INTRODUZIONE
Un giorno padre Galaction pose questa domanda a un eremita che aveva incontrato per caso nella foresta: “Ditemi, padre: quando verrà la fine del mondo?” E quel sant’uomo, sospirando, rispose: “Lo vuoi sapere, padre Galaction? Quando non ci sarà più sentiero tra l’uomo e il suo vicino[1]!”.
Troviamo qui una sorprendente definizione del senso della vita come comunione. Tanto più interessante e significativa in quanto a pronunciarla è un eremita, un sihastru, come viene chiamato in Romania il monaco che vive in solitudine. Quando gli uomini pretenderanno di vivere dietro steccati egoistici, chiuderanno i cuori l’uno nei confronti dell’altro, si scorderanno l’amore, il servizio reciproco, in una parola la “comunione”, la vita si svuoterà di senso, il mondo sarà giunto alla sua fine.
La mirabile espressione dell’anonimo sihastru interpreta a fondo il tratto forse più saliente di un modo di intendere la vita, l’impegno religioso, la cultura, che da sempre ha caratterizzato la spiritualità del popolo romeno lungo la sua storia. La traduzione dei colloqui con le grandi figure del monachesimo romeno contemporaneo che presentiamo in questo libro ne fornirà un’ulteriore prova. L’aggiunta di una nostra Introduzione si giustifica solo con il tentativo di delineare quel più vasto contesto storico-religioso, generalmente poco conosciuto, che fa da sfondo alle testimonianze personali eco dell’anima di un popolo e di una chiesa, espressione del loro modo particolare di vivere l’esperienza cristiana.
Romania incrocio di culture
L’antica Dacia, che copriva grosso modo l’odierno territorio della Romania, è stata per eccellenza il paese degli incontri, come del resto in genere tutta la regione del sud-est europeo. In quella terra etnie, religioni e culture differenti si sono incontrate, confrontate e mutualmente influenzate per almeno tre millenni. I geto-daci, popolo indoeuropeo imparentato con i traci, sono considerati gli antenati dei romeni. Costruirono la loro identità culturale con l’apporto sia dei celti che degli sciti e delle colonie greche del mar Nero. Le ricerche archeologiche hanno portato alla luce le loro imponenti fortezze, le officine di lavorazione dei metalli e i loro centri di culto. La compagine statale che si delineava sotto Burebitsa nel primo secolo a.C. appariva così potente che Roma stessa si mise in allarme, decidendo di soggiogare la regione. Sarà appunto dalla fusione dei discendenti dei soldati e coloni romani con la popolazione indigena che avrà origine il popolo cosiddetto daco-romano, unito dalla stessa lingua, il latino.
Nel complesso delle diversità che caratterizzano la storia politico-culturale della Romania, associata com’è, verso sud, al mondo balcanico dominato dall’influenza religiosa e artistica di Bisanzio e più tardi dell’impero ottomano e, verso nord, esposta al mondo germanico e ungherese, l’elemento che fornisce il principio di unità è dovuto proprio alla latinità impressa dalla conquista di Traiano nel 106 d.C. e mai venuta meno. È singolare che il solo popolo che sia riuscito a vincere definitivamente i daci, che abbia occupato e colonizzato in profondità il loro paese e ne abbia imposto la lingua, sia stato il popolo romano. Ambedue, daci e romani, hanno elaborato il loro mito genealogico attorno all’animale mitico del lupo. I daci si chiamavano anticamente “i lupi”, “quelli che somigliano ai lupi”; i loro stendardi di guerra portavano l’immagine del lupo-drago. I romani si sono concepiti come i discendenti di Romolo e Remo, figli del dio lupo, Marte, allevato dalla lupa del Campidoglio. Dal punto di vista della prospettiva mitologica della storia, come nota il famoso storico delle religioni, il romeno Mircea Eliade, si potrebbe dire che il popolo romeno, nato dalla fusione dei daci e dei romani, sia stato generato sotto il segno del lupo, cioè predestinato a guerre, invasioni, emigrazioni[2]. In effetti sembra proprio che la storia si sia ripromessa di dimostrarlo. Invadono successivamente la Dacia i goti, gli unni, gli avari; tuttavia, se pure obbligano gli abitanti a rifugiarsi sui e oltre i Carpazi abbandonando le città, non ne intaccano la coesione e l’identità. Sarà invece la grande invasione degli slavi, che a partire dal VI secolo si riversano a ondate successive su tutta la penisola balcanica, a lasciare un segno profondo e a concludere la formazione del popolo romeno. Aggregata al potente impero bulgaro dello zar Simeone (893-927) l’antica Dacia entra nell’orbita culturale di Bisanzio. La chiesa romena adotta la liturgia nella lingua slava che gli inventori dell’alfabeto slavo, Cirillo e Metodio, avevano inutilmente creato per la Moravia, ma che i loro discepoli Clemente di Ochrida e Naum avevano introdotto in Bulgaria. La lingua romena si arricchisce di un nutrito vocabolario slavo, ma conserva inalterata la sua struttura latina.
L’esistenza ormai del popolo romeno risulta così inconfondibilmente caratterizzata per tutto il corso successivo della sua storia. Come l’hanno definita gli storici: “la latinità orientale”, segnata in egual misura dal sigillo di Roma e dall’influenza di Bisanzio, con le radici saldamente piantate nel fondo ancestrale dei geto-daci. Dall’amalgama di questi tre elementi deriva al popolo romeno la sua specifica consistenza che gli ha permesso di far fronte a tutte le influenze ulteriori dei popoli migratori che via via si sono succeduti. Da est scorrazzano i peceneghi, i cumani, i tatari e da nord-ovest gli ungheresi che, con i loro vassalli, gli szekely o siculi, coloni turco-magiari e i sassoni, fatti venire dai re ungheresi per lo sfruttamento delle ricchezze minerarie, prevalgono ormai in Transilvania.
Verso il XIII secolo il riflusso delle orde tatare dalle pianure danubiane favorisce il ritorno della popolazione romena dalla Transilvania verso sud, verso il Danubio e il mar Nero. Sotto l’autorità di voievodi[3], poi entrati nella leggenda, sorgono i principati di Valacchia, con Radu Negru e Basarab e di Moldavia, con Dragos e Bogdan. Sul finire del secolo XIV si rendono indipendenti dal dominio ungherese, ma appena un secolo dopo devono fare i conti con l’invasione ottomana. A differenza però delle altre regioni balcaniche, i principati romeni, pur pagando un tributo in denaro, conservano un’effettiva autonomia interna e la possibilità di crescere ne1 loro sviluppo culturale e religioso[4]. Anzi, da questo punto di vista, i secoli di vassallaggio all’impero turco, specialmente i secoli XVI e XVII, registrano un momento di vero splendore. Le corti principesche di Suceava e poi di Iasi, capitale della Moldavia e di Curtea de Arges, Tîrgoviste e poi di Bucarest, capitale della Valacchia, conducono vita brillante e lussuosa, vengono fondati in gran numero chiese e monasteri, si producono capolavori artistici nel campo dell’architettura, della pittura e della miniatura. Se la liturgia resta sempre slava, a partire dal secolo XVI si cominciano a tradurre i testi sacri dallo slavonico in romeno. L’impresa di Mihai Viteazul nel 1600 di riunire in un unico stato i principati di Valacchia, Transilvania e Moldavia, benché di breve durata, rinforza la coscienza nazionale. Con il secolo XVII assistiamo al trionfo definitivo della lingua del popolo nella chiesa e nelle creazioni letterarie, soppiantando lo slavonico, anche se la scrittura della lingua romena conserverà i caratteri cirillici fino al 1860, quando verranno sostituiti con quelli latini.
Nubi minacciose accompagnano lo spuntare del secolo XVIII. Il tentativo dei principi Brâncoveanu (Valacchia) e Cantemir (Moldavia) per scuotersi di dosso il giogo ottomano con l’appoggio di Pietro il Grande sfocia nel disastro del 1711. I turchi occupano i principati, ai principi del posto sostituiscono degli “hospodars” nominati per tre anni dal sultano. Tali governatori vengono scelti tra le grandi famiglie bizantine del quartiere del Fanar di Costantinopoli, da cui l’espressione “regime fanariota” per designare questo periodo. Nello stesso anno 1711 la Transilvania viene annessa all’Austria. Verso la fine del secolo, con il declino del potere.ottomano, avanzano pretese territoriali, a danno dei principati, l’Austria, che nel 1775 si annette la Bucovina, e la Russia, che nel 1812 si annette la Bessarabia, territorio moldavo compreso tra i fiumi Prut e Dnestr. Il risveglio di una coscienza nazionale, sotto la spinta delle idee libertarie dell’Europa dei Lumi e della cultura neo-bizantina delle classi dirigenti, lievita assieme ai tentativi di liberazione generale dei popoli balcanici dal dominio turco. Ora sotto il protettorato russo-turco, ora sotto quello austriaco-turco, i principati riacquistano una certa autonomia interna e nel 1881, dopo un’ennesima guerra russo-turca, viene proclamata l’indipendenza dei principati di Valacchia e di Moldavia, unificati fin dal 1859, i quali adottano un regime monarchico. Nel 1918 si costituisce la “grande Romania” con l’unione della Bessarabia, della Bucovina e della Transilvania. Con alterne annessioni e cessioni territoriali nei confronti delle potenze confinanti, la Romania, con l’adesione al fascismo, esce sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Si è dovuta così integrare in un contesto politico ed economico a lei per nulla familiare. Il modello di sviluppo che si è imposto, sorretto dalle istituzioni politiche, sociali ed economiche prese a prestito dall’Unione Sovietica, si è rivelato per molti aspetti contrario alle sue disposizioni naturali oltre che oppressivo delle libertà civili, come è apparso a tutti chiaro con i recenti avvenimenti della rivolta popolare romena del dicembre 1989.
Tradizione esicasta romena
Se pare storicamente improponibile la credenza di una missione evangelizzatrice dell’apostolo Andrea tra i daci della regione compresa tra il Danubio e il mar Nero, ciò nondimeno è sicuro che il cristianesimo è stato introdotto nella Dacia assai presto. G1i storici delle religioni non si spiegano facilmente come il dio principale dei geto-daci, Zalmoxis, l’unico che abbia interessato i greci e le élites del mondo ellenistico e romano e di cui si trovano testimonianze in vari scrittori fino alla tarda antichità, sia stato definitivamente dimenticato dopo la trasformazione della Dacia in provincia romana. Tutti gli aspetti della religione di Zalmoxis spingevano a un confronto con il cristianesimo: il carattere misterico del suo culto, la sua dottrina dell’immortalità, l’ascetismo di gruppi religiosi caratterizzati da una vita monacale, in solitudine, celibi e vegetariani. Così che la spiegazione più plausibile della scomparsa del culto di Zalmoxis sembra possa essere la cristianizzazione precoce della Dacia. Il cristianesimo, predicato in latino volgare, giocò un ruolo assolutamente determinante per la formazione del popolo daco-romano tanto che a buon diritto è stato detto che “la romanità e il cristianesimo sono le coordinate fondamentali della genesi del popolo romeno”[5].
L’argomento più convincente dell’antichità della fede cristiana presso i romeni resta la loro stessa lingua. Di origine latina, essa esprime le nozioni fondamentali della fede cristiana con termini provenienti dal latino, ma non identici a quelli che, nell’occidente latino, esprimono le medesime nozioni di fede. Ne consegue che i missionari in Dacia non venivano da Roma, con un linguaggio cristiano già ben definito, ma dalle regioni sud-danubiane romanizzate ove la fede trovò espressione diversa[6]. Solo con l’invasione e la cristianizzazione dei popoli slavi (VII-IX sec.) le terre romene vengono integrate nella sfera della civiltà bizantina di lingua slava. Lo slavonico diventa la lingua liturgica ed ecclesiastica nonché, più tardi, la lingua letteraria, della cultura e delle relazioni diplomatiche.
Non è il caso qui di presentare la storia dell’evoluzione del cristianesimo nelle regioni romene. Il nostro intento è piuttosto quello di cogliere la dimensione specifica, particolare, che I’ha connotata. Si ha l’impressione che, se l’elemento portante di quella evoluzione, come del resto in genere nell’oriente cristiano, è dato dal monachesimo, non si tratta però di un monachesimo come parte a sé stante, separato dal resto del mondo e della chiesa. Si tratta di un monachesimo come fermento, in vera osmosi con un popolo e capace di ispirare tutta una cultura. Di questo monachesimo, poi, il carattere più specifico che emerge è la sua ispirazione esicasta. La fortuna che conobbe in Romania il termine esicasta, in romeno sihastru, è unica in tutta l’ortodossia. Ne fanno testimonianza le innumerevoli denominazioni di montagne, colline, fiumi e località con termini di origine monastica, che ricordano per lo più il nome di tale o tal altro monaco esicasta vissuto in quei paraggi.
L’appellativo esicasta deriva dal greco hesychía, termine che designa uno stato di calma, pace, solitudine, silenzio, assenza di ogni forma di agitazione tanto esteriore che interiore. Nell’ambito della spiritualità cristiana con la parola esicasmo ci si riferisce oggi ad almeno due fenomeni distinti. Il primo concerne quel particolare orientamento spirituale che coincide con le origini stesse del monachesimo orientale e che può essere definito come un orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la preghiera continua. Il secondo riguarda quel particolare metodo di preghiera, basato sull’invocazione incessante del nome di Gesù, la cui forma venne codificata negli ambienti monastici del Monte Athos nei secoli XIII e XIV. In tale contesto il termine esicasmo si estende fino a comprendere sia il movimento di rinnovamento spirituale in seno al quale quel metodo di preghiera si sviluppò e si precisò grazie soprattutto alla figura di Gregorio il Sinaita, sia la sintesi filosofico-teologica elaborata da Gregorio Palamas per difendere e sostenere quanti si servivano proprio di quel metodo. Tutti e due i fenomeni legati al termine esicasmo hanno avuto grande influenza sulla spiritualità della chiesa romena. Essi però sono stati assunti e fusi in modo vivo e originale, tanto che si parla a buon diritto della “tradizione esicasta romena” come di un fenomeno tipico, sviluppatosi fin dalle origini stesse del cristianesimo nelle terre romene e perdurante fino ai nostri giorni.
II monaco romeno, padre Ioanichie Balan, che per primo ha cercato di radunare e sistemare tutta una serie di dati riguardanti la tradizione esicasta della sua patria, ha intitolato un suo recente libro che raccoglie il frutto del suo pluriennale lavoro Vetre de sihastrie româneasca, cbe si potrebbe rendere con Centri di insediamento di vita esicasta romena. La parola sihastrie, dal termine greco hesychastérion, indica il luogo dove vivono gli esicasti, in romeno sihastri. Questi esicasteri hanno conosciuto una tale fortuna e sono stati così numerosi che la migliore soluzione per presentarli è parsa all’autore quella di individuare i vari centri o aree o zone geografiche che ne hanno visto fiorire stabili e importanti raggruppamenti. Vengono così descritti ben ventiquattro di questi centri distribuiti nelle cinque regioni che costituiscono l’odierna Romania: Dobrogea, Moldavia, Terra Romena o Ungro-Valacchia, Banat e Transilvania.
Il sorgere e lo svilupparsi di un numero così impressionante di esicasteri, fenomeno pressoché unico nel mondo cristiano, trova anzitutto la sua giustificazione in una particolare sensibilità dell’animo romeno, che sente profondamente connaturale l’ideale di hesychía ricercata in seno alla natura. Si è parlato spesso della seduzione suscitata dal richiamo della foresta che ha lasciato segni profondi in diverse espressioni artistiche e culturali. I romeni sentono l’oscuro bisogno di sfuggire di tanto in tanto alle necessità imposte dalla vita sociale e di ascoltare la voce della foresta ancestrale verso la quale amerebbero lanciarsi. Già prima del cristianesimo la dimensione religiosa si esprimeva in una specie di ordine monastico costituito da gruppi di devoti che vivevano in solitudine, ai margini delle foreste, celibi e vegetariani. Del messaggio cristiano verranno sviluppate soprattutto quelle caratteristiche che favoriscono la realizzazione dell’ideale di hesychía e cioè: “la misericordia, il perdono, l’abbandono alla volontà di Dio, il canto, l’allegrezza del cuore, il vivere in seno alla natura”[7]. Ciò ha permesso al popolo romeno di vivere nei Carpazi, vera colonna vertebrale della loro stessa esistenza lungo i secoli, “come in una grandiosa cattedrale, come in un meraviglioso esicastero naturale”[8]. Ed è per questo che ai piedi delle montagne, da Tismana fino al nord della Moldavia, sorge il maggior numero dei monasteri.
Grazie a questo tratto particolare del carattere, alcune forme di vita cristiana hanno assunto in terra romena dei lineamenti ben specifici. L’esempio significativo è dato dal fenomeno dei cosiddetti “esicasteri paesani”. La loro origine è da collegare con quelle piccole comunità, nate fin dai primordi del cristianesimo, che svolgevano la loro attività a favore della chiesa del villaggio. Questo stile di vita nasceva dal costume invalso nelle terre cristiane del bacino mediterraneo per cui alcuni anziani o vedove rinunciavano alle cose del mondo per porsi al servizio di Cristo e della chiesa del luogo, sotto la guida del presbitero. Pur non pronunciando voti monastici veri e propri, questi cristiani davano i loro averi ai poveri e vivevano fino alla morte nel digiuno, nella preghiera e nella sobrietà, sovvenendo ai bisogni della chiesa e prendendosi cura dei malati. In molti casi, inoltre, svolgevano anche un’attività missionaria, aiutando il presbitero nell’opera di catechesi. Tali comunità, con l’avvento del monachesimo organizzato attorno al IV-V secolo, ben presto scomparvero in tutto il mondo cristiano. In Romania, al contrario, esse continuarono a esistere per almeno un millennio. In alcuni casi le comunità vennero a stabilirsi nel cortile delle chiese dove costruirono semplici abitazioni. Ancora oggi se ne scoprono i resti accanto al perimetro di molte chiese[9].
Una trasformazione e uno sviluppo particolare di questo genere di “esicasteri paesani” interesserà più direttamente la stessa storia del monachesimo. Alcune comunità, infatti, incominciarono a costruirsi per loro conto piccole chiese in legno circondate da modeste abitazioni, scegliendosi luoghi un po’ più ritirati, fuori del paese e ai margini delle foreste, pur continuando a rimanere in stretto contatto con il popolo cristiano. È così che apparvero le prime vere e proprie comunità esicaste di tipo monastico. In effetti, per giungere alla sistematica organizzazione della vita monastica e alla costruzione di grandi monasteri in terra romena, bisognerà attendere il XIV secolo.
Le comunità esicaste rappresentano degli importanti punti di riferimento non solo in relazione alla diffusione e allo sviluppo del monachesimo, ma anche per la popolazione cristiana nel suo insieme. A grandi tratti, possiamo immaginarci come queste siano giunte a svolgere il loro importante ruolo. Intendendo vivere nell’hesychía, qualche fedele zelante lascia il suo villaggio per dirigersi verso la foresta, le radure delle valli e dei monti circostanti. Taglia degli alberi per costruirsi una cella e una cappella. Con lui vengono a contatto i pastori e gli abitanti dei dintorni, i quali gli chiedono preghiere e gli lasciano qualcosa da mangiare. Col tempo altri fedeli si uniscono all’eremita desiderosi di condividerne la vita. Vengono costruite altre celle, in qualche caso si provvede a scavare delle grotte nella pietra per ritirarsi in più completa solitudine. Si incomincia poi a organizzare il lavoro per il sostentamento della piccola comunità nascente: un frutteto, un orto e spesso qualche arnia per le api. Ben presto sorgono nelle vicinanze le prime case di pastori e contadini. Non passavano più di due generazioni che ormai era sorto un nuovo paese e allora gli esicasti lasciavano agli abitanti la loro chiesetta in legno, le icone, le costruzioni e si trasferivano in un luogo più solitario, più addentro nelle foreste o sui monti. Si calcola che almeno trecento esicasteri abbiano dato origine ad altrettanti insediamenti di villaggi e siano così scomparsi senza lasciare traccia[10]. D’altra parte, sul luogo di esicasteri precedenti sorse la maggioranza dei monasteri romeni. Per farsene un’idea, basti pensare che di almeno ottocento monasteri, lungo la storia, si è potuta stabilire un’origine siffatta. Il fenomeno di trasformazione degli esicasteri in monasteri assume notevoli proporzioni soprattutto a partire dal secolo XIV con l’opera di san Nicodemo di Tismana[11].
Fioritura monastica nei secoli XIV-XVII
Con Nicodemo di Tismana il monachesimo conobbe un periodo di grande fioritura e nel contempo venne ad assumere una configurazione più organica e organizzata all’interno della struttura ecclesiastica della chiesa romena, che in quel periodo stava mettendo le basi per rendersi indipendente. Infatti solo dal 1359 il Patriarcato di Costantinopoli aveva stabilito a Curtea de Arges, l’allora capitale della Valacchia, il primo metropolita permanente. Con l’aiuto dei principi si provvide a organizzare i monasteri elevando costruzioni in pietra. In effetti, il primo monastero in pietra, di cui si conserva documentazione storica, è quello di Vodita, fondato nel 1370 proprio da Nicodemo di Tismana e dotato di beni e privilegi da parte del principe Vladislav I Voda. Come Vodita e poi Tismana, anch’esso fondato da Nicodemo, sorsero ben presto altri monasteri: Topolnita, Gura Motrului, Cosustea, Illovat, Prislop, che la tradizione attribuisce all’opera di Nicodemo di Tismana, ma che è più verosimile pensare si ispirassero semplicemente agli stessi princìpi organizzativi dei due monasteri fondati direttamente da Nicodemo.
Il rinnovamento portato da Nicodemo di Tismana coincideva con l’azione di profondi fermenti spirituali già ormai diffusi dal movimento esicasta che aveva avuto in Gregorio il Sinaita (1255-1346) e Gregorio Palamas (1296-1359) i suoi insigni maestri. La presenza di monaci romeni alla Paroria, nel regno bulgaro, nell’insediamento esicasta fondato da Gregorio il Sinaita e sull’Athos, specie a Kutlumus, ricostruito grazie agli aiuti del principe Vladislav I Voda, rendono naturale il travaso nei territori romeni di quei fermenti così caratteristici di quell’epoca. I metropoliti e i principi romeni non si impegnarono soltanto nella costruzione di nuovi monasteri, ma cercarono anche di “organizzare” la folta schiera dei sihastri, raggruppandoli e imponendo loro una vita comunitaria secondo la tradizione dei monasteri athoniti, promuovendo il passaggio dalla vita idioritmica in minuscole comunità alla vita cenobitica in grandi monasteri. Insieme a tale tendenza, che conoscerà sviluppi prosperi, anche se a fasi alterne, persisterà sempre viva, pur subendo profonde modificazioni, quella “tradizione esicasta” che costituisce come l’humus più genuino della sensibilità monastica romena. Ne possiamo percorrere a grandi linee l’evoluzione.
Nel corso del secolo XV, nella regione dell’Ungro-Valacchia, che più da vicino aveva subìto l’influenza di Nicodemo di Tismana, il processo di trasformazione di esicasteri in monasteri conosce un periodo di stagnazione. Gli esicasti si opposero con maggior vigore all’accettazione della vita comunitaria e si ebbe addirittura una fioritura di nuovi esicasteri. In Moldavia, d’altro canto, il monachesimo viveva l’epoca più gloriosa della sua storia, per cui si assiste a uno sviluppo tanto dei grandi monasteri con le loro scuole di copisti e miniaturisti (ad esempio: Neamt, Probota, Moldovita, Bistrita, Humor, Putna, Voronet, ecc.) quanto degli esicasteri. I due più grandi centri moldavi di vita esicasta furono quello della regione di Neamt, il più vasto di tutta la Romania, e quello di Putna-Voronet-Rarau, nel quale brillarono per la loro vita ascetica i santi Lorenzo di Radauti e Danilo “Sihastru”. Quest’ultimo deve la sua grande fama al fatto di essere stato consigliere spirituale di Stefano il Grande, gran principe di Moldavia (1457-1504).
Nello stesso periodo si assiste a una particolare trasformazione: gruppi di piccole comunità di esicasti arrivano a formare veri e propri paesi esicasti che raggruppano varie decine di singole abitazioni. Pur continuando a vivere ciascuno per proprio conto, questi esicasti si sottoponevano all’obbedienza spirituale di padri anziani riconosciuti da tutti e ogni notte si radunavano per la preghiera nella chiesa di legno costruita al centro del loro “paese”. Nella stessa chiesa, le domeniche e le feste, veniva celebrata la Divina Liturgia e ciascuno aveva la possibilità di comunicarsi.
Nel successivo secolo XVI la fondazione di nuovi monasteri assume uno sviluppo senza precedenti: Arges, Rîsca, Agapia, Sucevita, Secu, Slatina, Dealu, Bisericani, per non citare che i più famosi. Le decine e decine di monasteri sorti sul luogo di esicasteri non fa diminuire tuttavia il numero totale dei monaci esicasti, anche perché prende origine un nuovo genere di esicasteri. I monaci delle grandi comunità che desideravano ritirarsi periodicamente, soprattutto nei tempi di digiuno, come pure quelli che facevano la professione del “grande abito”[12] e che erano tenuti a particolari forme di ascesi, incominciarono a fondare piccoli esicasteri nelle vicinanze del monastero. Gli insediamenti erano dichiarati “inchinati”, cioè dipendevano totalmente dal monastero da cui proveniva il loro fondatore. Gli esicasteri di questo tipo aumenteranno con il tempo sempre di più e diventeranno in pratica l’unica possibilità offerta ai monaci desiderosi di hesychía. Non mancano tuttavia, anche in questo secolo, esicasteri indipendenti. Fra questi i più famosi si devono a quattro discepoli di san Danilo “Sihastru”. Risale allo stesso periodo un uso particolare presso alcuni gruppi di monaci esicasti, mai praticato in altre terre ortodosse. Costoro installavano una campana sulla cima del monte da loro abitato e si avvalevano del suo suono per chiamare alla preghiera notturna. La zona più ricca di nuovi insediamenti esicasti è quella dei monti di Buzau, sui quali poco più di un secolo dopo lo starets Basilio fonderà Poiana Marului. Vigeva colà una particolare regola: ogni esicastero poteva avere fino a dodici monaci, ma appena veniva superato il numero era dichiarato monastero. Così, normalmente, la comunità si divideva e si apriva un altro esicastero.
Nel secolo XVII, pur proseguendo nella tendenza di trasformare gli esicasteri in monasteri., si assiste tuttavia all’aumento del numero totale di nuovi insediamenti esicasti. Ciò si spiega con il fatto che ogni monastero tende a costruire uno, due o più esicasteri per i propri monaci. Allo scopo di trovare un ritmo di vita più tranquillo che i grandi monasteri non potevano offrire, i monaci si addentravano di tanto in tanto nelle vicine foreste. Si costruivano delle celle e ben presto attorno a queste prendeva inizio l’esicastero. La zona che conosce il più alto numero di nuove fondazioni è sempre quella di Buzau. Con i suoi cinquanta insediamenti esicasti la regione sub-carpatica di Buzau-Vrancea costituiva uno dei più fiorenti centri di vita esicasta che permetterà la nascita e lo sviluppo del movimento di rinnovamento spirituale del secolo successivo avviato a Poiana Marului dallo starets Basilio[13].
Il sorprendente moltiplicarsi di tanti esicasteri segnalava tuttavia un’incipiente crisi nella vita comunitaria dei grandi monasteri. I monaci si allontanavano dalle loro comunità per fuggire le preoccupazioni materiali ed economiche che inevitabilmente procuravano le grandi proprietà fondiarie che si venivano a costituire attorno ai monasteri.
La crisi si fa sentire più pesantemente nel secolo XVIII. Sempre indicativo l’alto numero di nuovi esicasteri fondati: in Moldavia, ad esempio, sono ottantatré contro solo quattro monasteri; in Valacchia, novantatré contro quattordici monasteri. I grandi monasteri incontravano sempre maggiore difficoltà nell’amministrazione dei terreni e delle dipendenze e nel contempo si trovavano aggravati dalla politica del nuovo regime fanariota che perseguiva il disegno di “inchinare” i monasteri all’estero. Se pensiamo poi alle numerose guerre e devastazioni che in quello stesso periodo la terra romena dovette subire, possiamo immaginare come si andasse verso un esaurimento morale e materiale.
Dall’epoca paisiana ai tempi moderni
L’inizio dell’azione di rinnovamento prende le mosse con lo starets Basilio di Poiana Marului (+ 1767) e continua, su scala allargata, con il suo discepolo e amico Paisij Velickovskij (1722-1794). Con il XVIII secolo i territori dei principati romeni diventano il centro dell’ortodossia dove viva permane la tradizione patristica orientale, a differenza degli altri paesi nei quali la cultura della fede ortodossa ha le ali tarpate per la politica antiecclesiastica degli zar o per la dominazione turca. Il fenomeno di osmosi tra i territori romeni e le terre russe, ucraine in particolare, assume proporzioni considerevoli. Con il moltiplicarsi in Russia delle misure restrittive nei confronti del monachesimo nella linea di una politica di controllo dei beni ecclesiastici e a causa di una politica di uniatismo perseguita dai polacchi in Ucraina, si determinò un flusso di emigrazione monastica russo-ucraina verso i territori romeni, dove i prìncipi si distinguevano nello zelo per il sostegno alla chiesa e al monachesimo. Quando il giovane Paisij, alla ricerca della tradizione viva dei padri, emigra dall’Ucraina, sua terra natale, nei paesi romeni, è già stato preceduto da tutta una generazione di suoi compatrioti, i quali, nel clima di elevata cultura ortodossa dell’ambiente romeno, hanno potuto portare a maturazione i germi di genialità e spiritualità loro propri. Le skite visitate da Paisij, vale a dire Dalhauti, Traisteni e Cîrnul, sono tutte sotto l’influenza dello starets Basilio di Poiana Marului, anch’egli emigrato dall’Ucraina e diventato ormai un punto di riferimento per tutti. Nelle comunità che a lui si richiamavano, alla pratica esicasta era unito lo studio dei padri, i cui testi lo scriptorium di Poiana Marului, la skite fondata da Basilio nel 1733, si incaricava di ricopiare e di diffondere tanto in lingua slavonica che romena. Fatto unico nella storia dell’esicasmo romeno, Basilio aveva fondato una sorta di confederazione di oltre dieci esicasteri legati a Poiana Marului. Non è all’Athos, dove pure risiede per diciassette anni, dal 1746 al 1763, che Paisij Velickovskij respira la tradizione esicasta. L’Athos costituisce solo il riferimento ideale e il “deposito” degli scritti patristici che si premurerà di scandagliare con zelo infaticabile. Il modello di vita, l’esempio vivente della tradizione esicasta, Paisij lo scopre e lo farà rifiorire su larga scala nei principati romeni nei suoi monasteri di Dragomirna, Secu e Neamt, in Moldavia, dando vita a tutto quel poderoso movimento spirituale che gli storici denomineranno “paisianesimo”.
L’ideale di vita monastica, aperta a monaci di ogni nazionalità come romeni, ucraini, russi, bulgari, serbi e greci, era fondato su quattro pilastri: vita cenobitica, studio delle Scritture e dei padri, pratica della preghiera di Gesù e manifestazione quotidiana dei pensieri al proprio padre spirituale (starcestvo). È interessante notare come la riscoperta della Scrittura e dei padri andasse di pari passo con la ripresa della preghiera di Gesù. Averle poste a fondamento della vita cenobitica è l’essenza del grande rinnovamento portato da Paisij. La pratica della preghiera di Gesù sembrava fino ad allora appannaggio esclusivo degli eremitaggi e dei monaci eremiti; Paisij la inserisce invece nel contesto di un grande cenobio (i monasteri di Secu e Neamt, di cui era superiore, contavano assieme un migliaio di fratelli!). Istituisce contemporaneamente una vera e propria scuola di traduttori dei testi patristici. Collaziona manoscritti, rivede le antiche versioni e ne prepara di nuove, che poi commenta davanti alla comunità per l’istruzione dei fratelli. Quando viene a sapere della pubblicazione della Filocalia greca, edita a Venezia nel 1782, si affretta a richiederne una copia, ma si tratta di autori sui quali lui aveva già lungamente lavorato insieme ai suoi discepoli per preparare traduzioni in romeno e slavonico, anche se a livello di manoscritti. È sintomatico, ad esempio, costatare come, pochi anni dopo l’installazione a Dragomirna, la comunità di lingua romena poteva già disporre fin dal 1769 di una voluminosa Filocalia, una miscellanea sulla preghiera del cuore, predisposta dal noto copista Rafail. Essa comprendeva testi di Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio il Sinaita, Niceforo il Monaco, passi di Evagrio, Doroteo, Simeone di Tessalonica, Nilo, Cassiano, Basilio Magno e le ormai famose Introduzioni dello starets Basilio di Poiana Marului agli scritti di Gregorio il Sinaita e di Filoteo il Sinaita, nonché l’opera di Nil Sorskij[14]. Di tutto il lavoro letterario promosso dall’ormai famoso starets Paisij, l’opera passata alla storia, per l’enorme influsso esercitato, è la sua traduzione slavonica della Filocalia greca, il Dobrotoljubie, stampato a Mosca nel 1793. L’edizione trova larghissima circolazione, in ogni ambiente. Grazie ad essa e all’opera propagatrice dei suoi discepoli l’eredità paisiana ha influenzato largamente, sia pure con accentuazioni diverse, tanto la Russia che la Romania. Gli aspetti peculiari di tale eredità sono rappresentati dall’ordinamento cenobitico della vita monastica, dalla ripresa dello spirito esicasta con la pratica della preghiera di Gesù e la sua introduzione nel tessuto stesso del grande cenobio, dallo studio biblico e patristico insieme alla preoccupazione di tradurre nelle rispettive lingue i testi filocalici.
Se Paisij è stato l’animatore, il polo catalizzatore di tutto un movimento che dopo la sua morte perdurerà lungamente e con profonda incidenza nella vita culturale e religiosa romena e russa, va ascritto alle autorità ecclesiastiche e civili romene l’accortezza di avergli offerto le strutture più adatte al fine di sfruttare al meglio la carica culturale e spirituale di cui era portatrice la sua opera. Nella lettera con la quale il principe Costantino Moruzi ordinava a Paisij di trasferirsi a Neamt si dice espressamente: “Questo monastero è stato concesso alla vostra comunità non soltanto per la vostra fondazione, ma anche perché diventi il modello per gli altri monasteri, secondo il vostro ordinamento di vita”[15].
In Romania lo spirito paisiano trionfa nella stessa organizzazione della chiesa. Personalità ecclesiastiche di prim’ordine imbevute di quello spirito, quali Beniamino Costachi, metropolita di Moldavia e Gregorio Dascalul, tonsurato monaco dallo stesso Paisij, suo biografo e futuro metropolita di Valacchia, promossero ed estesero oltre la cerchia dei monasteri il rinnovamento scaturito dall’opera di Paisij tanto sul piano spirituale che culturale. Riorganizzano i monasteri, creano scuole, si impegnano a fondo in una vasta azione di promozione di traduzioni e stampa di libri (è opera di Beniamino Costachi l’installazione a Neamt della stamperia con la volontà di diffondere i lavori di traduzione della comunità di Paisij), rivivificano le strutture ecclesiastiche duramente provate dalle guerre e dall’occupazione zarista del 1808-1812 e successivamente dai moti rivoluzionari del 1821. Rifiorisce il monachesimo di tipo cenobitico sotto l’influenza del modello paisiano, a differenza dei secoli precedenti dove prevaleva il riferimento all’esicastero. Particolarmente attivo l’influsso paisiano nei monasteri e skite di Agapia, Varatec, Bisericani, Rîsca, Vovidenia, Pocrov, Tarcau, in Moldavia, tanto che verso la metà del 1800 quasi tutti i monasteri seguono la Regola di Paisij.
In Valacchia la sua opera è continuata da un suo grande discepolo, lo starets Giorgio, originario della Transilvania. Di passaggio a Bucarest per l’Athos dopo aver lasciato Neamt nel 1781, lo starets Giorgio accoglie l’invito del metropolita Gregorio II di costituire una comunità monastica sul tipo di quella paisiana e sceglie di stabilirsi in una skite ormai abbandonata alle porte di Bucarest, Cernica, presto trasformata in un grande cenobio. Nel 1794 gli viene affidata anche la guida del vicino grande monastero di Caldarusani. Nel suo Testamento, una specie di regola di vita per le comunità che a lui si richiamano, rivendica al suo maestro Paisij tre carismi specifici: il dono della preghiera del cuore; il dono di guidare una moltitudine di fratelli; il dono, assai raro, di tenere insieme i fratelli di varie nazionalità[16]. Lo starets Giorgio non ritiene di poterseli attribuire e quindi invita i fratelli della sua comunità a dedicarsi alla preghiera di Gesù, ma non in modo esclusivo, almeno fin tanto che non ci si sia purificati da tutte le passioni; limita a centotré il numero dei fratelli della comunità (numero che dopo di lui verrà superato ampiamente); considera la possibilità che i monaci romeni, russi e greci vivano separatamente, senza per questo diminuire nell’amore reciproco (ma intanto che lui è vivo la comunità resta unita). L’accento tende a spostarsi sullo sforzo ascetico e sulla vita attiva; la linfa, comunque, deriva dallo stesso spirito paisiano, sebbene, nella letteratura romena, la tendenza di Cernica sia normalmente indicata in senso specifico: “la spiritualità cernicana”. L’esponente più celebre di tale spiritualità sarà san Callinico, monaco a Cernica per quarantatré anni e poi vescovo di Rîmnic. Con la preghiera e l’ascesi, unisce l’amore per la sua comunità, che sotto la sua guida arriva fino a trecentocinquanta fratelli, con la preoccupazione per i poveri e l’attività pastorale. A lui dobbiamo la costruzione del monastero di Frasinei dove, sul modello athonita, introduce regole di vita severe (ricordiamo che, ancora oggi, Frasinei è l’unico monastero romeno dove resta interdetto l’accesso alle donne, come nei monasteri athoniti). Il noto teologo romeno, padre Dumitru Staniloae, definisce la spiritualità di san Callinico una “spiritualità integrale”[17]. Vi si trovano riunite: ascesi, opere di carità, attività pastorali, in un clima di intensa comunione con Dio. Liberandosi dalle passioni con l’ascesi, si possono coltivare le virtù della dolcezza, dell’umiltà e dell’amore che fanno superare l’egoismo, dedicandosi alle varie attività senza che venga minimamente impedita una fervente vita di comunione con Dio.
Le condizioni storiche e sociali, già all’inizio del secolo XIX, vanno rapidamente mutando. Con l’abrogazione degli editti antireligiosi di Caterina II i discepoli slavi di Paisij tendono a sciamare da Neamt per ritornare in patria. Saranno loro i veri artefici della promettente rinascita spirituale russa nel secolo XIX, facendo rifiorire eremi e monasteri e creando nuovi centri. Alcuni divennero veri poli d’attrazione per tutta la Russia, come il monastero di Optina, dove a un fervido lavoro intellettuale di traduzione dal greco in russo dei testi patristici si univa una profonda ricerca spirituale di vita in Dio. Sarà anzi il nuovo centro “paisiano”, se così si può chiamare. In Romania, invece, verso la metà del 1800 si vanno preparando tempi difficili. Con l’atto di unione dei principati di Moldavia e Valacchia nel 1859, l’anno di nascita della moderna Romania, nella nuova concezione laicista dello stato, la vita della chiesa ortodossa fu turbata dalle ingerenze del potere politico, che peraltro emanò riforme positive tanto attese, come nel campo dell’istruzione pubblica, nella giurisdizione dei monasteri con la soppressione dell’uso della “inchinarea”, l’uso cioè di devolvere i proventi dei vari monasteri “inchinati” ad altri centri monastici, per lo più situati sull’Athos o nei luoghi santi di Palestina. Nel 1863 lo stato secolarizzava i beni monastici; nel 1864 regolamentava l’ingresso nei monasteri permettendo di accogliere solo quei candidati che avessero compiuto gli studi teologici, e ciò in vista di promuovere persone preparate alle dignità gerarchiche oppure, negli altri casi, imponendo rigidi limiti di età (sessant’anni per gli uomini, cinquanta per le donne). Tali misure portarono a una stagnazione per la vita monastica di una chiesa che nel 1865 si era dichiarata autonoma e nel 1885 aveva ottenuto da Costantinopoli il riconoscimento di autocefalia. Fu raggiunto un certo equilibrio dopo che il paese recuperò una qualche stabilità politica, vale a dire dopo la prima guerra mondiale.
Nel periodo tra le due guerre si impone un clima nuovo. Da una parte riprende vigore la tradizione monastica con l’attività di grandi figure come Ioanichie Moroi e Nicodemo Mandita, dall’altra, nella cerchia degli intellettuali dell’epoca, grazie a una riflessione sui fondamenti dell’ortodossia, sul problema delle relazioni tra chiesa e cultura e sulla questione dell’identità romena, si assiste a una riscoperta della spiritualità esicasta e della preghiera di Gesù. La rivista Gândirea (“Il pensiero”) di Bucarest e la Rivista Teologica di Sibiu diffondono l’eco di un confronto culturale e spirituale tra professori universitari, filosofi, teologi, scrittori e poeti sul significato dell’eredità e della visione dell’ortodossia. In seno a questo movimento gioca un ruolo di primo piano il giovane teologo Dumitru Staniloae il quale, nell’indagare i fondamenti dogmatici della spiritualità, avvia gli studi su Gregorio Palamas, il grande difensore dell’esicasmo athonita e della preghiera di Gesù nel XIV secolo. Lo studio poi dei padri e il contatto con l’ambiente monastico, che stava vivendo un momento di rinnovamento della vita esicasta, portano padre Staniloae a ripensare la dogmatica unendo nella sua riflessione teologica dogma ed esperienza spirituale. Al monastero Antim, a Bucarest, si forma il cenacolo del “Roveto ardente”, centrato sulla spiritualità esicasta e sulla preghiera di Gesù, in stretto dialogo con il mondo degli intellettuali. Rinasce l’interesse per la Filocalia e si avverte l’esigenza improrogabile di ritradurla in romeno perché tutti possano usufruire dei tesori della tradizione ortodossa. Si accinge all’opera lo stesso padre Staniloae e negli anni 1947-1948 vengono stampati i primi quattro volumi. Oltre ad allargare notevolmente la mole dei testi da inserire nella raccolta, padre Staniloae inserisce introduzioni e commenti con l’intento di mostrare tutta l’attualità della visione dei padri. Sulla base del loro pensiero, in questi commenti, che costituiscono una nota assolutamente originale della Filocalia romena rispetto alle altre versioni, tenta un confronto con il mondo moderno. Nella stessa linea di spiritualità esicasta e filocalica si iscrive il suo Corso di teologia ascetica e mistica, preparato negli anni cinquanta e solo recentemente pubblicato[18].
Dal patriarca Giustiniano ai nostri giorni
Con l’avvento al potere del nuovo regime sotto la guida del partito comunista nel 1948 ha inizio una nuova, drammatica fase nella vita della storia della chiesa romena. Con la “Legge per il regime generale dei culti” del 4 agosto 1948 vengono formalmente sanciti i princìpi della libertà di coscienza e di religione, ma “sotto il controllo dello stato”, al quale appunto spetta l’esclusiva di legiferare per regolamentare il tipo di organizzazione e di funzionamento della religione nel nuovo stato socialista. L’esperienza ha in effetti dimostrato che le leggi dello stato possono essere usate non solo per restringere la libertà delle chiese ma anche per minare, e in qualche caso particolare per distruggere, la loro vita istituzionale. La chiesa cattolica, di rito latino, fu quella che subì maggiormente le conseguenze del nuovo orientamento politico: sciolto ogni tipo di organizzazione, soppressi tutti gli ordini e congregazioni religiose, incamerati i beni dallo stato. La chiesa cattolica uniate, di rito bizantino, fu soppressa e incorporata alla chiesa ortodossa, nonostante la protesta di qualche personalità ortodossa e il rifiuto da parte di un certo numero di presbiteri ortodossi di occupare le chiese cattoliche, rifiuto che pagarono con la prigione. Per quanto riguarda la chiesa ortodossa, molto vicina alla popolazione e da questa profondamente amata, il governo adottò una politica di controllo più che di distruzione. La chiesa ortodossa, non nuova a questo genere di bufere lungo la sua storia, accolse duttilmente la politica di ostilità nei suoi confronti e si adeguò ai nuovi orientamenti interni ed esteri del governo in cambio della libertà di celebrare la liturgia, di formare i suoi presbiteri e di mantenere un certo lavoro pastorale nelle parrocchie.
La figura di spicco di quegli anni è stata senza dubbio quella del patriarca Giustiniano (1948-1977). Con la sua attività riformatrice nei vari settori della vita ecclesiastica riuscì ad assicurare alla sua chiesa una certa qual libertà di azione, pur negli stretti ambiti definiti dal nuovo governo. L’orientamento di fondo che lo guidava è quello che lui stesso definiva come “apostolato sociale”, nozione elaborata già dai movimenti di rinnovamento sociale negli anni 30-40 a Craiova e Buzau: la chiesa è un’istituzione popolare che gioca nella vita della nazione un ruolo complementare al fattore politico. Convinto della dimensione sociale della fede cristiana, trovò uno spazio specifico all’azione della chiesa, fatto che certuni hanno giudicato come un cedimento all’ideologia del momento, nel sollecitare l’impegno dei fedeli e delle parrocchie alla costruzione della nuova cosiddetta società socialista.
La riforma più vistosa riguarda la vita monastica. Con il “Regolamento per l’organizzazione della vita monastica”, approvato nel 1953 e rielaborato nel 1959, viene ristrutturata la vita religiosa nei monasteri insieme al loro funzionamento amministrativo e disciplinare. Monaci e monache sono invitati a imparare un mestiere e il monastero è organizzato perché vi siano concrete possibilità di esercitarlo. Molti monasteri sono registrati come cooperative, mentre parecchie comunità femminili sono dotate di impianti di tessitura e lavorazione dei tappeti oppure prestano servizio in attigue case di riposo o in incombenze del genere. Tutti i monaci e le monache impegnati nel loro monastero in un lavoro produttivo o di servizio amministrativo e turistico (guide, responsabili di musei, direzione, ecc.) ricevono uno stipendio da parte dello stato, come del resto i titolari di parrocchie e il corpo accademico degli istituti ecclesiastici di insegnamento (due istituti teologici universitari, a Bucarest e Sibiu; sei seminari teologici, a Buzau, Bucarest, Cluj, Craiova, Curtea de Arges, Neamt). Quando si tratta di chiese o di complessi monastici di interesse storico o artistico, il che significa per la maggior parte dei monasteri, lo stato stanzia aiuti sostanziali per il restauro e la conservazione degli edifici. L’accettazione di nuove vocazioni monastiche resta però strettamente subordinata all’impiego in compiti “riconosciuti” dallo stato, per cui risulta piuttosto difficile per i giovani entrare in monastero. Appena l’iniziativa di qualche monaco si fa troppo vistosa nel campo materiale o spirituale, subito converge contro di lui e il suo monastero qualche misura restrittiva da parte delle pubbliche autorità. Intere comunità sono state così disperse per paura che si costituissero come punto di forza della chiesa.
Gli anni 1958-1963 sono i più difficili: la pressione della politica ateistica e antiecclesiastica sovietica si impone anche in Romania, soprattutto contro i monasteri che allora erano fiorenti e in espansione. Dei circa duecento monasteri attivi nel 1956, più della metà furono chiusi. Della popolazione monastica che allora contava circa settemila membri, più di duemila furono costretti a lasciare i rispettivi monasteri, senza contare lo stuolo di quelli imprigionati. Furono chiusi anche tre seminari monastici, impedendo così la formazione dei giovani monaci. L’amnistia generale del 1964 e la correzione di rotta del presidente Ceausescu nel 1968 per quanto riguarda i rapporti con la chiesa inducono il governo ad atteggiamenti più morbidi. Si vuole recuperare, in una visione patriottico-nazionale, l’apprezzamento per il contributo della chiesa ortodossa alla costruzione di una Romania più prospera. Con gli anni, specie a partire dal 1977, l’anno del tremendo terremoto che ha scosso la popolazione di Bucarest, la quale è tornata ad affollare le chiese, il governo sembra aumentare la pressione contro la chiesa intensificando la propaganda ateistico-materialista nelle scuole e nelle università, stroncando sul nascere qualsiasi forma di protesta contro i provvedimenti governativi e facendo valere in tutto il suo potere il “dipartimento dei culti” che controlla l’insieme della vita religiosa nel paese. Senza l’approvazione di questo organismo nessun parroco o pastore può essere nominato, corne nessun’altra iniziativa di natura ecclesiastica può essere intrapresa. Con i suoi ispettori a tempo pieno in ogni provincia e distretto, esercita una specie di supervisione su ogni attività, anche se in verità non si tratta di vera e propria ingerenza nei problemi ecclesiastici tanto più che spesso i vari funzionari si mostrano alquanto tolleranti. Tuttavia l’azione di controllo è efficace e può sempre essere usata con rigore per piegare ai voleri della politica ufficiale.
Nel 1977 al patriarca Giustiniano succede il metropolita di Iasi, Giustino Moisescu. Rispetto al predecessore, anche per le mutate condizioni sostituisce al concetto di “apostolato sociale” quello della fedeltà della chiesa al suo popolo, da cui non è mai stata tradita. Alla sua azione si deve l’immenso lavoro di restauro e rivitalizzazione dei grandi monasteri storici della Moldavia e della Bucovina, il coinvolgimento più diretto e senza riserve della chiesa romena nel movimento ecumenico e nelle relazioni fra le chiese tanto a livello europeo che internazionale[19].
Dal 1986 a guidare la chiesa romena è il patriarca Teoctist Arapasu. La sua azione pastorale non modifica la situazione ereditata. Subito dopo il rovesciamento di Ceausescu, il patriarca riconosce la pusillanimità della gerarchia ortodossa nei confronti del passato regime e arriva fino a presentare le proprie dimissioni al Santo Sinodo, che però lo riconferma nella carica. La nuova situazione è tuttora fluida e non priva di ambiguità, ma alcuni segni lasciano sperare che – nella chiesa come nella società civile – le forze sane della nazione prevalgano per il bene di tutti.
Anche se la libertà di cui godeva la chiesa era vincolata agli stretti spazi definiti dalle leggi dello stato, la situazione religiosa in Romania si presentava certamente privilegiata rispetto a quella dei paesi socialisti confinanti. Il fatto è che la dimensione religiosa struttura la vita quotidiana della gente e la stessa cultura nazionale. Le chiese sono sempre stracolme di fedeli nelle celebrazioni festive e non restano deserte nemmeno nei giorni feriali. Entrare in chiesa per venerare un’icona, accendere una candela, sostarvi un attimo per riposarsi o per riflettere, per una buona parte dei romeni, specie nei villaggi, non sono semplici “atti religiosi”; fanno parte della vita. La chiesa è percepita come una seconda casa, un luogo che la gente sente proprio. Le feste patronali o le celebrazioni delle festività liturgiche nei grandi monasteri attirano migliaia di pellegrini, anche dalle città. I monasteri continuano così a giocare un ruolo importante nella vita del popolo romeno: non esistono stime ufficiali ma si calcola che, tra grandi e piccoli, siano circa centoventi, con una popolazione monastica di circa un migliaio di monaci e di millecinquecento monache su un totale di diciotto milioni di ortodossi. La grande speranza è che da questo patrimonio di energie spirituali possa rifiorire l’anima di un popolo in modo da reinfondere nel tessuto umano e civile dell’intera nazione la linfa necessaria per ricostruirne l’identità.
Caratteristiche della spiritualità romena
In questi ultimi decenni si sono moltiplicate le ricerche in ambiente romeno per tentare di definire la specificità romena nello sviluppo della spiritualità cristiana[20]. Rispetto alla grande tradizione ortodossa, quella romena non conosce figure o tendenze creative, impulsi originali che abbiano dato vita a correnti e tradizioni particolari.
Latino e romano per origine e lingua, il popolo romeno si trovò a essere cristianizzato dall’occidente, ma organizzò le forme della vita ecclesiastica sul modello del mondo bizantino e slavo, dal quale dipendeva culturalmente. Questa sua particolare esperienza storica gli consentì di esprimere il suo genio creativo nella feconda opera di sintesi tra i due mondi, sintesi che lo contraddistingue in tutte le espressioni della sua vita artistica e religiosa. Si pensi, ad esempio, alle chiese dei monasteri della Moldavia-Bucovina dei secoli XV e XVI come Voronet, Humor, Arbore, Moldovita, Sucevita, con le pareti esterne splendidamente affrescate, dove i vari elementi di provenienza gotica, serba, bizantina, sono fusi in perfetta unità di stile secondo i canoni di una visione estetica tipicamente moldava. Tanto l’edificio quanto l’iconografia pittorica, che vi si adatta armoniosamente, con rappresentazioni di scene illustranti l’inno acatisto e l’assedio di Costantinopoli, l’albero genealogico di Iesse, il Giudizio finale e la Deisis, sono concepiti in perfetto accordo con l’ambiente circostante. Il paesaggio caratteristico della Moldavia, tutto un susseguirsi di monti e colline ricoperte fittamente di boschi e foreste inframezzate da minuscole radure semipianeggianti e radiose, solcato da numerosi corsi d’acqua, sembra essersi rivelato nella storia l’ambiente ideale per gli insediamenti monastici, favoriti anche dal temperamento mite della gente. Nel raggio di poche decine di chilometri, in una zona che i romeni, con una punta di orgoglio, sogliono chiamare il loro “piccolo Monte Athos”, sono concentrati i grandi monasteri: Neamt, Secu, Sihastria, Bistrita, Varatec, Agapia, per tacete i centri minori nel folto della foresta carpatica come Tarcau o Sihla, vere oasi di silenzio e di pace.
L’impressione che si ricava visitando questi luoghi è un senso di pacatezza e di dolcezza che pervade uomini e cose. È un timbro inconfondibile dei monasteri romeni, che si ritrova anche, all’Athos, nella comunità romena del Prodromou. Sembra che preghiera e vita pratica, ricerca della solitudine e stretto contatto con i fedeli siano fusi in armonia. Ciò vale anche nei grandi monasteri femminili, come Agapia e Varatec, che contano ciascuno circa trecento monache, veri e propri villaggi monastici dove le monache vivono per lo più, in quattro o cinque, in singole casette. Il vedere le monache accudire ai vari lavori o conversare tranquillamente con qualche visitatore di passaggio oppure, nella penombra della chiesa, in piedi davanti a un grosso salterio da coro o, ancora, sedute a riposare sulla veranda fiorita della loro casupola, comunica immediatamente il senso di naturalezza della loro vita religiosa. Forse l’insistenza con cui le grandi figure carismatiche del monachesimo romeno fanno consistere l’essenziale della professione monastica nell’avere un cuore dolce e compassionevole per gli uomini rivela la vera ragione di quel senso di armonia e pacatezza così connaturali all’ambiente religioso romeno. L’architettura stessa dei monasteri lo riflette, frutto di una particolare visione spirituale profondamente radicata nella tradizione culturale della popolazione contadina della Moldavia. La stessa maestosità e imponenza del monastero di Neamt, il più celebre della Romania, sfumano davanti all’impressione di armonia che si ricava dal complesso.
Se è vero che nella storia dei vari popoli si costatano fasi alterne di splendori e decadenze, di creatività e stagnazione, ciò nondimeno permane nel tempo una certa quale loro identità che ne configura l’anima spirituale. È significativo il fatto che i monasteri più noti e caratteristici della Romania siano quelli sorti in Moldavia, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, quando l’arte moldava ha trovato la sua sintesi più originale, precedendo la Valacchia che ne ha poi subìto in parte l’influenza. Una serie di circostanze favorevoli concomitanti spiega il fenomeno: uno stato florido economicamente e ancora indipendente politicamente (la Valacchia aveva dovuto cedere alla pressione dei turchi fin dal 1417); lunghi regni, come quello di Stefano il Grande (1457-1504), il paladino della difesa del paese e della fede, che assicuravano l’integrazione tra le attività artistico-culturali e una concezione unitaria dello stato e della società; una classe nobiliare ricca e intraprendente insieme a una popolazione contadina libera ancora numerosa; ambienti cittadini in piena ascesa con lo sviluppo delle arti e delle tecniche. Ma i valori culturali di riferimento non potevano che essere religiosi nella società feudale romena, tra l’altro confrontata con una struttura sociale islamica dove l’elemento religioso giocava un ruolo centrale. L’ideale ascetico costituiva l’ideale supremo di una società che traeva dalle basi religiose e morali su cui era fondata le premesse della sua strutturazione politica. È Stefano il Grande a inaugurare nel concreto il legame tra cultura e politica, arte e sviluppo civile, in un clima fervente di fede. Sui luoghi delle sue battaglie, in ringraziamento delle sue vittorie, costruiva chiese e monasteri, a perpetua memoria per il popolo. Le pitture murali esterne delle chiese della Moldavia-Bucovina, con tutta quella teoria di angeli e santi, costituiscono un’immensa preghiera corale in difesa del proprio paese contro l’espansione ottomana, dove uomini e cose, terra e popolo, storia e nazione sono percepiti nel loro significato soltanto a partire dalla fede ortodossa. I temi di quelle pitture, in particolare la rappresentazione dell’inno acatisto e della Scala di Giovanni Climaco, sono temi di ispirazione esicasta, ispirazione che dominava nel complesso tutta la società del tempo. Per valutare fino a che punto la linfa di questa ispirazione esicasta lambiva persone e società, chiesa e istituzioni, è sufficiente prendere in mano il “primo grande libro della cultura romena”, per usare l’espressione del pensatore romeno contemporaneo Constantin Noica, vale a dire le Istruzioni di Neagoe Basarab al figlio Teodosio.
Principe di Valacchia tra il 1512 e il 1521, Neagoe Basarab è passato alla storia come costruttore di chiese e monasteri, amico delle lettere, uomo di cultura. I due monumenti più prestigiosi che ha lasciato sono la chiesa del monastero di Curtea de Arges, paragonato dai contemporanei a Santa Sofia di Costantinopoli, e le sue Istruzioni, che l’hanno immortalato come principe filosofo. Da giovane aveva lungamente soggiornato nel monastero di Bistrita, centro di cultura monastica in Valacchia paragonabile per importanza a quello di Neamt in Moldavia. Aveva avuto come precettore e padre spirituale l’ex-patriarca di Costantinopoli Nifone, noto esicasta, diventato più tardi metropolita di Valacchia. Nelle sue Istruzioni, intessute di citazioni bibliche e patristiche fino agli autori più recenti nonché di racconti popolari, si fa interprete della più genuina spiritualità tradizionale ortodossa. Parla della vita di corte, dei doveri del sovrano, dell’organizzazione dell’esercito, dell’accoglienza degli ambasciatori nella stessa ottica con cui presenta le sue esortazioni alla virtù tratteggiando il suo ideale di perfezione cristiana. La perfezione, per lui, implica prima di tutto l’esercizio dei doveri umani ovunque l’uomo si trovi a vivere, qualsiasi ruolo svolga, dal principe all’ultimo contadino. Il valore della vita è concepito in termini di eternità, ma senza il disprezzo di questo mondo; anzi, la deificazione dell’uomo non è il superamento dell’umano, ma piuttosto il suo perfezionamento, la sua trasfigurazione. È l’uomo nel complesso della sua realtà spirituale-materiale, delle relazioni e responsabilità che esercita nella vita, che viene visto come soggetto religioso. È a questo uomo concreto che Neagoe indirizza il suo insegnamento sull’elemosina, sulla mitezza, sul perdono, sottolineando come la vita personale debba strutturarsi attorno all’esercizio di quelle virtù. Nella concezione di Neagoe prevale un senso di ottimismo, un senso di misura, un “umanesimo” che, se pur riflette il contemporaneo spirito umanistico europeo, proviene dalla sua visione di fede, rispondente all’indole della gente romena, aliena dagli eccessi, anche se dettati dallo zelo religioso. È la dimensione di una spiritualità che potremmo chiamare “cabasiliana”, aperta ugualmente ai monaci e ai laici, che Neagoe ha vissuto sforzandosi “non solamente di reggere il suo regno, ma anche di amare il Signore con tutta l’anima tramite le buone opere”[21]. Alcuni passi della sua opera, tratti dallo stupendo quinto discorso sul timore e l’amore di Dio, ne descrivono perfettamente la spiritualità:
Molti sovrani e prìncipi dicono che devono ben occuparsi dei loro regni e dei loro domini per cui non possono pregare, digiunare, conservarsi puri né andare in chiesa, in quanto sono presi dagli affari di stato, devono trattare con ambasciatori e magistrati e hanno un’infinità di cose da sbrigare riguardo al governo. Avrebbero anche fatto elemosine a coloro che fossero venuti a domandare un po’ di carità nel nome del Signore, ma presi da tante occupazioni non possono usar loro compassione e così molti poveracci e indigenti giacciono nudi e abbandonati in letamai. Questi, poi, con tutti i problemi e i fastidi che li opprimono, non potrebbero nemmeno venir da loro per ricevere l’elemosina ed essi, a loro volta, non hanno tempo per farla loro pervenire. Ma perché? Perché non abbiamo amore per Dio e ci preoccupiamo di tante cose vane … Così noi tutti, fratelli, andiamo dicendo le stesse cose. Ma perché parliamo così? Perché non abbiamo amore per il Signore nostro Gesù Cristo. Tanto il sovrano che il principe, il patriarca, il metropolita, l’igumeno, il padre confessore, il giudice, il ricco e il povero, in qualsiasi posizione ci troviamo, se non amiamo Dio, tutti ripetiamo il solito ritornello: dobbiamo ammassare molti beni perché non ce ne manchi quando verrà il momento del bisogno. Ma così non amiamo Dio con tutto il cuore, bensì amiamo i nostri averi e non abbiamo amore per Cristo[22].
E poco più avanti:
Molti uomini proiettano mente e pensieri in molte direzioni: alcuni lodano la purità, altri il digiuno e la continenza, altri l’elemosina e l’umiltà, altri la pazienza e l’obbedienza. Naturalmente sappiamo anche noi che tutte queste cose sono buone. Tuttavia tali virtù, tutte quante, da dove provengono? Dal Signore Gesù Cristo. In effetti, chi custodisce la mente pura – fondamento e intelaiatura di tutto il bene – non si preoccupa soltanto della purità e del digiuno, della preghiera, della continenza e dell’umiltà, né si disperde con la mente e i pensieri su molte cose, in svariati modi; piuttosto, abbandona tutte queste cose ed eleva mente e pensieri verso l’alto rivestendosi dell’amore verso il Cristo come di un’armatura. Allora non si dà più gran pena come sovrano, principe, patriarca, governatore, igumeno, né si preoccupa di tutte le cose terrene, per le quali noi tutti ci affanniamo, ma soltanto di amare il Signore con tutta l’anima. Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, quando interroga il suo più grande discepolo, il diletto apostolo Pietro, non lo interroga sulla preghiera, sul digiuno, sulla continenza, sull’umiltà, sulla pazienza, sulla purità, sull’elemosina, ma gli dice soltanto: “Pietro, mi ami?”. E lui risponde dicendo: “Certo, Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Cristo sapeva che se l’amava con tutto il cuore, tutte le virtù sarebbero scese su di lui, anche il digiuno, la preghiera, la purità, l’obbedienza, la pazienza. Di conseguenza anche noi, se ameremo Dio con tutta l’anima, la misericordia di Cristo scenderà su di noi, come pure il digiuno, la preghiera, la purità, la continenza, l’umiltà, l’elemosina, la pazienza, l’obbedienza. Tutte le virtù sono nelle sue mani. Non disperdiamo perciò i nostri pensieri in altre direzioni, eleviamoli piuttosto verso Dio, ricco di compassione, da cui discende ogni misericordia, per regnare con lui nei secoli dei secoli. Amen[23].
La convinzione che regge tutto il suo orientamento è quanto mai rivelatrice: “Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio”[24]. Da questa dulceata dumnezeiasca Neagoe trae la ragione della propria spiritualità che marca inconfondibilmente la sensibilità dei romeni con la sua conseguenza più vistosa ed essenziale: l’apertura dell’uomo verso i suoi simili, nella coscienza dell’unità ontologica del genere umano a immagine della Trinità. In Cristo tutti gli uomini sono “consustanziali”. Di qui l’accento sull’amore inteso in senso eminentemente attivo, vale a dire su un amore che si fa ricerca ed esercizio di misericordia, di dolcezza, di perdono, di premura per il prossimo, riflesso dell’amare Dio con tutta l’anima. In tal senso l’ispirazione esicasta in Romania lievita tutto il campo delle responsabilità umane così come configura l’orientamento di fondo di tutto lo sviluppo della tradizione monastica.
A svelarci un altro tratto esemplare dell’anima romena è una breve composizione poetica che ha affascinato e tuttora affascina tanto il popolo quanto gli intellettuali, cantata dagli uni e indagata dagli altri con la stessa partecipata adesione al suo universo simbolico. È una toccante ballata, intitolata Miorita (L’agnella), conosciuta per lo più nella veste letteraria datale dal poeta Vasile Alecsandri nel 1850 ma la cui composizione, dovuta al genio creativo popolare, si perde nei secoli. La trama è semplicissima: un’agnella avverte il proprio giovane pastore moldavo che i suoi due compagni valacchi lo vogliono uccidere. Invece di difendersi, il pastorello accetta il destino e detta le sue ultime volontà all’agnella, di essere cioè seppellito vicino al suo gregge con gli oggetti caratteristici del suo lavoro. La prega soprattutto di tacere dell’assassinio e di dire invece che ha sposato la regina del mondo (la morte) in un quadro cosmico nuziale esaltante[25].
Le cosiddette “nozze mioritiche” costituiscono una sorta di orizzonte culturale per i romeni. Contrastanti le interpretazioni, spesso antagoniste, ma pur sempre significative del coinvolgimento culturale-affettivo che tale semplice e bellissima composizione suscita. Vi si è voluto vedere la rappresentazione della rassegnazione e della passività di tutto un popolo, una specie di “amore per la morte” che caratterizzerebbe la spiritualità popolare romena come sostenuto nel famoso Spatiul mioritic (Spazio mioritzco) di Lucian Blaga[26]; oppure, al contrario, la rappresentazione della vitalità del popolo e dell’amore per la vita e per il suo lavoro, riconoscendo nel tessuto della ballata arcaiche concezioni di una post-esistenza del pastore negli oggetti caratteristici della sua attività.
Senza entrare nel merito della validità o meno delle contrapposte interpretazioni, si può dire certamente che con la Miorita si è introdotti in un cosmo trasfigurato, liturgico, dove si celebrano dei “misteri”, dove la morte diventa un matrimonio di struttura e di proporzioni cosmiche. Non è in gioco un atteggiamento passivo o rinunciatario. L’atteggiamento del pastore esprime una decisione esistenziale più profonda: non ci si può difendere dal destino come ci si difende dai nemici. Non resta che imporre un nuovo significato alle conseguenze ineluttabili di un destino che sta per compiersi. E nemmeno si può parlare di fatalismo, perché un fatalista non si crede neanche capace di modificare il senso di ciò che gli è stato fissato dal destino. Così, il messaggio più profondo della ballata si deve vedere nella volontà del pastore di mutare il senso del suo destino trasfigurando la sua morte in nozze mistiche. Il pastore non assomiglia ai nichilisti moderni che tentano di “demistificare” il senso del mondo e della vita per giustificare l’assurdo con cui ci si scontra nella realtà. La sua risposta è agli antipodi: trasforma la terribile sorte che lo condanna a morte in un grandioso mistero sacramentale che gli permette di trionfare del suo destino. Mircea Eliade accosta giustamente la reazione del pastore a quella dei romeni e di altri popoli dell’Europa orientale davanti a ciò che ha chiamato “il terrore della storia”, davanti cioè alle invasioni e alle catastrofi storiche. In simili frangenti, alla disperazione non si può che opporre un’interpretazione religiosa, come del resto avevano già fatto gli antichi ebrei a contatto con i grandi imperi militari. Proprio la concezione di un cosmo riscattato dalla morte e dalla risurrezione del Salvatore e santificato dai passi di Cristo, della Vergine e dei santi, permetteva di ritrovare, non fosse che simbolicamente, un mondo carico delle virtù e bellezze di cui le invasioni con i loro terrori spogliavano il mondo storico. Ora, tale capacità di annullare le conseguenze apparentemente irrimediabili di un avvenimento tragico, rivestendole di valenze insospettate, dimostra la forza creativa del genio popolare. È la risposta più efficace al destino quando si rivela, come spesso è accaduto, ostile e tragico. Intellettuali e popolo riconoscono in essa il loro modo di esistere nel mondo e di superare appunto i “terrori” della storia, anche recenti[27].
In questo sottofondo “ancestrale” dell’anima popolare sembra pescare anche la stessa esperienza monastica romena. La spiritualità romena si rivela in un certo “timbro”, in una certa “sensibilità” che pensiamo si possa far derivare proprio da quella capacità di trasfigurazione che contraddistingue l’esperienza religiosa romena. Trasfigurazione non dice superamento, ma più semplicemente schiusura della realtà alla sua rivelazione. Quel senso di misura e di armonia, di pacatezza, di cui si è detto più sopra, trova qui la sua radice teologica più profonda che si innesta in una visione della natura e dell’uomo assolutamente positiva, connaturale all’animo romeno. I monaci romeni amano molto la natura: i loro esicasteri e complessi monastici sorgono sempre in bei siti naturali, dove si trovano perfettamente incastonati. Essi hanno sempre cercato la solitudine dentro la natura, in una cornice naturale amena, dolce; la vita non ha mai comportato valenze eroiche o tragiche, come invece certe forme particolari di vita ascetica tra i greci e i russi suggeriscono. Per loro l’esistenza è dono dell’amore di Dio, è carica di senso, è buona e bella. È il peccato a corromperla, per cui i monaci cercano la solitudine per purificarsi dal peccato e ritornare alla purità e alla gioia naturali, secondo l’originaria creazione divina. Cercare silenzio e pace significa voler ripristinare in sé quel silenzio e quella pace che aprono alla visione della bellezza e all’esercizio della comunione fra gli esseri, in un universo armonico e pacificato. L’espressione preferita dai monaci per indicare una vita ritirata era ed è ancora “a merge la liniste” (“andare in un luogo tranquillo”), dove silenzio sta per capacità di ascoltare il canto degli uccelli, il fruscio degli alberi, il mormorio dell’acqua, capacità cioè di aprirsi al canto della natura e alla visione della sua bellezza, umanità compresa. Soltanto un uomo pacificato e sereno può aprirsi alla comunione con il prossimo e così scoprire, finalmente, il volto interiore dell’umanità e il senso del mondo.
[1] L’aneddoto è riportato da I.Balan, Paterik romeno, Bucarest 1980, p. 621 (in romeno). A raccontarlo è lo stesso fratello di padre Galaction, il famoso starets padre Cleopa Ilie dcl monastero di Sihastria.
[2] Cf. M.Eliade, De Zalmoxis à Gengis-Khan. Etudes comparatives sur les religions et le folklore de la Dacie et de l’Europe Orientate, Paris 1970, p. 30. II famoso studioso romeno aggiunge anzi che il lupo appare ancora una terza volta nell’orizzonte mitico della storia dei daco-romani e dei loro discendenti. In effetti, i principati romeni vennero fondati dopo le grandi invasioni di Gengis-Khan e dei suoi successori. Anche il mito.genealogico dei gengiskhanidi si rifà appunto al lupo.
[3] Voievod era l’appellativo riservato ai principi della Valacchia e della Moldavia come titolo onorifico. Significa in generale “capo”, “comandante (dell’esercito)”, similmente al termine slavo da cui proviene voivoda, con il quale si designava altresì il governatore di una provincia.
[4] Cf. N.Dura, “Le terre romene e le nazioni cristiane dei Balcani nel periodo della dominazione ottomana (sec. XIV-XIX)”, in Biserica ortodoxa româna 106, 5-6 (1988), pp. 102-117 (in romeno).
[5] È la conclusione di uno dei migliori storici romeni, l’accademico Radu Vulpe, citato dai padri Romul, Théophane et Irénée, “La Parole de Dieu en langue roumaine: la Bible de Bucarest (1688) et le Nouveau Testament d’Alba-Julia (1648)”, in Contacts 145 (1989), p. 46.
[6] Cf. D.Staniloae, “L’antichità e la spiritualità dei termini cristiani romeni in rapporto ai termini della lingua romena in generale”, Biserica ortodoxa româna 97, 3-4 (1979), p. 564 (in romeno).
[7] I.Balan., Centri di insediamento di vita esicasta romena, Bucarest 1982, p. 9 (in romeno).
[8] Ivi.
[9] Ivi, p. 16.
[10] Ivi, pp. 18-19.
[11] Nicodemo di Tismana (prima metà del sec. XIV – 1406), originario probabilmente del sud della Serbia, monaco e poi superiore di Chilandar sull’Athos, fonda nel 1370 in Valacchia il monastero di Vodita. Sospinto più a nord dall’occupazione ungherese della regione del Banat di Severin, fonda il monastero di Tismana dove muore il 26 dicembre 1406. Importante la sua corrispondenza con l’ultimo patriarca di Tîrnovo, Eutimio, e pregevole il suo Libro dei quattro vangeli, capolavoro di calligrafia, copiato tra il 1404 e il 1405 in lingua slavonica di redazione serba. Il santo Sinodo della chiesa ortodossa romena, nel 1955, ha esteso a tutta la Romania il culto del santo.
[12] L’ordinamento monastico bizantino, maschile e femminile, comprende tre gradi. I monaci sono chiamati con titoli di origine greca che richiamano il nome dell’abito che indossano: il rasoforo, cioè portatore del rason (mantello ecclesiastico chiamato anche rjasa, a maniche larghe, chiuso lateralmente come la tunica); il mikróschemos, cioè il monaco del “piccolo abito”, chiamato anche semplicemente monaco; il megalóschemos, il monaco del “grande abito”. Con una certa approssimazione, il primo grado corrisponde al nostro novizio; il secondo al monaco professo di osservanza ordinaria; il terzo è un monaco di stretta osservanza con particolari doveri di preghiera e di penitenza.
[13] La skite di Poiana Marului (letterelmente: “radura del melo”) si trova nel comune di Jitia, distretto di Vrancea, a circa 150 km a nord di Bucarest. Fu fondata dallo starets Basilio nel 1733, sulla cui figura si può vedere D.Raccanello, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Marului, Alessandria 1986. Sulla storia e lo sviluppo dell’esicasmo in terre romene, cf. D.Staniloae, “Gli esicasti o gli eremiti e la preghiera di Gesù nella tradizione ortodossa romena”, in La Filocalia, vol. VIII, Bucarest 1979, pp. 555-587 (in romeno).
[14] Cf. C.Zaharia, “La chiesa ortodossa romena in rapporto alle traduzioni patristiche filocaliche nelle lingue moderne”, in Benedictina 35 (1988), pp. 153-172. Sulla figura e sull’attività letteraria dello starets Paisij Velickovskij, cf. la nostra “Introduzione” in P.Velickovskij, Autobiografia di uno starets (“Scritti monastici”, 10), Abbazia di Praglia 1988.
[15] Il passo della lettera è citato nella biografia di Paisij redatta da Grigorie Dascalul, futuro metropolita di Valacchia, e pubblicata a Neamt nel 1817 sotto il titolo: Succinta narrazione della vita del nostro beato padre Paisij (in romeno).
[16] Il Testamento dello starets Giorgio è pubblicato in Casian Cernicanul, Storie dei santi monasteri di Cernica e Caldarusani, Bucarest 1870, pp. 17-62 (in romeno). Una parziale traduzione francese si trova in R.Joanta, Roumanie. Tradition et culture hésychastes (“Spiritualité orientale”, 46), Abbaye de Bellefontaine 1987, pp. 207-212, 263-264. Cf. anche Ch.Gheorghescu, “Il beato starets Giorgio di Cernica”, in Santi romeni e difensori delle tradizioni avite, a cura del Patriarcato della chiesa ortodossa romena, Bucarest 1987, pp. 500-510 (in romeno).
[17] Su san Callinico cf. D.Steniloae, “Discorso sulla canonizzazione di s.Callinico”, in Biserica ortodoxa româna 73, 11-12 (1955), pp. 1158-1173. Cf. anche I.Ionescu, “II santo vescovo Callinico di Cernica”, in Santi romeni e difensori delle tradizioni avite, op. cit., pp. 520-542.
[18] Il Corso è apparso come terzo volume della Teologia morale ortodossa, vol. III: Spiritualità ortodossa, Bucarest 1981 (in romeno).
[19] I dati presentati sono tratti per lo più dal documentato studio di T.Beeson, Discretion and Valour. Religious Conditions in Russia and Eastern Europe, Philadelphia 1982, revised edition. Cf. anche I.Dumitriu-Snagov, “Romania”, in Dizionario degli istituti di perfezione, vol. VII, Roma 1983, coll. 1991-2009.
[20] Cf. A.Plamadeala, “Alcuni tratti specifici della spiritualità romena”, in Tradizione e libertà nella spiritualità ortodossa, Sibiu 1983, pp. 388-406 (in romeno).
[21] Come si legge in un’iscrizione votiva di Neagoe nella chiesa del monastero di Curtea de Arges. Su Neagoe Basarab, oltre alla sezione storico-letteraria aggiunta all’edizione romena delle sue Istruzioni (cf. sotto n. 22), cf. A.Plamadeala, “Neagoe Basarab, il principe della cultura romena”, in Maestri di pensiero e di coscienza romena, Bucarest 1981, pp. 13-62 (in romeno), dove analizza l’opera di Neagoe dal punto di vista teologico-spirituale.
[22] Le istruzioni di Neagoe Basarab al figlio Teodosio, Bucarest 1984, pp. 125-126 (in romeno). Anche se permangono discordanze di pareri tra gli studiosi, sembra oggi largamente condivisa la tesi dell’attribuzione dell’opera a Neagoe. Comunque il libro è stato redatto in slavonico negli ultimi anni della vita di Neagoe (1518-1521). Il manoscritto originale comportava più di trecento fogli, di cui soltanto un terzo si è conservato alla Biblioteca Nazionale di Sofia. Verso la metà del sec. XVI, la seconda parte delle Istruzioni è stata tradotta in greco da Manuele di Corinto e poco più tardi, nel sec. XVII, il testo integrale è stato tradotto in romeno. L’editio princeps della versione romena, edita dalla tipografia del Collegio s.Saba, a Bucarest, risale al 1843.
[23] Istruzioni, op. cit., p. 129.
[24] Ivi, pp. 125 e 269.
[25] Il testo romeno con traduzione italiana di questa ballata si può leggere in A.Roman, Antologia della poesia romena. Dagli inizi fino ai nostri giorni, vol. I, Padova 1985, pp. 11-13.
[26] L.Blaga, Spazio mioritico, Bucarest 1936 (in romeno).
[27] Sono riflessioni ricavate dalla lettura di M.Eliade, “L’agnelle voyante”, in op. cit., pp. 218-246.