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II. Lotta/fatica

Commentando la parabola delle dieci vergini, cinque stolte e cinque sagge (Mt 25), Gregorio di Nissa annota: “Che utilità c’è nell’affaticarsi a coltivare la vite, se non spuntano i frutti per i quali il contadino ha sostenuto tante fatiche? E quale guadagno portano i digiuni, le preghiere e le veglie se mancano la pace, la gioia, l’amore e i rimanenti frutti della grazia dello Spirito, enumerati dal santo apostolo? (cfr. Gal 5,22-23)»[1]. Potremmo commentare: si possono desiderare i frutti senza voler sopportare la fatica necessaria o anche si possono sopportare tante fatiche senza godere mai i frutti. É la situazione, drammatica, della nostra esistenza.

Se si contempla Gesù sulla croce come il re della gloria – secondo la titolatura che molti antichi crocifissi portavano al posto del titolo di condanna I.N.R.I./Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum – non si può non cogliere quella gloria come lo splendore dell’amore che si è riversato sugli uomini e che farà dire agli apostoli: “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (At 14,22). Sono le tribolazioni come fatica di fedeltà all’amore, come intimità di un amore che non viene meno nelle avversità e nelle afflizioni. Intimità e fatiche, amore e pesi, bene e sofferenze, segnano le nostre vite, tutte. L’inconveniente per noi, disgraziatamente, è dato dal fatto che il suggerimento del maligno a Eva: “Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio …” (Gn 3,5) ha sempre potere sul nostro cuore. E se Dio fosse davvero geloso della nostra felicità? Questo pensiero è talmente annidato nelle pieghe del nostro cuore che insidia subdolamente anche tutti i rapporti fraterni. Tanto che, voler stare dalla parte di Dio, impegnandoci in una qualità di vita buona, tacitando le nostre rivendicazioni egoistiche, pare comportare l’alienazione della propria personale e concreta umanità, per cui la necessaria rinuncia evangelica a se stessi è temuta, fortemente temuta, risolversi in un processo che porta a ritrovarci sfigurati, non già trasfigurati.


La fatica inutile.

Nella vita esistono due tipi di fatiche: l’una inutile, che risulta oppressiva; l’altra giusta, che ci fa crescere e ottenere il frutto cercato. Alla fatica comunque non ci si può sottrarre. Tutto sta a riconoscere quella giusta. Tre cose però dimentichiamo con troppa facilità:

1)  La fatica è funzionale alla crescita, all’educazione dell’«io» alla libertà e alla relazione con l’altro, nella fiducia del soccorso divino, come descrive il passo di 2Re 6,15-17.

2) Cristo abita in noi più radicalmente di qualsiasi male, anche se in modo forse troppo nascosto per la nostra coscienza. Questa convinzione libera dal disprezzo che ci inchioda di fronte al male che ci attrae; libera dalla sfiducia in cui gettiamo il nostro cuore quando veniamo feriti dalla vita e dalla cattiveria degli uomini o dalla nostra stessa debolezza; ci aiuta a vincere la paura, che spesso è proprio quella che ingigantisce il male.

3) Se non si coltiva la tensione a Dio, se si vive distratti rispetto alla storia di alleanza che lui ha intessuto con noi e di cui Gesù costituisce il Dono per eccellenza, ci si allontana dalle radici del cuore, non riuscendo più a rapportarsi alla vita, ai fratelli, a noi stessi, in benevolenza e armonia.

Dio cerca la sua gloria scendendo (pensiamo al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio e alla sua passione d’amore per gli uomini), mentre l’uomo la vuole salendo, facendosi grande, misconoscendo il mistero divino del lavarsi i piedi a vicenda e rischiando di trasformare in fatica inutile tutti gli sforzi per raggiungere Dio e trovare felicità.

La fatica giusta.

Per quanto riguarda il mondo spirituale si deve ammettere apertamente: non riusciamo nella vita spirituale perché non abbiamo compreso il mistero del Regno di Dio che sboccia nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza delle nostre anime. Come ci ricorda un detto antico: “Disse un anziano: «Per questo non facciamo progressi, perché non conosciamo i nostri limiti, e non abbiamo perseveranza in ciò che abbiamo intrapreso, ma vogliamo acquistare la virtù senza fatica»”[2].

Fatica implica pazienza (cfr. Lc 21,19) rispetto al tempo, rispetto alla lotta da sostenere e rispetto alla conoscenza di sé da acquisire. Non è dato godere il regno di Dio subito e facilmente. La fatica, secondo la preghiera del Padre Nostro, è descritta come resistenza al perdono, cedimento alla tentazione, inganno del male (del maligno): “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”. Da intendere lungo questa traiettoria: evitare il male quando la tentazione assale per accedere allo spazio di comunione con tutti e con tutto. Dentro questa traiettoria si gioca tutta la nostra vita, esteriore e interiore, nessuna circostanza esclusa, nessun tempo escluso.

L’uomo non è ciò che sente, ma essenzialmente ciò che decide. Questo significa che il male, pur agendo nell’uomo, gli è estraneo, si muove attorno al cuore: arriva dentro il cuore solo se lo si lascia liberamente passare. Di qui l’urgenza della vigilanza, non tanto per impedire di tradurre in atti corrispondenti il suggerimento maligno accolto in cuore, ma soprattutto per impedire al cuore di accogliere quel suggerimento e subirne l’influsso. Dal momento che non esistono tempi o spazi inaccessibili alle tentazioni, il comando della vigilanza, come quello della conversione che ne scaturisce, è onnicomprensivo e vale sempre. E la vigilanza è prima di tutto custodia della grazia che abita nel cuore, intuito per un’intimità del cuore con Dio.

Nell’esperienza dei Padri del deserto la tentazione, motivo di fatica e di lotta per noi, si presenta contro la determinazione di non essere divisi (cfr. 1Cor 7,34). La vittoria sulla tentazione scaturisce dalla capacità, sostenuta dalla grazia e scoperta nella resistenza al male, di cogliere il demonio come straniero e di riconoscere invece familiare la Parola di Dio che agisce con potenza nell’uomo. E l’oggetto proprio della tentazione demoniaca è l’unità restaurata da Cristo che ci fa membra gli uni degli altri. La tentazione dunque ha fondamentalmente a che fare con la possibilità di vivere la relazione. Non per nulla i doni dello Spirito, elencati da Paolo in Gal 5,22: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, hanno tutti a che fare con la relazione fraterna. Il che significa, ancora, che solo nel vivere una buona  relazione con i fratelli posso trovare felicità per il mio cuore.

Ecco allora il nesso fondamentale: il rifiuto del male è direttamente collegato alla possibilità di vivere la comunione, nel compimento di quella vocazione all’umanità che costituisce l’esito del nostro agire buono, innestati in Colui che ci ha conquistati con il suo farci grazia di sé, in Gesù. Tutta la fatica del vivere punta a permettere al nostro cuore di vivere agilmente quel movimento di comunione. L’inganno delle tentazioni, di qualsiasi genere esse siano, consiste nell’impedirci quella comunione in ragione dell’affermazione pura e semplice di se stessi che tanto ci alletta, se non altro perché non possiamo desiderare la vita se non per goderla. Ma siamo davvero all’altezza di godere la vita che non delude?

Con tutta probabilità nessuno di noi oggi sottoscriverebbe la risposta di un abba del deserto come riporta un antico apoftegma: «Un fratello chiese a un anziano: “Se digiuno, mi salvo?”. L’anziano rispose: “No”. Il fratello disse: “Se fuggo gli uomini, mi salvo?”. L’anziano gli rispose: “No”. Il fratello disse: “Se ho amore per i miei fratelli, mi salvo?”. L’anziano rispose: “No. Ma essere salvato consiste in questo: portare il rimprovero di se stessi e in nulla affliggere il proprio fratello, perché così Dio dà misericordia all’uomo”». Eppure, quante forme di amore generano afflizioni e tormenti! La questione della fatica giusta risponde alla domanda: come vivere un amore in modo pulito e liberante? La preghiera di s. Efrem ci traccia il cammino possibile.

La preghiera di s. Efrem

Signore e Sovrano della mia vita,

non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità.

Dona invece al tuo servo

uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità.

Sì, Re e Signore,

fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello,

poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen

É una preghiera che viene recitata nove volte al giorno durante la quaresima nel rito bizantino. La successione degli atteggiamenti è assai ben concatenata. La pigrizia è il rifiuto della propria vocazione a diventare umani. Il lavoro e la fatica non appartengono al peccato, perché lo precedono (cfr. Gn 2,15); appartengono al vivere, alla realizzazione di quello che si è ma non si è ancora rivelato. L’uomo è chiamato a passare da essere semplicemente individuo a diventare persona e volersi persona è volersi responsabili dell’esercizio di una libertà donata, che ha bisogno per realizzarsi di un lavorio costante e fecondo. Rifiutandolo, cade nell’illusione di poter trovare la realizzazione di sé, la propria felicità, nelle cose esteriori, fino a vedere gli uomini, suoi simili, semplicemente come strumenti e mezzi di profitto personale. Alla fine, non solo non c’è più comunione, ma manca anche ogni forma di comunicazione e la cosa è tanto tragica perché non riguarda solo gli altri, ma riguarda il nostro stesso mondo interiore: tutto è vano, suona fesso. Non pensiamo più, siamo pensati!

Siamo danneggiati nella coscienza verso Dio con la pigrizia perché non prestiamo più cura alla nostra crescita interiore; siamo danneggiati nella coscienza verso le cose non conoscendo più la misura adatta per servircene ed esaltare il loro servizio per la vita nostra e di tutti; siamo danneggiati nella coscienza verso il prossimo perché cadiamo nel disprezzo dei fratelli, di cui non riconosciamo più il valore essenziale; siamo danneggiati nella coscienza verso noi stessi per il degrado della parola, dono divino all’uomo per aprirsi all’incontro e vivere in comunione.

All’opposto, se reagiamo a questi quattro spiriti cattivi come la preghiera insegna, ritroveremo il gusto di una fatica feconda, di quel lavorio del cuore che sta aperto a Dio e ai suoi doni; l’urgenza di ricercare una cosa sola (cfr. Mt 6,33-34) senza cadere in una sorta di preoccupazione diffusa che non ti lascia requie; la bellezza del servizio nei confronti del prossimo come capacità di custodire la dignità propria e altrui; il valore del silenzio, che dà corpo alle parole perché arrivino al cuore e non semplicemente alla testa o alle orecchie.

Con la purità torniamo a guardare ad ogni cosa benevolmente. La ripresa della propria dignità si risolve nel dare dignità a tutti e questo è frutto dell’umiltà che fa in modo che nessuno debba mai chinare la testa davanti a noi. Con la pazienza si torna a star bene con tutti e con tutto perché ci si possiede: è il rimedio contro la frantumazione del cuore, in una benevolenza per noi di fondo. Tutto sembra risolversi nella carità, l’esatto contrario della pigrizia che, dimenticando la storia di alleanza di Dio con l’uomo, non si preoccupava minimamente di coltivarla e di viverla aprendo la porta ad ogni sorta di malattie dell’anima. Con l’amore si ritorna all’energia di un corpo spirituale sano, integro, salvato, dove tutto porta alla realizzazione di quell’umanità che costituisce la nostra vocazione. È la vittoria sull’ira.

Attenzione però! La preghiera non si conclude con la richiesta della carità. Aggiunge ancora: fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello. Vedere i propri peccati e non accusare il fratello riassume la forza di una santa associazione: l’umiltà della carità.

Così, l’esito della fatica giusta, alla fin fine, sarà quello di apprendere l’arte divina del servire, un servire la propria vocazione all’umanità, le cui esigenze si possono esprimere così: custodire la bellezza delle creature condividendo il perdono ricevuto, liberare la dignità di tutti non mettendosi sopra nessuno, capaci di vivere in modo che gli altri si sentano accolti e amati da noi. La condizione? Intuire in quelle esigenze il dono che il Signore Gesù ha fatto a noi con il suo perdono e il suo far grazia di sé a noi. La fatica del vivere, con la mortificazione delle nostre illusioni e dei nostri sogni di esibizione, si risolverà nella fatica delle beatitudini evangeliche, che  rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita (cfr. Is 40,27-31).

(Secondo di quattro brevi articoli di p. Elia Citterio sul tema: Parole chiavi della vita spirituale oggi, per la rivista “In caritate Christi”, delle Suore Elisabettine di Padova, anno 2010).

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[1] GREGORIO DI NISSA, Fine professione e perfezione del cristiano, Traduzione, introduzione e note a cura di Salvatore Lilla, Roma 1979, Città nuova (Collana testi patristici, 15): Il fine cristiano, pp. 58-59.

[2] I Padri del deserto. Detti, Introduzione, traduzione e note di Luciana Mortari, Roma 1972, Città nuova, c. VII, La pazienza e la forza, n.23, p. 142.