Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Avvento
I Domenica
(1 dicembre 2024)
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Ger 33,14-16; Sal 24 (25); 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36
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È caratteristico che il tempo liturgico si chiuda e si apra con il riferimento allo stesso brano evangelico. L’attesa del Signore che viene è considerata nella sua valenza escatologica (il Cristo glorioso che verrà come giudice alla fine della storia), nella sua valenza profetica (Gesù che entra nella storia con la nascita a Betlemme), nella sua valenza mistica (il Signore che nasce e cresce nei cuori). Al centro dell’Avvento sta la figura di ‘Colui che viene’, espressione che è sempre stata riferita al Messia, a Colui che avrebbe fatto vedere presente il Regno di Dio. Dire ‘colui che viene’ è riferirsi a colui che salva, al Salvatore che realizza la salvezza.
Il tema della vigilanza, tipico dell’Avvento, si innesta nella corrispondenza tra l’antifona di ingresso: “Mio Dio in te confido” e il versetto 14 del salmo responsoriale: “Il Signore si confida con chi lo teme”, versetto che il testo ebraico proclama in modo ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Il segreto del Signore è quello rivelato dal profeta Geremia, mentre si trovava in prigione e riceve la rivelazione: “Invocami e io ti risponderò … perdonerò tutte le iniquità … verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. E il salmo, come interpretando i bisogni del cuore dell’uomo e la difficoltà di incontrare il Signore che viene, continua a sottolineare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.
La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.
L’esortazione alla vigilanza allude all’attesa del cuore, mentre l’invito alla preghiera allude alla possibilità del compimento delle promesse di Dio. Attesa e promessa che sono ben espresse dalle parole di Gesù riportate in Giovanni: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Costituisce il godimento dell’ultima promessa di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E che il prefazio della liturgia di Avvento interpreta: “Ora che egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno”.
Il compimento di quelle promesse si sperimenta in ciò che Paolo esorta a vivere scrivendo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi, con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita, non può non riflettersi nell’attesa, avvertita imminente, del ritorno di Gesù. Ben presto però le comunità cristiane si sono rese conto che l’imminenza non riguarda i tempi, bensì la dimensione mistica, quella che corrisponde all’esperienza trasformante della rivelazione dell’amore di Dio che in Gesù si fa toccabile. È una esortazione alla speranza, che deriva dalla confidenza in Colui che è il testimone supremo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Con lo sguardo fisso su di lui, anche noi cresciamo nella disponibilità a rendere la nostra vita, con lui, segno dell’amore del Padre che ci chiama tutti alla stessa mensa.
E ritornando al brano evangelico di oggi, potremmo comprendere l’invito ad alzare il capo in questo modo: cercate di cogliere il segreto di Dio che vi viene incontro; cercate di bucare la cronaca con uno sguardo acuto per vedere il Signore che viene, vale a dire: lasciatevi attrarre dalla potenza dell’amore del Signore che vuole liberarvi dai vostri ripiegamenti su voi stessi. Guardare in alto e guardare dall’alto significa guardare nel profondo e dal profondo vedere le cose. Se il regno di Dio non è di questo mondo, è però per questo mondo. Così, aspettare il Signore che viene, significa essere attratti nella stessa dinamica di invio del Messia al mondo perché l’amore di Dio sia conosciuto.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
(8 dicembre 2024)
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Gn 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
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La solennità dell’Immacolata Concezione, già celebrata in oriente fin dal sec. VIII, si estese in occidente nel sec. XII, accolta prima dai francescani e poi iscritta nel calendario di Roma nel 1476. Pio IX, nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus, definì come dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria, che la cristianità ha visto confermata con le apparizioni di Lourdes del 1858.
In un bellissimo canto composto nel 1958 da Sandu Tudor, monaco ortodosso romeno, Inno acatisto al roveto ardente della Madre di Dio, il concepimento della Vergine Maria è letto come fiore sbocciato sulla preghiera dell’umanità che l’ha preceduta:
Lungo cinquanta secoli,
attraverso Abramo e Davide,
la tua genealogia profetica
ha riempito i cieli
di lacrime e prostrazioni
predisponendo il dono dell’immacolato
tuo corpo intessuto di preghiera,
eterno Roveto inconsumabile.
Il Sacro Fuoco in Te canta
come in un fiore di gloria.
La natura attraverso di Te racconta
la sua struggente nostalgia di redenzione.
La tradizione venera la Vergine come “la madre del Creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”. L’antifona di ingresso della festa mette in bocca alla Vergine la profezia compiuta di Isaia: “Esulto e gioisco nel Signore; l’anima mia si allieta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come una sposa adornata di gioielli” (Is 61,10). Quella stessa lode i fedeli riprendono con la preghiera dell’Ave Maria, preghiera che è entrata nell’uso così come la conosciamo, con la sua adozione da parte dell’ordine dei Mercedari, nel 1514. Lei è la ‘benedetta’ perché porta il ‘Benedetto’, salutato dalla folla degli ebrei nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme con la proclamazione: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Mc 11,9).
La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, fin dal concepimento, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità, perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.
L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice s. Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio, la cui luce tutto attraversa e struttura e di cui la Vergine Maria è il sigillo insieme al suo Figlio.
A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.
Quando lei si proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”, intende dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. La sua proclamazione esprime anche la preghiera di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.
La Vergine Maria è proprio colei che della dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Io collegherei la domanda di Dio ad Adamo allo stesso volere di Gesù che, prima della sua passione, svelando ai discepoli i suoi segreti, proclama loro: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Dove è Gesù? Gesù è nell’amore del Padre per noi, così noi, in lui, siamo nello stesso amore per tutti. La Vergine è colei che da sempre ha abitato quel ‘luogo’, che da sempre è collocata nel ‘luogo’ dove Gesù è. Lì ci invita e ci accompagna.
Mi piace ricordare la bella spiegazione di Gregorio Palamas, nella sua Omelia 14, del titolo riferito alla Madre di Dio nostra Signora: “… signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato”. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Avvento
III Domenica
(15 dicembre 2024)
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Sof 3,14-18; Sal: Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
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“Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”; “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Per quale motivo? Con quali ragioni? Se non si coglie la portata di questo invito, nemmeno si può cogliere la portata delle parole e della testimonianza del Battista secondo il racconto del vangelo.
Il ritornello del salmo responsoriale definisce il nostro Dio come ‘Dio della gioia’. L’espressione va intesa in due sensi: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). Se il cuore non vede mai, non percepisce mai come Dio cerchi la sua gioia in noi, come Dio non si dia pace finché non vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che Dio è la nostra gioia, che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi; è lui a revocare la nostra condanna, è lui che gioisce operando la nostra salvezza, come non potesse essere felice senza di noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore non riesce a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità. Quella percezione è frutto della ‘conversione’, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. È l’esperienza della fede: Dio viene incontro a noi e noi lo riconosciamo nel suo agire per noi, a nostro favore. Riconoscere la sua gioia la procura anche a noi.
Quando Giovanni Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio, lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quella visione, quell’incontro, gli procura. Fin dal grembo di sua madre, Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo sta in piedi ad udirlo e si riempie di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29): godeva non tanto perché gli era dato predicare e parlare, ma perché poteva ascoltare. Così, quando Luca deve descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.
Così il motivo della gioia della liturgia di oggi è la proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi, capaci finalmente di condividerla’. In tal senso il brano evangelico ha un’allusione misteriosa. Giovanni chiama Gesù ‘uno che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (= la perfetta letizia di s. Francesco) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. Secondo il detto di S. Francesco: “quando il tuo cuore è afflitto, è affare tuo e del tuo Dio; ricorda però che tutti hanno diritto alla tua gioia”. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. Per questo insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice la gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista elenca come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.
La colletta, declinando con lucidità i temi tipici della liturgia di oggi, con l’invito alla gioia e all’agire secondo Dio, fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”. La chiesa fa pregare perché corriamo, non solo camminiamo sulla via dei comandamenti. Si corre perché la letizia ci mette le ali, come dice anche il salmo: “corro sulla via dei tuoi comandamenti perché hai dilatato il mio cuore” (Sal 118,32), che il prologo della Regola di s. Benedetto parafrasa: “Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Avvento
IV Domenica
(22 dicembre 2024)
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Mic 5,1-4a; Sal 79 (80); Eb 10,5-10; Lc 1,39-45
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Due le espressioni che si richiamano a vicenda in questa celebrazione: “fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” del salmo responsoriale (Sal 79/80,4.8.20) e il canto al vangelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), versetto che precede immediatamente il brano evangelico odierno.
L’invocazione del salmo responsoriale equivale a domandare al Signore: vieni a visitarci, vieni a salvarci, mostraci il tuo amore! È l’invocazione che fin dall’inizio della creazione sale a Dio perché soccorra, perché si manifesti. La liturgia bizantina, nella domenica che precede la natività di Cristo, fa memoria di tutti i padri che dall’inizio del mondo si sono resi graditi a Dio, da Adamo sino a Giuseppe, sposo della Madre di Dio. E canta così il mistero della nascita di Gesù: “Sei disceso dal seno paterno e con ineffabile annientamento hai assunto la nostra povertà, o pietoso e compassionevole; ti sei compiaciuto di nascere in una grotta, in una mangiatoia, e prendi il latte come un fanciullino, tu che nutri l’universo; perciò, guidati da una stella, i magi ti portano doni come a Sovrano del creato. Insieme ai pastori stupiscono gli angeli, acclamando: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e lode a colui che vuole sia pace sulla terra”.
L’invocazione che saliva dal mondo corrispondeva al desiderio stesso di Dio nei nostri confronti, come viene espresso nel brano della lettera agli Ebrei, che riporta il Salmo 39/40: “Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Sono le parole del Figlio di Dio, che non esprimono semplicemente una dichiarazione puntuale, che avviene, cioè, in un determinato momento, ma una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro per il mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto. L’evangelista Giovanni esprimerà la stessa cosa facendo dire a Gesù nel colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Proprio a quel ‘volere di salvezza’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), come proclama il canto al vangelo. È la testimonianza della sua fede e del suo amore più che della sua umiltà. Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine, che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio.
Su questo si appunta l’elogio di Elisabetta: “beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. È beata perché non solo ha creduto alle parole dell’angelo, ma ne ha accettata la dinamica di compimento. Il che significa che comunque l’opera di Dio si manifesterà, lei è disponibile. Parafrasando potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, su di lei come sul mondo.
Accogliere la rivelazione di Dio è entrare nella dinamica di carità che l’ha promossa. Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ “avvenga per me secondo la tua parola” c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del magnificat alludono alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio.
La carità ha a che vedere con un’annotazione singolare del salmo 39/40, ripresa dalla lettera agli Ebrei. Dove il testo ebraico riporta: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto”, la versione greca della LXX legge: “Sacrificio e oblazione non hai voluto ma mi hai formato un corpo” (v. 7). Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Assumere un corpo comporta lo svelare i segreti di Dio nella nostra lingua. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
Mi piace riportare le solenni antifone dei vespri della novena di Natale, riprese nel canto al vangelo delle Messe, perché costituiscono un’invocazione ardente e una preghiera intensissima al Signore che viene. Sono sette invocazioni strettamente congiunte che danno il tono alla nostra attesa della nascita del Salvatore:
O Sapienza, di te parlano tutte le cose, tutte a te anelano: di te splenda lo sguardo e il gesto ti ripeta;
O Adonai, Signore e guida della storia, che vai alla ricerca del tuo popolo e fai risplendere il tuo volto su di lui: affascina e acquieta i nostri cuori;
O Germoglio della radice di Jesse, segno per i popoli: alla tua ombra trovino ristoro e riposo le genti;
O Chiave di Davide, che con la tua morte e risurrezione hai aperto le porte del Regno: lascia trapelare il suo splendore nel nostro agire;
O Astro che sorgi, sole di giustizia: la bellezza del tuo volto e la verità della tua bontà rapiscano i cuori;
O Re delle genti, l’atteso delle nazioni, pietra angolare dell’umanità nuova: cedano gli odi e le divisioni perché in te gli uomini si ritrovino tutti figli di Dio, operatori di pace;
O Emmanuele, Dio con noi, speranza dei popoli: la tua pace custodisca i nostri cuori ed i nostri pensieri, come in cielo così in terra.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2024)
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Messa della notte: Is 9,1-6; Sal 95 (96); Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Sal 96 (97); Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa del giorno: Is 52,7-10; Sal 97 (98); Eb 1,1-6; Gv 1,11-18
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L’annuncio solenne, nella memoria dell’apostolo Giovanni, con la sua acutezza di sguardo e la commozione del cuore, oggi risuona festoso: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). Ecco, quell’annuncio comincia a prendere visibilità a Betlemme e la liturgia natalizia, con i suoi tre formulari della messa nella notte, all’aurora e del giorno, ne illustra il mistero.
Come invitati dall’apostolo Giovanni a vedere con il suo stesso sguardo e la sua stessa commozione, la liturgia bizantina proclama: “Venite fedeli, eleviamoci divinamente per contemplare la divina discesa dall’alto a Betlemme, verso di noi, visibilmente. Con l’intelletto purificato, con la nostra vita offriamo virtù in luogo di unguento profumato, predisponendo con fede l’avvento del Natale, acclamando, di fronte a questi tesori spirituali: Gloria a Dio Trinità nel più alto dei cieli: per lui è apparsa tra gli uomini la benevolenza, perché egli riscatta Adamo dalla maledizione ancestrale, nel suo amore per gli uomini”.
È la testimonianza di Paolo, che nella sua lettera a Tito riassume la rivelazione del natale di Gesù con le espressioni: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”, “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”. Appare, prende forma visibile, toccabile. È l’esperienza che risulta evidente con la persona concreta di Gesù, tanto che oramai Dio non può essere cercato che nell’umanità, perché con l’umanità si è confuso. Nel farsi bambino da parte di Dio c’è tutto l’onore e la dignità dell’umanità da riscoprire nella sua luminosità. Abbiamo dimenticato che siamo fatti di luce. E la luce non è che l’irradiamento della santità di Dio come amore per noi. Proprio questo quel Bambino, diventato grande, farà scoprire, mostrando sia Dio come amore che ci cerca sia l’uomo che a quell’amore anela. Sarà proprio la vita umana di Gesù a rivelare la bellezza di Dio; proprio la pratica di umanità, conforme alla volontà di Dio, in Gesù, racconterà la salvezza e il progetto di Dio su tutta l’umanità. Come s. Efrem canta stupendamente: “Benedetto colui che è venuto in ciò che è nostro e ci ha uniti a ciò che è suo!… Il nostro corpo è diventato il tuo vestito, il tuo Spirito è diventato il nostro abito. Benedetto colui che si è adornato e ci ha adornato”.
Gesù nasce povero, in condizioni disagiate e senza riconoscimenti, nonostante la potenza delle immagini messianiche che lo preannunciavano. La Vergine, sua madre, però, non gli ha fatto mancare, con la sua premura di mamma, la grazia dell’umanità, quell’umanità che poi lui, da grande, svelerà in tutta la sua portata divina nel suo passaggio pasquale. Gli angeli svelano tutta la preferenza di Dio per l’umanità e la loro gioia deriva dalla condivisione di questo segreto della creazione con il loro Dio. I pastori rappresentano l’umanità che non possiede titoli di gloria o di merito. Sentiamo l’emozione dei loro cuori, che passa ai loro piedi e riempie i loro occhi: quando ritornano ai loro greggi a riprendere la vita di sempre hanno la sensazione che la vita non può essere come quella di prima. Lo intuiamo dalla gioia della condivisione con altri di quanto hanno sperimentato. La liturgia bizantina si fa interprete dello stupore della creazione davanti al mistero del Dio fatto bambino: “Che cosa ti offriremo, o Cristo? Tu per noi sei apparso, uomo, sulla terra! Ciascuna delle creature da te fatte ti offre il rendimento di grazie: gli angeli, l’inno; i cieli, la stella; i magi, i doni; i pastori, lo stupore; la terra, la grotta; il deserto, la mangiatoia: ma noi ti offriamo la Madre Vergine. O Dio che sei prima dei secoli, abbi pietà di noi … Gloria alla tua condiscendenza, o solo amico degli uomini … La tua nascita, o Cristo nostro Dio, ha fatto sorgere per il mondo la luce della conoscenza”. È il calore luminoso che si sprigiona dall’amore finalmente conosciuto nella sua concretezza (“Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” dirà Gesù a Nicodemo) che ti tocca nella forma più accattivante e, nello stesso tempo, povera, di un piccolo bambino. Sempre s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”.
Se l’amore, che ha originato il dono di quel Bambino, è intravisto dai cuori, allora si possono risanare le ferite della storia, si è abilitati a costruire un altro tipo di storia, si è raggiunti così nel profondo da non volere altro per sé e per tutti. È l’esperienza che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in lui potremo trovare tutti i beni ai quali anela il nostro cuore. È il perenne annuncio profetico al mondo dei credenti in Cristo.
Buon Natale a tutti!
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(29 dicembre 2024)
1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83 (84); 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
Celebrare la festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse divine, ma intessuta anche di peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia, con il suo carico di drammi e di violenze. Anche per Gesù, che è nato da una madre vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua vita. Ecco, la verità dell’incarnazione riguarda il fatto che il bambino ha bisogno di crescere, cresce nella sua famiglia, sottomesso ai suoi genitori. È il periodo più lungo della vita di Gesù, circa trent’anni, che vive nel nascondimento, crescendo in età e grazia, fino al tempo della sua manifestazione con la venuta al Giordano per farsi battezzare da Giovanni Battista. Di questo periodo non sappiamo nulla, se non che l’ha vissuto a Nazaret con la sua famiglia, fedele alla legge di santità di Dio per il suo popolo.
L’unica annotazione che fa presagire il mistero della sua vita a Nazaret, riassunto dall’espressione evangelica: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”, riguarda sua madre: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. Il custodire comporta la premura di vedere l’invisibile, di accorgersi dell’azione misteriosa di Dio, di accompagnare il figlio nella scoperta del suo mondo interiore. Vale sempre, continuamente, per lei il suo “Sono la serva del Signore”, come donna, come mamma, come sposa, con tutte le premure e le angosce di ogni mamma. E tutto questo è parte integrante del disegno di Dio perché è necessario alla crescita di Gesù nella sua umanità. Potessimo leggere anche noi la nostra vita nella sua quotidianità come parte integrante del mistero di salvezza di Dio che si compie a nostro favore! Possiamo solo intuirlo, accompagnarci a percepirlo, a entrarvi come collaboratori fedeli, nell’attesa di veder compiersi la promessa di Dio. La lettura delle Scritture, l’impegno di ascesi e preghiera, l’ardore di carità per tutti, tutto esprime la tensione del cuore che custodisce il mistero di Dio nel suo lento manifestarsi. Mi sembra questa la caratteristica essenziale della venuta nella carne del Figlio di Dio. La divinità che si abitua a convivere con l’umanità fino a che l’umanità tutta splenda della divinità. Quello che i Padri hanno sempre apertamente dichiarato: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio. Sul principio: chi cerca la sua gloria si perde, chi cerca la gloria di Dio si umanizza, fa fiorire la sua umanità. Così è stato per Gesù, così è stato per sua madre, così sarà per i suoi discepoli.
Il racconto del ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori allude probabilmente alla celebrazione del ‘bar mizvah’, l’età adulta per un ebreo tra i 12 e i 13 anni, quando gli veniva concesso di leggere pubblicamente la Torà in sinagoga. L’occasione permette a Gesù di ’perdersi’ nelle Scritture, interamente occupato a cogliere il volere del Padre nel suo desiderio di salvezza. È ancora troppo presto per Maria e Giuseppe di realizzare quanto sta accadendo. Perciò, annota l’evangelista, Maria si fa memoria calda delle parole e dell’agire del figlio. Lei, che si era dichiarata l’ancella del Signore all’angelo, che le annunziava la nascita misteriosa di un figlio, non sapeva ancora come si sarebbe tradotta la storia di salvezza che quel figlio avrebbe realizzato. Lei tratteneva parole ed eventi in cuore facendole rimbalzare le une sulle altre, le parole sugli eventi, il tutto con il suo cuore, fino a scoprire e vivere fino in fondo la grandezza dell’amore di Dio con tutta la sua persona. Ha accolto tutto il mistero e tutte le sue energie sono assorbite da quel mistero che impara col tempo a scoprire. Mistero, che godremo in tutta la sua profondità e bellezza secondo l’annuncio di Giovanni nella sua lettera: “ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato …”.
Ora, è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di tutte le contraddizioni che si incontrano. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere o comunque senza che siano necessariamente resi partecipi. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Come si annota per la madre di Gesù: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19).
Forse non è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49); sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In altre parole, non ritroverebbe più lo Spirito donato da Gesù. Perderebbe la sua umanità.
Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Maria SS. Madre di Dio
(1° gennaio 2025)
Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
Nel calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la divina maternità di Maria. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio, con la chiesa che continua a sottolineare la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Da una parte, si celebra la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, si fa memoria del rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.
Con la Vergine Maria, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele riportata dal libro dei Numeri: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6,24-26). La benedizione è per l’umanità, ma la liturgia la applica in modo eminente alla Vergine Maria. Non si può non riandare alle due ultime cantiche del Paradiso di Dante quando pone sulle labbra di s. Bernardo le sublimi parole di lode: “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia, ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo … Li occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione, che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.
L’antica colletta recitava: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono”. Viene ripresa la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14), come pure la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Preghiamo la Madre di Dio perché anche a noi si estenda quella benedizione di cui gode e che si traduca, per il nostro cuore, nella visione di Dio nel suo amore per noi.
L’aspetto più straordinario della sua intercessione è dato dall’invito a entrare nella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio, di cui lei ha goduto, perché tutta aperta al desiderio di Dio di dimorare in noi. Suonerà strano, ma soltanto da dentro quella intimità noi possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non percepiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.
La benedizione di Dio su di noi è proprio quel Figlio, che la Vergine Maria partorisce nel mondo; quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.
Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di intelligenza delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola e il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore e il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose‘ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo dell’angoscia, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita tornerà a risplendere della presenza del nostro Dio.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Natale
II Domenica dopo Natale
(5 gennaio 2025)
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Sir 24,1-2.8-12; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
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Continua la meditazione della Chiesa sul mistero della nascita di Gesù. Oggi l’accento è posto sulla conclusione del prologo del vangelo di Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). La conseguenza non può che essere quella che s. Efrem pone sulle labbra della Madre di Dio, che guarda quanti accorrono per adorare il Figlio che ha appena partorito: “Se una madre ha un bambino, questo diventa fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché venga per servire il suo Signore”. E rivolta al suo Bambino: “A causa tua una serva diventa libera. Se una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”. In altre parole, l’umanità ritrova la gloria della sua dignità, anticipata da quella che rifulge sulla Madre stessa: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”.
La bellezza della verità annunciata è tale che solo con un inno di lode si può magnificare. È quello che fa s. Paolo introducendo i credenti di Efeso al mistero della Chiesa, come pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo …. vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui” (cfr. Ef 1). Quella conoscenza è quella che deriva dall’esperienza degli apostoli che sono vissuti con il Figlio di Dio fatto uomo, ne hanno ascoltato la voce, ne hanno ammirato le azioni, sono stati introdotti nel suo segreto e alla fine hanno riassunto la loro esperienza così: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14).
La liturgia di oggi proclama che quella esperienza ci è stata comunicata perché la condividessimo, ne cogliessimo la portata rispetto alla rivelazione del mistero dell’amore di Dio per noi, ci raggiungesse nelle corde più segrete del cuore in modo da vivere della benedizione, che è il dono di Gesù alla nostra umanità. Per questo la prima lettura l’annuncia come la Sapienza, che ha ricevuto dal Padre, ancor prima della fondazione del mondo, il compito di porre la sua dimora tra i suoi figli. Compito, che costituisce tutto il volere di benevolenza del Padre e l’obbedienza in intimità del Figlio, perché il supremo desiderio di Dio è di trarre l’uomo nella comunione con lui, fonte della sua felicità.
Ecco allora l’annuncio per il mondo. Il Padre ci ha donato il suo Figlio ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare figli a nostra volta: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura, censo, qualità, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, fraterna, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno.
La letizia del Natale rimanda a tale ‘possibilità’, a tale ‘potere’ e qui si radica la speranza per il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo.
Se prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio dell’uomo, il compimento di ogni desiderio di verità e bellezza? E se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del Volto stesso di Dio. Se questo è vero, allora, come dichiarano i nostri Padri, tutti i nostri pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i nostri ideali. La preghiera non è che il luogo di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione alla sua umanità, ai suoi sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio. E se davvero i nostri occhi stanno aperti a riconoscere la venuta tra noi di Colui che è l’Atteso del cuore, perché smarrirci ancora nelle paure e nelle angosce, come se qualcosa di essenziale ci mancasse ancora?
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Epifania del Signore
(6 gennaio 2025)
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Is 60,1-6; Sal 71 (72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
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Il termine Epifania vuol dire manifestazione. La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti; l’inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando Giovanni Battista lo rivela al popolo d’Israele; il miracolo delle nozze di Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.
Se ci lasciamo guidare dalla liturgia e dalle antiche icone, una annotazione balza subito agli occhi. I racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù sono letti in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui, che le guide della nazione si rifiutano di ricevere, è adorato dalle nazioni; Colui, che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.
L’antifona di ingresso si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella tradizione cristiana: “Ecco, viene il Signore, il nostro re: nella sua mano è il regno, la forza e la potenza” (Ml 3,1 e 1Cr 29,12). Un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo Figlio unigenito, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la bellezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.
La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio, che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio!
I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi ha sempre indotto a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa noi credenti siamo debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti nel mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non sono trovato da qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
Il mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10) ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. L’invito è passare dall’acqua al vino. In altre parole, passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del soccorso della sua compagnia. Anche qui, come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo.
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