Conferenza di p. Elia Citterio tenuta a Rimini il 25 novembre 2004, presso l’Istituto di scienze religiose “A. Marvelli”. Pubblicata in N. Valentini (a cura di), Le vie della Rivelazione di Dio. Parola e Tradizione, Roma 2006, ed. Studium, pp. 185-207, col titolo L’insegnamento dei santi Padri nella vita cristiana.
L’anno scorso si è tenuto a Parigi un simposio sull’apporto dei Padri alla catechesi di oggi. In uno degli interventi, il p. Nicolas-Jean Sèd, direttore generale delle edizioni du Cerf, ha proposto un’interpretazione straordinariamente efficace del significato della nozione di tradizione nel cristianesimo. Con le sue precisazioni entro subito nel vivo della mia trattazione. Sintetizzo il suo pensiero. La trasmissione ο la tradizione rinvia, nel cristianesimo, al mistero stesso del Dono di sé che Dio fa all’uomo nel suo Cristo, il suo Figlio Unico: questo Dono di sé è precisamente designato dal termine παράδοσις, traditio, tradizione. Al movimento del dono di sé fatto da Dio all’uomo risponde in maniera parodistica il tradimento (si tratta sempre dello stesso termine, traditio) dell’uomo che consegna (ancora lo stesso termine, traditio) il Figlio alla morte. Questo mistero della Tradizione, il mistero per eccellenza, costituisce l’oggetto proprio di una tradizione del Mistero, come dice san Paolo: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1 Cor 11,23). Da una parte, ha ricevuto e trasmesso il battesimo nel quale viene confessato il dono di sé fatto da Dio all’uomo in Gesù Cristo e la passione di quest’ultimo, e d’altra parte, l’Eucaristia, il memoriale della passione e della risurrezione insieme alla partecipazione attuale, esistenziale, personale, ecclesiale del credente alla Pasqua.[1].
La Tradizione ha così a che fare con la decisione di Dio di avere una storia con gli uomini. Ha a che fare essenzialmente con la rivelazione del Suo volto nel suo desiderio di comunione con gli uomini, compiuto in Cristo, per la potenza dello Spirito Santo. La realtà della ‘tradizione’ va colta insieme alla realtà del ‘mistero’ dell’alleanza di Dio con l’uomo, secondo il contesto di rivelazione in cui ambedue sono collocati. Da sottolineare con forza il fatto che, in senso religioso, il ‘mistero’ delle Scritture, che la Tradizione testimonia, celebra e annuncia, non allude primariamente a ciò che non si può comprendere, bensì a ciò di cui si è invitati a diventare partecipi. Allude a un legame prima che a una comunicazione. E chi tale legame ha custodito e trasmesso veracemente è considerato ‘padre’, padre nella fede. Così la Chiesa, che discende dagli apostoli, in coloro che hanno difeso, illustrato con la vita e la parola, la venuta di quel ‘mistero’ accolto e goduto nel Signore Gesù, nella potenza del suo Spirito, ha riconosciuto i suoi ‘padri’, tenendo conto dello spazio temporale di vicinanza al tempo apostolico[2]. Quando l’apostolo Pietro invita ad integrare il collegio apostolico dopo la defezione di Giuda dice: “Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione” (At 1, 21-22). È la comunanza di vita con Gesù che abilita ad essere testimone. E i Padri sono i testimoni della verità di questa comunanza di vita con Gesù, per la salvezza, che nella chiesa è accessibile a chiunque ne condivide la fede.
C’è un passo nella lettera agli Ebrei che allude a questa comunanza di vita con Gesù, a noi accessibile per la mediazione dei Padri: “Poiché anche a noi, al pari di quelli, è stata annunciata una buona novella: purtroppo però a quelli la parola udita non giovò in nulla, non essendo rimasti uniti grazie alla fede con coloro che avevano ascoltato… ” (Eb 4,2). Solo chi resta unito (συγκεκερασμένους, dal verbo συγκεράννυμι, com-misceo, coniungo) a coloro che hanno ascoltato raggiunge il ‘riposo’, ottiene la ‘visione’, arriva alla ‘salvezza’.
Vale qui, particolarmente, l’avvertimento di Basilio Magno:
“Ascoltare non alla leggera la lingua della teologia [το γαρ μη παρέργως άκούειν των θεολογικών φωνών], ma sforzarsi in ogni parola e in ogni sillaba di scoprire il significato nascosto, non è di persone restie alla pietà, ma di persone che percepiscono lo scopo della nostra vocazione: a noi è proposto di rassomigliare a Dio, per quanto sia possibile alla natura dell’uomo. Ma la somiglianza non esiste senza conoscenza e la conoscenza dipende dagli insegnamenti”[3].
Da dove ci vengono gli insegnamenti, da cui deriva la conoscenza, che ci può ottenere la somiglianza? La feconda scoperta della tradizione patristica nella vita cristiana si situa esattamente nell’intreccio di questi snodi: ascoltare gli insegnamenti, che portano a una conoscenza, per arrivare a una somiglianza. In altri termini, ciò che regge la tradizione patristica è il principio della divinizzazione dell’uomo come verità della salvezza dell’uomo, in Cristo, per la potenza dello Spirito Santo[4]. I Padri, siano grandi vescovi e teologi (Ireneo, Atanasio, Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno), esegeti (Origene), mistici (Isacco Siro), umili monaci (Padri del deserto), tutti insieme sono da considerare i testimoni ed i maestri di quella ‘scienza dello spirito’ che è l’arte di condurre l’uomo alla comunione con Dio svelandogli passo passo la verità del suo essere ‘ordinato a diventare dio’, secondo la bella definizione di Basilio Magno riportata da Gregorio di Nazianzo[5]. Arte e scienza dunque, che vanno intese come la capacità di tradurre in valori concreti, in valori vitali che coinvolgano tutto il nostro essere, il tesoro della fede. Qui si pone la mediazione specifica dei nostri Padri. La fede della Chiesa si radica nelle Scritture, interpretate nel senso della Tradizione, e non nelle Scritture separate dalla Tradizione né nella Tradizione staccata dalle Scritture[6]. I Padri nella fede, nella Chiesa, sono coloro che hanno custodito, difeso, testimoniato, celebrato e come sostanziato quel ‘senso’, senza il quale le stesse verità di fede perderebbero la loro consistenza e fecondità. Qui risiede tutto il tesoro che rappresentano i Padri per l’esperienza dei credenti in Cristo.
1 LA TRADIZIONE NELL’ESPERIENZA DELLA CHIESA
Vale forse la pena di spendere qualche parola sui termini che usiamo. Riferito alla Chiesa, Tradizione, con la Τ maiuscola, allude non soltanto alla trasmissione della Rivelazione come un insegnamento ο una dottrina, ma anche e soprattutto come una esperienza di Dio nel Cristo e nello
Spirito. Corrisponde al Vangelo stesso trasmesso di generazione in generazione nella e per la Chiesa. È la Tradizione che viene dagli apostoli, ricevuta con tutti i frutti che essa ha prodotto. La Chiesa in effetti trasmette tutto ciò che è; essa stessa è la Tradizione vivente nel presente, che però è ricca del passato colto nella sua fecondità e continuamente aperta al futuro finché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,28). Il termine tradizione (con la t minuscola) indica il processo di trasmissione; usato al plurale designa la diversità delle forme di espressione, sottolinea la differenza nell’unità e nello stesso tempo designa l’insieme di una eredità a partire da una esperienza fondante che cresce nel tempo e determina l’orientamento di un modo di pensare, di un modo di sentire, di un modo di praticare, di un modo di vivere. Si può parlare così delle tradizioni dottrinali, teologiche, liturgiche, mistiche, spirituali, religiose, culturali, all’interno della stessa esperienza cristiana, come espressioni dell’unica vita della Chiesa. Quando poi a tale processo si aggiunge l’elaborazione riflessa, l’autocoscienza dottrinale ο spirituale che via via si è costruita rispondendo all’ispirazione dell’esperienza originaria e alle sollecitazioni della storia, si costituisce come una vera e propria eredità, capace di indicare uno dei modi possibili di vivere ed approfondire l’esperienza cristiana nella Chiesa. Le varie tradizioni possono essere allora denominate con il nome di scuola, corrente, movimento.
Parlare della Tradizione significa parlare della percezione del mistero di Dio; in particolare, significa parlare della fede della Chiesa che allude alla visione che essa si è fatta e continua a farsi del mistero di Dio, in Cristo, secondo la potenza dello Spirito Santo. Se la fede, schematizzando, dice essenzialmente tre cose: visione, relazione e cammino, allora la Tradizione si pone essenzialmente come testimone e custode di una certa visione, di una certa relazione e di un certo cammino, nella fede. Provo a spiegare brevemente queste tre cose.
1) anzitutto, visione. Fede come “non il fondamento della confessione di tutti, ma quella potenza spirituale che sostiene il cuore con la luce dell’intelligenza”[7]. Nella tradizione ebraica è detto che la forza del Messia non è quella di annunciare solamente, ma di far vedere. E l’immagine più incisiva che ho trovato della fede come visione è quella del passo di 2Re 6,17, dove il profeta, circondato dall’esercito arameo, non dispera dell’aiuto del Signore, diversamente dal suo servo in preda all’angoscia: “Eliseo pregò così: « Signore, apri i suoi occhi; egli veda». Il Signore aprì gli occhi del servo, che vide. Ecco, il monte era pieno di cavalli e di cani di fuoco intorno a Eliseo”. Come la Chiesa ha coltivato e coltiva la sapienza di una visione che riveli ai cuori il volto di Dio e lo splendore delle creature? Questo è il contenuto stesso della Tradizione. Nonostante le intemperanze della storia, è questo che ha sempre prevalso nella Chiesa. Ricordo il motto dell’Ordine domenicano, ‘verità’, ma non la sua difesa, piuttosto la sua percezione[8]. Anche in epoche posteriori, è appunto la verità di una tradizione, come del resto di tutte le tradizioni che prendono vigore dall’unica Tradizione che è la Chiesa, che, prima di preoccuparsi di difenderla contro qualcuno, si sforza di coglierla, di gustarla e farla gustare, di amarla e testimoniarla. Non dimenticando, nonostante le amnesie e l’intorpidimento delle intelligenze nei vari periodi storici, in oriente e occidente, che quella ‘verità’ comporta la tensione specifica di portare la vita, portare alla vita, quella che viene da Dio e che riempie il cuore dell’uomo, realizzando la sua vocazione di essere per la comunione.
- in secondo luogo, dice relazione, non possesso. Lo sforzo della fede è uno sforzo di ‘memoria’, una tensione della memoria. Dal comando di Dio al popolo d’Israele “guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita” (Deut 4,9) a quello di Gesù ai suoi discepoli “fate questo in memoria di me” (Le 22,19), la memoria dei credenti è agita da quello Spirito promesso da Gesù alla sua chiesa: “Ma il Consolatore, lo Spinto Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26). Fare ‘memoria’ di Dio lungo la storia significa tenere aperta la nostra storia alla salvezza che viene da Lui, significa sperimentare in una ampiezza senza confini e in una fraternità sempre da realizzare quel suo ‘far grazia di Sé a noi in Cristo’, come dice Paolo: “… perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato [=ha fatto grazia di Sé] a voi in Cristo” (Ef 4,32). È il mistero della santità della chiesa, vissuta non in funzione dell’esercizio di un potere, che sa troppo di questo mondo, ma in funzione dell’intimità di un rapporto, in ragione cioè della remissività del cuore alla rivelazione del mistero di Dio e del suo progetto di comunione con gli uomini. Unicamente da qui prende vigore e sostanza ogni ideale di evangelizzazione e quindi di testimonianza della fede nel mondo. Come la Chiesa ha percepito e dato ragione di questi nessi nella storia costituisce il tessuto specifico della Tradizione.
- in terzo luogo, fede dice cammino, non meta. Cammino che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore, che risponda alle attese ed alle domande ineludibili e supreme dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Cammino dove le svolte decisive nella storia del pensiero umano sono sempre momenti privilegiati di una comprensione nuova ed approfondita del mistero cristiano capace di liberare contemporaneamente cuore ed intelligenza del credente per individuare, nell’umanità, nuove possibilità razionali ed etiche. Di quali speranze, di quale speranza per il mondo è stata ed è portatrice la Chiesa
costituisce l’eredità più preziosa della Tradizione.
Ogni discorso sulla Tradizione resta inscritto nell’immagine di Chiesa che prevale nell’immaginario interiore dei credenti. Se mi rifaccio alla storia recente della chiesa cattolica, noto che con il concilio Vaticano II, l’immagine della Chiesa sancta sìmul et semper purificanda[9], è riscoperta nella sua dimensione misterica prima di ogni definizione giuridica, che aveva fatto prevalere una ecclesiologia dove tutto era pensato sotto l’obbligazione della legge, facendo perdere di vista la realtà del suo costituirsi e agire nella storia dell’uomo e per l’uomo. Una chiesa che “non si preoccupa più di proteggere i diritti di un Dio ‘sempre più dissomigliante’ che assilla, sin dal concilio Lateranense IV (1215) la coscienza dell’Occidente, ma desidera rendere prossimo il Dio santo che si rivela ‘sempre più umano’. La Chiesa rinuncia così ad un sapere sicuro sulla società per lasciarsi raggiungere dalla vocazione umana che la supera. Si da un ruolo più modesto, ad immagine del Dio di cui è testimone”[10].
Non si può comprendere con quanta potenza abbia soffiato il vento dello Spirito su quella solenne assise conciliare se non si tiene conto della terribile crisi attraversata dalla chiesa cattolica nella prima metà del secolo scorso dove era in atto, a partire dal concilio Vaticano I, un processo di dogmatizzazione sui fondamenti della fede esteso anche ai fondamenti della società, secondo un modello di pensiero apocalittico nel modo di rapportarsi, da una parte, al patrimonio dogmatico del cattolicesimo e, dall’altra, allo sviluppo della modernità nei suoi presupposti culturali ed etici. Con la crisi modernista, al di là della posta in gioco dottrinale, strenuamente e lucidamente difesa dal magistero, la chiesa cattolica ha vissuto uno dei periodi più traumatizzanti della sua storia. Il modernismo, percepito dai difensori della retta fede come il crocevia di tutte le eresie, in realtà si presentava come l’esigenza di una cultura rinnovata. Il problema di fondo si può ridurre a questo: quale rapporto può intrattenere la cultura moderna con la totalità del mistero cristiano? Come si può concepire il rapporto tra storia e dogma, tra la continuità della tradizione e le nuove esigenze scientifico-culturali e l’introduzione generalizzata del metodo storico? Sembrava lecita solo una lettura bipolare della storia: la società liberale, con tutte le deviazioni di tipo filosofico, religioso, economico e sociale, in opposizione al cattolicesimo integrista, non solo baluardo della retta fede, ma anche di una ‘buona’ società. Il ricorso alla filosofia tomista[11] era visto come l’unica salvaguardia epistemologica al discorso della fede, ma l’atteggiamento di fondo era quello di arginare, di fare barriera. Il conflitto ecclesiastico del modernismo rimanda a un fatto di civiltà globale, sull’apprezzamento del quale i cattolici restavano divisi, ma le cui incidenze religiose colpivano per la loro negatività: mentre il popolo delle città e delle campagne si staccava dalla religione tradizionale, la cultura si sottraeva al controllo tradizionale della chiesa. La reazione era inevitabile e più che giustificata, ma come sempre, le reazioni ‘anti’ qualcosa individuano il disagio ma non possono costituire la risposta aperta al futuro.
Altri movimenti agivano nel tessuto ecclesiale e la loro influenza si è fatta sentire prepotentemente con la svolta conciliare. Quegli uomini che come pastori, liturgisti, teologi, biblisti, erano stati sospettati di errore e quindi tenuti in sordina, diventano poi gli uomini di punta di una stagione nuova. L’obbedienza allo Spirito, sia da parte di questi uomini, umili e tenaci, che da parte della chiesa, ha operato il ‘miracolo’. L’opera di Dio è sempre più misteriosa di quello che gli uomini intendono lì per lì e sopravanza i progetti umani. Ciò che mi preme sottolineare è il fatto che il rinnovamento non poteva operarsi che con un ritorno alle radici, alla Parola di Dio e alla Tradizione, ma l’aspetto nuovo che nel fondo accomunava tutti è da ravvisare in quello che chiamo la riscoperta dell’integralità del mistero della chiesa nella coscienza ecclesiale. Si tratti di riportare l’assoluto della Parola di Dio a fondamento della spiritualità, di riinsegnare a celebrare la Liturgia come corpo della chiesa, di leggere la Parola di Dio nel solco e nella fecondità della Tradizione, di vivere la diversità delle tradizioni in simbiosi e nel contesto della Tradizione della Chiesa, di guardare con fiducia e rispetto alle religioni e al cammino dell’umanità pur nelle stridenti lacerazioni in atto, in realtà tutto acquista valore e forza evangelica per una nuova percezione della Chiesa, del suo essere, del suo mistero rivelato in Cristo.
Il movimento liturgico, il movimento biblico e patristico, il movimento ecumenico sono i tre campi strettamente interdipendenti dove questa scoperta del mistero della chiesa diventa tanto fecondo da rinnovare tutto lo spirito con cui guardare alla storia della chiesa e al mondo contemporaneo, alla formulazione dei dogmi e al confronto con il mondo moderno, all’ideale di santità aperto a tutti i credenti ed alla speranza da offrire al mondo. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta. Il contributo determinante per l’emergere di tale coscienza è venuto proprio dalla frequentazione più assidua e più sostanziosa della Parola di Dio nel solco della Tradizione, dalla riscoperta della tradizione patristica[12].
2 IL TESORO DELLA TRADIZIONE PATRISTICA
Due passi, uno di Gregorio Taumaturgo e l’altro di Ireneo di Lione, illustrano in modo sintetico e vivace il valore perenne del tesoro della tradizione patristica. Scrive Gregorio Taumaturgo ricordando il suo maestro Origene quando spiegava le Scritture nella scuola di Cesarea tra il 233 e il 238:
” Spiegava e rischiarava ciò che c’era di enigmatico, poiché sapeva ascoltare Dio in tutta intelligenza… Egli è il solo tra gli uomini di oggi che io conosca personalmente ο per sentito dire ad essersi esercitato a raccogliere nella sua anima gli oracoli luminosi e puri e ad insegnarli agli altri. In effetti, l’autore di tutte le cose, che risuona nei profeti amici di Dio e detta loro ogni profezia, ogni parola mistica e divina, l’ha onorato come suo amico e ne ha fatto l’interprete di questi oracoli… Tutto ciò che dice non ha altra fonte a mio parere se non una comunicazione dello Spirito divino [Λέγει τε ταῦτα oὐκ ἄλλως οἶμαι ἢ κοινωνία τού θείου πνεύματος]: la stessa potenza infatti è necessaria a quelli che profetizzano e a quelli che ascoltano i profeti e nessuno potrà ascoltare un profeta se lo Spirito stesso che ha profetizzato
in lui non gli ha accordato l’intelligenza delle sue parole…È per questo che nulla ci restava segreto, nulla nascosto e inaccessibile; al contrario, ci era possibile imparare ogni scienza, barbara o greca, mistica ο politica, divina e umana, poiché, in tutta libertà, tenevamo conto di tutto e tutto scrutavamo, ci riempivamo di tutto e godevamo dei beni dell’anima”[13].
Ireneo, a conclusione del libro terzo della sua esposizione della predicazione della Chiesa, annota:
“…la Predicazione della Chiesa è solida da ogni parte, rimane sempre uguale ed è sostenuta dalla testimonianza dei profeti, dagli apostoli e da tutti i loro discepoli, come abbiamo dimostrato, in base «all’inizio, il mezzo e la fine», e per mezzo di tutta l’economia di Dio e la sua opera sicura per la salvezza dell’uomo e che fonda la nostra fede. Questa l’abbiamo ricevuta dalla Chiesa e la custodiamo: essa per opera dello Spirito di Dio, come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene. Alla Chiesa infatti è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura plasmata, affinchè tutte le membra, partecipandone, siano vivificate; e in lei è stata deposta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, arra di incorruttibilità, conferma della nostra fede e scala della nostra salita a Dio. Infatti «nella Chiesa — dice — Dio pose apostoli, profeti e dottori» e tutta la rimanente operazione dello Spirito. Di lui non sono partecipi tutti quelli che non corrono alla Chiesa, ma si privano della vita a causa delle loro false dottrine ed azioni perverse. Perché dove è la Chiesa, li è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa ed ogni grazia. Ora lo Spirito è Verità.”[14].
Ecco il punto. Si tratta per noi di poter disporre, di poter diventare partecipi di quella ‘potenza’ generatrice di intelligenza per ricevere il soffio dello Spirito e vivere il mistero della fede, cioè Cristo in noi, nella nostra storia, in modo sempre nuovo e vivace. In effetti, lungo la storia della Chiesa, rispetto al bisogno di autenticità, di rinnovamento, che il logorio del tempo e l’ignavia dei credenti non hanno mai soppresso nella coscienza ecclesiale nelle varie epoche, la domanda decisiva costante, sempre emergente, suona: come tornare al vangelo? Il ritorno al vangelo esprime assai bene la legge costante che ha caratterizzato, nella storia, ogni ripresa spirituale nella chiesa per ridare vitalità e profondità al suo essere ed alla sua azione : il richiamo, cioè, alla Tradizione, al di là delle specifiche e diverse tradizioni particolari, il ritorno alle fonti. È lo stesso principio che ha guidato la riforma del Concilio Vaticano II. Non è tipica di oggi; è tipica dei passaggi ‘significativi’ della storia della chiesa, di tutte le chiese. La mediazione della tradizione patristica risulta in tutta la sua efficacia proprio dentro la domanda: cosa significa per noi, oggi, ritornare al vangelo? Più propriamente: come disporci per assimilare la ‘potenza’ del vangelo? È nella risposta a questa domanda che si svela il tesoro della tradizione patristica. In questo senso la tradizione patristica non è semplicemente una prima fase di sistemazione della dottrina della fede, a cui ne sono seguite varie altre, in continui approfondimenti successivi. La Chiesa non può non pensare al mistero della fede in modo sempre nuovo, perché sempre nuove sono le sollecitazioni della storia e della cultura nelle quali la fede è vissuta. Ma la tradizione patristica conserva per tutta la chiesa, di tutte le epoche e di ogni area geografica, valore normativo e fondante e non solo per le definizioni dogmatiche conciliari evidentemente irrinunciabili.
Le Scritture parlano di una ‘potenza’ di salvezza che si rivela nel suo massimo e compiuto splendore nel Cristo ed i Padri sono coloro che, testimoniandone la verità, ce ne mostrano l’accessibilità. È in tale funzione di accessibilità che la tradizione patristica risulta normativa. Nella seconda lettera di Pietro si legge: “Ouv ga.r sesofisme,noij mu,qoij evxakolouqh,santej evgnwri,samen u`mi/n th.n tou/ kuri,ou h`mw/n VIhsou/ Cristou/ du,namin kai. parousi,an avllV evpo,ptai genhqe,ntej th/j evkei,nou megaleio,thtoj” (2Pt 1,16). La traduzione CEI suona: “Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza”. Da intendere: vi abbiamo fatto conoscere la verità della salvezza realizzata con potenza dal Signore Gesù, senza interpretare le Scritture con l’aiuto di miti, ma perché noi stessi l’abbiamo visto con i nostri occhi in tutto il suo splendore. Stessa cosa, del resto, di cui porta testimonianza Giovanni nella sua prima lettera: }O h=n avpV avrch/j( o] avkhko,amen( o] e`wra,kamen toi/j ovfqalmoi/j h`mw/n( o] evqeasa,meqa kai. ai` cei/rej h`mw/n evyhla,fhsan peri. tou/ lo,gou th/j zwh/j kai. h` zwh. evfanerw,qh( kai. e`wra,kamen kai. marturou/men kai. avpagge,llomen u`mi/n th.n zwh.n th.n aivw,nion h[tij h=n pro.j to.n pate,ra kai. evfanerw,qh h`mi/n o] e`wra,kamen kai. avkhko,amen( avpagge,llomen kai. u`mi/n( i[na kai. u`mei/j koinwni,an e;chte meqV h`mw/nÅ kai. h` koinwni,a de. h` h`mete,ra meta. tou/ patro.j kai. meta. tou/ ui`ou/ auvtou/ VIhsou/ Cristou/Å Nella versione CEI: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione e col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (lGv 1,1-3).
Le cose udite, vedute, contemplate, sperimentate a proposito del Signore Gesù Cristo, per la salvezza dell’uomo, queste i Padri fanno conoscere e la Chiesa si riconosce nella loro ‘traditio’, considerata nella sua globalità, custodita dallo Spirito Santo, tanto che ogni suo atto magisteriale non può non accordarsi ad essa.
Domandiamoci allora: perché la mediazione dei Padri è fondamentale?[15]. Credo si possano dare tre suggerimenti.
1) Anzitutto, per il loro senso vivissimo della profondità e della globalità del mistero che ci riguarda da parte di Dio, testimoniato nelle Scritture. Avere come compagni i Padri nel cammino della fede induce a diventare più percettivi dello Spirito, più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle segrete intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell’amore di Dio, rivelato in Cristo, che siamo chiamati a certificare. I Padri illustrano paradigmaticamente la tensione contemplativa che deve caratterizzare il pensare e l’agire, tensione senza la quale la fede non prenderebbe consistenza, il cuore resterebbe a digiuno. E l’oggetto di tale tensione non è che il Cristo, di cui parlano tutte le Scritture e a cui rimandano tutti gli ideali della pratica cristiana.
2) In secondo luogo, per la loro intelligenza delle Scritture, di cui il loro pensiero è nutrito e di cui definiscono la norma del comprendere in questa successione: leggere, praticare, comprendere. E non, invece, come solitamente intendiamo: leggere, comprendere, praticare. Non si pratica quello che la testa capisce, ma quello che il cuore è disposto ad accogliere. La potenza della parola è in funzione del cuore, non della mente, come dice Marco Asceta:
“La parola del Signore contiene la potenza stessa del regno, essendo diventata per i credenti la sostanza dei beni sperati, la caparra della nostra eredità, le primizie dei beni eterni… La parola pone coloro che l’hanno ascoltata nell’obbligo di metterla in pratica fornendo contemporaneamente al cuore la possibilità di eseguire ciò che è stato detto”[16].
Come dichiara Ireneo, secondo la tradizione degli apostoli, e dopo di lui tutti i Padri ripeteranno: “tutte quante le scritture sono spirituali”[17]. Spirituali, perché lo Spirito di Dio è l’autore delle Scritture. E siccome l’autore delle Scritture è anche il creatore del cuore nuovo che si apre al mistero di Dio, la Scrittura ispirata diventa ispirante nel cuore dell’uomo. Scritta dallo Spirito deve essere compresa spiritualmente per non restare lettera morta. “Se dunque si leggono così le Scritture, si troverà in esse l’insegnamento che riguarda Cristo e la prefigurazione della nuova chiamata”[18]. Il vangelo tuttavia non è l’ultimo compimento di una imperfetta Scrittura, che per questo si qualificherebbe come antica. La Chiesa non fa passare dall’Antico al Nuovo Testamento ma, data l’unità degli scritti dell’Antica e della Nuova Alleanza, fa passare dalle Scritture alla verità definitiva del cielo e del regno. Sono proprio i Padri le guide che traghettano cuori e intelligenze a quell’esito.
La lettura e l’interpretazione delle Scritture sono ordinate al progresso spirituale e alla formazione dei catecumeni e dei battezzati, come testimonia tutta la predicazione dei grandi Padri latini del III e IV secolo, come Ambrogio e Agostino, al servizio di una pastorale globale del popolo cristiano chiamato a progredire nella via della santità.
È interessante notare come il principio di interpretazione delle Scritture nella teologia patristica, se si diversifica dalla tradizione ebraica, lo fa radicalizzando la stessa dinamica di fondo, vale a dire il suo fondamento esistenziale. Se per Israele si coglie Dio solo a partire dai suoi interventi di salvezza del popolo tanto che Dio diventa il Dio di Israele, per i cristiani lo si può cogliere ormai solo alla luce della risurrezione di Gesù che sigilla l’iniziativa (cfr. 1Gv 4,10) di Dio in favore degli uomini tanto che Dio diventa il Padre di Gesù, rendendo manifesto nella sua insondabile profondità tutto il mistero dell’ amore divino lungo l’intero arco della storia, dalle origini del mondo fino alla parusia. Così la Scrittura riceve il suo senso ‘spirituale’ solo dal Cristo ed i Padri sono maestri insuperati di questa ‘apertura’ delle Scritture, frutto del loro particolare ‘metodo’ esegetico così descritto da Origene:
“E così, dopo questo discorso, raccolte per quanto possibile le parole delle Scritture, deponiamole nel cuore e cerchiamo di vivere in modo ad esse conforme, se mai possiamo diventare puri prima del nostro esodo e avendo preparato per questo esodo le nostre opere possiamo, uscendo, essere accolti tra gli stessi buoni ed essere salvati in Cristo Gesù”[19]. Il suo suggerimento: dopo la lettura, scrivere tutto nel proprio cuore, conformare la propria vita con quanto letto per entrare in possesso della santa eredità, cioè arrivare a comprendere la parola di Dio fino ad assimilarne tutta la potenza di salvezza che racchiude[20].
3) In terzo luogo, per l’estrema fecondità del loro approccio al mistero di Dio e dell’uomo. Le
prime generazioni cristiane sono vissute nello stupore dell’amore di Dio per noi, rivelato in Cristo, amore nel quale i Padri radicano le ragioni di un vivere che funzionino come radici di umanità nuova. Il contesto interpretativo più normale dell’esperienza cristiana era dato dal ‘martirio’, prima di sangue, poi del cuore, come fedeltà di sequela al Cristo. Questo ha loro permesso di rivolgersi naturalmente alla cultura del tempo, religiosa e profana, nonostante i distinguo d’obbligo, per esprimere la novità di quell’esperienza e farne risplendere la bellezza. A me pare che la vecchia questione del platonismo dei Padri, del cedimento alla filosofia platonica nell’interpretazione della fede, non fa che mettere in risalto la potenza di una esperienza che sa piegare ai suoi scopi ogni strumento umano, senza snaturarlo, nella fedeltà alla tradizione apostolica e nel consenso di tutta la chiesa[21]. La fecondità della loro operazione nella storia, sul piano culturale, ad esempio, non sta tanto nei risultati, passibili continuamente di correzioni, approfondimenti, superamenti, quanto nella creatività dell’avventura culturale in cui si cimentano, consapevoli di essere testimoni della e per la Chiesa, nel tentativo di esprimere la novità della loro fede e annunciarla al mondo. In questo senso la fedeltà ai Padri, prima che essere fedeltà ai risultati ottenuti sul piano della confessione della fede, situati per forza di cose in un contesto culturale preciso, comporta la fedeltà al loro metodo, alla creatività nello Spirito per tradurre in valori vitali e assimilabili le verità della fede, comunemente ricevute e condivise. Con i Padri non basta essere scolari che ripetono; bisogna essere discepoli che cercano di far propria un’eredità vivente.
Vorrei sottolineare un aspetto di questa ‘fecondità’ dei Padri che sa coniugare fedeltà alla tradizione e creatività secondo la tradizione. Non si riflette mai a sufficienza sul fatto che la Scrittura interpreta il peccato in termini di idolatria: un uomo adorante (ecco l’energia positiva in gioco), che scambia per Dio piccoli idoli fasulli (ecco il prevalere della maschera, l’uomo esteriore, spezzato, schiavo) invece di adorare il Dio vivente (fonte della sua dignità, in cui riconoscere il suo destino e la possibilità di realizzare in pienezza la verità del suo essere). Il discorso evidentemente non vale solo in rapporto al peccato, ma si può estendere anche ai condizionamenti di ogni tipo, personali e storici, culturali e di sensibilità, di cui tutti fanno le spese nel bene e nel male, volenti ο nolenti, ora come sempre. Come rapportarsi di fronte ad essi? Prendiamo ad esempio l’ascesi del corpo oggi. Sarebbe sufficiente contrastare l’esaltazione odierna del corpo con la risposta tradizionale del ‘disprezzo’ del corpo, quando tutta la sensibilità odierna è tesa al recupero dell’armonia con il proprio corpo, con l’ambiente? D’altra parte, basterebbe forse adeguarsi alla moda senza tener conto della saggezza di sempre? Procedere né per contrapposizioni né per adeguamenti, ma per ‘compimenti’ (del resto, non è forse a questo che ci induce il comportamento di Paolo nel suo discorso davanti all’Areopago?, cfr. At 17,22-31) significa adottare lo stesso ‘metodo’ dei Padri che, fondandosi sulle Scritture, hanno avvicinato il mistero dell’uomo in rapporto a Dio in quell’ottica. Lo sforzo, a partire da una positività di fondo, è sempre quello di cogliere l’esperienza interiore che soggiace ai condizionamenti ed alla sensibilità per riscattarne l’anelito di fondo, l’energia positiva e ‘compierla’ in verità, in Cristo. Un’operazione del genere è sempre indispensabile se vogliamo che la coscienza non fatichi a ritrovare nelle norme di sempre significatività e rilevanza. L’eredità dei Padri può venire assimilata in tutta la sua perenne vitalità proprio nella misura di una riflessione creativa attorno a questo nodo cruciale, in sintonia con il sentire comune della Chiesa.
Per sintetizzare quanto sono venuto esprimendo fin qui:
“la Tradizione non trasmette solamente la Rivelazione come un insegnamento, ma anche e soprattutto come una esperienza di Dio in Cristo e nello Spirito, come un dinamismo di vita, un impulso, un senso quasi istintivo delle esigenze che tale esperienza implica. Il paragone più adatto sarebbe quello di un maestro, la cui autorità supera quella dei suoi scritti e dei suoi corsi perché ha a che fare con la sua personalità stessa. Si tratta forse di un semplice paragone? Il Maestro, è il Cristo, di cui gli Apostoli prima di tutto, e poi i Padri (nel senso largo del termine) sono gli eredi autentici, preoccupati di condividere quella eredità, di cui è garante lo Spirito, insieme ai credenti che diventano a loro volta eredi e testimoni”[22].
3 LA FAMILIARITÀ CON I PADRI.
Il ritorno alle Scritture è un fatto ormai acquisito nella coscienza ecclesiale. Tutte le parrocchie dispongono ormai dei loro ‘gruppi del vangelo’; è ormai consuetudine radunarsi per leggere e meditare insieme la Parola di Dio. Ma vale la stessa riappropriazione per la tradizione patristica? Per quanto si disponga oggi dei testi patristici in buone traduzioni, sembra che la familiarità con i Padri non abbia ancora conquistato le anime. E l’intelligenza delle Scritture ne risente, come pure ne risente il vigore della spiritualità.
La riappropriazione della tradizione patristica urta evidentemente contro lo scoglio di una triplice estraneità: di lingua e cultura, di cesura della continuità della tradizione e di irrilevanza per il relativismo culturale e religioso in cui ci si trova immersi. Sono difficoltà che non vanno sottovalutate. Chi può leggere nelle lingue originali i Padri ο si da pena di coglierne il pensiero potente nel limite del contesto culturale in cui necessariamente operano? Chi ci ha abituati a cogliere la connessione profonda che attraversa tutta la tradizione dai Padri fino ad oggi e ci ha insegnato a leggere le opere, anche recenti, in riferimento alla tradizione? E come dar importanza a opere del passato, su temi che sentiamo quasi irrilevanti ο comunque distanti dalla coscienza attuale e dalla cultura imperante oggi? Tuttavia, parlando di riappropriazione, non intendo riferirmi ad una cultura della tradizione che si potrebbe ottenere, attraverso l’uso di strumenti adeguati, con lo studio e l’insegnamento. Non alludo ad una conoscenza della patristica. Alludo specificamente ad una familiarità con i Padri, ad una lettura amicale e ‘simpatica’ dei grandi testi della tradizione patristica. Alludo prima di tutto ad una lettura fatta con piacere, con l’interesse di chi vuole essere accompagnato nell’intelligenza delle Scritture e nel progresso spirituale, pur tenendo conto che, anche inconsapevolmente, leggere i Padri è un’operazione culturale, dogmatica e spirituale insieme.
Vorrei lasciare qualche suggerimento. La lettura moderna, con la circolazione della stampa, con l’interesse all’accumulo di conoscenze, è una lettura di tipo ‘estensivo’. Noi leggiamo con gli occhi, per saperne di più, spesso con fretta, su tante cose. La lettura antica, invece, è di tipo ‘intensivo’, concentrata per lo più su di un testo solo, per un periodo di tempo lungo, per forza di cose meditata. Nella tradizione patristica è addirittura prevalsa una letteratura ‘sintetica’, quella degli Apoftegmi, delle Centurie (famose le Centurie di Massimo Confessore), dove il pensiero del lettore è forzato a sostare, a trovare collegamenti, a digerire, a riflettere creativamente. Credo che la familiarità con i Padri si possa ottenere con la lettura ‘intensiva’: non per saperne di più, ma per entrare più a fondo nel mistero; non per sapere cosa dice questo ο quel Padre, ma per aprirsi al mistero delle Scritture in loro compagnia; non per conoscere semplicemente, ma per imparare a pensare nello Spirito.
Di qui l’altro suggerimento. Tra i Padri bisogna farsi un amico, trovare un compagno di viaggio. È un suggerimento che viene dalla tradizione rabbinica. Leggere non comporta prima di tutto sapere, ma incontrare. E si incontra un uomo, non un testo; una figura viva, non un reperto archeologico. Dato però che la vita è complessa ed il mondo vasto, ritrovarsi in amicizia con un compagno di viaggio facilita l’accesso all’insegnamento di tutti i compagni di viaggio, permette di sentire nella sua parola l’eco dell’unico Maestro che ha parlato a lui e parla anche al nostro cuore. Credo si possa applicare qui il principio platonico della conoscenza per somiglianza, non però nel senso che ci si richiede la stessa statura spirituale quanto piuttosto che è la benevolenza del compagno a portarci al suo livello.
Il terzo suggerimento è quello di leggere un’opera intera, non florilegi; di leggere gli scritti dei Padri, non studi sui Padri. Andare quindi ai Padri, anche in termini concreti. In tal senso oggi siamo fortunati, disponiamo di un materiale abbondante. Ciò che conta di più, però, è leggerli e imparare a leggerli nello sforzo di cogliere quegli elementi che illustrano la dinamica della vita spirituale. Si tratta scoprire i Padri come interpreti delle Scritture e guide spirituali insieme, capaci perciò di introdurci con scienza e sapienza al mistero di Dio e dell’uomo. Non è che l’antica abitudine monastica che aveva fatto scuola nella Chiesa. Basti pensare ai Padri della Filocalia che, prima di essere un libro, è una tradizione. In effetti, accostarsi alla Filocalia dal vivo di una tradizione è assai diverso che accostarla semplicemente come un libro. E poi anche un partire dai Padri. Esiste un problema di mediazione. Come sopra accennavo, gli scritti dei Padri non sono di lettura facile né facilmente assimilabili per la diversità dei riferimenti culturali e di sensibilità che intercorre tra loro e noi. Anche se capita che persone semplici, senza nessuna preparazione specifica, traggano molto frutto dalla lettura dei Padri, in genere vale il tipo di difficoltà enunciata. Le traduzioni di cui disponiamo, a volte, sembrano non farsi sufficientemente carico di questo problema, che non è soltanto di linguaggio. Una resa letterale, anche se precisa, riduce notevolmente le risonanze del testo perché non cerca di ricostruire quel tessuto vitale in cui prendono significato le parole ed i concetti. Un buon interprete dei Padri non può esimersi da questa preoccupazione. Così, ad esempio, ci si può domandare se la traduzione italiana della Filocalia , al di là del notevolissimo ed indiscusso merito di aver messo finalmente nelle mani di tutti una vera miniera di testi, risponda a tale preoccupazione. A volte si ha la sensazione che sorvoli sul problema e si attenga a una resa ‘materiale’ dell’originale, a scapito della reale comprensione. Quanto diversa, e assai più lucida, ad esempio, la versione slavonica di Paisij Velickovskij e, nelle lingue moderne, la stessa versione romena e inglese!
Il mistero della parola, divina e umana, è assai profondo e radicale. La parola dei Padri deriva e riporta alla Parola di Dio. Una parola ha sempre attinenza con colui che la proferisce, con le segrete e palesi intenzioni del cuore dalla quale scaturisce; prima che comunicazione, dice rapporto, legame, comunione; ha a che fare con le attese del cuore che l’ascolta. Parola insomma rivolta prima di tutto e fondamentalmente al cuore di una persona. È per questo che, lungo tutta la tradizione, quando si parla della parola di Dio, non si insiste tanto sullo sforzo per comprenderla, ma sull’apertura di cuore per assimilarne la potenza. A questo scopo, particolarmente, lavora la familiarità con i Padri[23].
Termino con il bellissimo augurio di Paolo ai Romani: “ o` de. qeo.j th/j u`pomonh/j kai. th/j paraklh,sewj dw,|h u`mi/n to. auvto. fronei/n evn avllh,loij kata. Cristo.n VIhsou/n” (E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, Rm 15,5), che è il frutto più maturo di quella ‘fatica e gioia’ proveniente dalle Scritture frequentate in compagnia dei Padri.
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[1] Cfr. «Transmission de la foi et tradition de l’Eglise», in Connaissance des Pères de l’Eglise, n. 91 (2003), p. 98-102. Il numero della rivista contiene gli atti del simposio « L’apport des Pères à la catéchèse d’aujourd’hui», Parigi, 4-5 luglio 2003.
[2] Convenzionalmente si è fissata l’estensione dell’epoca patristica, in occidente, fino a Gregorio Magno (f 604) e in oriente, fino a Giovanni Damasceno (f 750 ca). Tuttavia l’espressione ‘ i Padri ‘ usata in generale, soprattutto nella cristianità orientale, comporta un’accezione più estesa, riferendosi a tutte quelle figure di santi e di maestri spirituali che hanno strutturato la tradizione, considerata nel suo complesso, insieme ai testi canonici dei Concili ed alla produzione liturgica.
[3] BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo. Traduzione, introduzione e note a cura di Giovanna Azzali Bernardelli, Roma 1993, Città nuova (Testi patristici, 106), I, 2, p. 87. Testo greco: SC 17bis.
[4] Si veda, per esempio, Basilio Magno, Sullo Spirito Santo, Vili, 18 e Atanasio, Sull’incarnazione, 54 (PG 25, 192B: “il Verbo di Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio”).
[5] L’espressione ‘θεός κεκελευσμένος’ (‘ordinato a diventare dio’) è di Basilio Magno, riportata da Gregorio di Nazianzo, In laudem Basilii Magni, hom. 43, 48 (PG 36,560). L’altra espressione ‘ζώον θεούμενον’ (‘animale che ha ricevuto la vocazione di diventare dio’) è di Gregorio di Nazianzo, In sanctum Pascha, hom. 45, 7 (PG 36,650). Si veda GREGORIO DI NAZIANZO, Tutte le orazioni. Traduzione italiana con testo a fronte, a cura di Claudio Moreschini, Milano 2000, Bompiani (il pensiero occidentale), rispettivamente alle pagg. 1083 e 1143.
[6] II Concilio Vaticano II ha offerto un grande testo sul rapporto tra Scrittura e tradizione, la Dei Verbum, particolarmente ai n. 8-10.
[7] L’espressione appartiene a s. Isacco Siro, Omelia 12, secondo la suddivisione adottata da Theotokis nella sua edizione del testo greco delle omelie. Cfr. l’edizione inglese curata da Holy Transfiguration Monastery : The AsceticalHomilies qfsaint Isaac thè Syrian, Boston, Mass., 1984, hom. 67, p. 330 : “… we do not mean that faith which is the basis qf all men’s Confession, but the noetic strength which steadies the heart by the light of the understanding …”.
[8] Si veda la bellissima lettera del Maestro dell’Ordine, Fr. Timothy Radcliffe, ai domenicani : lui perenne sorgente della speranza. Lo studio e l’annuncio della buona novella, Roma 1995, p. 23.
[9] Dalla Costituzione dogmatica sulla chiesa del Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 8.
[10] È la conclusione che i due autori, Bernard Sesboué e Christoph Theobald, tirano alla fine dell’ampia panoramica critica della loro Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 544. Si vedano i passi della Lumen Gentium, 40 “tutti i fedeli di qualsiasi stato ο grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano” e della Gaudium et Spes, 11 “La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, e perciò guida la intelligenza verso soluzioni pienamente umane”.
[11] Evidentemente non alludo al valore e all’efficacia che ha sempre giocato il tomismo come sistema di riferimento nella chiesa cattolica, e che anche Giovanni Paolo II, nella sua recente Fides et ratio ricordava (in particolare, i paragrafi 43, 44). Alludo invece allo spirito con cui era condotta l’operazione.
[12] In Italia, nel mondo universitario non ecclesiastico si assiste, dopo gli anni settanta, ad una forte espansione degli studi patristici, benché soprattutto sotto il profilo filologico, letterario, storico, sociale. Si vedano gli atti di un simposio del settembre 2001 all’Istituto Cattolico di Parigi, pubblicati dalla rivista Connaissance des Pères de l’Eglise, n. 85 (2002): «Vingt ans d’études patristiques dans le monde». In rapporto alla formazione dei presbiteri nei Seminali e nelle Università ecclesiastiche, si veda Antonio ORBE, «Lo studio dei padri della Chiesa nella formazione sacerdotale», in Vaticano II: belando e prospettive. Venticinque anni dopo (1962-1987), Assisi 1987, Cittadella, voi. 2, pp. 1366-1380. Come anche il richiamo della Congregazione vaticana per gli studi nei seminari e facoltà ecclesiastiche, dal titolo Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, del 1989.
[13] GREGOIRE LE THAUMATURGE, Remerciement à Origène suivi de La lettre d’Origène à Grégoire. Texte grec, introd., trad. et notes par Henri Crouzel, Paris 1969, du cerf (SC 148), XV, 174-182.
[14] IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e gli altri scritti. Introduzione, traduzione, note e indici a cura di Enzo Bellini, Milano 1981, Jaca Book (già e non ancora, 76), Contro le eresie, III, 24,1, p. 295-296.
[15] Nell’ambito della tradizione delle Chiese d’Oriente, credo sia emblematico l’esempio di quel Paisij Velickovskij (1722-1794), canonizzato recentemente dalla Chiesa russa e romena, la cui opera ha costituito un avvenimento di prima grandezza nella storia moderna della Chiesa Ortodossa. Quando si rassegna all’idea di non poter trovare una guida spirituale per vivere nel modo che aveva sognato, si affida per la sua istruzione alla guida delle Scritture e dei Padri, che va ricercando con sempre maggior determinazione. Trovandosi poi controvoglia alla guida di altri fratelli, non fa che estendere anche a loro quello che ha imposto a se stesso: ora che non ci sono più uomini che vengano illuminati direttamente da Dio, è necessario affidarsi alla Scrittura e all’insegnamento dei Padri, per non cadere nell’illusione della propria sapienza. Organizza la comunità attorno alla riscoperta dei Padri, i cui testi raccoglie, corregge, traduce, commenta e diffonde. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la sua risposta alla mancanza di guide sperimentate. Lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavonico ed in romeno, diventa poco a poco la sua attività principale, il fondamento, il punto di forza della sua opera. Si può schematizzare così il suo insegnamento, che esprime sinteticamente il desiderio di vivere il mistero della fede in obbedienza alla Parola di Dio, nell’esperienza monastica orientale :
a)Perché leggere? Insieme alla pratica delle virtù è necessario esercitare anche la mente, la capacità di giudizio, perché tutta la nostra vita proceda secondo la potenza delle S. Scritture. La lettura illumina la mente e accende il desiderio di praticare i comandamenti.
- b) Perché i Padri? Dal momento che noi, uomini passionali, non possiamo comprendere la luce delle Scritture, seguiamo i Padri ai quali, per aver avuto un cuore puro, illuminato dallo Spirito Santo, sono stati aperti i segreti del regno dei cieli, ossia la profondità della S. Scrittura. Nella loro interpretazione delle Scritture ci svelano gli inganni del diavolo e ci fortificano nello zelo per osservare i comandamenti.
- e) Come leggerli? Non c’è alcun vantaggio se uno legge solamente nero su bianco e non si da cura di conoscere anche la potenza di quel che legge.
Cfr. PAISIJ VELICKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets. Introduzione, traduzione e note a cura della comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, Abbazia di Praglia 1988, ed. Scritti monastici, ripubblicato presso le ed. Qiqajon, Bose 1998; La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità in AA.W., Paisij, lo starec. Atti del III convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, 20-23 settembre 1995, Bose 1997, ed. Qiqajon, p. 55-82.
[16] Cfr. MARC LE MOINE, Traités, I, par Georges-Matthieu de Durand, Pans 1999, cerf (SC 445), La pénitence, II, p. 217-219.
[17] IRENEO DI LIONE, Op. cit, II, 28, 3, p. 188.
[18] Ibidem, IV, 26,1, p. 360.
[19] ORIGENE, Omelie su Geremia, Roma 1995, Città nuova (testi patristici, 123), Omelia II, 3, p. 54.
[20] Ibidem, Omelia IV, 6, p. 67.
[21] Vale sempre ti criterio del consenso come definito da Vincenzo di Lerino, nel suo Commonitorium, 2, 5: quod
ubique, semper, ab omnibus.
[22] Così riassume la concezione della tradizione proposta dal Concilio Vaticano II Aimé SOLIGNAC in DS 15 (1991) 1108-1125 (Tradition), qui 1119.
[23] “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”. Così si augura Origene. Cfr. ORIGENE, Omelie su Giosuè, Roma 1993, Città nuova (testi patristici, 108), Omelia XVIII, p. 250.