prossimo. Il mondo non crede a quanto io dico, perché gli sembra contro natura che un uomo possa piangere e soffrire per i peccati del prossimo, come fossero suoi o più ancora che suoi; ma la carità che così opera non è di questo mondo. Figli miei, fate di tutto per avere un tale amore”.[58]

Conclusione

Potrei interpretare per la nostra sensibilità di moderni l’esperienza di Angela citando un passo del vangelo di Giovanni, là dove Gesù avverte i suoi ascoltatori: “Non mormorate. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza. E cita un verso del poeta Virgilio: “trahit sua quemque voluptas” (Bucoliche, Egloga II,65). Vale a dire: ognuno è attratto dal suo piacere. É come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cf sal 37,4: “cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore”). In verità il testo del salmo non dice semplicemente che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Già il profeta Geremia l’aveva proclamato: “Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del il Signore- poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,33-34). Ora, proprio nel Cristo, il Figlio prediletto, morto e risorto per noi, noi otteniamo il perdono dei nostri peccati, siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. E nessuno ce lo spiegherà, perché lo capiremo direttamente, esperienzialmente. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere Dio direttamente (= secondo esperienza) accogliendoci senza riserve nel suo perdono.

È quello che Angela chiede ai suoi figli:

“Non desidero che siate predicatori di parole imbevute solo di scienza, predicatori che ripetono meccanicamente le storie dei santi, ma voglio che abbiate in voi lo stesso spirito che dette sapore alla vita di quei santi di cui voi parlate”. [59]

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[1] BENEDETTI, Giovanni. La teologia spirituale di Angela da Foligno, Firenze 2009, Edizioni del Galluzzo (La mistica cristiana tra oriente e occidente, 17). Se avesse sfruttato anche un autore come Isacco Siro, avrebbe potuto ottenere un risultato ancora più efficace.

[2] CITTERIO, Elia. La preghiera e la pratica della preghiera. A proposito di alcuni esicasti minori. Intervento al Convegno “Il monachesimo della santa montagna tra spiritualità e storia”, Roma 23 maggio 2009, testo in www.contemplativi.it.

[3] Interessanti, dal punto di vista della ricerca storica e letteraria, gli articoli che compongono la miscellanea dedicata al tema del cuore:  Il cuore. The Heart, Micrologus. Natura, Scienze e Società Medievali, XI, 2003, Firenze, SISMEL, Edizioni del Galluzzo. In particolare, Anita Guerreau-Jalabert, “Aimer de fin cuer”. Le coeur dans la thématique courtoise, 343-371; Michela Pereira, Il cuore dell’alchimia, 287-304, dove si sottolinea la necessità del cuore puro, vale a dire una conveniente maturazione affettiva e morale, prima di ottenere la conoscenza dei segreti della natura e dell’arte alchemica.

[4] SEDAKOVA, Ol’ga. La luce della vita. Alcune considerazioni sulla percezione ortodossa, in LA NUOVA EUROPA 2, 2009, 23-41. Una bella riflessione a tale proposito si può leggere in M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Milano 1996, Raffaello Cortina, pp. 43-52 (la metafora del cuore. Frammento).

[5] GREGORIO SINAITA, Capitoli molto utili in acrostico, n. 22, in Mistici bizantini, a cura di Antonio RIGO, Torino 2008, Einaudi, p. 440. Del resto, in tutte le religioni vale la stessa ammonizione. Riporto le parole di un famoso legista coranico, l’Imam Bu Mohammed Djoveyni, al discepolo che voleva lasciare la scuola per seguire lo sceicco Abu Sa’id (967-1049), un uomo carismatico di grande levatura, che aveva suddiviso in 40 tappe la sua ascesa spirituale: “Io non ti impedirò di raggiungere lo sceicco. Che tu abbia trovato il suo livello mistico superiore alla tua scienza, va bene, ma se tu immagini che anche tu diventerai lo sceicco Abu Sa’id, ti sbagli. Tu non conosci gli esercizi di mortificazione e le lotte di purificazione spirituale che lui ha compiuto. Noi sappiamo che cosa ha fatto per raggiungere quel livello spirituale. Se tu abbandonerai i tuoi studi, ti priverai della scienza, senza peraltro raggiungere il livello spirituale dello sceicco”. Il discepolo ci ripensa e prosegue con assiduità i suoi studi, insieme frequentando la compagnia di Abu Sa’id. Vedi MONAWWAR, Mohammed Ebn E., Les étapes mystiques du shaykh Abu Sa’id. Mystères de la connaissance de l’Unique. Trad. du persan et notes par M. Achena, 1974, DDB, p. 138-9.

[6] Cfr. McGINN, Bernard. Storia della mistica cristiana in occidente. La fioritura della mistica (1200-1350), Genova 1208, Marietti 1820, p. 229-230.

[7] I termini sono usati in modo diseguale nel Memoriale e nelle Istruzioni. Ad esempio, il termine ‘trasformazione’ ricorre solo nelle Istruzioni.

[8] ANGELA DA FOLIGNO, L’esperienza di Dio Amore. Il ‘Libro’. Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Roma 1973, 3° ed., p. 31. D’ora in avanti: Libro. Il testo latino è citato secondo l’edizione che compare nel sito www.sismelfirenze.it. Per il passo citato: “Vere fidelium experientia probat, perspicit et contrectat de Verbo Vitae Incarnato quemadmodum ipse in Evangelio dicit: Si quis diligit me, sermonem meum servabit et Pater meus diliget eum et ad eum veniemus et mansionem apud eum faciemus. Et: Qui diligit me, manifestabo ei meipsum. Quam experientiam et ipsius experientiae doctrinam ipse Deus suos fideles facit probare plenissime”.

[9] Corrisponde alla preghiera della chiesa nella colletta della domenica VI del Tempo Ordinario: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.

[10] Libro, p. 294 (Istruz. XXXV: “Supra istam non est maior caritas, quam quod Deus meus fiat caro ut me faciat Deum”).

[11] Libro, p. 46 (passo diciannovesimo: “Domine, istud quod facio non facio nisi ut inveniam te. Inveniam te postquam perfecero hoc? Et multa alia dicebat in oratione illa. Et responsio facta est ei ita: Quid vis? Et ipsa respondit: Nolo aurum nec argentum, et si dares mihi totum mundum, nolo aliud nisi te”).

[12] Libro, p. 298 (Istruz. XXXV: “Sextum donum est sapientia. O Domine, fac me dignam cognoscere ardentissimam caritatem tuam, cum qua caritate donasti nobis istud donum, scilicet sapientiam tuam. O in veritate istud est donum omnium donorum, scilicet assaporare te in veritate”).

[13] Libro, p. 42 (passo diciassettesimo: “demonstratum est mihi quod beata Virgo acquisivit mihi gratiam quae dedit mihi fidem aliam quam habueram; quia videbatur mihi quod usque adhuc fuisset fides meaquasi mortua in comparatione, et lacrimae quas habueram fuissent quasi per vim in comparatione; sed postea dolui de passione Christi efficacius et de dolore Matris Christi. Et tunc quidquid faciebam et quantumcumque faciebam, videbatur mihi parum facere; et habebam voluntatem faciendi maiorem paenitentiam. Et tunc reclusi me in passione Christi; et data est mihi spes quod ibi poteram liberari”).

[14] Libro, p. 43-44 (passo diciassettesimo: “Vis hoc probare? … Et dixit mihi ille qui ducebat me quod adhuc intellectus Evangelii erat res tantum delectabilissima, quod si quis illud intelligeret, oblivisceretur non solum omnium mundanorum, sed oblivisceretur omnino sui ipsius. … Et ex tunc tanta certitudo remansit mihi et tantum lumen et ardor amoris Dei quod affirmabam certissime, quod nihil praedicatur de delectatione Dei”).

[15] “Quel che sento non so dire, da ciò che vedo non voglio partire: per questo il mio vivere è morire. Dunque, attirami a te”, Libro, p. 149 ( settimo passo suppl.: “Illud quod sentio non possum dicere, ab illo quod video nollem de cetero discedere; ideo meum vivere est mori,et ergo trahe me ad te”).

[16] Libro, p. 110 (quarto passo suppl.: “Et ex tunc remaneo ita contenta et securata, quod si certissime scirem me esse damnandam, nulla ratione possem dolere, et non minus laborarem et studerem orare et honorare eum”).

[17] Libro, p. 177 (Istruz. XXXIV: “Et ideo si anima vult venire ad istam perfectionem perfecti amoris, qui dat se totum, et servit Deo non per intuitum praemii quod ab ipso Deo expectet recipere in hoc mundo nec etiam in futuro, sed dat se Deo et servit Deo pro ipso Deo, qui est totus bonus et totum bonum, dignus diligi solum propter seipsum, debet ipsa anima intrare viam rectam et ambulare per ipsam viam rectam pedibus amoris puri, recti, ferventis et ordinati”).

[18] Libro, p. 302 (Istruz. XXXVI: “Et ego non facio aliud testamentum, nisi quod recommendo vobis istam mutuam dilectionem, et relinquo vobis totam haereditatem meam, scilicet vitam Christi, videlicet paupertatem, dolorem et despectum”).

[19] Libro, p. 207-208 (Istruz. III: “Non enim ego possum respicere ad alium sanctum qui magis singulariter ostendat mihi viam libri vitae, scilicet exemplar vitae Dei et hominis Jesu Christi, nec video aliquem qui tantum singulariter figeret se in eo. Et tantum singulariter fixit se ibi, ut nunquam oculos animae suae amoveret ab illo, quod etiam in carne patuit. Et quia ipse fixit se ibi ita plenissime, fuit repletus summa sapientia. Et de ista sapientia totum mundum implevit et implet”).

[20] Libro, p. 304 (Istruz. XXXVI: “O nihil incognitum! O nihil incognitum!”).

[21] “Tu, uomo, che eri nulla, sei stato amato in modo puro e fedele da colui che solo è, che volle farsi nulla per amore tuo, per darti un essere perfettissimo”, Libro, p. 169 (Istruz. XXII : “Et tu, homo, qui nihil eras, tam purissime et fidelissime te dilexit iste qui solus est, ut solum ob tui amorem exinaniri voluit, ut tibi daret perfectissimum esse”).

[22] Libro, p. 279-280 (Istruz. XXIII: “Ego te non amavi per truffam … Ego non servivi tibi per simulationem … Ego non te sensi per elongationem”).

[23] Libro, p. 148 (settimo passo suppl.: “laudo te Deum dilectum, in tua cruce habeo factum meum lectum; pro capitali vel pro plumatio inveni paupertatem; aliam partem lecti ad pausandum inveni dolorem cum despectu….In praedicto lecto, quia ipse in lecto fuit natus, conversatus et mortuus, et quia Deus Pater istum praedictum lectum amavit antequam homo peccaret et istum amorem de ista societate, scilicet de paupertate et de dolore et de despectu Deus Pater tantum amavit, et tantum praedictam societatem Deus Pater amavit et dedit eam Filio suo, et Filius in isto lecto continue voluit iacere et continue amavit et concordavit cum Patre iste lectus est meus lectus; quia in isto lecto, scilicet in ista cruce Christi ipse habuit in corpore et in anima multo magis, sum ego collocata vel pausata, ideo iste est meus lectus, et in isto lecto credo mori et per istum lectum credo salvari”).

[24] Secondo il dato delle Scritture: “ … libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Ap 13,8); “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1Pt 1,18-20).

[25] Libro, p. 112 (quinto passo suppl.: “Et tunc videbam eum pauperem de amicis et de parentibus, et videbam eum pauperem de se ipso et tantum pauperem, quod non parebat quod se posset adiuvare. Et sicut dicitur quod tunc divina potentia erat abscondita per humilitatem, quamvis dicatur quod tunc erat abscondita per humilitatem divina potentia, ego dico quod non erat abscondita”).

[26] Povertà, per Francesco,  accettata nella sua radicalità interiore ed esteriore tanto da diventare ‘pazzo per l’amore di Cristo’, da essere l’ultimo, disprezzato da tutti, mai desiderando di essere sopra gli altri, ma anzi servo e soggetto ad ogni umana creatura per amore di Dio: “Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne (1Cor 1,26), ma piuttosto dobbiamo essere semplici, umili e puri.  E disprezziamo noi stessi, poiché tutti, per colpa nostra, siamo miseri, putridi, fetidi e vermi, così come dice il Signore per mezzo del suo profeta: Io sono un verme e non un uomo, sono l’obbrobrio degli uomini e lo spregio del popolo (Sal 21,6).  Mai dobbiamo desiderare di essere sopra gli altri, ma anzi dobbiamo essere servi e soggetti ad ogni umana creatura per amore di Dio (1Pt 2,13)” , 2 Lettera ai fedeli, FF 199. Secondo l’espressione di Cabasilas: “ La povertà in spirito … di chi può essere se non di coloro che conoscono la povertà di Gesù? Essendo il Signore, ha condiviso la natura e il modo di vivere dei servi; essendo Dio, si è fatto carne; lui che ci fa ricchi ha scelto la povertà, il re della gloria ha sofferto l’ignominia, per la liberazione del genere umano si è lasciato ridurre in catene …”, N. Cabasilas, La vita in Cristo, a cura di U. Neri, Torino 1981, Utet (Classici delle religioni), p. 308.

[27] ZUNDEL, Maurice. Le problème que nous sommes. La Trinité dans notre vie. Textes inédits choisis et présentés par Paul Debains, Sarment – éditions du jubilé 2005, p. 206. Cfr in particolare le pagg. 121, 123, 193, 203.

[28] Secondo la bella espressione dell’Istruzione IV: “Est etiam praeponderandum quod dixit, quod illa elevatio Increati et transformatio Crucifixi unum statum continuum ponunt in anima sua inabyssationis in Deum et transformationis in Crucifixum, quem non credit perdere in aeternum”.

[29] Libro, p. 219 (Istruz. IV: “Pensate, fratres, quantum per affectus et opera debet amari ille, qui sic nobis viscerose se donat et qui sic amorose et possessive totaliter nos requirit”).

[30] Libro, p. 276 (Istruz. XIV: “O filioli mei carissimi, quid facit omnis revelatio, omnisvisio, omne sentimentum, omnis dulcedo, quid omnis sapientia, quid omnis elevatio, quid omnis contemplatio, nisi homo habeat veram cognitionem Dei et sui? In veritate dico vobis quod nihil”).

[31] Libro, 176-178 (Istruz. XXXIV: “Iste Deus noster increatus Deus incarnatus, summum bonum et perfectum, est amor totus, et ideo totus diligit et totus vult diligi; unde vellet filios suos totos transformatos in se per amorem. … Et ideo si anima vult venire ad istam perfectionem perfecti amoris, [qui dat se totum, et servit Deo non per intuitum praemii quod ab ipso Deo expectet recipere in hoc mundo nec etiam in futuro, sed dat se Deo et servit Deo pro ipso Deo, qui est totus bonus et totum bonum, dignus diligi solum propter seipsum,] debet ipsa anima intrare viam rectam et ambulare per ipsam viam rectam pedibus amoris puri, recti, ferventis et ordinati. Et primus gradus sive passus, quem debet facere anima quae intrat istam viam, quae etiam desiderat accedere ad Deum, est quod cognoscat Deum in veritate. … “cognoscere eum in veritate” in se intelligendo suum valorem, pulchritudinem, dulcedinem, altitudinem, virtutem et bonitatem et ipsum summum bonum in ipso summo bono”).

[32] Libro, p. 257 (Istruz. II: “Nihil est in mundo, nec homo nec diabolus nec aliqua res, quam habeam sic suspectam sicut amorem, quia amor penetrat animam plus quam aliquid; et nihil est quod ita totum cor occupet et liget sicut amor. Et ideo nisi habeantur arma quibus regatur, de levi praecipitat animam et facit magnam ruinam”).

[33] Libro, p. 246 (Istruz. XXVIII: “Et Deus Pater fecit nobis viam per Amatum, id est per Filium suum, qui fecit eum Filium paupertatis, doloris et despectus et oboedientiae verae”).

[34] Libro, p. 254 (Istruz. XXVII : “Haec dulcissima Dei dona quicumque obtinere poterit, sciat se perfecte esse consummatum et perfectum in dulcissimo Domino Jesu Christo et esse factum ipsum dulcissimum Jesum Christum per transformationem. Et quanto magis in his profecerit, tanto magis esse dulcissimi Jesu crescet in eo”).

[35] Cfr. Libro, p. 254-256 (Istruz. XXVII). É caratteristica questa finale, che corrisponde alla finale della preghiera di s. Efrem recitata nove volte al giorno nella liturgia quaresimale bizantina. Si veda l’analisi di questa bellissima preghiera nel mio La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, pp. 63-79.

[36] Cfr. Libro, p. 133-135 (quinto passo  suppl.)

[37] Si veda il mio L’intelligenza spirituale delle Scritture, Bologna 2008, EDB, p. 213.

[38] Libro, p. 154 (settimo passo suppl.: “Sed dicebat quod audivit quod commendabantur non magni lectores sed adimpletores Scripturae meae. Et dicebat quod tota Scriptura divina adimplebatur in isto exemplo, scilicet suae vitae, ipsa comprehendebat”).

[39] Libro, p. 159 (settimo passo suppl.: “Scriptura divina est tantum altissima, quod non est aliquis homo ita sapiens in mundo, etiam si habeat scientiam et spiritum, quod possit eam intelligere ita plene quod non superetur intellectus eius ab ea … Et quia anima mea saepe levatur in divina secreta et videt secreta Dei, intelligo illud quo facta est Scriptura divina; illud quo facta est difficilis et facilis; illud quo videtur dicere et contradicere; illud quo nullam utilitatem habent aliqui de ea; illud quo non observantes damnantur et adimpletur in eis; illud quoalii observantes salvantur in ea; et sto desuper”).

[40] Libro, p. 118 (quinto passo suppl.: “Et tunc nollem audire omnino aliquid de passione; et tunc nollem quod nominaretur mihi Deus, quia tunc eum sentio cum tanta delectatione quod omne aliud esset impedimentum, quia esset minus illo; et nihil videtur mihi quod dicatur de Evangelio nec de aliqua locutione; et adhuc maiora video”).

[41] Libro, p. 129 (quinto passo  suppl.: “ideo intelligo quod omnia quae dicta sunt per Scripturam vel per omnes homines a principio mundi, non videtur mihi quod potuerit per eos dici quasi aliquid de medulla nec medium unum granum in comparatione totius mundi”).

[42] Cfr. Libro, p. 298 (Istruz. XXXV).

[43] Cfr. Libro, p. 225 (Istruz. V: “et videndo et cognoscendo se nihil, tunc magis assurgit ad cognoscendam et laudandam divinae bonitatis ineffabilitatem, quam per istam humilitatem videt et intelligit ita plene. Et inde incipiunt oriri virtutes”). Perché non si tratta di conquistare l’amore ma di attirarlo, proprio come dice Isacco Siro: “Se pratichi una bella virtù e non senti il gusto del suo soccorso, non meravigliarti. Finché l’uomo non diventa umile, non prende la paga della sua opera. La ricompensa non è data all’opera, ma all’umiltà. Chi fa torti alla seconda, perde la prima. Chi la fa precedere ed ha preso la ricompensa dei beni, possiede più di chi ha l’opera della virtù. La virtù è madre della pena e dalla pena nasce l’umiltà e la grazia è data all’umiltà. La ricompensa non è per la virtù né per la fatica che si sopporta nel praticarla, ma è per l’umiltà che nasce da ambedue. Se manca questa, le altre due si compiono invano” (Disc. 37, in La vita spirituale, i suoi segreti, p. 210).

                [44] Libro, p. 223 (Istruz. V: “Vere enim hanc cordis humilitatem et corporis mansuetudinem pro fundamento et radice firmissima posuit omnium virtutum; quia nec abstinentia et ieiunii asperitas, nec paupertas exterior et vilitas vestimenti, nec virtuosa in apparentia habere opera et miracula facere, est aliquid sine cordis humilitate”).

[45] Libro, p. 217 (Istruz. IV: “Quod sic intelligo ego nescio tamen si bene, et hic et ubicumque dicuntur similia verba quod scilicet anima illa benedicta formatur de novo in quemdam statum continui actus transformationis in Deum et in Dei infinitissimum lumen et in dolorosi Crucifixi sentimentum sibi hactenus inexpertum”).

[46] Libro, p. 176 (Istruz. XXXIV: “Iste Deus noster increatus Deus incarnatus, summum bonum et perfectum, est amor totus, et ideo totus diligit et totus vult diligi; unde vellet filios suos totos transformatos in se per amorem”).

                [47] Libro, p. 246 (Istruz. XXVIII: “Et hoc est signum veri amoris, quod, qui amat, non sui partem sed totum se transformat in amatum”).

[48] Libro, p. 158 (settimo passo suppl.: “Et anima tunc intelligens eum praesentem valde humiliatur, et recipit confusionem de peccatis suis. Et recipit hic anima magnam gravitatem sapientiae et magnam consolationem divinam et laetitiam”).

[49] Libro, p. 162 (settimo passo supp.: “Et quando remaneo ab illo maximo in quo non recordor rei alicuius alterius, revenio quod simul video me in illis bonis quae dixi, et video me in me totam peccatum et oboedientem peccato,obliquam et immundam, totam falsam et erroneam, sed remaneo quieta. Et remanet mihi una unctio divina continua quae est summa omnium unctionum, et est super omnes unctiones quas unquam habuerim omnibus diebus”).

[50] Libro, p. 163 (settimo passo supp.: “Et quando post praedicta anima revenit in se, invenit istud, scilicet quod placebat sibi omnem iniuriam et poenam sustinere pro Deo et quod per nulla, quae dici vel fieri possent, de cetero ipsaposset separari a Deo”).

[51] Si vedano le esperienze del sesto passo suppl. Non ho affrontato direttamente il tema degli ‘strumenti’ messi a disposizione dell’anima per accompagnarsi in questo cammino di trasformazione, ma non posso qui non accennare allo strumento per eccellenza, che è la preghiera. Come dice Angela: “Ma senza la luce di Dio nessun uomo si salva. Essa fa muovere all’uomo i primi passi; essa lo conduce al vertice della perfezione. Perciò, se vuoi cominciare a possedere questa luce di Dio, prega; se sei già impegnato nella salita della perfezione e vuoi che questa luce in te aumenti, prega; se sei giunto al vertice della perfezione e vuoi ancora luce per poterti in essa mantenere, prega; se vuoi la fede, prega; se vuoi la povertà, prega; se vuoi l’obbedienza, la castità, l’umiltà, la mansuetudine, la fortezza, prega. Qualunque virtù tu desideri, prega. E prega leggendo nel libro della vita, cioè nella vita del Dio-Uomo Gesù, che fu tutta povertà, dolore, disprezzo e perfetta obbedienza”, Libro, p. 198-199 (Istruz. III:  “Sed sine divino lumine nullus homo salvatur; unde divinum lumen facit hominem incipere, divinum lumen facit hominem proficere, divinum lumen ad apicem perfectionis adducit. Et ideo si vis incipere et habere istud lumen divinum, ora. Si proficere incoepisti et vis praedictum lumen in te augmentari, ora. Si autem ad apicem perfectionis pervenisti et superilluminari vis ut possis in eo permanere, ora. Si vis fidem, ora. Si vis spem, ora. Si vis caritatem, ora. Si vis paupertatem, ora. Si vis oboedientiam, ora. Si vis castitatem, ora. Si vis humilitatem, ora. Si vis mansuetudinem, ora. Si vis fortitudinem, ora. Si vis aliquam virtutem habere, ora. Et ora isto modo, scilicet legendo in libro vitae, id est in vita Dei et hominis Jesu Christi, quae fuit paupertas, dolor et despectus et oboedientia vera”).

[52] Libro, p. 182 (Istruz. XXXIV: “Ista fuit societas, a qua fuit associatus Christus continue in sua continua paenitentia; quae paenitentia duravit tantum quantum fuit vita sua in hoc mundo, per quam ipse secundum humanitatem ivit ad caelum. Et per ipsam potest et debet ambulare anima ad Deum et in Deo”).

[53] Libro, p. 261 (Istruz. II: “Et haec est longitudo et terminus paenitentiae, scilicet quantum homo vivit; magnitudo vero eius est, quantum homo potest sustinere; et ista est transformatio in voluntate Dei”).

[54] “Non vedete come non si riesca mai a scacciare completamente da noi la vanagloria e l’ipocrisia? E questo succede per le nostre colpe passate, o per accrescere i meriti dell’anima”, Libro, p. 272 (Istruz. VII: “Et nonne videtis quod vanam gloriam et hypocrisiam non potest homo repellere a se? Et hoc contingit propter culpam praeteritamvel contingit propter meritum animae”). Gli impedimenti alla trasformazione dell’anima sono dati dalla dimenticanza e dalla insensibilità alle cose di Dio (cfr. Istruz. XXII), riprendendo in questo le indicazioni della grande tradizione della chiesa d’oriente e d’occidente.

[55] Libro, p. 185 (Istruz. XXXIV: “Qualis itaque persona invenitur hodie quae diligat talem societatem ut fugiat honorem et diligat verecundiam, quae velit esse advilata et deiectata de bono quod facit et nolit esse laudata et commendata? Mea fide, nulla fidelis invenitur, nisi illa quaeconiuncta est cum Capite Christo per perfectum amorem; quia anima plena amore Christi, videndo quod ipsum suum Caput diligit et vult talem societatem, diligit et vult ipsa similiter. Sed invenitur aliqua, quae dicit: Ego amo Christum et volo diligere, et non curo si mundus non facit mihi honorem; sed non tantum quod ego velim et desiderem verecundiam habere et esse deiectata, sed ego vivo in continuo praelio et continuo timore quod homo non faciat mihi et quod Deus non permittat. Et istud est manifestum signum parvae fidei, parvae iustitiae et parvi amoris, et magnae tepiditatis ex parte istius animae”).

                [56] Libro, p. 273-274 (Istruz. VII: “Tres autem sunt proprietates necessariae amantibus. Prima haec est, esse transformatum in voluntatem amati. Voluntas autem Amati videtur mihi quod sit via quam ostendit nobis per semetipsum, quia ostendit nobis paupertatem, dolorem et despectum et oboedientiam veram. … Secunda transformatio est quando anima cupit cum magno desiderio transformare se in proprietates amati. Proprietates Amati nolo vobis dicere nisi tres, quia vos scitis melius me; sed istae tres sunt istae. Prima es amor, hoc est diligere omnes creaturas secundum convenientias earum. Alia proprietas est esse vere humilis et benignus. Alia proprietas est quam Deus dat legitimis filiis suis, hoc est videlicet immutabilitas; nam quanto anima est proximior Deo, tanto minores mutabilitates in se recipit … Tertia transformatio est esse totaliter transformatum intus in Deum”).

[57] Cfr. Istruz. III, XXII, XXXIV, dove parla della sottomissione di Gesù alle creature prive di ragione, dei coltelli che l’hanno ferito, dei dolori causati dalle cose che non si sarebbero dovute piegare a infliggergli sofferenze indicibili.

                [58] Libro, p. 302-303 (Istruz. XXXVI: “O filioli mei, studeatis habere istam caritatem ad omnes homines; quia in veritate dico vobis quod plus recepit anima mea de Deo quando ploravi et doloravi peccata proximi cum toto corde meo, quam quando ploravi peccata mea. Et in veritate non est maior caritas in terra quam dolorare peccata proximi. Mundus trufat se de hoc quod dico, quia videtur esse contra naturam, scilicet quod homo possit dolorare et plorare peccataproximi sicut sua vel plus quam sua; sed caritas quae hoc facit non est de hoc mundo. O filioli mei, studeatis vos habere istam caritatem”).

[59] Libro, p. 275 (Istruz. VII: “Sed, o filioli mei carissimi, ego desidero cum tota me ut vos sitis praedicatores sanctae veritatis, et liber vester sit iste Deus et homo; et non dico vobis ut libros vestros dimittatis, sed sit vestra voluntas in tenendo et dimittendo. Et non desidero ut sitis praedicatores in verbis solius scientiae, id est in siccis verbis recitare facta sanctorum, sed cum divino saporamento de illo eodem quod illi habuerunt quorum facta recitantur …”).