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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Avvento

I Domenica

(3 dicembre 2023)

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Is 63,16b-17.19b;64,2-7;  Sal 79;  1Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

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L’invito che percorre tutto l’Avvento è ‘fate attenzione’, ‘vegliate’. L’invito riguarda la tensione dello sguardo puntato verso un unico punto. Volgete lo sguardo al Figlio dell’uomo che per voi ha patito, è morto, è risorto, sul quale giocare il desiderio del cuore, la responsabilità dell’agire e il segreto della vita, come hanno annunciato le tre parabole di Matteo sul finire dell’anno liturgico. È caratteristico che il passo evangelico proclamato oggi: “Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!” (Mc 13,37) sia seguito immediatamente dal racconto della passione di Gesù.  La vigilanza, di cui ci è fatto comando, riguarda la capacità di cogliere la grandezza dell’amore di Dio che in Gesù si è manifestato in tutto il suo splendore. È quell’amore che ci salva dall’angoscia, che ci custodisce nell’agire e ci fa scoprire il segreto del vivere.

Nel racconto della passione, il vangelo riporta lo stesso invito di Gesù ai tre discepoli con cui si era accompagnato nell’orto del Getsemani: “Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate»” (Mc 14,34). E Matteo aggiunge: “restate qui e vegliate con me” (Mt 26,38). La motivazione? Il momento è terribile e Gesù (credo sia l’unica volta che Gesù chieda qualcosa ai discepoli e poi si lamenta che l’hanno lasciato solo!) ha bisogno di ‘compagnia’. Quella compagnia non è semplicemente per lui, ma per loro stessi perché sarà difficile per loro intravvedere l’opera di Dio nella sua passione e credere al suo amore salvatore. Forse memori di questo evento, alcuni codici antichi riportano l’invito di Marco alla vigilanza così: ‘vegliate e pregate’. La veglia è per la preghiera e la preghiera è per la visione di Dio nel suo donarsi a noi e per noi.

La lettura della storia da parte del profeta Isaia la dice lunga sul mistero di tale vigilanza. Il popolo di Israele ha riconosciuto l’intervento straordinario del suo Dio quando lo liberava dalla schiavitù dell’Egitto ma presto, di fronte alle nuove fatiche, se ne scorda. Vorrebbe trovare una scorciatoia per non penare più e si costruisce un dio su misura. Ma i nemici incalzano, le sciagure incombono, la paura serpeggia sempre e allora il popolo torna a invocare il suo Dio: “Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi … Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è invocato. Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,17-19). Proprio il grido che attraversa l’avvento: se tu squarciassi i cieli e scendessi! Solo che il grido non è più volto semplicemente a ottenere che Dio venga in mezzo a noi (la festa del Natale celebrerà appunto questa venuta nella carne del Figlio di Dio), ma è volto a cogliere nel nostro cuore la manifestazione del Figlio di Dio nella sua potenza di salvezza. Come invoca anche la preghiera del Padre nostro: venga il tuo regno, cioè venga in noi, si manifesti in noi il tuo regno.

Lo sottolinea il canto al vangelo riportando un versetto del salmo 84 (85), 8: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”. Il testo del salmo continua: “Ascolterò che cosa dice [in me] il Signore: egli annuncia la pace per il suo popolo … Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Versetti che noi potremmo interpretare: una volta che il Signore è riconosciuto abitare nel nostro cuore perché cercato e accolto, ecco quello che avviene: il suo amore di misericordia risponderà alla verità del nostro riconoscerci peccatori; il bene che da lui procede si salderà al perdono vicendevole che ci farà vivere in pace. Così la nostra umanità si scoprirà trasfigurata dallo Spirito come l’umanità di Gesù, il testimone per eccellenza dell’amore del Padre per i suoi figli.

È esattamente quello che s. Paolo si augura per la comunità di Corinto quando dice loro: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi [in voi] così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”. Ecco, la vigilanza che percorre il tempo dell’avvento non è semplicemente l’attesa di un evento ma la sensibilizzazione alla percezione di una Presenza che da dentro prorompe, si manifesta e contagia di letizia. L’invito è a oltrepassare la cronaca per intessere una storia, la storia d’amore di Dio con l’uomo.

Proprio come la preghiera della chiesa nell’avvento ci fa invocare insistentemente perché il cuore riconosca nel Signore Gesù l’opera di salvezza di Dio. Il ritornello, costante, della preghiera in questo periodo è dato dai due versetti presi dal Salmo 79: “risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (v. 3); “o Dio, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (v. 4, 8, 20). Perché si arrivi a godere di quello che lo stesso salmo proclama: “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome” (v.19).

Ora, attendere la manifestazione del Signore non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. San Paolo, dicendo che una comunità credente ‘aspetta la manifestazione del Signore’, come lo stesso verbo greco indica, allude all’atteggiamento del cuore che vive ogni tempo e ogni circostanza in funzione dell’incontro con il Signore Gesù, percepito nella grazia della sua presenza. D’altra parte, chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nel concreto della nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.

Ma c’è ancora dell’altro. Se leggiamo il passo parallelo di Lc 12,37, veniamo a sapere come si manifesterà il Signore: “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. L’accudire ai fratelli non è soltanto agire bene, ma partecipare al servizio divino dell’umanità. Come a dire: quando accogli il tuo fratello perché guardi al tuo Signore, il tuo cuore godrà dall’essere accudito dal suo Signore e non potrà non condividere con lui l’ansia di arrivare a tutti perché lo splendore della sua presenza prevalga comunque.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

(8 dicembre 2023)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97 (98);  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Benedetto Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione …” proclama Paolo nell’esordio della sua lettera agli Efesini. Come non riferirlo prima di tutto alla Madre di Dio? Lei è la benedizione dell’umanità in cui tutti siamo benedetti perché da lei nasce il Benedetto che ci ha consolati, come la liturgia di tutto l’avvento proclama. Da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione eterna fin dalla creazione del mondo, oltre la quale non c’è più nulla da desiderare.

Non posso non riandare alla lode sublime che Dante, nell’ultima cantica del Paradiso, innalza alla Regina del cielo:

“…. Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate”.

Concludendo con quella mirabile espressione: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Un modo insolito di considerare il mistero della bellezza dell’uomo che si specchia nella bellezza di Dio. Anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione, che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi, Gesù Signore.

La benedizione di cui parla san Paolo ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito, come proclama la colletta, ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità anche noi perché, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno del tentatore che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Lei pure è stata duramente provata nella sua umanità, ma con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo. Ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza.

L’uomo, invece, si dibatte nell’illusione del tentatore. Nel racconto del peccato, narrato dal libro della Genesi, si può osservare come le varie creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.

Se Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità, è perché la nostra umanità non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere quella paura di Dio allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio che continuamente bussa al suo cuore senza tener conto della sua paura: “dove sei?’, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine.

La Vergine è proprio Colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità perché l’esperienza di cui è stata gratificata ridiventi, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Nel vangelo lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto; si realizzi la sua promessa; si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Avvento

II Domenica

(10 dicembre 2023)

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 84 (85);  2Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

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La vigilanza, di cui ci era stato fatto comando domenica scorsa, oggi si fa intuito di speranza e di gioia prossima, con due testimoni singolari: il profeta Isaia e Giovanni Battista. Non lasciamoci impressionare dalla severità della predicazione del Battista, che annuncia un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, perché la sua parola ci riporta l’eco del grido del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo”. Tutte le letture profetiche della prima settimana di avvento ci riportano lì. Nella settimana abbiamo supplicato: “Vieni, Signore, a visitarci con la tua pace: la tua presenza ci riempirà di gioia”; “ridesta la tua potenza e vieni, Signore”. Lo stesso salmo responsoriale di oggi, il salmo 84, può essere definito come il canto della pace portata dal natale di Gesù. Ma occorre che la grazia di quel natale parli al nostro cuore; occorre che il nostro cuore si senta toccato dal mistero che quel natale costituisce per il mondo, proprio come l’antica versione greca proclama: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio, perché proclamerà la pace sul suo popolo e sui suoi santi e su quelli che convertono a lui il loro cuore” (LXX). Appunto perché il nostro cuore si apra a quella ‘grazia di pace’ il grido del Battista percuote i nostri orecchi: “Preparate la via del Signore…”.

Quella ‘grazia di pace’ costituisce l’annuncio gioioso che è il Vangelo di Gesù, come Marco proclama all’inizio del suo racconto. Ed è interessante osservare che la citazione profetica di Marco all’inizio del suo vangelo è una composizione di passi di Malachia e Isaia. Il libro di Malachia è il libro che chiude l’Antico Testamento per il canone cristiano. Riprendendo Malachia, Marco sottolinea come Gesù sia il compimento di tutte le Scritture che a lui conducono e, riprendendolo insieme a Isaia, manifesta come Gesù sia il supremo desiderio di Dio per l’uomo, desiderio che attraversa tutte le Scritture. Nelle parole di Malachia 3,1 (“Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via”) si allude a Giovanni Battista, mentre in quelle di Isaia 40,5 (“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno”) si allude al Messia, a Gesù, che il Battista proclama: “Viene dopo di me colui che è più forte di me…”.

Il desiderio di Dio, quando è percepito, accende il desiderio dell’uomo e l’uomo, dalla sua condizione di afflizione nella schiavitù e nell’oppressione, guarda a Dio come al suo liberatore, che già vede venire in suo soccorso: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio” (Is 40,10). Ma di quale ‘potenza’ si fa forte Dio per l’uomo? Noi contempleremo il nostro Dio farsi bambino, povero e indifeso; lo vedremo condannato alla morte di croce, come esautorato di tutta la sua potenza. Dov’è allora la ‘gloria del suo nome’ per cui la colletta ci fa pregare: “O Dio, Padre di ogni consolazione … parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in purezza di fede e santità di vita, possa camminare verso il giorno in cui ti manifesterai pienamente e ogni uomo vedrà la tua salvezza”?

In cosa consista la potenza di Dio che libera, che procura gioia e consolazione, lo dice il profeta Isaia: è finita la tribolazione, termine che ha una valenza di tipo militare. È finito il duro servizio di corvée imposto dal dominatore di turno. Quando Gesù inviterà a venire a lui, fonte di gioia e consolazione per i cuori, si riferirà agli uomini ‘stanchi e oppressi’ (soggetti a corvée dal demonio che li tiene sotto il suo giogo) e chiederà di prendere il suo di giogo, che è dolce e leggero (cfr. Mt 11,28-30). La buona novella, con cui si apre il vangelo di Marco, porterà consolazione al mondo quando riceverà la corsa degli apostoli, mandati da Gesù, non tanto a far conoscere che cosa è successo (il Figlio di Dio, morto e risorto) ma a rendere partecipi, a far esplodere quella liberazione ottenutaci da Gesù, testimone per eccellenza dell’amore di Dio per i suoi figli.

Con il salmo 84 la liturgia canta l’incontro del desiderio di Dio con il desiderio dell’uomo: “amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Tutto ciò che Dio ha voluto per l’uomo, nel suo amore di sempre per i suoi figli, l’uomo lo potrà ormai godere stabilmente perché “colei [Elisabetta] che portava il giusto, Giovanni Battista, ha baciato colei [Maria] che portava la pace, Gesù”. E la visione messianica del salmo si può interpretare come la manifestazione della gloria del nome di Dio al cuore dell’uomo che il Battista rivela essere il compito specifico del Messia. Come a dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se l’esperienza è autentica, allora, la riconciliazione ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica giustizia degna del cuore dell’uomo. Da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora. L’azione di Dio, che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.

Se l’antica colletta proclama: “Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore”, ciò significa che il preparare da parte nostra la via al Signore che viene si risolve nel non ostacolare, non impedirci di lasciarci toccare dal suo annuncio gioioso. Tanto che Pietro, nella sua seconda lettera, ci avverte: “quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio”. Non impedirci significa affrettare la manifestazione della gloria del Signore, che è splendore di amore per noi, splendore che possiamo contemplare nel suo Figlio, nato, morto e risorto per noi.

In rapporto alla manifestazione di quello splendore possiamo interpretare il paragone che il Battista stabilisce tra lui e Gesù: “E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali»”. Gesù si presenta come il forte che ha legato colui che era ritenuto forte, cioè il diavolo: “Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa” (Mc 3,27). La sua forza in cosa consiste? Era compito di uno schiavo slacciare i sandali al padrone, ma uno schiavo ebreo era esentato dal servizio del lavare i piedi al padrone. E Gesù è proprio quello che fa con i discepoli nell’ultima cena: va oltre ciò che era richiesto ad uno schiavo! In questo suo andare oltre scorgiamo l’immensità del suo amore per noi. In quello che compie in quel momento, preludio di quello che avverrà di lì a poche ore sulla croce, possiamo leggere tutta la sua vita, tutto il dono della sua vita, tutto il suo insegnamento e tutta la potenza di vita nuova di cui ci fa partecipi. Ad un’unica condizione: che noi ci lasciamo toccare, ci lasciamo commuovere. Proprio in questo consiste il preparare la via del Signore.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Avvento

III Domenica

(17 dicembre 2023)

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Is 61,1-2.10-11;  Salmo da Lc 1,46-54;  1Ts 5,16-24;  Gv 1,6-8.19-28

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La stessa espressione di Giovanni Battista riportata nel vangelo di Marco, la ritroviamo anche in Giovanni: “Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo” (Gv 1,26-27). È singolare che l’evangelista Giovanni introduca la testimonianza del Battista a proposito di Gesù subito dopo aver scritto: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. Questa è la testimonianza di Giovanni …” (Gv 1,18-19). La testimonianza di Giovanni non riguarda solo l’indicazione della persona del Messia ma il fatto che il Messia sia colui che fa conoscere il Padre, sia colui che è lo Sposo di Israele. A tutti dice: io non ho diritto alla Sposa, la Sposa è sua! A questo allude l’immagine di sciogliere il laccio del sandalo.

E un’altra particolarità del vangelo di Giovanni è da notare. Giovanni nomina le persone unicamente in rapporto a Gesù: la madre di Gesù, il discepolo che Gesù amava … Così per il Battista: lui è la voce, che prepara gli uomini alla venuta del Cristo. Questo perché nel vangelo di Giovanni il Cristo è presentato come la Luce, Luce che illumina, che riscalda, che avvolge, che dilata, che fa vivere. Se nella colletta preghiamo: “donaci un cuore puro e generoso”, intendiamo: dacci un cuore che sappia accogliere in tutto il suo splendore la Luce che è il Cristo e che di lui viva.

Alla testimonianza del Battista fa riscontro quella del profeta Isaia: “Lo spirito del Signore Dio è su di me” (Is 61,1). È l’espressione che nel vangelo di Luca Gesù si applica all’inizio della sua predicazione. Proclamarla nel periodo dell’Avvento significa orientare gli sguardi a cogliere il senso della venuta del Messia. Perché il Messia è pieno dello Spirito del Signore? Perché toccherà a lui svelare il volto del Padre, che è compassione per noi. In effetti, il profeta specifica cosa lo Spirito faccia fare al Messia: portare l’annuncio di gioia ai miseri, fasciare le piaghe ai cuori spezzati, dare la libertà a coloro che vivono nella costrizione del dominio del più forte, liberare i prigionieri e farli uscire alla luce, aprire loro la grazia di un tempo nuovo. In questo l’umanità riconosce Colui che la sposa, Colui che la porta alle nozze di un’esistenza liberata e rinnovata nell’amore.

Possiamo vedere gli effetti di questa liberazione goduta in ciò che Paolo scrive ai Tessalonicesi: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,16-18). Da intendere: questo è ciò che opera il Signore Gesù nei vostri cuori, se voi l’accogliete. L’invito segue l’esortazione a vivere in pace e a perseguire sempre il bene senza mai cedere al male. In greco la frase fa cadere l’accento non sul contenuto, ma sul tempo: ‘sempre, siate lieti; ininterrottamente, pregate; in ogni cosa, rendete grazie’. Noi potremmo intendere in questo modo: come dobbiamo essere sempre? Lieti. Cosa dobbiamo fare senza interruzione? Pregare. Cosa non dobbiamo tralasciare mai? Rendere grazie. Sono le tre caratteristiche di un agire libero e generoso: gioiosi, oranti, grati. Non si tratta però di qualità da perseguire per se stesse perché desiderabili, ma di condizioni essenziali che permettono di vivere dello spirito del Messia, cioè quello, come dicevo sopra, di portare l’annuncio di gioia ai miseri, fasciare le piaghe ai cuori spezzati, ecc. Chi ha percepito l’amore di benevolenza di Dio sul mondo, di cui Gesù è il testimone e il rivelatore, può vivere nella letizia (non è più corroso dalla tristezza, nonostante le ragioni più che plausibili che la alimentano), diventa capace di accogliere il suo Dio nella preghiera (non resta più chiuso all’avventura con il suo Dio) e non ha più bisogno di rivendicare nulla perché rende grazie in ogni cosa. Il legame tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà la libertà interiore per stare lieto e vivere la vita in eucaristia, in rendimento di grazie. Ma la letizia che fa vivere è quella che germoglia, come dice il profeta Isaia, dall’incontro con colui che scopro essere il mio Salvatore, col quale attraversare dolori e fatiche della vita.

Colui sul quale è lo Spirito del Signore, che sta in mezzo a noi, non è però conosciuto. Ha bisogno di testimoni che lo segnalino. Giovanni Battista è uno di questi, il più grande. La sua risposta alla domanda che gli viene rivolta: “Tu chi sei?” rivela come si percepisce: sono soltanto uno che addita qualcun altro e sono in quanto addito, perché questa è la volontà del Signore su di me. Tutta la mia vita sta racchiusa in questo riferirmi a Colui che deve venire, che è già qui e che vi addito come l’Inviato da seguire. Lui vi mostrerà quel regno che io ho solo intravisto e atteso.

Sul finire della vita, la stessa domanda è lui a rivolgerla a Colui che aveva additato: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. La domanda del Battista svela come non sia mai conclusa la rinuncia alle nostre immaginazioni sul Regno per aprirsi alla venuta di quel Regno in verità, come a Dio è piaciuto manifestarlo. Il regno mostrato da Gesù è davvero il compimento delle attese dei cuori e, proprio per la sua semplicità, inspiegabilmente diverso da come i cuori si immaginano che debba essere. Con Gesù finisce questo faticoso riferirsi a qualcosa come dovrebbe essere per aprirsi a quello che è: amore, pieno di compassione per noi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(24 dicembre 2023)

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2Sam 7,1-5.8b-12.14a.16;  Sal 88 (89);  Rm 16,25-27;  Lc 1,26-38

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La liturgia dell’avvento ci ha accompagnato nell’attesa del Signore che viene con le testimonianze dei profeti e di Giovanni Battista. Ci ha introdotti nel mistero dell’amore di Dio, che contempleremo nel Bambino di Betlemme, attraverso immagini straordinarie. Il Signore che viene, lo stesso che verrà alla fine dei tempi, è il padrone che si mette a servire i suoi servi: ci rende partecipi del suo segreto di amore lungo tutto il corso delle nostre vite (prima domenica). È lui il più forte, colui che ha detronizzato il diavolo dal suo potere sugli uomini: con la sua estrema mitezza e umiltà, da ritenersi ancor meno di uno schiavo in modo che il suo amore splendesse senza ombre di alcun tipo, non ha offerto alcun appiglio nella sua umanità al nefasto potere del diavolo (seconda domenica). È lui la luce, che è vita per gli uomini, da liberarci dalla tristizia del diavolo e farci vivere nella letizia di un amore che non si fa calpestare da nulla, aprendo l’anima alla preghiera incessante e alla gratitudine (terza domenica). E oggi, quando ormai il testimone per eccellenza è la stessa Vergine madre sua, tutto si concentra sulle parole dell’angelo a lei e di lei all’angelo: “Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te” e “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. L’annuncio è di letizia, la risposta è di disponibilità piena a quella letizia.

Sembra che l’evangelista Luca intenda presentare Maria come l’arca dell’alleanza del tempio di Sion, sede della presenza del Signore in mezzo al suo popolo. Per questo l’angelo evoca l’ombra della nube che copriva il tempio, come aveva coperto la tenda del convegno nel deserto (cfr Es 33,7-11). Dalle parole dell’angelo possiamo cogliere due aspetti del mistero che veniva annunciando. Il saluto “rallègrati” si ricollega alle profezie per la Vergine di Sion che poteva vedere lo scendere in campo del suo Re e Salvatore contro i suoi nemici (Sof 3,14), consolando il suo popolo (Is 49,13), mostrando le cose grandi che il Signore operava per il suo popolo (Gioele 2,21) e venendo ad abitare in mezzo al suo popolo (Zac 2,14). Lei, la Vergine Maria, diventava la letizia del suo popolo perché il Signore veniva a prendere dimora e contemporaneamente, sempre secondo le profezie, la letizia di tutti i popoli perché il Signore aveva deciso di estendere a tutti la sua salvezza.

Per questo lei riceve il ‘nome nuovo’, quello che esprime tutta l’iniziativa d’amore di Dio per il suo popolo e per tutte le genti: “piena di grazia”, “ricolmata di ogni grazia”. Non soltanto lei esprimeva tutta la grazia di amore e misericordia che Dio le aveva riservato perché potesse farsi uno di noi, ma con lei il tempo è colmato di grazia, della grazia della dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. Quel ‘nome nuovo’ è ciò che costituisce la firma di garanzia dell’amore di Dio per noi, quell’amore che Gesù poi, con la sua vita e il suo insegnamento, con la sua morte e risurrezione, manifesterà in tutto il suo splendore.

In questo si compie la profezia davidica, come leggiamo nella prima lettura: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa”. E che il salmo responsoriale 88/89 riprende con la sottolineatura della fedeltà perenne di Dio a questa sua volontà di bene per noi: “È un amore edificato per sempre … gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele”. Con la ‘dimora di Dio’ nel seno della Vergine, nostra sorella, quella volontà di bene di Dio suona assoluta, radicale, totale: dall’umanità Dio non potrà più togliersi o essere tolto. E siccome questa volontà di bene è fonte di letizia per l’uomo, quando l’uomo cercherà la letizia al di fuori di questa volontà di bene resterà sulla sua fame.

Potremo mai partecipare alla letizia dell’annuncio, alla gioia dell’attesa, senza essere in qualche modo come Maria la quale proclama di sé: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”? Lei è serva perché il desiderio di Dio di abitare in mezzo ai suoi figli finalmente si compia. È serva perché tutto in lei e di lei è spazio di dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. È serva dell’amore di Dio che vuole manifestarsi ai suoi figli e lei non offre alcun appiglio, nella sua umanità, al potere del diavolo che lavora per chiudere gli uomini all’esperienza dell’amore di Dio.

In lei si realizza quello che l’antifona di ingresso canta: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore” (cf. Is 45,8). Il passo di Isaia è citato secondo la versione latina della Volgata di s. Girolamo che interpreta in chiave messianica l’invocazione del profeta: “le nubi facciano piovere la giustizia … si apra la terra e produca la salvezza”.

Il desiderio di Dio di abitare con gli uomini, di prendere dimora fra gli uomini, di farsi dimora degli uomini, finalmente si compie. E la Vergine vi acconsente, acconsente a che il disegno di Dio si compia in tutto il suo splendore. Il suo acconsentire rivela tutta la purità e sincerità del suo cuore: non sa come si realizzerà il disegno di Dio, ma vi acconsente; non sa cosa le sarà richiesto, ma vi acconsente. Nello stesso tempo, rivela tutta l’intimità del suo cuore, che comunque sta dalla parte di Dio, è un tutt’uno con il sentire di Dio, non cerca altro sentire se non quello stesso di Dio. In effetti, quando il sentire interiore è profondo, il rapporto è potente e quando il sentire tocca le radici del cuore, l’intimità è compiuta: nessun estraneo avrà più accesso in quello spazio. Da quell’intimità mai più si allontanerà e permetterà così che la gioia di Dio e dell’umanità si compia. Il prodigio della concezione e della nascita del Figlio, di cui lei sola conosce il mistero, conferma quell’intimità, non la crea. La fede non ci strappa dalla nostra umanità, ma l’avvalora, la compie nella sua dignità e nei suoi aneliti.

Se è Dio che prepara una casa all’uomo, non la può preparare senza l’uomo. Il Bene che Dio vuole all’uomo non può non tendere a che l’uomo lo possa anche godere e come l’uomo può goderlo se non l’accoglie in libertà di cuore? É il mistero stesso dell’apparizione della gloria di Dio. Se Dio apparisse con la sua gloria in modo da piegare l’uomo sconvolgendo l’universo, non sarebbe il vero Dio perché avrebbe bisogno di ‘apparire’ Dio. Ma Dio è Dio perché non ha bisogno di dimostrarlo. E se appare la gloria di Dio è perché l’uomo possa risplendere del suo fulgore. Ma se l’uomo chiude il cuore, luogo da cui unicamente può risplendere quel fulgore, come può vedere la sua gloria? E ancora, se il cuore non coglie la promessa di vita e quel fulgore di gloria nella parola del Signore, come può riconoscere lo stesso Signore nei poveri in cui si confonde?

È il mistero del Natale del Signore, a Betlemme come nei cuori, allora come adesso, ora come in futuro. Possano i nostri cuori riconoscere in quel Bambino, portato dalla Vergine, il Salvatore, nella sua parola la promessa di vita per noi, nelle sue sofferenze i segni del suo amore, nel suo esserci la grazia per noi, capace di diventare la grazia per tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2023)

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Messa vespertina della vigilia:          Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                              Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                             Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                              Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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La vigilanza, che la liturgia dell’avvento ci aveva insegnato ad assumere davanti al mistero del Signore che viene, ci ha affinato gli sguardi. Ora siamo pronti a vedere ciò che in realtà non è immediatamente visibile. Quale potenza mostra mai un Dio che si fa fragile e inerme bambino? Quali luci in un evento, di cui nessuno sembra accorgersi, in una situazione di povertà e di completa discrezione?

Il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore considerando lo sviluppo della liturgia nei suoi quattro formulari delle Messe. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva. Se teniamo presenti i brani evangelici possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno). Quale lettura possibile?

Il Bambino, contemplato nella mangiatoia, compie finalmente le promesse di Dio. La genealogia di Matteo, all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, il Messia annunciato della discendenza di Davide, risale ad Abramo, con cui inizia la storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie le promesse. Leggendo però la genealogia nel vangelo di Luca, posta dopo il battesimo di Gesù al Giordano, quando il cielo si apre e si ode la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato …”, allora il significato muta. Il Bambino è Colui sul quale il Padre dice: ‘Questi è il mio Figlio amatissimo, in lui mi sono compiaciuto, in lui riposa il mio amore e in lui mi riposo’. In effetti il cielo si apre su di lui e passa per lui (Gesù dirà: ‘io sono la porta…’) in modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e la sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio, nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità.

Con il prologo di Giovanni si afferma la stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire da Dio e dal Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, avvalorata ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Di lui dice Giovanni: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria”.

Quando nella notte si celebra l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione e inadeguatezza tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata con la voce degli angeli che lodano Dio, con la luce che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Dentro tale sproporzione verrà poi descritta tutta la vita di quel Bambino. E quando la chiesa nei suoi inni proclama che una nuova creazione ha inizio con la nascita di Gesù, allude alla fecondità di rivelazione racchiusa in questa sproporzione. Con l’Altissimo che si fa bambino si ritorna allo splendore di un’umanità tutta intessuta dall’amore di Dio e che in Dio cerca il motivo della sua gloria, in povertà e tenerezza. Qui risuonano potenti le parole di Paolo ai Corinzi: “Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). Da dentro ‘stoltezza’ e ‘debolezza’ Gesù rivelerà la grandezza dell’amore di Dio per noi.

Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero è delineata secondo questa traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Mi piace sottolineare che nei racconti natalizi non si riporta nessuna parola della Madre di Gesù. Si descrivono i gesti di tenerezza, nella povertà della situazione (“lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”) e la sua disposizione adorante (“custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”). La sua parola era già stata riferita: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. La sua vita era puro spazio perché il desiderio di Dio di dimorare con noi si compisse in tutto il suo mistero. Nelle icone natalizie, la Madre non guarda il suo bambino, ma coloro per i quali questo bambino è donato. Nei presepi, il bambino è con le braccia aperte per accogliere chiunque a lui si avvicina.

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!… Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano allora i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia per noi in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

BUON NATALE A TUTTI.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Natale

Santa Famiglia

(31 dicembre 2023)

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Gn 15,1-6; 21,1-3;  Sal 104 (105);  Eb 11,8.11-12.17-19;  Lc 2,22-40

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Per quanto misteriosa e singolare sia la famiglia di Nazaret, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il mistero che le riguarda. Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente. Si appartiene all’umanità perché si nasce da una donna, ma si diventa ‘umani’ perché accolti in una famiglia. È il destino della chiamata alla vita, della vocazione umana: si diventa uomini solo dentro una storia riconosciuta, che ci precede e ci accompagna, imparando a riconoscere e vivere quella ‘promessa’ di vita che resta inscritta in noi venendo al mondo sia per i genitori che per i figli. La famiglia è il luogo di svelamento di quella promessa che viene dall’alto, il luogo di riferimento esistenziale che segna la natura dei nostri sogni. Non è il luogo da dove proviene la promessa; è più semplicemente il luogo dove la promessa diventa nostra, diventa mia.

Per questo, contemplando il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, se ne sottolineano gli aspetti di veracità storica. Dio si fa uomo in un determinato popolo, dentro una determinata storia, in una determinata famiglia, rispettando certe regole: la mamma si dovrà purificare, il bambino dovrà essere circonciso, gli si darà un nome, sarà presentato al tempio e vivrà in una famiglia che gli assicurerà la crescita e l’educazione.

Due sono i personaggi che ci affinano lo sguardo: Abramo e Simeone. Proprio di Abramo Gesù dirà: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). E Simeone esultante proclama, prendendo tra le sue braccia il bambino Gesù: “i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Quando o come Abramo avrà potuto vedere il giorno di Gesù? L’ha visto profeticamente alla nascita di Isacco, il figlio della promessa, avuto in vecchiaia, ma soprattutto dopo aver riavuto il suo Isacco, amatissimo, allorché il Signore gli impedisce di sacrificarlo e gli fa trovare l’ariete per l’olocausto sul monte Moria (cfr Gn 22). E l’ha visto nella sua discendenza, in Simeone, che da Abramo deriva e che ha tenuto Gesù bambino nelle sue braccia. L’esultanza di Abramo attraversa tutta la sua discendenza per giungere a compiersi in Simeone e da Simeone risale indietro fino a ricadere sullo stesso Abramo. Tale è lo sguardo che ha ispirato il racconto evangelico di Luca.

Il testo sulla presentazione al tempio di Gesù è ricco di sorprese, di particolari che tradiscono la contemplazione di un mistero, velato ma percepibile. Luca parla della loro purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lv 12,1-8). Non c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. Di Anna si dice che serviva Dio notte e giorno senza mai allontanarsi dal tempio, ma era norma consolidata che una donna non poteva stare nel tempio la notte. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13), ma Luca, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, lui è il Consacrato, il Cristo di Dio; lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.

Simeone, che aspettava la consolazione di Israele, figura di tutta l’umanità in attesa, ha ricevuto la promessa che non avrebbe visto la morte prima di aver veduto il Messia del Signore, cioè colui stesso che era la consolazione di Israele, colui nel quale tutte le attese di consolazione si sarebbero compiute. Simeone agisce da profeta, sul quale riposa lo Spirito Santo. E siccome le promesse di Dio si sarebbero compiute attraverso la passione della croce, Simeone vede la spada di dolore che trafiggerà la mamma di quel bambino, non solo in ragione del suo dolore di mamma, e nemmeno solo in ragione della sofferenza della divisione nel popolo che lei sperimenta in se stessa in tutta la sua tragedia, ma anche e soprattutto in ragione della sua solidarietà con il Figlio Redentore e con l’Amore del Padre che così perdutamente testimonia la sua dilezione per gli uomini.

La visione di Simeone, come quella di Abramo, come del resto quella di ogni credente, è una visione profetica. Tiene il bambino Gesù in braccio e vede avanti, vede in spirito, sente il mistero di quel bambino venuto a compiere tutte le attese: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. È il cantico che la chiesa innalza a compieta, tutti i giorni, come a riprova che l’esito dei nostri giorni mortali non può che risolversi in questa contemplazione di Dio. Eppure, le parole di Simeone hanno un’altra forza. Potremmo tradurle così: Signore, ora che ho potuto trattenere una tua parola, fa che sia sciolto da ogni legame che impedisce a questa parola di agire, che impedisce al mio cuore di goderne la potenza e possa cominciare a vivere in quella pace che compie la mia attesa ed anche la tua! Sì, perché non è soltanto l’uomo ad aspettare la consolazione, anche Dio l’aspetta e la consolazione di Dio è la condivisione della sua gioia e della sua pace con noi. Come dirà Gesù nella sua preghiera al Padre per noi: “perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13).

Il riferimento del ritorno a Nazaret, dove il bambino cresce in sapienza e grazia, allude al mistero di Dio che si compie nell’ordinarietà della vita. È la fede che permette agli occhi del cuore di leggere la vita quotidiana nella sua trasparenza divina. In effetti, la realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l’assunzione di un compito di grazia che fa dell’obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all’assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell’amore. Come è stato per Maria e Giuseppe, per Abramo, per Simeone e per Anna, così sarà per noi tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Maria Santissima Madre di Dio

(1° gennaio 2024)

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Nm 6,22-27;  Sal 66 (67);  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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In un inno alla Madre di Dio così canta Pavel Florenskij: “Avendo portato in seno la Parola eterna e avendoci narrato ciò che non è mai stato detto, rallegrati, o Mite, sii lieta, tu che hai rivelato la Parola. … Oh, vieni in aiuto, tu che hai accolto il Verbo divino, tu che sulla terra hai portato le fitte della speranza, tu che hai trovato vie d’uscita ai dolci singhiozzi e le hai dischiuse. … O Soave, o Soave, dacci pace! Nel cuore con abbondanti getti versa la grazia della comprensione… Rallegrati, tu che sei diventata la nostra gioia, mai stanca di frenare l’orgoglio con la mitezza. Rallegrati, Vergine, Regina dei Cieli! Sposa di Dio, per sempre casta! Rallegrati, rallegrati, prescelta da Dio, da Lui illuminata!”.

Sono versi che traducono in supplica la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri, di cui la Madre di Dio è interceditrice per l’umanità e che la chiesa proclama all’inizio del nuovo anno invocando la pace sul mondo. La benedizione concerne Israele, ma la liturgia, con il salmo 66, la estende a tutta l’umanità. In colui, che del Padre è lo splendore, si concentra la pienezza di benedizione. In Lui, che è nato nella pienezza dei tempi, significa che la benedizione, che lui è, copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Allude non semplicemente al fatto che Colui, che era stato annunciato dai profeti, è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

È proprio la realtà dell’incarnazione a comportare la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per assuefarsi all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi, custodiva e meditando significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore e il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte queste cose del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella benedizione che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi.

L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio nel loro amore per noi. Se però non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Non l’ha posta semplicemente nel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘Figlio’ è la benedizione per loro.

Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo. Come canta s. Efrem: “Benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”. La Madre di Dio è colei che, di quei segreti, è il tabernacolo vivente. Il suo invitarci ad andare al Figlio non è che il frutto della sua compassione per noi perché viviamo anche noi degli stessi segreti. Invocarla come interceditrice di tutte le grazie significa proclamare che lei è depositaria e dispensatrice dei segreti di Dio, che lei ha conosciuto nel Figlio e di cui ci vuole partecipi con lei.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Epifania del Signore

(6 gennaio 2024)

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Is 60,1-6;  Sal 71 (72);  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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La festa di oggi, che in Oriente si festeggia insieme al Natale, viene presentata così nei testi liturgici di rito latino: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

La domanda dei Magi: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?” poteva essere formulata solo da un pagano. Un israelita avrebbe chiesto: “Dov’è colui che è nato, il re di Israele?”. Matteo fa presagire così che il titolo ‘re dei giudei’ ricomparirà nella motivazione della condanna sulla croce. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca, che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). Matteo soltanto alla fine del vangelo aprirà la rivelazione a tutti le genti, ma fin dall’inizio fa presagire che è in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù potrà conquistare le genti e convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere lo splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

Lo esprime molto bene s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando scrive: “[tutte le genti, tutti gli uomini] sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla oramai dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio, che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice poi il salmo 87, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Lo stupore per questa rivelazione è tale che non sopporta altra modalità per essere recepita se non la modalità evangelica, oltre ogni ombra di dominio o imposizione. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. Eppure, come richiama s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi, la debolezza di Dio è più forte degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

La cosa mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi, credenti in Cristo, debitori al mondo? Siamo debitori proprio della sua conoscenza, nella testimonianza del nostro vivere; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, perché solo così potremo scoprire la grandezza del suo amore.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo.

Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Battesimo del Signore

(7 gennaio 2024)

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Is 55,1-11;  Is 12,2-6;  1Gv 5,1-9;  Mc 1,7-11

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Nella tradizione orientale l’Epifania è denominata con il termine al plurale ‘Sante Teofanie del Signore nostro Gesù Cristo’, comprendente evidentemente il Battesimo di Gesù al Giordano. Così canta la liturgia: “Volendo salvare l’uomo che si era sviato, * non sdegnasti di rivestire forma di servo: * conveniva infatti a te, Sovrano e Dio, * assumere per noi ciò che è nostro: * battezzato infatti nella carne, o Redentore, * tu hai ottenuto a noi la remissione. * Perciò a te acclamiamo: * Cristo benefattore, Dio nostro, * gloria a te”. E interpreta per noi l’evento: “Quando con la tua epifania * illuminasti l’universo, * fuggí allora * il mare salmastro dell’incredulità, * e il Giordano che scorreva verso il basso, * si volse, innalzando noi al cielo; * custodiscici dunque, o Cristo Dio, * nelle altezze dei tuoi divini comandamenti, * per l’intercessione della Madre-di-Dio, * e abbi pietà di noi”.

Anche la tradizione latina ha colto il mistero del battesimo di Gesù nell’ottica della sua epifania, della sua manifestazione. Anticamente veniva celebrato insieme all’Epifania. La festa di oggi infatti è stata iscritta nel calendario romano solo nel 1960 ed è stata fissata alla data attuale nel 1969. La chiesa cantava: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.

Gesù viene al Giordano per farsi battezzare. Il testo di Marco è allusivo del passo di Es 2,11, letto nel greco della LXX, con l’annotazione di Mosè che, una volta raggiunta l’età di quarant’anni, uscì dalla casa del faraone per fare visita al suo popolo. Il riferimento è letto in rapporto alla profezia di Mosè in Dt 18,15: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”. Chi ascolta queste parole è Giosuè, in greco Gesù, colui che traghetta il popolo nella terra promessa attraversando il Giordano. La deduzione è presto fatta: l’evangelista Marco vede realizzarsi le profezie e l’attesa messianica in Gesù di Nazaret che viene a farsi battezzare, lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Non solo, ma sembra che l’allusione si riferisca al medesimo punto di passaggio del Giordano dell’antico Israele per entrare nella terra promessa, di fronte a Gerico, dove il Battista amministrava il suo battesimo di penitenza. Per di più, è da notare che il punto più basso della terra libero da acque e da ghiacci è la riva del Mar Morto (a meno 423 m sotto il livello del mare) dove confluisce il fiume Giordano.

Del resto, le allusioni del racconto di Marco sono numerose. Se i profeti (cf. Ml 3,22) motivavano l’invito a emendarsi mirando al passato, richiamando cioè Mosè e la Legge, con il Battista oramai si guarda al futuro, alla venuta di colui che battezzerà in Spirito Santo. L’azione dello Spirito è di far sì che l’uomo viva l’appartenenza a Dio (cf. Ez 36,28; Is 44,5) e denominarlo Santo, oltre che alludere alla natura divina, significa sottolinearne l’azione specifica: introdurre l’uomo nella sfera divina, consacrarlo nella fedeltà a Dio. Con il suo battesimo, a differenza di tutti coloro che ricevono il battesimo di Giovanni, Gesù non confessa la sua complicità con il male, ma manifesta la disposizione di offerta totale di sé: si impegna a compiere la sua missione a favore degli uomini disposto a non risparmiare nemmeno la sua vita. Si tratta di compiere l’esodo definitivo per il nuovo popolo dell’alleanza.

Mi sembra che tutti questi particolari descrivano la salvezza operata da Dio secondo la cifra dell’abbassamento, della debolezza e stoltezza di Dio, che Paolo dirà più forte e più sapiente degli uomini, e che Giovanni chiamerà gloria ed elevazione. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. È in fila con i peccatori per ricevere il battesimo, lui che non ha bisogno del battesimo. Perché viene a farsi battezzare? Tutta la liturgia lo proclama: viene per celebrare il suo sposalizio; nella sua umanità è lavata tutta l’umanità, che ora può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito. Si potrà vedere allorquando, compiuta la sua missione, lo effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli. Vedere lo Spirito Santo significa poter penetrare nei cieli ormai aperti, significa aver sperimentato in tutta la sua potenza quel compiacimento che la voce proclama da parte di Dio su Gesù.

Sotto questo punto di vista, un particolare è estremamente significativo. Marco descrive i cieli che si squarciano e la voce che lo proclama Figlio amato. Il profeta Isaia aveva gridato al Signore: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). Ora la profezia si realizza, con il richiamo al fatto che con la crocifissione il velo del tempio si squarcia da cima a fondo (Mc 15,38). L’annotazione segnala l’irreversibilità del movimento: non c’è più chiusura tra cielo e terra, tra Dio e uomo e lo Spirito scende su Gesù come nel suo luogo desiderato. Come a dire: colui che si consegna per amore degli uomini è il luogo naturale dello Spirito di Dio. Con l’allusione, nell’immagine della colomba, allo Spirito Creatore di Gn 1,2, il quale in Gesù porta a compimento la creazione dell’uomo. Se con l’ultimo profeta, Malachia, la tradizione ha visto ritirarsi lo Spirito nel santuario celeste, ora, con la discesa dello Spirito su Gesù, il santuario celeste è lui. Se, nell’Antico Testamento, il tempio, nella cella del Santo dei santi, era il luogo della Dimora, della Shekhinah, ora la Shekhinah, la Presenza, risiede in quel profeta di Nazaret, che la voce proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”.

In quel ‘Figlio mio, l’amato’ risuona l’eco dell’esperienza di Abramo al quale viene chiesto di sacrificare Isacco, il figlio unico, che amava (cf. Gen 22,2). O ancora, l’eco della parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘amato’ rivela la radicalità della fede di Abramo, che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, a maggior ragione rivela la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità, essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. L’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento” rivela tutta la profondità del mistero. ‘In te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma a lui capo con il suo corpo, che siamo noi. Nella sua umanità, l’Amore del Padre è perfetto perché in lui, inglobando noi, si può contemplare tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

II Domenica

(14 gennaio 2024)

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1Sam 3,3b-10.19;  Sal 39 (40);  1Cor 6,13c-15a.17-20;  Gv 1,35-42

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Nei vangeli la scelta degli apostoli viene narrata in modo diverso. Matteo e Marco sembrano riferirsi a un fulmine a ciel sereno: Gesù chiama e loro seguono. Luca si premura di indicare la circostanza per cui la sequela di Gesù appare più che giustificata. Narra di una pesca miracolosa dopo la quale gli apostoli sono indotti a seguire Gesù. Il racconto di Giovanni sembra il più realistico. Quando Gesù vorrà scegliere gli apostoli si riferirà a persone che già l’hanno conosciuto. I primi discepoli sono tutti discepoli del Battista e hanno incontrato Gesù dopo il suo battesimo al Giordano. Alla fine della vita, l’apostolo Giovanni, scrivendo il suo vangelo, riassume l’esperienza dei discepoli annotando: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14).  Ebbene, ha cominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, su invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea. L’emozione dell’incontro è stata tale che tutto il vangelo non farà che dare storia a quella rivelazione degli inizi perché, chiunque leggerà, si ritrovi nella stessa dinamica vissuta dai primi discepoli.

Gesù, vedendo che lo seguivano, aveva chiesto: “Che cosa cercate?”. E loro rispondono con una domanda: “Rabbì, dove dimori?”. Lo stesso verbo greco, qui tradotto con dimorare, nel discorso di Gesù all’ultima cena è tradotto con rimanere. Il versetto: “Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (Gv 1,39) si collega all’altro: “Rimanete in me … rimanete nel mio amore” (Gv 15,4.9). È come se Gesù, ancora rispondendo alla domanda iniziale dei suoi discepoli, alla fine dicesse: siete venuti da me, avete visto che dimoro nell’amore del Padre per voi e così voi, ora, rimanete in questo stesso amore. È la traiettoria di sviluppo della conoscenza di Gesù. L’esperienza iniziale rimanda a quella finale, tanto che il brano non ha la potenza di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. La carica emotiva di quella scoperta, infatti, è rivelata in tutta la sua forza nell’ultima cena allorquando Gesù, con il paragone della vite e dei tralci, innesta i suoi discepoli nel segreto del Padre, coinvolti nella stessa intimità sua con il Padre. In quel contesto Gesù non chiamerà più servi i suoi discepoli, ma amici, partecipi dei suoi segreti. Sarà l’esito della sequela di Gesù, come dell’ascolto, attento e orante, della Parola. Il seguire Gesù si risolverà nel rimanere in Gesù. Questa è appunto la traiettoria del racconto evangelico nell’esperienza dei discepoli.

La liturgia odierna abbina questa esperienza con il riferimento all’obbedienza del giovane Samuele commentata dal salmo 39 (40), che la tradizione ha sempre letto in rapporto all’obbedienza del Figlio al Padre nel loro amore per noi. Due le cose da sottolineare. La prima. L’obbedienza è frutto di intimità. Proprio quello che il salmo commenta, in riferimento al Messia: “Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo” (Sal 39,8-9). Quando Gesù, invitandoci a rimanere in lui, a dimorare in lui, ci associa alla sua esperienza nel fare la volontà del Padre, vuole indurci a vivere la vita in modo da mostrare quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli. Avere la sua legge nell’intimo significa preferire la comunione con i suoi figli a qualsiasi altra cosa. Ed è quello che la liturgia eucaristica vuole ottenere quando ci fa invocare lo Spirito Santo dopo la consacrazione: formare un cuor solo e un’anima sola. Stessa cosa che viene chiesta con l’antica preghiera dopo la comunione: “Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché saziati dall’unico pane del cielo, nell’unica fede siamo resi un solo corpo”.

La seconda. L’obbedienza tende al sacrificio di sé per rivelare la grandezza dell’amore. Il salmo proclama: “Allora ho detto: «Ecco, io vengo»”, espressione che nella visione profetica di Isaia corrisponde al “manda me”. L’allusione è allo Spirito Santo che riempie il Figlio fatto uomo, che lo muove a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per i suoi figli fino a versare la vita nella morte. La sequela di Gesù è compresa sotto l’azione dello Spirito che, prima converge le attese del cuore sul Figlio di Dio fatto uomo, da seguirlo abbandonando ogni cosa, poi, facendoci rimanere in lui, aprendo gli eventi della vita all’esperienza dell’amore di Dio perché risplenda per tutti e tutti attiri a sé. Contemplare la gloria dell’Unigenito Figlio di Dio, gloria che incomincia a manifestarsi con l’essere affascinati dalla sua umanità, significa vivere la dinamica di manifestazione dell’amore del Padre nel mondo, rimanendo in Gesù.

Per i discepoli, seguire Gesù comporta fin dall’inizio il desiderio di vivere con lui e come lui, così come Gesù stesso dichiarerà poco prima di subire la passione: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Essere dove è lui significa rimanere ad ogni costo nell’amore del Padre per noi perché tutti sono invitati alla stessa mensa. Quando Gesù sceglierà i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione sarà: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Sarà lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini, fino a rimanere in lui, testimoni per tutti di quell’amore.

Così, dall’esperienza del vivere con Gesù scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri, che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni anche tu! È l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che quello stesso fascino e quella stessa gloria possano riverberarsi su di lui.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

III Domenica

(21 gennaio 2024)

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Gio 3,1-5.10;  Sal 24 (25);  1Cor 7,29-31;  Mc 1,14-20

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Gesù inizia la sua predicazione in Galilea, dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista. Più precisamente a Cafarnao, il paese dei primi discepoli, che Gesù aveva già conosciuto in precedenza, dal momento che erano seguaci del Battista e li aveva incontrati poco tempo prima là dove il Battista battezzava. Due cose sono da notare subito nel racconto del vangelo di Marco. Anzitutto il fatto che Gesù riprende la stessa predicazione del Battista con due aggiunte; la seconda, il fatto che Marco, prima di narrare le azioni di salvezza di Gesù, presenta la chiamata dei primi discepoli. Perché?

Gesù si presenta con l’esortazione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15). Alle parole del Battista: ‘il regno di Dio è vicino, convertitevi’, Gesù aggiunge: ‘il tempo è compiuto, credete nel Vangelo’. Come interpretare l’espressione: il tempo è compiuto? Cosa intende Gesù? Certamente vuol dire: ormai i tempi dell’attesa sono compiuti e quello che Dio aveva promesso, ora lo realizza. Ma anche: non c’è più da aspettarsi altro tempo, perché Dio opera ora quello che dall’eternità aveva voluto: manda il suo Figlio a manifestare la grandezza del suo amore. Il tempo compiuto ha, cioè, a che fare con la presenza nel mondo del Figlio di Dio, con la persona di Gesù. Di per sé, non tutto è compiuto. Sulla croce, pochi istanti prima di consegnare il suo spirito, Gesù dirà: “è compiuto” (Gv 19,30). Ma può dire che il tempo è compiuto perché la volontà di portare a compimento, nella sua umanità, la manifestazione della grandezza dell’amore del Padre, presiede e orienta tutto l’agire di Gesù. L’espressione che usa Giovanni nel suo vangelo, che noi traduciamo in italiano con il verbo compiere, come nel passo di Marco che stiamo illustrando, aggiunge però un’altra sfumatura: tutto è stato fatto rispetto allo scopo per cui era da farsi. Aggiunge cioè l’idea di scopo raggiunto. All’idea di tempo, aggiunge l’idea di scopo, svelando tutta la tensione che ha accompagnato il suo tempo.

Per questo, fin dall’inizio, a differenza del Battista, Gesù può presentarsi, nella sua stessa persona, come il regno di Dio che si è approssimato, che si è manifestato presente. Così che la conversione si traduce nella fiducia in lui, che svela tutta la bontà di Dio nei nostri confronti, secondo il vangelo che annuncia e che rappresenta la buona notizia in assoluto per l’uomo. In pratica, non si tratta di cogliere il fatto che l’attesa trova compimento, ma piuttosto il fatto la nostra unica vera possibilità di vita piena nel tempo si realizza con Gesù. È l’eterno che entra nel tempo e lo apre allo splendore dell’eternità. Potremmo spiegare: è tale la gioia dell’amore salvatore di Dio, sperimentato con Gesù, che tutto il resto passa in secondo piano. Tutto in questo nostro mondo e in questa nostra storia ha valore, ma tutto andrà ormai vissuto nell’ottica e nella luminosità di quella verità, percepita come la grazia lungamente attesa e finalmente godibile. La nostra cronaca, quello che facciamo e ci succede, prende senso dalla storia di Dio che ci investe, alimentando le radici della nostra vita. Da questo punto di vista, non c’è più alcun tempo o qualità di tempo (gioia e dolore) che non possa essere raggiunto dalla rivelazione dell’amore di Dio.

Lo ricorda s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi: “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29). L’espressione è ripresa dal gergo marinaresco quando i marinai imbrogliano le vele chiudendole rapidamente per sottrarle all’azione del vento mediante la manovra dei cavi che si chiamano imbrogli. Il nostro tempo è ormai il ‘tempo breve’, quello in cui il regno di Dio, sopraggiunto, vicino, è godibile, toccabile. Proprio la percezione della grazia immeritata di quel regno si tradurrà nella conversione del cuore che riorienterà i suoi aneliti e la sua tensione in vista di un godimento sempre più pieno di quello stesso regno. Si tratta lasciarsi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che in Gesù si compie per noi. Credere al vangelo comporta il ritenere Dio sufficientemente potente per compiere, in Gesù, la sua promessa per noi, capace quindi di soddisfare gli aneliti del nostro cuore.

Significativa l’annotazione evangelica che Gesù inizia la sua predicazione in Galilea, dove ebrei e gentili convivono. Il brano di Giona, che ironizza sull’ira del profeta che, conoscendo la natura misericordiosa di Dio, non vuole sia condivisa dai pagani, illustra splendidamente che l’annuncio di Gesù riguarda tutti, ebrei e gentili. Il profeta, che sa come Dio sia “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, grande nell’amore”, secondo la rivelazione a Mosè sul Sinai, testimonia controvoglia che le premure di Dio sono estese a tutti, pagani compresi. La conversione degli uomini resta fondata sulla natura compassionevole di Dio. E quando il salmo responsoriale fa pregare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, non si riferisce prima di tutto alle vie che l’uomo deve percorrere per piacere a Dio, ma alla via di Dio che mostra compassione, intendendo: “fa’, o Signore, che sia toccato dalla tua compassione, possa ritornare a sentire il tuo amore diventando solidale con tutti i miei fratelli, perché a tutti si rivolge la tua compassione”.

Del resto, è assai caratteristico che nel vangelo la conversione sia espressa dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di seguire, ma più direttamente di andare dietro, di stare dietro, di mettersi dietro a Gesù. In questo, si può ancora ascoltare l’eco delle parole di Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle, cioè solo praticando i miei comandamenti (cfr Es 33,20). Quando Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non volere starmi davanti! (cf. Mc 8,37). Alla fine del vangelo di Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel venire dietro a, in quel camminare dietro a sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca in speranza di vita, come ci indica la preghiera dopo la comunione: “fa che ci rallegriamo sempre del tuo dono, sorgente inesauribile di vita nuova”. Nuova, non nel senso di altra, ma trasformata, pescante in quella novità di vita che ci viene dal Signore Gesù, che ci ha fatto conoscere l’amore di Dio per i suoi figli.

Se si dice che Gesù predica il vangelo di Dio, ciò significa che Dio fa grazia di sé, in Gesù, agli uomini, verità che anche gli apostoli annunceranno al mondo, con la sottolineatura che a loro basterà annunciare Gesù. Così, cantare con il salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, oltre a significare la possibilità di conoscere l’amore salvatore di Dio in Gesù, significa domandare di indurci a seguirlo come gli apostoli in modo da godere della potenza di salvezza del suo vangelo, potenza che non concerne soltanto noi, ma tutto il mondo. Gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione. Sarebbe questo il senso di: vi farò pescatori di uomini. Per gli apostoli come per noi, seguire Gesù dice soprattutto l’intimità di vita con lui che ci ha conquistati, intimità così incontenibile che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. Se Gesù ci ha fatto conoscere le vie di Dio, fino a diventare lui stesso “la via”, è perché la via è il perdono. È venuto ad insegnare agli uomini a conoscere e riconoscere i propri peccati senza disperare, ma aprendosi al cammino di ritorno a Dio che comincia proprio dal sapersi amati e perdonati in anticipo, in modo totalmente immeritato.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(28 gennaio 2024)

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Dt 18,15-20;  Sal 94 (95);  1Cor 7,32-35;  Mc 1,21-28

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L’antica colletta della liturgia di oggi ci propone una cosa assolutamente straordinaria. Dopo averci condotto a riconoscere che Gesù è il Maestro che ci introduce nei segreti di Dio e il Liberatore dal male che ci insidia e opprime, fa pregare così: “O Dio …. rendici forti … perché testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano”. Dà per avvenuta l’esperienza della gioia invincibile che deriva dalla fede nel Signore Gesù. In tutta sincerità: siamo ancora capaci di pregare in questo modo?

In altre parole: siamo ancora capaci di stupirci di fronte alla parola di Gesù? Nel brano odierno Gesù parla e agisce come uno che ha autorità, che ha potere. Potere di che cosa, per che cosa? Chi è davvero Gesù? Come rapportarci a lui? Sono le domande di chi assiste all’episodio della cacciata dei demoni nella sinagoga di Cafarnao. Le Scritture ci aiutano a farci un’idea di quel maestro, affascinante e temuto nello stesso tempo.

La prima lettura riporta la promessa di Mosè al popolo da parte di Dio: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Dt 18,15). Il brano è tratto dal secondo grande discorso di Mosè al popolo prima di entrare nella terra promessa. Il giudaismo posteriore ha scorto in questa solenne promessa di Mosè l’annuncio di un profeta eccezionale, a volte identificato con il Messia, tradizione che riaffiora nei rappresentanti delle supreme autorità giudaiche quando chiedono a Giovanni Battista: “Sei tu il profeta?” (Gv 1,21). La tradizione cristiana l’ha riferita a Gesù. Ma quello che è straordinario è il confronto tra i due personaggi, Mosé e Gesù.

Nella Scrittura Mosè è elogiato come l’uomo che conosceva il Signore faccia a faccia (Dt 34,10), come l’uomo della casa di Dio con il quale Dio parla bocca a bocca (Nm 12,8); di lui si dice che era un uomo assai umile (mite) più di qualunque altro sulla faccia della terra (Nm 12,3). La Scrittura però annota che quel parlare faccia a faccia non comporta la visione della faccia di Dio, perché chi vede Dio muore, ma il fatto di vedere come la forma di Dio, come una persona vista di spalla (cfr. Es 33,20-23; Nm 12,8). Ora, la solenne presentazione di Gesù nel prologo del vangelo di Giovanni riporta chiaramente: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato [narrato, spiegato senza veli, raccontato, fatto conoscere]” (Gv 1,18). E quando Gesù vuole presentarsi ai suoi discepoli dirà: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,27-29). Gesù si qualifica come Mosè: uomo mite e umile. Solo che quella qualifica è direttamente rivelativa della natura stessa di Dio. Per questo viene detto che chi vede Gesù vede il Padre.

Ed ecco perché il suo insegnamento è nuovo, dato con autorità. Perché pesca in questa comunanza di vita con il Padre che ama i suoi figli. Perché in Gesù si rivela la potenza dell’amore misericordioso di Dio che viene a salvare l’uomo. La sua autorità si esprime con il far conoscere il Signore, proprio nel movimento di rivelazione di quello che il salmo 144,3 proclama: “Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore?” [nelle antiche versioni greca e latina: perché tu ti sia fatto a lui conoscere?]. Ed ecco perché chi si affida a questa ‘autorità’ non può che rimanerne saziato, non resterà sulla sua fame. È la dimensione più segreta dell’agire di Gesù, che fino alla fine resterà come velata, fino a che la sua passione, morte e risurrezione non svelerà compiutamente l’amore straordinario che lo muove nel desiderio di attirare tutti nell’intimità con il Padre.

Marco, che vuole presentare Gesù come il nuovo profeta ai suoi lettori, si ricollega alla figura di Mosè. Non per nulla i vangeli iniziano al Giordano, collegandosi idealmente alla fine del libro del Deuteronomio e all’inizio del libro di Giosuè. L’annotazione di Marco: “insegnava come uno che ha autorità” tende a definire la singolarità di Gesù con negli orecchi l’eco della ingiunzione di Mosè: “A lui darete ascolto”. Non solo i fedeli gli daranno ascolto, ma anche i demoni! E se gli danno ascolto anche i demoni, allora il regno di Dio è venuto, è in mezzo a noi. Gli astanti nella sinagoga di Cafarnao ancora non lo sanno, ma i lettori del vangelo già lo sanno. Perché Gesù ha questa autorità? Perché è il Figlio di Dio, come è stato testimoniato al battesimo al Giordano e sul monte della trasfigurazione.

A lui darete ascolto” sembra così che riecheggi nella voce che sigilla la visione della trasfigurazione di Gesù sul Tabor: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Marco sembra alludere proprio a quel testo del Deuteronomio e comunque la sottolineatura nel brano odierno di un Gesù che ‘parla con autorità’ e ‘ha potere sui demoni’ si rivela nella sua ragione specifica e nella sua potenza se la colleghiamo a quella rivelazione.  É tipicamente l’autorità di chi ha tutto il potere e la capacità di svelare il vero volto di Dio, di rivelare i segreti di Dio. E chi conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare? (cf. Lc 10,22). Ha anche potere sui demoni nel senso di sottrarre alla loro influenza gli uomini e di rimetterli nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di guarigione, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i peccati, cosa che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato all’uomo. È la novità che suscita stupore, sbalordimento, esultanza, perché il male è vinto e l’uomo ritorna nella signoria di Dio che vuole gli uomini commensali al suo amore e alla sua gioia. Qui pesca l’invocazione dell’antica colletta di testimoniare la beatitudine per chi ha accolto la testimonianza di questo Profeta.

Così, presentare Gesù come profeta, il cui insegnamento è nuovo, diverso rispetto a quello degli scribi, porta allusione al mistero dell’intimità tra lui e il Padre. Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori a questo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso anche per noi all’intimità da lui goduta. Dire poi che Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni, equivale a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore sempre e comunque.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

V Domenica

(4 febbraio 2024)

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Gb 7,1-4.6-7;  Sal 146 (147);  1Cor 9,16-19.22-23;  Mc 1, 29-39

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Con la colletta la liturgia indica la prospettiva in cui ascoltare la parola di Dio oggi: “O Padre, che con amorevole cura ti accosti all’umanità sofferente …”. Gesù è considerato nella sua premura per i deboli, ammalati o indemoniati, nella volontà di arrivare a tutti. Il racconto prosegue subito dopo con la purificazione del lebbroso, dove è sottolineato che Gesù è mosso a profonda compassione.

Mi soffermo su due particolari del brano evangelico. Primo particolare. Marco annota che Gesù, prima dell’alba, si ritira a pregare tutto solo.  Solo in tre occasioni Marco parla della preghiera di Gesù: qui, dopo la moltiplicazione dei pani quando Gesù teme di essere frainteso e deve sottrarsi alla folla e nel Getsemani prima della passione. Tutti e tre i casi riguardano il segreto della sua persona nella sua intimità con il Padre che lo ha inviato nel mondo ‘per noi e per la nostra salvezza’. Non si può non pensare che lo stesso suo guarire dalle malattie, il suo scacciare i demoni, il suo stesso predicare, riguarda quell’invio e la volontà di salvezza del Padre che ne è all’origine, come del resto la sua obbedienza di Figlio. Secondo particolare: “Andiamocene altrove … per questo infatti sono venuto”. L’inquietudine di arrivare a tutti nasconde anche l’inquietudine di arrivare a Gerusalemme, dove quella volontà di salvezza si compirà in tutto il suo splendore. I suoi ‘miracoli’ annunciano l’Inviato che fa entrare nel regno, nella ritrovata alleanza con il Dio della salvezza. In quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.

Ciò mi induce a credere che la preghiera ha a che fare, anzitutto, con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio, prima ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio. Se non percepissimo l’eco di quel desiderio di Dio, potremmo mai pregare davvero? Il fatto che Gesù si ritiri da solo a pregare esprime proprio l’immensità del desiderio di Dio per l’uomo e quando i discepoli gli annunciano che lo cercano, non torna sui suoi passi ma va altrove, perché tutti deve raggiungere. La cosa si può leggere anche così: Gesù deve percorrere tutta la terra del nostro cuore; se in qualche parte siamo stati guariti, altre parti attendono la guarigione, fino a che tutto in noi possa risplendere del suo amore salvatore.

La potenza della supplica deriva dall’intensità della coscienza del male che ci ferisce insieme al desiderio di guarigione che ci attrae al Signore Gesù, solidali in umanità con tutti. La preghiera si risolve nel desiderio di sperimentare l’amore salvatore di Dio, non però nel senso di essere preservati dagli effetti dell’azione dei demoni (il male non scompare e non scomparirà dalla scena del mondo) ma nel senso di non essere più asserviti ai loro scopi perversi. A tal punto che, proprio quando il male sembrerà prevalere, come con il Signore Gesù in croce, esso sarà definitivamente vinto perché svuotato del suo scopo perverso, cioè quello di dividere gli uomini da Dio e tra di loro.

L’esempio più somigliante a Gesù, nell’ansia di salvezza premurosa, instancabile, accondiscendente, estesa a tutti, è quello di Paolo quando di sé riferisce: “… mi sono fatto servo di tutti … mi sono fatto debole per i deboli … mi sono fatto tutto a tutti … Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io” (1Cor 9,19-22).

La drammaticità del male patito in rapporto alla conoscenza di Dio e del suo amore risalta potentemente con la prima lettura, tratta dal cap. 7 del libro di Giobbe. Giobbe patisce un senso di disperazione per l’incomprensibilità della situazione che l’ha sorpreso. Non ne può più e si lamenta col Signore. Il capitolo termina con una forte rivendicazione di dignità come contro Dio, lasciando parlare tutta l’amarezza del suo cuore: “Perché mi hai preso a bersaglio e sono diventato un peso per me?” (Gb 7,20). La forza della rivendicazione di Giobbe però è sottolineata da antichi manoscritti ebraici e dalla versione greca della LXX: “Perché hai fatto di me un tuo accusatore? Sono un peso per te?” Oppure anche: “In che cosa sono un peso per te?”, riferendosi al fatto che l’uomo è peccatore e si sente come accusato da Dio, accusa che Giobbe ritorce contro Dio: perché non mi sopporti? Lasciami in pace, non pensare più a me!

La chiesa interpreta stranamente questa rivendicazione con il salmo responsoriale 147, che invece è un inno di lode al Signore. Sì, perché il salmo esprime come un cuore si rivolge al Signore: “risana i cuori affranti e fascia le loro ferite” (LXX: ‘guarisce coloro che hanno il cuore spezzato e fascia le loro fratture’); “il Signore sostiene i poveri” (LXX: ‘il Signore solleva i miti’). Dio è scoperto nella sua premura per la fragilità dell’uomo ed è tale atteggiamento che viene attribuito a Gesù nel suo curare i malati e scacciare i demoni che tormentano il cuore dell’uomo. È lo stesso atteggiamento che risalta in Paolo che si era presentato come il ‘collaboratore della gioia’ dei suoi fratelli (2Cor 1,24). La guarigione è in rapporto alla gioia del regno di Dio che viene svelato, che viene fatto toccare, che viene fatto risplendere, pur nelle fragilità e debolezze della vita.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(11 febbraio 2024)

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Lv 13,1-2.45-46;  Sal 31 (32);  1Cor 10,31-11,1;  Mc 1,40-45

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Oggi i testi biblici parlano di lebbra, le preghiere di peccato. Questa è la corrispondenza da cogliere, intuendo la natura del peccato nell’orrore della lebbra. E la corrispondenza risalta a partire dalla compassione di Gesù che ridà un nuovo orizzonte di vita.

Il lebbroso aveva un terribile statuto particolare. Dice il libro del Levitico: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev 13,45-46). La malattia comportava una impurità tanto da obbligare a vivere separato dalla comunità. Oltre il peso sociale dell’esclusione, la lebbra comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio. Davanti al lebbroso che si fa avanti e si presenta a Gesù contravvenendo alla legge, antichi codici riportano la lezione: ‘si sdegnò’, invece che la lezione ‘ne ebbe compassione’. Si sdegna per la condizione in cui viene a trovarsi l’uomo con il peccato, simboleggiato dalla lebbra. L’espressione del lebbroso ‘se vuoi, puoi’ allude proprio al fatto di supplicare Gesù di non rispettare i termini della legge, di andare oltre, per la sua grande compassione.

Così, quando Gesù guarisce il lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la condizione interiore del malato restituendolo ad una vita santa. Proprio qui si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di là della guarigione. La vita santa, quella in rapporto alla santità di Dio goduto nel suo desiderio di comunione con noi, non è più definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo a noi nella sua compassione. Il nesso guarigione/purificazione, da leggere in rapporto alla beatitudine: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, acquista la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo. La purità di cuore che fa vedere Dio significa che fa conoscere Dio nel suo amore per noi.

Nel racconto parallelo di Matteo, Gesù guarisce il lebbroso subito dopo la discesa dal monte delle beatitudini, dove con forza aveva proclamato il suo Regno. Guarire dalla lebbra vuol dire allora ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, in libertà e gratuità, toccati da Dio.

In quel ‘lo voglio’, proferito da Gesù, non è da leggere soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e angosciato, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio, che raggiunge i cuori, fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanzia. È come se dicesse: ‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la sua luce’. Nel suo volere va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era il segno per eccellenza. Tanto che quando il Signore Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, sono le parole del profeta a risuonare, accorate ma tremende: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia …” (Is 53,2-3). Sono le parole confacenti a un lebbroso. Il Signore si è addossato i nostri mali da portarne tutto l’orrore, come un lebbroso. Nel descrivere il tormento a cui sarà sottoposto il Servo di Jahvé (Is 53,4) il profeta ne parla come di un uomo ‘colpito (dalla lebbra)’, tanto che si era anche diffusa la tradizione del Messia lebbroso (è riportata nel Talmud, bSan 98 b). Gesù morirà fuori dalla porta della città come un lebbroso, un maledetto. E sembra che la finale del brano odierno, con Gesù che se ne deve stare fuori da città e villaggi, richiami appunto la stessa condizione del lebbroso, proprio di colui che si è addossato le nostre infermità.

L’antica colletta ci faceva pregare: “Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono”. Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. I peccati nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono, impediscono al Volto di Dio di risplendere. Per questo il peccato è orribile: rende la vita paurosa e temibile. Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio che torna a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.

Quando il lebbroso guarito, nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare ripetutamente e a divulgare il fatto”. In realtà però il testo dice semplicemente: “a divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia.

Per questo la preghiera caratteristica della liturgia di oggi è il salmo 32: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno … Confesserò al Signore le mie iniquità e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. L’audacia del lebbroso che, contravvenendo alla legge, si avvicina a Gesù, corrisponde nel salmo all’audacia del peccatore che decide di manifestare il suo peccato. La compassione di Gesù che ottiene la guarigione/purificazione del lebbroso corrisponde alla misericordia perdonante di Dio che fa la beatitudine del peccatore, il quale ritrova la gioia dell’alleanza con il suo Signore. E i Padri commentano: “Brevissima è la regola: piace a Dio colui cui piace Dio” (Agostino); “Una persona retta accusa se stessa sin dall’inizio del suo discorso” (Evagrio Pontico). Senza dimenticare che, se l’uomo arriva a manifestare il suo peccato, è perché la misericordia di Dio già ha lavorato il suo cuore, che è così pronto a tornare luminoso.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(18 febbraio 2024)

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Gn 9,8-15;  Sal 24(25);  1 Pt 3,18-22;  Mc 1,12-15

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La colletta del mercoledì delle ceneri riconduceva la disciplina penitenziale quaresimale al processo di una vera conversione del cuore: “O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione”. L’antica colletta della prima domenica di quaresima orienta gli sguardi per poter ottenere quella conversione: “O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”. Fin dall’inizio del cammino, tutto è orientato a quel Signore Gesù, che per noi ‘patì, morì, fu sepolto, risuscitò, rendendoci il suo Spirito’.

Il primo sguardo su Gesù, che la liturgia quaresimale propone, ce lo fa contemplare nel deserto, tentato dal diavolo, e però con gli angeli che lo servono. “E subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto” (Mc 1,12). Gesù è appena stato battezzato, e subito viene come trascinato nel deserto. È appena stato indicato come colui nel quale il Padre si compiace e subito è sottoposto alla tentazione del diavolo. Marco non racconta il contenuto delle tentazioni come Luca e Matteo; ne indica semplicemente l’evento. Due sono le cose da notare. Prima, il fatto della tentazione. Gesù è ricolmo di Spirito Santo e subisce la tentazione. Possiamo pensare: in discussione non è messa la sua potenza, ma la modalità con cui si esprimerà. La sua vittoria non avrà nulla di mondano, come il tentatore sembra suggerirgli per realizzare la sua missione, bensì si rivelerà nella debolezza e nella follia della croce. In tal senso, l’annotazione che stava con le bestie selvatiche e che gli angeli lo servivano, allude alla ritrovata armonia della creazione come era uscita dalle mani di Dio. Quell’esito, però, sarà ottenuto con l’umiltà e la mitezza del Figlio di Dio che si consegna nelle mani degli uomini perché ne facciano quello che vogliono e così si rivelerà la grandezza dell’amore del Signore per i suoi figli.

La seconda, la tentazione avviene nel deserto. Il deserto è il luogo della grazia e della tentazione, dell’alleanza e della infedeltà, della manna e del vitello d’oro. “Il Signore parlò a Mosè nel deserto” (Nm 3,14; 9,1); “Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto” (Es 7,16); “Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè” (Es 16,2); “Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16). In particolare, nominare il deserto, significa far riferimento all’alleanza del Sinai. Gesù è presentato come colui che rinnoverà l’alleanza di Dio con il suo popolo, un’alleanza definitiva ed eterna che segue e compie le altre precedenti alleanze, quelle con Adamo, Noè (vedi la prima lettura), Abramo e Mosè.

Ancora, l’accenno alle bestie selvatiche e agli angeli, nel deserto, può essere spiegato con questa bellissima annotazione di Origene: “Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta, mentre l’egiziano se vorrà attraversarlo, verrà sommerso e l’acqua non diventerà per lui come muraglia a destra e a sinistra. Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio”. Sarà proprio quello che ci ottiene la nuova alleanza di Gesù firmata nel suo sangue.

Vittorioso sul diavolo, Gesù inizia la sua ‘evangelizzazione’: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Se leggiamo in parallelo i vangeli sinottici, ci accorgiamo che di queste quattro espressioni che definiscono l’annuncio di Gesù, due sono singolari di Marco: “il tempo è compiuto”, “credete al vangelo”. Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù” (Mc 1,1). Mettere in bocca a Gesù, come prima parola di annuncio, ‘il tempo è compiuto’ e ‘credete al vangelo’, significa orientare il lettore all’insieme del vangelo, che è costituito dalla persona stessa di Gesù. Ma qual è il vangelo annunziato da Gesù se non la rivelazione dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre (ecco perché i suggerimenti del diavolo sono illusori, in quanto non si possono rifare a questa novità, che rivela tutta la gratuità dell’agire di Dio nel suo amore per gli uomini), è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Di questo Gesù sarà il Testimone e il Donatore. Le opere quaresimali: preghiera, digiuno, elemosina, saranno opere penitenziali solo quando e se portano a liberare il cuore da ogni intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato dalla luce di Dio.

Buon cammino quaresimale.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(25 febbraio 2024)

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Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18;  Sal 115 (116);  Rm 8,31b-34;  Mc 9,2-10

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La colletta del martedì della prima settimana di quaresima definiva bene il senso della conversione: “Volgi il tuo sguardo, Padre misericordioso, a questa tua famiglia e fa che superando ogni forma di egoismo risplenda ai tuoi occhi per il desiderio di te”. Ecco, oggi, la liturgia, facendoci contemplare la persona di Gesù sfolgorante di luce, rende ragione del desiderio che abita il nostro cuore e canta con l’antifona di ingresso: “Il mio cuore ripete il tuo invito: ‘Cercate il mio volto!’. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26/27,8). Reso nella versione latina con il trasporto dell’emozione, come dentro un’attesa amorosa: “Tibi dixit cor meum: exquisivit te facies mea; faciem tuam, Domine, requiram”.

A differenza però di quello che ci attenderemmo, la liturgia non insiste sulla visione del volto di Gesù trasfigurato, ma sulla tensione che quella rivelazione comporta. La colletta antica sottolineava: “O Dio, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo Figlio unigenito, ma lo hai dato per noi peccatori …”. Nel brano della Genesi, che riporta il dramma di Abramo per il sacrificio del figlio Isacco, leggiamo: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito …”. Stessa sottolineatura nel grido dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?”.

Non solo, ma la gloria che la liturgia declina non si riferisce alla bellezza del volto di Gesù, ma all’amore del Padre che in lui rifulge e dalla cui sorgente deriva tutto lo splendore che si manifesta nella persona di Gesù. Da una parte, è come se gli occhi umani fossero resi capaci di vedere l’oltre della figura di Gesù, quell’oltre che pesca nella incommensurabile bellezza e profondità divina, a noi nascosta, ma per noi vitale. Dall’altra, nulla si svolge secondo la nostra immaginazione. Se i pittori di icone non si fossero sprofondati nella contemplazione del brano evangelico, non avrebbero mai dipinto la scena con i discepoli atterrati, come scaraventati a terra, spaventati, di fronte a un Gesù splendente di luce che fuoriesce dalle profondità divine e che bagna con la sua luce tutto il mondo. Pietro proclama che per lui era bello stare lì, ma il testo continua dicendo che era come fuori di sé dallo spavento. Compaiono, accanto a Gesù, Elia e Mosè in atto di conversare con lui, ma, come specifica l’evangelista Luca, il tema della conversazione era la morte di Gesù. Perché questi accostamenti drammatici?

Nel vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare il terzo giorno. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”. I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani. I discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze. Quale il senso?

Lo illustra assai bene Leone Magno nella sua omelia LI: “Una tale trasformazione tendeva principalmente a rimuovere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, sicché l’umiliazione della passione, volontariamente accettata, non venisse a turbare la fede di chi aveva contemplato l’eminente dignità, seppur nascosta, del Cristo. Intanto, secondo un disegno altrettanto previdente, era dato fondamento alla speranza della santa Chiesa, nel senso che tutto il corpo di Cristo veniva a conoscere quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e le singole membra potevano scambiarsi la promessa di compartecipazione all’onore che risplendeva nel loro capo”.

Come Dio promette ad Abramo, sarà il dono del Figlio da parte di Dio all’umanità che costituirà la fonte di ogni benedizione, per tutti, per sempre. Non si pensi però che il dono del Figlio all’umanità da parte del Padre sia in funzione semplicemente di un riscatto, di un sacrificio espiatorio. Il valore del dono è in funzione della grandezza dell’amore e, se il Figlio testimonia questo amore fino alla morte, non è per essere vittima sacrificale, ma solo per la fedeltà all’amore che non viene meno nemmeno davanti all’oltraggio e all’ingiustizia. Ed è nella corrente di questo dono che i discepoli di Gesù sono chiamati a lasciarsi trascinare, fruitori in ciò di quel “vedere il regno di Dio venire con potenza” (Mc 9,1), che introduce proprio il racconto della trasfigurazione. L’aggiunta della voce celeste al Tabor, rispetto alla stessa voce al momento del battesimo al Giordano, cioè “Ascoltatelo!”, assume questa valenza. Lui ha ascoltato il Padre nell’obbedienza al suo essere inviato al mondo come testimone dell’amore del Padre per i suoi figli. Noi siamo invitati ad ascoltare il Figlio nel nostro essere inviati al mondo per testimoniare la grandezza del suo amore. Io leggerei: non allontanatevi dal mio amore, entrate e rimanete in questo movimento di amore che solo può salvare il mondo.

 Il cammino quaresimale punta proprio a renderci permeabili all’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita, misura di vita. Cercare di ascoltare Gesù, di seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata espressione di amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca a quell’amore, capace di far risplendere anche il volto degli uomini. Qui si comprende perché il cammino quaresimale sia lotta, lotta perché sia superata ogni forma di egoismo e il cuore viva del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore e dividendoci dai fratelli.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(3 marzo 2024)

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Es 20,1-17;  Sal 18 (19);  1Cor 1,22-25;  Gv 2,13-25

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Il miracolo alle nozze di Cana, con la trasformazione dell’acqua in vino, aveva come sanzionato il passaggio dall’Antica alla Nuova Alleanza che si compie in Gesù. L’attenzione dell’evangelista si sposta subito a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua. È però ancora la ‘Pasqua dei Giudei’; non è ancora la ‘Pasqua’, come Giovanni riporterà al cap. 13 quando introduce i racconti della passione con l’Ultima Cena. Il passaggio dalla ‘Pasqua dei Giudei’ alla ‘Pasqua’ di Gesù è richiamato con l’episodio della purificazione del tempio.

Vedere Gesù che, arrivato al tempio, si mette a costruire una frusta di cordicelle, fa pensare al cosiddetto flagello messianico, secondo antichi racconti ebraici, con cui il messia opera la purificazione dal male prima di stabilire il regno di Dio. Vi sono alluse due tradizioni profetiche, quella di Zaccaria 14,21 (“In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti”) e di Malachia (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”). È evidente che Gesù agisce come profeta e come tale lo lasciano fare. Gli chiedono però conto dell’autorità che così si arroga e Gesù risponde: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Il termine che usa, però, non si riferisce al tempio (ieron) come complesso degli edifici (Gesù scaccia i venditori dal recinto del tempio, luogo al quale anche i pagani potevano accedere) ma al Santo dei santi (naos), alla cappella interna dove era creduta sussistere la Presenza. Riprende l’immagine della tenda nel deserto, luogo della Presenza del Signore.

Gli apostoli si ricordano del salmo 69,10: “mi divora lo zelo per la tua casa”, ma lo interpretano nell’ottica del Messia restauratore della santità del Tempio e della Legge, come del resto fanno gli altri, di cui si dice che credono in Gesù ma di cui Gesù non si fida. Nessuno è ancora pronto a riconoscere la portata vera di ciò che intende Gesù. Solo con la sua Pasqua tutto si potrà vedere in modo aperto e vero. Solo con la sua Pasqua la santità della Legge si compirà in ‘grazia e verità’, secondo la grandezza dell’amore misericordioso del Signore che attira tutti a Sé. Solo allora risulterà fondante di ogni possibile santità la fede in quel Gesù che, come esprime il canto al vangelo riprendendo una sua espressione nel colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”. Quel ‘dare’ non comporta semplicemente il venire del Figlio di Dio tra noi, ma precisamente il suo consentire alla morte perché l’amore del Padre sia conosciuto in tutto il suo splendore.

Proprio come dirà s. Paolo a proposito di Gesù: “noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-25). Poco prima di andare incontro alla sua passione, Gesù dirà ai discepoli: “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla” (Gv 14,30), in realtà dicendo: il principe di questo mondo cercherà in ogni modo di trovare qualcosa che è suo in me ma non troverà nulla perché tutto in me è amore del Padre per voi.

Se guardiamo a quel Figlio, dato a noi nella sua morte e risurrezione, allora comprendiamo la descrizione della parola di Dio secondo il salmo 18/19. Il suo comandamento riporta integrità e armonia nel cuore (è immacolato), con la sua sapienza dall’alto ci fa bambini desiderosi del Padre e del suo Regno (è fedele), infonde gioia al cuore (è retto), ci ridà uno sguardo luminoso per tutto e per tutti (è splendente), in modo da farci vivere i giudizi del Signore nella nostra vita come espressione del suo amore misericordioso, di cui aneliamo l’esperienza.

La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, presenta le Dieci Parole. L’espressione che dà fondamento e senso a tutte le parole è quella iniziale: “Io sono il Signore, tuo Dio”. Senza l’esperienza di quel ‘tuo Dio’ non sarà possibile accogliere e vivere nella sua estensione la serie dei comandamenti. Quel ‘tuo’ si riferisce ad una esperienza tipica: la liberazione dalla condizione servile, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Se applichiamo quella solenne dichiarazione al Signore Gesù, che con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal male e dalla schiavitù del peccato, allora tutte le parole evangeliche suoneranno con ben altra risonanza nel nostro cuore.

Se poi ascoltiamo il brano dell’Esodo nel contesto della storia di Israele veniamo a intuire dove si colloca il passaggio dall’Antica alla Nuova Alleanza. Le dieci parole sono state scritte due volte. La prima, per opera diretta di Dio (“Le parole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole”, Es 32,16). Quelle tavole però sono state poi scagliate da Mosè ai piedi della montagna frantumandole, inorridito al vedere il popolo in adorazione del vitello d’oro. La seconda, scritte da Mosè su tavole intagliate da lui, per comando di Dio, dopo che Mosè ha interceduto per il popolo e ha ottenuto il perdono del Signore (“Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiar pane e senza bere acqua. Egli scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole”, Es 34,28). Sono queste seconde tavole che verranno custodite nella Tenda del Convegno. Quando i profeti annunceranno la nuova alleanza, la presenteranno come un’alleanza non più scritta su tavole di pietra ma sul cuore di carne. In altri termini, la parola di vita (le dieci parole) non verranno ascoltate dall’esterno, ma dall’interno. Ed è quello che realizzerà Gesù, con il dono del suo Spirito, facendoci rimanere dove lui è, cioè nell’amore del Padre per tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(10 marzo 2024)

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2Cr 36,14-16.19-23;  Sal 136 (137);  Ef 2,4-10;  Gv 3,14-21

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La prima lettura, tratta dal secondo libro delle Cronache, si conclude con l’invito ai deportati in Babilonia a salire a Gerusalemme e tornare a godere dell’alleanza che Dio rinnova loro. Questa pagina conclude la terza parte, denominata Scritti, della Bibbia ebraica; è l’ultima pagina della Bibbia secondo la disposizione del canone ebraico. La liturgia di oggi collega il salire a Gerusalemme, così tipico della tensione dell’anima e della storia degli ebrei, con il salire di Gesù alla città santa per la sua Pasqua, per l’esaltazione sulla croce, argomento del suo colloquio con Nicodemo. L’alleanza di Dio con il popolo è rivisitata con l’immagine dell’offerta della salvezza in Gesù da parte del Padre che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”, come proclama il canto al vangelo.

La grandezza di questo amore per il mondo da parte del Padre si manifesta proprio nell’innalzamento di Gesù. Ma quell’innalzamento corrisponde al suo essere crocifisso. Mistero, che assai più tardi, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera definisce così: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). L’espressione ‘ha dato la vita’, letteralmente dovrebbe rendersi: ‘ha posto la sua anima’, che richiama il passo di Is 53,12: “ha spogliato se stesso fino alla morte”. Espressione, che nella traduzione letterale del testo ebraico è ancora più potente: “… poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.

La sfumatura di significato risulta essere ormai questa. Gesù non solo ha dato la vita per noi, ma ha dato la vita a noi, quella vita che nemmeno l’ingiustizia più obbrobriosa, la violenza più ignominiosa, riesce a scalfire, a mortificare, a sopprimere, perché quella vita è amore effuso. Quell’amore deriva dall’alto, da Dio, che così svela il suo segreto per il mondo. Gesù ne dà testimonianza con due allusioni: la prima, al sacrificio di Abramo del figlio Isacco, l’unico, l’amato, (Gen 22,2) e la seconda, al serpente di bronzo secondo la narrazione di Numeri 21,4-9. Come il serpente di bronzo innalzato nel deserto recava guarigione (letteralmente: vita) a coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù sta istruendo Nicodemo; lo sta introducendo al mistero di Dio, al mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo che in Gesù riceve il suo sigillo definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. La forza del ragionamento di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo l’accesso a quella rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con Lui che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?

Spesso gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. È la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando dal basso viene vilipeso e calpestato. È la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento della croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.

Operare la verità (“chi fa la verità viene verso la luce”) è un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato è: i comandamenti non sono causa di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie, la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità pur di non uscire dall’amore. E se avrà lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è il testimone per eccellenza, potrà rimanere nel Suo amore nei tormenti dell’esistenza e far fiorire l’umanità.

Se Gesù si premura di ricordare a Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, vuol dire che si tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, che noi non avremmo mai immaginato si dovesse passare per quella strada, perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l’intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l’intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell’uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata con la capacità di un nuovo modo di esistenza: invece di un’esistenza autocentrata, si accede a un’esistenza comunionale, relazionale, donata. Gesù è l’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, come suggerisce il testo dell’Apocalisse 13,8 letto secondo la volgata (“in libro vitae Agni, qui occisus est ab origine mundi”). Il mistero adombrato dalla Parola di Dio è che la sofferenza non è legata al peccato, ma al dono dell’essere da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi alla natura della stessa vita trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a comunicarci perché ne diventiamo partecipi e possiamo così non subire più la morte.

L’aspetto straordinario di questa rivelazione è svelato da Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Ef 2,10). Significa che, quando facciamo il bene, accogliamo l’amore eterno di Dio nello spazio del nostro tempo perché la sua presenza risplenda nella nostra umanità. E se potessimo vedere che tutto nella nostra vita è finalizzato a questo, beati i nostri occhi e beato il cuore capace dei segreti di Dio!

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(17 marzo 2024)

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Ger 31,31-34;  Sal 50 (51);  Eb 5,7-9;  Gv 12,20-33

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L’antica colletta faceva pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. È la prospettiva nella quale ascoltare la proclamazione della parola in questa liturgia di quaresima.

Gli eventi immediatamente antecedenti alla richiesta dei pagani (probabili proseliti, cioè pagani che hanno aderito alla religione ebraica oppure pagani simpatizzanti) ne forniscono la portata di rivelazione: Gesù era stato accolto a Betania con la tenerissima e misteriosa unzione di Maria, era appena entrato trionfante in Gerusalemme incontrando coloro che avevano saputo della risurrezione di Lazzaro e si era in prossimità della Pasqua.

I gentili chiedono: “vogliamo vedere Gesù”. Vedere Gesù vuol dire vedere il Dio che salva. Il nome Gesù (in aramaico Yeshu’a, tardiva trascrizione aramaica del nome Yehoshu’a, Giosuè, che significa ‘Dio salva’) allude al mistero della salvezza secondo le promesse di Dio al suo popolo, tenendo conto della modalità singolare con cui Dio si mostra salvatore. Come riporta Gesù di sé nel suo colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, non intendendo solo che è venuto nel mondo, ma che muore in croce, calpestato e vilipeso, pur di mostrare la grandezza dell’amore del Padre per noi. Proprio come dice l’autore della lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

E in effetti la risposta di Gesù, che parla di glorificazione, di innalzamento, allude alla sua morte in croce. Il vangelo di Giovanni non parla dell’angoscia di Gesù al Getsemani. La richiama qui, la lascia intravedere qui, eco delle parole dei salmi 6,3 e 41,6-7: “trema tutta l’anima mia”, “in me si rattrista l’anima mia”. L’intensità dell’angoscia di Gesù, condivisa dal Padre, raccoglie in un punto supremo la sua umanità che si abbandona al Padre nel suo amore per gli uomini. È questo amore condiviso con il Padre e con gli uomini che permetterà a Gesù di attirare tutti alla salvezza e scacciare il principe di questo mondo, vale a dire dare la vita nella morte, ricevere la vita nella morte. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio Gesù, il volto visibile del Padre.

Gesù si paragona al chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto. Il paragone era usato sia nella tradizione rabbinica che poi in san Paolo come immagine della risurrezione. L’immagine non verte sulla abbondanza del frutto, ma sulla qualità del frutto, che designa la potenza di una vita non più mortificabile, non più soggetta alla morte, quella vita che il Signore ci rende perché ci fa partecipi della sua, in intimità con il Padre. E la vita che non è più soggetta alla morte è lo splendore di un amore che nessuna ingiustizia e violenza piega o mortifica. Per questo Gesù continua nella sua spiegazione con la massima dell’amare o dell’odiare la propria vita: “Chi ama la propria vita, la perde [la distrugge] e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Odiare, contrapposto ad amare, ha il significato di non considerare come un valore supremo. Ne deriva il significato: chi non teme nemmeno la propria morte è sovranamente libero, per amare totalmente. Chi non teme la propria morte disarma il potere perverso del male e lo caccia fuori dal mondo, cioè lo esclude dalla vita. Non temere la morte comporta non temere l’offesa, l’ingiustizia, l’odio o l’inimicizia degli uomini. Per chi non teme la morte non esistono avversari o nemici.

Il destino dei suoi discepoli sarà identico al suo, come annuncia il canto al vangelo: “Se uno mi vuole servire, mi segua, dice il Signore, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. Ma non vuol dire: io soffro, anche voi soffrirete; io sono ripudiato dal mondo, anche voi lo sarete; io muoio sulla croce, anche voi avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono nell’amore del Padre, anche voi lo sarete; io sono il testimone del suo amore in questo mondo, anche voi lo sarete; io risplendo della gloria dell’amore del Padre, anche voi risplenderete dello stesso amore; per questo amore, per la rivelazione di questo amore, perché questo amore porti vita a tutti sono venuto al mondo e così sarà di voi, nel mondo, se state con me.

Come Gesù è nell’amore del Padre per i suoi figli, così anche i discepoli saranno nell’amore di Gesù per tutti, godendo di quella vita in Dio che è splendore di amore per noi. ‘Servire’, ‘seguire’, hanno il valore di essere messi a parte del segreto di Dio nel suo amore per il mondo, che in Gesù, proprio quando è innalzato sulla croce, risplende luminoso. Il suo essere levato in alto non allude semplicemente al morire, ma al trasformarsi in potenza vivificante e salvatrice dalla morte, che a noi si comunica per vivere della sua stessa vita. E dicendo ‘quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’, allude evidentemente alla sua morte in croce, ma anche al destino dei suoi discepoli perché anche per loro varrà la stessa dinamica di salvezza: quando saranno elevati con il loro Signore crocifisso, quando cioè subiranno il martirio per Lui, sotto qualsiasi forma avvenga, allora risplenderà la loro vita, allora gli uomini capiranno cosa i loro cuori portavano dentro e si sentiranno attratti dal loro stesso amore.

Come accedere alla visione di Gesù Salvatore? La liturgia ce lo rivela con il brano del profeta Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: ‘Conoscete il Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”: ecco i due passaggi nevralgici. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

(24 marzo 2024)

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Ingresso in Gerusalemme      Mc 11,1-10

Is 50,4-7;  Sal 21(22);  Fil 2,6-11;  Mc 14,1-15,47

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Il canto al vangelo costituisce la nota dominante della celebrazione di oggi: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. È la ripresa del passo di Fil 2,8, che però sottolinea l’umiliazione che ciò ha comportato: “umiliò se stesso facendosi obbediente”. Nello stesso brano l’obbedienza di Gesù prima è presentata con ‘svuotò se stesso’, sottolineando il suo divenire uomo da Dio che era, poi con ‘umiliò se stesso’, sottolineando il suo farsi schiavo da uomo che era. Nell’ottica di una obbedienza all’amore del Padre per noi, perché risplenda solo l’amore di Dio per noi nella sua umanità.

Nella prima parte della celebrazione, accompagniamo festosamente l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. La frase di lode e stupore che risuona sulla bocca di tutti davanti all’entrata di Gesù in Gerusalemme, riportata da tutti i vangeli, suona: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Corrisponde alla percezione che Gesù ha di se stesso: lui è l’Inviato, colui che è mandato a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi. Di lì a poco, anche se nessuno si accorge, nemmeno i suoi discepoli, di quanto in realtà sta avvenendo, si svelerà finalmente il segreto di Gesù. Ma i vari vangeli aggiungono anche che l’Inviato è il re di Israele, il Messia, e tutta la scena dell’ingresso in Gerusalemme ha i caratteri di una regalità messianica riconosciuta, anche se per nulla compresa. In particolare, Luca aggiunge un’annotazione particolarissima: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”. All’inizio del vangelo di Luca gli angeli, alla nascita del Messia, avevano cantato: “pace in terra”; ora, alla imminente morte del Messia, i discepoli cantano: “pace in cielo”. Dio, con la morte del Messia, finisce la sua creazione: tutto è compiuto perché l’amore di Dio splenda su tutto e in ogni dove. Si realizza la profezia di Michea 5,4: “Egli stesso sarà la pace”. L’invito a imitare le folle di Gerusalemme con i rami di ulivo in mano, mentre la processione entra nella chiesa per celebrare la Passione del Signore, ha il valore di accogliere nel nostro cuore il venire di Gesù, di accoglierlo nel suo mistero di Inviato e di Testimone dell’amore del Padre per noi.

La liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa e partecipante, con l’uomo dei dolori, con l’uomo umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di introdurci nel mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino alla morte e a una morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della Settimana Santa.

Viene letto il terzo carme del Servo di Jahvé (Is 50,4-7), figura di Gesù flagellato e deriso, che l’assemblea riprende con il salmo 21 (22), ripetendo come versetto responsoriale il primo versetto: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Parole, che riascolteremo nella solenne proclamazione del vangelo della Passione. Se un non cristiano leggesse questo salmo, dopo aver letto la descrizione della passione di Gesù nei vangeli, non potrebbe non restare profondamente meravigliato della precisione con cui il salmo elenca le varie angherie che Gesù subisce: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: ‘Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!’ …un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte …”.

Ascoltando la narrazione della passione di Gesù, nel racconto di Marco, mi colpisce il silenzio di Gesù. Nel processo Gesù tace davanti ai suoi accusatori. Risponde solo alla domanda del sommo sacerdote confermando che lui è il Messia e il Figlio di Dio, secondo la profezia di Dan 7,13, passo che i sacerdoti conoscevano bene e da cui deducono le loro ragioni per condannare colui che ritengono un millantatore. Davanti a Pilato non risponde alle accuse ma solo alla domanda: “Tu sei il re dei Giudei?” con quel “Tu lo dici”, che però Pilato non prenderà come motivo di accusa nei suoi confronti. Gesù si attiene alla figura del Servo sofferente che non apre la bocca (Is 53,7). Non si tratta di credere a una sua parola, ma a Lui, per come si è presentato fino ad allora e per come morirà sulla croce, testimone dell’amore del Padre per noi, oltre ogni violenza e ingiustizia.

Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). Con il racconto della passione, che si conclude con la dichiarazione del centurione sotto la croce vedendo morire Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39), termina l’itinerario del lettore che è stato accompagnato lungo tutta la narrazione perché riconosca in quel Gesù, profeta di Galilea, il Messia e il Figlio di Dio.

Se il racconto della passione si apre con la scena della donna che versa il profumo sul capo di Gesù, significa che il mistero di Gesù può essere colto solo nell’allusione al significato della sua morte redentrice. Se nessuno si era accorto di ciò che si andava preparando, una donna sola, nella tenerezza del suo amore, intuisce il segreto di Gesù. Versargli sul capo un unguento preziosissimo (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un salariato) risponde al desiderio di accompagnare Gesù nell’offerta della sua vita. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è ancora pronto ad accettare, ma rivela anche tutto l’amore che quella morte significa ed esprime. I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga e impregna tutto perché l’amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama profumo di Cristo, allude proprio a quella tenerezza che ha conquistato il cuore – così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati! Sarebbe il frutto più autentico di un commosso ascolto della passione di Gesù.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Risurrezione

(31 marzo 2024)

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Messa del giorno

At 10, 34a.37-43;  Sal 117 (118);  Col 3,1-4;  Gv 20, 1-9

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La Settimana Santa era cominciata con la colletta del lunedì: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio”. Lungo la settimana più volte era risuonata la profezia di Isaia: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12). Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più potenti: “… poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.

Per cantare la risurrezione di Gesù s. Efrem mette in bocca alla Morte personificata queste parole: “Correrò e chiuderò le porte dello Sheol davanti a questo Morto la cui morte mi ha rapinato. Chi sentirà ciò si meraviglierà della mia umiliazione, perché son stata sconfitta da un Morto venuto da fuori: tutti i morti vogliono andar fuori, e lui insiste per entrare. Un farmaco di vita è entrato nello Sheol e ha riportato i suoi morti indietro alla vita”. E come riassumendo la storia dell’uomo inseguito dal suo Dio cantava: “La tua legge è stata la mia nave / che mi ha rivelato il paradiso, / la tua croce è stata per me la chiave / che mi ha aperto questo paradiso”.

La gioia della risurrezione di Gesù prorompe in un cuore che può essere descritto così: beato colui che nell’Uomo sofferente ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell’amore del Padre; beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini; beato colui che ha l’intelligenza allenata per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell’amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna, di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito.

Nell’annuncio al mondo della risurrezione di Gesù la Chiesa proclama che vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell’essere e dell’agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr. Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il bisogno dell’uomo che è strutturato su quella debolezza perché la sua umanità fiorisca. È appunto qui che il mistero si apre al cuore dell’uomo: per realizzare la sua umanità, l’uomo non ha che da guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale ne è la conferma.

Come lo sottolinea un canto bizantino: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. A cui fanno eco le parole di Giovanni Crisostomo: “Tutti godete il banchetto della fede. Tutti godete la ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la propria miseria, perché è apparso il nostro comune regno. Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati”.

Nel racconto di Giovanni, la domenica di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è proprio Maria Maddalena, quella che per prima sente la ‘dolcissima voce amica’ chiamarla per nome. Come dice una preghiera: “Oh, la tua divina, la tua dolcissima voce amica! Con verità hai promesso, Cristo, che saresti rimasto con noi fino alla fine dei secoli. E noi fedeli esultiamo, possedendo quest’ancora di speranza”. Essa viveva un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. E Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro: “Vide e credette”. Il brano evangelico introduce al mistero della risurrezione con un crescendo rispetto alla ‘potenza’ del vedere espressa in greco da tre verbi. Prima semplicemente si guarda (Maria Maddalena vede la pietra tolta dal sepolcro e Giovanni, arrivato per primo al sepolcro, guarda da fuori nel sepolcro e vede i teli), poi si osserva attentamente, si contempla (Pietro, entrato nel sepolcro, guarda attentamente i teli e il sudario posto in un luogo a parte), infine si conosce, si intuisce intimamente la verità delle cose (Giovanni, entrato nel sepolcro, vede e crede). È l’ascesa suggerita dall’evangelista per fare esperienza del mistero della risurrezione.

La letizia pasquale che, a poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha a che fare con i tre doni di Gesù che il vangelo di Giovanni riporta: la gioia, la pace e la libertà. Sono i doni tipicamente pasquali che, uniti all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita, quella non più soggetta alla morte. Perché anche noi possiamo dire al termine della nostra vita: “l’abbiamo amato sino alla fine’, ‘abbiamo amato i nostri fratelli sino alla fine’, come meglio abbiamo potuto”. L’augurio pasquale più bello!

CRISTO È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO!

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Pasqua

II Domenica di Pasqua

(7 aprile 2024)

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At 4,32-35;  Sal 117 (118);  1Gv 5,1-6;  Gv 20,19-31

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Per tutta l’ottava di Pasqua è risuonato il ritornello: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo”. Il vangelo di Giovanni insiste a chiamare la domenica di risurrezione Giorno Uno, mentre la liturgia canta con il salmo 117: “Eterna è la sua misericordia”. Tutte espressioni che alludono a una nuova percezione del tempo. Con la risurrezione di Gesù il tempo eterno di Dio prorompe nel tempo della nostra storia. Il Giorno Uno sovrasta e ingloba tutti i giorni dell’uomo; tutti i nostri giorni procedono e fioriscono in quell’unico giorno eterno che non verrà mai meno. Dire: ‘eterna è la sua misericordia’, non vuol significare soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia o che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Si torna a veder splendere la luce del primo giorno della creazione, la luce della santità di Dio come splendore di amore, in cui tutto ha preso esistenza e che garantisce il compimento di tutto.

La colletta della messa di oggi prega: “Dio di eterna misericordia, che ogni anno nella festa di Pasqua ravvivi la fede del tuo popolo santo, accresci in noi la grazia che ci hai donato”. Qual è questa grazia? È la grazia della rivelazione dell’immenso amore del Signore per noi che a tal punto ci ha amati da morire per noi e renderci partecipi della sua stessa vita, la vita di Colui che è proclamato ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non ha più potere. Non si tratta di una semplice affermazione dogmatica che riguarda la natura della persona di Gesù, ma dello svelamento di una possibilità di ‘vita divina’ concessa all’uomo che, guardando a ‘Colui che è stato trafitto’, lo riconosce suo Signore e suo Dio, come Tommaso, in totale confidenza.

Gesù, apparendo ai discepoli la sera di Pasqua, dona la sua pace. È la pace che deriva dalla sua passione (mostra le cicatrici nel suo corpo), si fa dinamica di missione nel mondo per i discepoli (Gesù li invia come lui è stato inviato), diventa energia di comunione nello Spirito (Gesù effonde lo Spirito sui discepoli). L’ultima parola della giornata di Pasqua, però, è: “io non credo”. Tommaso non era presente e, quando gli viene riferito della apparizione di Gesù, lui si rifiuta di credere. Se Tommaso protesta la sua incredulità non è per mancanza di fede, ma perché si è trovato così coinvolto nella vicenda di Gesù, al quale aveva aderito con tutto il cuore che non vuole illudersi (le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù). Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Così, c’è bisogno del Giorno Ottavo, quando Gesù, ricomparendo, gli si rivolge direttamente: metti il dito, tocca, metti la mano nelle cicatrici! È così intensa l’emozione che non ha bisogno di ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero ‘mio Signore e mio Dio’, la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni. In quel mio c’è tutto l’anelito del suo cuore, la sua esperienza di Lui; in quel Signore e Dio, c’è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore. È l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio. Del resto, è la conclusione a cui il narratore evangelico guida noi lettori.

È a partire da quella confessione di fede che a Tommaso scende in cuore quella pace che Gesù aveva donato. Nella vicenda terrena di Gesù, la pace sigilla l’inizio e la fine, rivelazione e dono del Dio misericordioso verso gli uomini. A Betlemme gli angeli annunciano la pace; nel discorso all’ultima cena, Gesù promette la sua pace; dopo la risurrezione Gesù dona la sua pace e con la nostra professione di fede quella pace scende nel cuore e ne occupa le sorgenti. È la stessa pace che abita i cuori quando si accostano all’Eucaristia, dove la chiesa fa esperienza della presenza del Risorto. Quella pace è a riprova di ogni tipo di male perché si colloca così profondamente alle radici dei cuori che non può essere rapita da niente e da nessuno.

La vita che scaturisce da quella pace non è più soggetta alla morte, non tollera più divisioni e ferite alla fraternità. Luca l’aveva additata nel descrivere la comunità come un cuor solo e un’anima sola nella comunanza dei beni, non come un idillio, ma come la tensione da promuovere. In un doppio senso: realizza la remissione dei debiti ogni sette anni, come descritta da Dt 15,4: “Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” e, nello stesso tempo, segnala l’esperienza di una fraternità condivisa, forse come eco di un proverbio greco sull’amicizia: “fra loro tutto era comune”. Ci vedo la medesima allusione nella lettera di Giovanni quando si dice che i comandamenti non sono gravosi, perché la fede in Gesù risorto ha vinto il mondo, vale a dire l’influenza dominatrice del diavolo nel mondo. L’unica cosa che il diavolo non conosce è proprio l’amore. Vinto il diavolo, l’amore fiorisce e, siccome i comandamenti non tendono che a comunicarci la vita divina, che è amore, allora si possono amare i fratelli perché si osservano i comandamenti di Dio. La tensione di lotta che caratterizza comunque la nostra storia è data dal continuo passaggio dal Giorno Uno al Giorno Ottavo, che si richiamano a vicenda: il Giorno Uno come sorgente di tutto, il Giorno Ottavo come frutto della rivelazione al cuore dell’amore di Dio.

Se, da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore, che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore’.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Pasqua

III Domenica di Pasqua

(14 aprile 2024)

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At 3,13-15.17-19;  Sal 4;  1Gv 2,1-5a;  Lc 24,35-48

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Il canto al vangelo (“Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; arde il nostro cuore mentreci parli”) riprende l’espressione di meraviglia e commozione dei due discepoli di Emmaus dopo il riconoscimento del loro Maestro. Si ripetono a vicenda: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [letteralmente: ci apriva] le Scritture?” (Lc 24,32). Potremmo rendere, più alla lettera: ‘non bruciava il nostro cuore (oppure: non sentivamo ardere il nostro cuore, non avevamo il cuore incendiato) mentre ci parlava lungo il cammino, quando apriva le Scritture a noi?’. La dinamica segreta svelata risulta essere questa: se il cuore non arde non si apre. È la percezione di calore del cuore che dà intelligenza di ciò che viene detto. È costante l’annotazione della tradizione: senza fuoco le Scritture restano chiuse. Ascoltare senza sentir ardere il cuore non farà aprire nessuna porta. Luca usa lo stesso verbo ‘aprire’ per l’azione di Gesù tanto nei confronti delle Scritture, come i due discepoli ricordano commossi, quanto nei confronti della mente dei discepoli, come la fine del brano riporta: “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45). L’annotazione è singolare perché è sempre Gesù, accolto, riconosciuto come il Vivente crocifisso, che apre il cuore e le Scritture. Ciò significa che il segreto desiderio e del cuore e delle Scritture è sempre lui, il Testimone dell’amore del Padre per i suoi figli.

Vuol dire che sia il cuore che le Scritture non aspirano ad altro se non all’esperienza dell’amore di Dio. La testimonianza, a cui i discepoli sono invitati, non consiste semplicemente nel riferire a tutti che Gesù, il crocifisso, è risorto – notizia, del resto, assolutamente sconvolgente – ma nel fatto che, proprio perché Gesù è risorto, allora l’uomo può essere sentirsi perdonato e ritrovare la via della comunione con Dio nell’esperienza del suo amore, solidale con tutti. Così dice Gesù alla fine: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,46-47). Per questo la prova, se così si può chiamare, della risurrezione di Gesù, riguarda non l’emozione sconvolgente ed entusiasmante del vedere il Signore risorto (tra l’altro, i vangeli annotano sino alla fine che i discepoli stentano a credere, hanno paura, nonostante le ripetute apparizioni del risorto, a testimoniare che la risurrezione non fa parte dell’orizzonte umano e che si colloca sul confine tra questo mondo e il mondo futuro), ma il fatto di collegare il risorto al crocifisso. La testimonianza suprema è il fatto che Gesù ha patito ed è morto mostrando la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini e la risurrezione è la conferma che questo amore è vita eterna, vita divina comunicata a noi perché anche noi, in Gesù, possiamo vivere del suo stesso amore.

Non per nulla Luca, quando descrive le caratteristiche dei discepoli di Gesù, le riconduce a tre: i discepoli sono ‘poveri’ (lasciano i beni), sono perdonanti (lasciano se stessi), sono lieti nella persecuzione (lasciano il mondo) perché il Risorto vive in loro.

Tanto che, diversamente da come ci saremmo aspettati, pure noi lettori moderni, sembra che il carico della prova della risurrezione non stia nel corpo ormai glorioso di Gesù, ma nel raccordo dell’evento salvifico di Gesù alle Scritture. Noi professiamo nel Credo: ‘il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture’, come del resto sempre i vangeli annotano. Quel ‘secondo le Scritture’ risulta essenziale per l’esperienza cristiana, perché, se Gesù è il Salvatore, lo è secondo il disegno di Dio che è iniziato fin dalla creazione del mondo, è proseguito nell’elezione del popolo di Israele, nell’invio dei profeti fino all’invio del Figlio, la cui azione si estende a tutti i popoli di tutti i tempi.

Pietro, nella sua predicazione, come proclama la prima lettura, collega la risurrezione al Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio dei nostri padri “che ha glorificato il suo servo Gesù…” (At 3,13). Servo, in greco, sta per figlio e richiama l’invio del Figlio che si fa servo obbediente fino alla morte di croce per mostrare in tutto il suo splendore l’amore del Padre per noi.

La vicenda di Gesù si colloca all’interno dell’alleanza di Dio con il suo popolo, all’interno dell’alleanza di Dio con gli uomini fin dalla creazione. È dalla testimonianza del Suo amore che scaturisce per noi la vita abbondante, quella vita eterna non più mortificabile nella tensione dell’amore che la origina e la muove. Ecco perché il senso proclamato della risurrezione è nella conversione, vale a dire la possibilità di vivere nella comunione col proprio Dio nel suo amore per tutti i suoi figli. Di questo i discepoli di Gesù sono testimoni per il mondo.

Come richiama la colletta: “O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri i nostri cuori all’intelligenza delle Scritture, perché diventiamo i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”, la conversione, nelle esortazioni degli apostoli, è sembra abbinata al perdono dei peccati. Pietro, invitando a convertirsi, in realtà richiama l’invito che percorre tutte le Scritture: ritornate a Me, ritornate a godere la Mia promessa di vita piena, la Mia alleanza con voi! L’espressione italiana ‘cambiare vita’ significa in realtà: ritornare a Dio. Quel ritorno allude al fatto di fissare lo sguardo su ciò che Dio ha compiuto, vale a dire al Cristo che doveva soffrire e il terzo giorno risorgere dai morti. Come misteriosamente aveva preannunciato il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto.

Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità. Mi piace ricordare un antico detto talmudico: prima di creare il mondo, Dio ha creato il ritorno a Lui, la teshuvah. Il senso del mondo sta nell’amore preveniente di Dio, sempre, comunque. Ad indicare che la risurrezione di Gesù proprio questo fa risaltare: l’amore di Dio splende su tutto, in tutto e noi, guidati dalle Scritture, in Gesù possiamo vederlo all’opera e con lui viverlo.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Pasqua

IV Domenica di Pasqua

(21 aprile 2024)

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At 4,8-12;  Sal 117 (118);  1Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

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Gesù si definisce il buon pastore (in greco si usa l’aggettivo bello a indicare bellezza e verità del suo essere buono). Non parla ai discepoli, ma alla gente, ai farisei. Questi sono infastiditi per il miracolo del cieco nato perché se, da una parte, non possono negare il miracolo, dall’altra, non vogliono riconoscere l’identità di colui che l’ha operato. Gesù riprende il discorso con loro con l’immagine, prima della porta e poi del pastore, ma senza riuscire a scalfire la loro resistenza, tanto che alla fine decidono di catturarlo, pur senza riuscirci. La cosa strana sarà che, più tardi, nel tempio, espliciteranno la motivazione del loro rifiuto: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33). Questo è appunto ciò che non comprendono, cioè che Gesù manifesta l’amore del Padre nell’unico modo che lo caratterizza, quello della spogliazione di sé e proprio in questo si fa Dio.

L’aveva già annunciato con l’immagine della porta. Lui è la porta che introduce alla comunione della gioia dell’amore del Padre: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). È l’abbondanza messianica, quel ‘di più’ che solo il Messia poteva ottenerci e tale che sopravanza ogni tipo di merito, perché ciò che riempie il cuore dell’uomo è solo questa sovrabbondanza che proviene da lui e non la giustizia che proviene dalle nostre opere. Quella porta è detta ‘stretta’, perché l’uomo con fatica abbandona la sua pretesa di giustizia per far posto a tale sovrabbondanza. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino, il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta.

Con l’immagine del buon pastore Gesù allude al come ci ha gratificato della vita in abbondanza, dandoci cioè la sua. Il testo evangelico, a dire la verità, è più preciso. Non dice semplicemente che dà la vita per noi, ma che la mette a disposizione, la cede, la depone. L’espressione risale al passo di Mc 10,43-45: “Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. L’espressione di Marco è coniata sul passo messianico di Is 53,12: “ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”. La frase può essere resa in modo più appropriato: ‘ha consegnato se stesso alla morte’, ‘ha versato la sua vita nella morte’.

Ecco il punto allora. Gesù, uomo, si fa Dio? Ebbene, può essere riconosciuto tale proprio perché ha spogliato se stesso e sta tutto nella manifestazione dello splendore dell’amore del Padre per noi. L’allusione è che Gesù, che pone la sua vita per noi, va colto nel mistero del Padre che gli ha comandato questo, nel mistero dell’amore eterno di Dio per i suoi figli. Il passo significativo di riferimento è l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (Fil 2,6-9). Non è vano ricordare la profezia di Zac 11,12-13, là dove il Signore è rifiutato dai suoi servi e la cui persona, come pastore del gregge, è valutata trenta sicli d’argento, lo stesso prezzo del tradimento di Giuda. Sarà appunto attraverso la sua passione e morte che, come dice Pietro, nella sua lettera, noi siamo ricondotti al pastore e custode delle nostre anime (1Pt 2,21-25). Possiamo riconoscerlo Dio, e perciò veritiero nelle sue parole, perché ha accettato di rinunciare ad ogni rivendicazione di gloria che non si riconduca allo splendore dell’amore del Padre per noi.

E quando Pietro dichiara: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12), vuole alludere alla dinamica di amore del Padre che ha accolto e raccolto tutti i suoi figli nell’unico Figlio, testimone del suo amore per noi. È una dichiarazione inclusiva, non esclusiva. Non vuol semplicemente dire che non ci si salva se non per mezzo della conoscenza diretta di Gesù, ma che ogni ricerca di salvezza, comunque sia vissuta dagli uomini, è mediata da Gesù, a lui si riferisce, perché a lui guarda il Padre, perché in lui riposa tutta la sua compiacenza, rivolta a noi in lui.

Ora, la ragione di amore del Padre per il Figlio, è la stessa ragione di amore che vale per i discepoli di Gesù. Gesù è amato dal Padre perché pone la sua vita per noi, così noi siamo amati da Gesù perché poniamo la nostra vita per i fratelli. Non è una ragione di merito, ma una ragione fontale, di sorgente. Vale a dire, possiamo scoprire l’amore di Dio nel fatto di porre la nostra vita per i fratelli e lo possiamo fare nell’energia di Colui che ce l’ottiene con la sua morte e risurrezione. Per questo Giovanni dice che Gesù è stato inviato e muore in croce “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Se Gesù è il buon pastore, lo è per questo.

E quando Gesù parla di altre pecore, che non gli appartengono ancora ma dell’unico ovile, allude al fatto che chi ancora non lo conosce, ne riconoscerà la voce nella parola dei discepoli inviati nel mondo ad annunciare la buona novella, che è lui stesso. Proprio colui che ha deposto la sua vita per riprenderla di nuovo, che ha versato la sua vita nella morte perché la morte non potesse ghermire più nessuno.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Pasqua

V Domenica di Pasqua

(28 aprile 2024)

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At 9,26-31;  Sal 21 (22);  1Gv 3,18-24;  Gv 15,1-8

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La porta di accesso più immediata per entrare nel mistero che Gesù vuole illustrare con l’immagine della vite è data dal collegamento del canto al vangelo (“Rimanete in me e io in voi, dice il Signore; chi rimane in me porta molto frutto”) con il passo di 1Gv 3,24: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. Il frutto di cui parla Gesù è collegato allo Spirito Santo, di cui l’apostolo Paolo elenca le operazioni: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Essere in Cristo significa avere lo stesso suo Spirito, agire secondo il suo Spirito.

Ritorniamo all’immagine della vite, che intesse tutto il cap. 15 del vangelo di Giovanni. Gesù siede con gli apostoli per la sua ultima cena; ha appena lavato loro i piedi, ha svelato l’imminente tradimento, ha conversato sulla rivelazione del Padre e sull’invio dello Spirito Santo. Dicendosi vite vera mostra agli apostoli la profondità del legame che li unisce e offre una chiave di lettura del mistero della vita sua e della sua persona, indicando contemporaneamente a quale dignità di vita chiama i suoi discepoli.

L’immagine della vite ha risonanze profondissime nelle Scritture, soprattutto in rapporto alle premure di Dio per il suo popolo. Si possono leggere i passi di Os 10,1, Is 5,1-7, Ger 2,21. In particolare, però, la vite ricorre nelle parabole di Gesù: nella parabola degli operai inviati alla vigna (Mt 20,1-16), nella parabola dei due figli invitati ad andare a lavorare nella vigna (Mt 21,28-30) e, con accenti assolutamente evocativi, nella parabola dei vignaioli assassini (Mt 21,33-42) dove l’amore di Dio per il suo popolo appare proprio folle.

La vite, per il vino che se ne ricava pestando gli acini e facendo fermentare il mosto, richiama il sacrificio pasquale di Gesù; il vino, frutto della vite, richiama il sangue, il mistero eucaristico, lo Spirito Santo, il regno di Dio.

Gesù parla anzitutto di potatura. In greco, potare, purificare, essere puro o mondo, sono significati che si rapportano alla stessa radice. Gesù spiega: “Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato”. La parola di Gesù, quella che si è trasformata in vita nostra, che ci ha comunicato il suo Spirito, ha il potere di rendere puri. Che significa? Accogliere la parola di Gesù significa accogliere la rivelazione della manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo che lo vuole in comunione con sé perché possa vivere in verità la sua vocazione all’umanità. Gli apostoli incominciano a comprendere che in Gesù sta il segreto di Dio per l’uomo e, nello stesso tempo, il segreto del loro cuore che anela a Dio. Il segreto di Dio ha così sempre a che fare con la vocazione dell’uomo.

La potatura mira a ottenere più frutto.  Ma qual è il frutto di cui si parla? Si vedrà meglio nel seguito del brano che verrà letto domenica prossima, ma già si intravede da oggi. Il frutto è che il Padre sia glorificato, cioè che l’amore tra gli uomini risplenda a tal punto da rivelarlo Padre di tutti. Gesù è colui che rivela il mistero di Dio in tutta la sua bellezza per l’amore agli uomini che lo divora, fedele in questo all’amore del Padre fino alla fine: sia all’amore del Padre che in lui aveva posto tutto il suo compiacimento sia all’amore per il Padre nella fedeltà alla sua volontà di benevolenza per gli uomini. Partecipare a tutta la bellezza di quell’amore significa dimorare in Gesù, come l’immagine della vite sottolinea. E si dimora quando non si attingono altrove motivazioni di vita e di azione, in nessuna circostanza, cioè quando lo Spirito del Signore agisce e muove il nostro cuore in tutto ciò che sente e che fa, in tutta intimità.

È interessante costatare che Gesù porta il suo frutto proprio quando è innalzato sulla croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Gesù, attirando tutti a Sé, realizza il desiderio di comunione di Dio con gli uomini. Ma lo stesso frutto viene moltiplicato nei discepoli perché porteranno frutto, mostrando il loro amore vicendevole, proprio attirando a Cristo che di quell’amore è la causa. Così l’amore al prossimo da parte dei discepoli di Cristo non rivela in primo luogo la generosità degli uomini, ma la loro fede sincera, l’attaccamento al loro Signore, la condivisione di un’intimità di vita e di affetti, nello Spirito, capace di vivere un’umanità trasfigurata. Proprio come abbiamo chiesto nella antica colletta: “…perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace”. La santità si riferisce al fatto di “avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, come dice s. Francesco d’Assisi e la pace riguarda la ritrovata comunione con Dio, in Cristo, che si espande e dilaga su tutto, senza più avanzare rivendicazioni di sorta che ne limiterebbero lo splendore e la portata. Ma come poter sognare di vivere questa realtà se non rimanendo in Cristo, sempre, comunque, a tutti i costi; se non operando perché le sue parole rimangano in noi, sempre, comunque, a tutti i costi?

Aggiungo ancora un aspetto rispetto al portar frutto che riguarda anche l’intelligenza delle Scritture, che vengono colte nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo, come sopra dicevo. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di indirizzarsi a tutti, di condividerla a tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo di Pasqua

VI Domenica di Pasqua

(5 maggio 2024)

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At 10, 25-27.34-35.44-48;  Sal 97 (98);  1Gv 4, 7-10;  Gv 15, 9-17

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Continuando nella meditazione sul mistero della nostra vita in Cristo, al paragone della vite e dei tralci Gesù aggiunge una nota personale : “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… come io ho osservato i comandamenti del Padre mio … questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”.

A dire il vero, le frasi di Gesù suonano piuttosto strane. Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa ciò che gli comanda l’altro, oppure unire l’amare al fatto di essere comandati. In questo intensissimo brano, dagli accenti estremamente confidenziali, si aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.

Ho osservato una particolarità che a me sembra oltremodo significativa. Gesù parla di amore, gioia e comandamento, ma nei versetti 9,10 e 11, si legge una specificazione singolare. “Rimanete nel mio amore”, in greco: nell’amore quello mio; “perché la mia gioia sia in voi”, la gioia quella mia; “questo è il mio comandamento”, il comandamento quello mio. È come se il testo volesse insistere sulla natura, sulla qualità di quell’amore, di quella gioia e di quel comandamento. Se Gesù intesse il suo discorso su tre come, è perché allude a ciò che lo caratterizza in proprio. Evidentemente il come non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione), io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la storia.

Lo proclamiamo con il salmo 97/98, salmo che fa parte dei cinque salmi con cui gli ebrei ricevono liturgicamente il Sabato (salmi 95-99), con l’espressione: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”, ragion per cui si è invitati a cantare in modo nuovo: “cantate al Signore un canto nuovo”. Se il cuore si apre al mistero del Figlio, inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre e a riunire i figli di Dio dispersi, allora non può non sentire compiersi la promessa di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, gioia che qualche versetto più avanti verrà definita: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22).

La gioia è collegata all’esperienza dell’amore, amore che lascia sgorgare fluente la vita. È caratteristico il legame dell’amore con la vita. L’amore rende la vita degna di essere vissuta perché l’amore dà vita, porta vita. Ma perché questo sia effettivo e duraturo, deve valere anche l’aggiunta: l’amore fa dare la propria vita, come è stato per Gesù. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici”. Il che non comporta solo il morire per l’altro, ma il mettere a disposizione la propria vita per l’altro di modo che la propria vita diventi per l’altro alimento, calore, rifugio, riposo, senza alcun limite. Mi sembra risieda proprio in questo particolare aspetto la promessa di Dio all’uomo: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23), ripreso dal canto al vangelo. Come a dire: il venire di Dio ed il suo dimorare nel cuore dell’uomo, che osserva la parola di Gesù, comporta il renderlo partecipe della sua stessa vita, comporta il metterlo a parte dei suoi segreti e della sua sapienza di vita. E questo Gesù chiama: “perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La gioia è il frutto più autentico non semplicemente dell’amore, ma dell’amore che si è trasformato in vita piena, donata, consegnata.

I passaggi sarebbero così compresi: Dio dà il suo Figlio per amore dell’uomo, ma Dio ama tutti coloro che si trovano nel Figlio, cioè coloro che, guidati dal suo stesso Spirito, perdonati e pacificati, si dispongono a far splendere l’amore del Signore comunque. Per quanto dobbiamo aggiungere che l’amore e la gioia sono gli ultimi due passaggi di una serie di quattro, come lucidamente nota Isacco Siro: “A misura della tua umiltà, ti sarà data la capacità di sopportare le tue difficoltà; a misura della tua capacità di sopportare, si alleggerisce il peso della tua anima ed essa è consolata nelle sue afflizioni; a misura della sua consolazione, si accresce il tuo amore per Dio; e a misura del tuo amore, si accresce la tua gioia nello Spirito”. E il movimento continua: a misura della tua gioia si accresce l’umiltà, ecc. (…)

Sono delineati come tre livelli concentrici di realtà: tra il Padre e Gesù, tra Gesù e noi, tra di noi. Il comandamento dell’amore vicendevole pesca nell’intimità di amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi. Fa da perno la persona del Figlio, inviato dal Padre, che si dà a noi nel suo amore salvatore. I comandamenti del Padre sono la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia. Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine ‘rimanere’). La dinamica dell’amore è tale che o si estende a tutti o si perde, nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri. Non sarebbe più un amore come quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una concretezza che ne qualifica la verità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del Padre. Tanto che Gesù può riassumere i comandamenti in uno solo: l’amore vicendevole, che deriva dall’intimità di vita con il proprio Dio Salvatore. Se alla fine non si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento, vuol dire che quel comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Non si accede all’amore per entusiasmo, ma per intima compassione, goduta e condivisa.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Ascensione

(12 maggio 2024)

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At 1,1-11;  Sal 46 (47);  Ef 4,1-13;  Mc 16,15-20

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L’immagine più potente, che definisce il senso dell’ascensione, mi sembra sia quella descritta da s. Ambrogio nel commento del salmo 23 (24), dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle porte celesti: “Chi è questo re della gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche ed entri il re della gloria”: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”.

Altri due salmi, il 47 e il 68, riprendono le stesse immagini. L’acclamazione è sempre la medesima: “Dio regna su tutte le genti”. Le immagini si riferiscono alla ‘conquista’ dell’umanità da parte del Signore Gesù che, prima discende, poi sale sulla croce, poi ascende in cielo. La ‘conquista’ è immaginata come l’entrata attraverso una porta e così sono adombrati l’ingresso del Cristo nel mondo, l’ingresso a Gerusalemme, l’ingresso nel regno dei morti e l’ingresso nei cieli come anche l’ingresso nell’anima, nel tempio che è in noi, perché gli apparteniamo e perché vi regni.

Ecco: il senso dell’ascensione risiede in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio, che è splendore di amore. Tuttavia, la narrazione dei Vangeli e degli Atti degli apostoli non insiste tanto su questo. In effetti, tutti i passi di Matteo, Marco, Luca e Atti, che ricordano l’evento dell’ascensione di Gesù, hanno per contesto la missione alle genti con l’assicurazione della presenza costante del Signore. Quando Gesù, nell’ultima cena, aveva ricordato il suo ritorno al Padre, aveva causato negli apostoli una grande tristezza. Ora che gli apostoli lo vedono sparire in cielo senza poterlo più rivedere provano una grande gioia. Evidentemente il mistero vissuto dagli apostoli era d’altra natura rispetto a quello che immaginiamo. I discepoli hanno visto il fatto materiale dell’ascendere di Gesù al cielo (il testo usa il verbo greco βλέπω, vedere) ma hanno anche intravisto la portata mistica dell’evento (il testo usa il verbo θεάομαι, contemplare). Ciò significa che lo sparire di Gesù dalla loro vista permetteva di coglierlo presente nei loro cuori.

Nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Se potessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineato sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro.

Proprio qui si innesta l’enunciato di fede: Gesù è alla destra del Padre, cioè nell’atteggiamento di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra per ottenerci la salvezza. Da tale considerazione deriva la nostra speranza e tutta la nostra fiducia, tanto che possiamo contemplarci, nel suo amore, vicini a Dio, assunti in Dio anche noi, legati a Lui, Lui la vite e noi i tralci, Lui il capo e noi le membra.

Nel racconto di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù accanto ai suoi non va vista nella capacità di fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo; va vista piuttosto in riferimento alla predicazione, vale a dire alla capacità che ha di riempire il cuore, che parla a tutti della sua presenza viva, senza che il mondo lo possa soffocare. La molla segreta di tale capacità è lo stesso desiderio di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai discepoli per raggiungere tutto il mondo.

Se la presenza del Signore è assicurata nel mondo, lo si deve al fatto che precisamente qui, nel mondo, continua la sua opera, così come nel mondo continua la rivelazione dell’amore del Padre, tanto a livello interiore che ecclesiale, nell’attesa che anche al mondo sia dato ciò che è dato ai discepoli. I discepoli diventano testimoni non semplicemente di Gesù, ma testimoni/collaboratori della sua opera di salvezza. Il dono dello Spirito Santo ha attinenza proprio a quella dinamica di predicazione per la conversione e il perdono dei peccati.

È una verità che risalta anche da un dettaglio riferito da Luca in At 1,6-8: “Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra»”. Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, vale a dire: non si vedrà; nessuno potrà dire: è qui, è là. È inutile che pensiate di vedere il regno di Dio nella storia; i tempi e i modi di questa venuta gloriosa solo Dio li conosce, la cosa non vi riguarda. Ma voi “avrete forza dallo Spirito Santo … e mi sarete testimoni”. Quello che vi riguarda è che siate agiti dalla potenza dello Spirito Santo per essermi testimoni. Gli apostoli sono i testimoni della salvezza operata da Gesù, non gli amministratori; favoriscono in ogni modo l’opera della salvezza, non ne sono mai i detentori. L’invio dello Spirito da parte di Gesù li assicura dell’accesso alla salvezza, per sé e per tutti, nella storia.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Pentecoste

(19 maggio 2024)

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At 2,1-11;  Sal 103 (104) ;  Gal 5,16-25;  Gv 15,26-27; 16, 12-15

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Nella novena di Pentecoste, con la colletta di martedì abbiamo pregato: “Dio onnipotente e misericordioso, fa’ che lo Spirito Santo venga ad abitare in noi e ci trasformi in tempio della sua gloria”. I santi hanno interpretato: “O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” (s. Efrem), mentre la chiesa invoca: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore” (la liturgia).

La gloria è lo splendore dell’amore e il tempio, per cui si invoca l’abitazione dell’amore, è il cuore. Quando s. Paolo, nella seconda lettura della liturgia di oggi, presenta una umanità agita dallo Spirito nella lotta contro la carne, ne elenca i frutti e così possiamo interpretare: i primi tre (amore-gioia-pace) riguardano il rimanere in Cristo; i secondi tre (magnanimità-benevolenza-bontà) costituiscono le radici di luminosità del cuore in Cristo; gli ultimi tre (fedeltà-mitezza-vigilanza) tengono il vissuto aperto alla grazia che godiamo stando uniti a Gesù. Quei frutti realizzano la promessa di Gesù riguardo allo Spirito Santo nella sua duplice azione di memoria e di testimonianza: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,13-14). Lo Spirito guida il cuore non tanto alla verità (moto a luogo) ma nella verità (stato in luogo). Il che significa che la guida dello Spirito non è tesa a farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che nulla può mortificare. Quello che appunto domandiamo con la preghiera allo Spirito, che è luce e fuoco.

E se viene sottolineato che lo Spirito dirà tutto ciò che ha udito, non si fa semplicemente riferimento alle parole di Gesù che troviamo nei vangeli, ma al colloquio eterno di Dio in se stesso a proposito della creazione e della salvezza dell’uomo, scopo di tutta la creazione. Quel colloquio riguarda il destino di comunione dell’uomo nella gioia dell’amore del suo Dio, destino che si gioca sull’immolazione dell’Agnello prima della fondazione del mondo (Ap 13,8). Lo Spirito ha udito tutto quello che il Padre e il Figlio si dicono dall’eternità nella condivisione del loro amore folle per l’uomo. Quella memoria si incendierà nel nostro cuore, del contenuto di quella memoria incendierà il nostro cuore. Il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto.

Per questo è caratteristico che nel giorno di Pentecoste lo Spirito appaia sotto l’immagine delle ‘lingue come di fuoco’. Lingua e fuoco: un’unica immagine dello Spirito. Lo Spirito, mentre spira l’amore nei nostri cuori, apre alla comunione rendendo le differenze suscitatrici di gioia e non di gelosia o timore, come invece suggerisce il principe di questo mondo. È il miracolo operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. Come ripeteva s. Francesco d’Assisi: avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù, che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quella dinamica lavora a che tutti si ritrovino nell’unica famiglia di Dio, tutti invitati alla mensa del suo amore. E per questo, nella preghiera della Chiesa, nel canone eucaristico, lo Spirito è invocato perché ci riunisca in un solo corpo.

È il motivo per cui è detto che lo Spirito glorificherà Gesù nei cuori perché prenderà quel che è di Gesù e ce lo farà scoprire, comprendere, vivere. Se lui è venuto per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli e per riunire i figli di Dio dispersi, quando lo Spirito muoverà i cuori nella stessa dinamica vuol dire che ci radicherà in Gesù, ci attrarrà al mistero del Cristo nel suo desiderio di fare di tutti un corpo solo.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

SS. Trinità

(26 maggio 2024)

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Dt 4,32-34.39-40;  Sal 32 (33);  Rm 8,14-17;  Mt 28,16-20

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L’antifona di ingresso della liturgia di oggi esprime molto bene il senso della confessione di fede nella Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. È la preghiera del salmo 32,22: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”. È il contenuto della promessa di Gesù di essere sempre con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo, espresso con l’altra promessa ai discepoli nell’ultima cena: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Sì, perché l’unica comprensione possibile di Dio corrisponde alla definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8).

È quanto proclama il semplice gesto del segno di croce sulla propria persona. Si fa riferimento alla croce e si confessa il Dio trinitario: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona, partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.

La prima lettura del Deuteronomio, tratta dal primo discorso di Mosè al popolo, a conclusione della sua traversata del deserto, in procinto di entrare nella terra promessa, cela un insegnamento straordinario. Le persone a cui Mosè parla, non hanno visto nulla di quello che lui sta raccontando. Coloro che sono stati liberati dalla schiavitù dell’Egitto e hanno assistito alla rivelazione di Dio sul Sinai sono tutti morti nel deserto. Sono lì ad ascoltare i loro figli. Ciò significa che la ‘evidenza’ della Presenza salvatrice di Dio nella storia attraversa le generazioni. È nell’unione delle generazioni che si può sperare nell’amore salvatore del Signore, perché la testimonianza della prima passi alla seconda e via di seguito per riunire tutti nello stesso amore salvatore. Le due ‘evidenze’, la liberazione dall’Egitto e la rivelazione del Sinai, sono per tutti, sempre, perché l’eterno è entrato nel tempo, perché l’invisibile ha fatto sentire la sua grazia. La confessione di fede è sempre ecclesiale. È la fede della chiesa che fonda la confessione di fede di ciascuno. Così la fede è più umile e più potente.

Ora, proclamare la fede nella Trinità significa, prima di tutto, aver accolto la testimonianza di Gesù, aver riconosciuto che in lui si è rivelato lo splendore dell’amore del Padre per noi, con lo Spirito Santo che ci apre il cuore a quella rivelazione. Proclamando il Credo, nella liturgia, riconosciamo l’esperienza che ha presieduto alla formazione dei dati della fede: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, riconosco l’offerta della sua alleanza, sono erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture, come la celebrazione liturgica, è percepita come memoriale dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia, che diventa storia sacra, storia di salvezza.

S. Paolo, nella lettera ai Romani, dichiara che i figli di Dio sono tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio. Gesù, nella proclamazione delle sue beatitudini, aveva applicato agli operatori di pace la caratteristica di essere chiamati figli di Dio. Possiamo dedurre: i figli di Dio sono coloro che vivono nella sua pace, perché Gesù è la nostra pace, perché lui ci riunisce nell’amore del Padre manifestandone tutto lo splendore salvatore, amore che lo Spirito ci comunica e nel quale ci radica. La sfumatura di significato della definizione dei figli di Dio è quella di sottolineare che si può godere della realtà che viene enunciata, rimanendo in colui che è il Figlio di Dio fatto uomo, figli nel Figlio. Come lui aveva invitato i suoi discepoli: “rimanete in me, rimanete nel mio amore”.

Ecco perché, quando Gesù invia i discepoli in missione nel mondo, come riporta la finale del vangelo di Matteo, insiste sulla promessa del suo esserci compagno. I due aspetti sono strettamente correlati: si fa leva sul fatto che il Signore Gesù ci accompagnerà lungo la storia, fino alla fine dei tempi, e si invita ad annunciare al mondo quello che Gesù ha insegnato e trasmesso. Intimità e missione, ecco i due perni della fede. Fede rivolta al Signore Gesù, ma radicata nel mistero di intimità di Gesù con il Padre e testimoniata nella missione al mondo con il dono dello Spirito, che guida i discepoli a fare esperienza dell’amore di Dio.

Quando Gesù aveva promesso lo Spirito, l’aveva descritto come colui che ci avrebbe guidati a tutta la verità (cfr. Gv 16,13). Il che significa: farà vivere ogni circostanza nella logica di quell’amore del Padre che Gesù ci ha fatto conoscere, non permettendo che ci possa essere evento capace di mortificare quella esperienza.

Non bisogna dimenticare che l’invocazione del Padre come Abbà, così tipica della preghiera di Gesù al Padre, sulle labbra di Gesù compare solo nella sua preghiera al Getsemani (Mc 14,36), cioè nel momento più angoscioso della sua vita terrena. Le altre due volte, nel Nuovo Testamento, che compare quell’appellativo, è messo sulle labbra dei credenti come proferito dallo Spirito Santo nei nostri cuori: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15); “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!” (Gal 4,6). Non posso non pensare che la circostanza nella quale quell’invocazione sgorgherà più potente sarà quella nella quale la prova opprimerà. L’intimità sta insieme all’angoscia perché così è stato per Gesù e così sarà per la nostra umanità, chiamata alla mensa dell’amore di Dio, insieme a tutti i fratelli. Gesù, che è sempre con noi, ci innesta nel suo movimento di rivelazione al mondo dell’amore di Dio, riunendo tutti alla stessa mensa, perché tutti chiamati allo stesso destino. Questo comporta la proclamazione della fede nella Trinità.

Rifacendomi ai versi di Dante, poeta del paradiso, avverrà anche per noi quello che è avvenuto per lui nella sua ascesa verso Dio: Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo // cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso, // sì che m’inebriava il dolce canto. // Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso // de l’universo; per che mia ebbrezza // intrava per l’udire e per lo viso (Par XXVII).

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Corpus Domini

(2 giugno 2024)

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Es 24, 3-8;  Sal 115;  Eb 9, 11-15;  Mc 14,12-16. 22-26

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L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

La celebrazione di oggi verte tutta sul tema dell’alleanza nelle sue tre dimensioni: la dimensione celebrativa-sacrificale, la dimensione misterica o sacramentale, la dimensione escatologica. L’alleanza sinaitica, che la lettura del cap. 24 del libro dell’Esodo commenta, è sigillata dall’aspersione con il sangue degli animali uccisi per l’olocausto e dall’obbedienza del popolo che si dichiara pronto a eseguire ciò che il Signore aveva comandato e che Mosè fa conoscere loro. Tra l’altro, l’espressione singolare con cui il libro dell’Esodo riporta la volontà del popolo (“Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”, Es 25,7), è stata interpretata dalla Tradizione come la norma di intelligenza delle Scritture e della crescita spirituale: metto in pratica e comprendo, faccio e ascolto (ascolto, cioè, l’ispirazione interiore del comandamento, impossibile da cogliere senza la disponibilità a praticarlo, per la fiducia in Colui la cui promessa di vita è iscritta nella parola che mi rivolge). Quella alleanza sinaitica, che si compie definitivamente nella nuova alleanza, spiegata dalla seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, è sigillata nel sangue di Gesù.

La nuova alleanza, nella sua dimensione misterica, è celebrata con gli apostoli nel Cenacolo ed è sigillata con il dono del Corpo e del Sangue di Gesù, oramai vero cibo e vera bevanda per l’accesso al Regno di Dio. Così che la comunione con Dio, frutto della nuova alleanza, è sigillata dalla fraternità in Cristo dei discepoli, vissuta nell’amore vicendevole, come annuncio del Regno.

La celebrazione eucaristica è animata proprio dalla tensione al Regno che i discepoli sono chiamati ad annunciare al mondo, radicati in Cristo, nell’attesa del compimento ultimo nel regno dei cieli. Come proclama la colletta: “Signore, che ci hai radunati intorno al tuo altare per offrirti il sacrificio della nuova alleanza, purifica i nostri cuori, perché alla cena dell’Agnello possiamo pregustare la Pasqua eterna della Gerusalemme del cielo”. Pensiero ripreso nella orazione dopo la comunione: “Donaci, o Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.

Sono però soprattutto i tre prefazi che suggeriscono le porte di accesso allo splendore di questa festa.

Il primo si incentra sul memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e in esso rimanere.

Il secondo celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché l’umanità, diffusa su  tutta la terra, sia illuminata dall’unica fede e riunita dall’unico amore”. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria”. È il mistero della santità come mistero di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.

Il terzo celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. È la celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai meno va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.

Tre sono i verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “… a te per primo si offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘non preferì nulla all’amore che lo consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per gli uomini, in tutta intimità con il Padre’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo sacrificio quanto lo splendore dell’amore del Padre, che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito, che ci fa vivere in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui.

La cosa straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini.

In effetti, se ci domandiamo qual è la virtù specifica dell’Eucarestia, a cosa tende, non possiamo non rispondere con s. Agostino: “La virtù propria di questo nutrimento è quello di produrre l’unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo” (Disc. 272). L’amen che rispondiamo al ‘corpo di Cristo’ proferito dal sacerdote al momento della comunione eucaristica ha proprio questo significato: sì, riconosco di far parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Sacro Cuore di Gesù

(7 giugno 2024)

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Os 11,1.3-4.8c-9;  Is 12,2-6;  Ef 3,8-12.14-19;  Gv 19,31-37

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L’antifona di ingresso riprende il salmo 32 là dove si proclama: “Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”, commentato con il canto del profeta Isaia: “Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere, fate ricordare che il suo nome è sublime”. Sì, perché, come dice il profeta Osea: “A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,3-4). E la colletta che fa pregare: “Padre di infinita bontà e tenerezza… donaci di attingere dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce la sublime conoscenza del tuo amore …”. Ecco, il cuore di Gesù, che la lancia del soldato apre sul mondo, spalancando sull’universo il segreto di Dio, è il simbolo più eloquente dell’amore di Dio per l’uomo.

Il piano del Signore che sussiste per sempre, dall’eternità, è la sua determinazione all’amore per l’uomo, una determinazione che non si lascia vincere da nessuna diffidenza e cattiveria. Dio resta solidale con l’uomo comunque. Il Cuore di Gesù svela questo piano e lo rende noto a tutti, a chiunque, per sempre.

Lo ripete s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando descrive l’annuncio evangelico del mistero nascosto da secoli in Dio e ora rivelato al mondo dicendo: “…secondo il progetto eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore …”. Con lo straordinario invito finale: “Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza …” (Ef 3,11.17-19).

Se interrogo il mio cuore, nella sua fatica di vivere, non posso non domandarmi: ma perché resto così insensibile rispetto a quel Cuore spalancato? Perché non mi faccio toccare? I comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella risonanza per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti? Eppure, come dice misteriosamente il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Profezia, che il vangelo di Giovanni interpreta come figura della morte in croce di Gesù (cfr Gv 19,37). È proprio il Dio che si lascia trafiggere il nostro Dio, a riprova del suo desiderio di comunione con i suoi figli. E la salvezza per noi viene dal fatto di guardare al trafitto con tenerezza e compassione. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità.

Da questo punto di vista, acquistano una risonanza insospettata le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “… davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). È Dio a sovrastare il nostro peccato con la sua bontà. Il riconoscimento del peccato richiama in primo luogo la bontà di Dio, non la nostra condanna. La bontà crea sempre uno spazio nuovo al cuore dell’altro permettendogli di entrare nuovamente nella vita, apre un tempo nuovo senza bloccare il cuore al passato. Il Suo amore è più grande del nostro peccato. E proprio questa esperienza è la garanzia più solida della nostra speranza che ci apre alla comunione con Dio e con i fratelli, pacificando noi stessi.

Giovanni è testimone oculare: “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34). Evidentemente, non allude solo al fatto visto, ma al significato che ne ha dedotto, significato che corrisponde a quanto aveva scritto all’inizio del suo vangelo: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità … Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,14.18). Il cuore squarciato illustra quella gloria e il fatto viene narrato perché anche chi legge possa ritrovarsi nella stessa esperienza del discepolo prediletto. Non si tratta di una informazione di cronaca, ma dello svelamento di un segreto capace di rinnovare tutta la vita. Quella gloria appare a chi guarderà verso quel trafitto sentendosi trafitto dalla intensità del suo amore e dal dolore di non averlo compreso prima.

L’invito alla fede da parte di Giovanni nel riportare l’episodio della lancia che squarcia il costato di Cristo allude all’esperienza di visione dell’amore di Dio per noi, che proietta la vita in spazi assolutamente nuovi, fino ad allora impensabili. Non è che l’uomo abbia motivi tanto evidenti per amare Dio; ma se sosta in preghiera davanti al Crocifisso quei motivi incominciano ad apparire al cuore e tutti alla fine si riducono all’esperienza del venir come rinchiusi nel fianco aperto di Cristo, spalancato sul mondo, resi ormai suoi compagni di testimonianza dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo. È un’immagine che troviamo descritta nelle fonti francescane. Vi si narra di un sogno rivelatore di due eretici, poi convertiti. Avevano visto il Signore Gesù chinarsi sul petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ad un certo punto, Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi apparve perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro Signore; poi Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco (FF 2547). Ma di Francesco si dice che avesse costantemente davanti agli occhi il suo dolce Gesù, crocifisso: “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra (FF 522).

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

X Domenica

(9 giugno 2024)

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Gn 3,9-15;  Sal 129 (130);  2Cor 4,13-5,1;  Mc 3,20-35

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Sembra che la liturgia di oggi consideri la storia dell’umanità secondo il tentativo del diavolo di pervertire l’alleanza di Dio con l’uomo. Da questo punto di vista il diavolo è presentato come un essere radicalmente geloso: istilla nell’uomo l’idea che Dio sia geloso delle sue prerogative da ingannare l’uomo e istilla fra gli uomini l’idea di non credere al bene per non sentirsi da meno di nessuno. Il brano della Genesi e il brano evangelico fanno pensare in questi termini. In pratica, l’azione del diavolo tende a distorcere la visione di Dio nella sua bontà verso di noi. Se, con la prima lettura, il diavolo tende a prevaricare sull’uomo, con il vangelo risulta perdente e messo fuori gioco. Il mistero di questa lotta segreta è ben illustrato dal canto al vangelo: “Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31-32).

Rispetto alla persona di Gesù, i vangeli introducono il tentatore all’inizio del suo compito messianico, cercando di distorcerne il senso per indurre Gesù a conquistare gli uomini con il prestigio della gloria del mondo, di cui lui è detentore e poi, introducendo il racconto della passione con l’annotare: “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla [in me non ha nulla di suo], ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). Gesù è totalmente occupato dall’amore del Padre per noi per cui il diavolo, venendo a saggiarlo, non trova nulla di suo su cui fare leva per piegarlo alle sue mire e così resta scornato.

Questo scorno, la preghiera dopo la comunione lo interpreta a nostro favore supplicando: “O Signore, la forza risanatrice del tuo Spirito, operante in questo sacramento, ci guarisca dal male che ci separa da te e ci guidi sulla via del bene”. Ecco, il diavolo tenta di separarci dal Signore facendo leva sulla gloria del mondo che ci attrae per piegarci alle sue mire. Così, non preghiamo semplicemente di evitare il male, ma di essere guariti da un certo male (il che significa che questo male ci insidia da dentro), vale a dire dal male in quanto ci separa dal Signore. Il potere del diavolo è direttamente proporzionale alla tragica possibilità di essere ingannati precisamente su questo punto. E l’inganno si configura come l’illusione del bene, come la pretesa di volere comunque il bene, senza però stare dalla parte di Dio. Non per nulla, Gesù si rivolge con severità al suo interlocutore che l’aveva chiamato ‘maestro buono’: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18). Forse, la ragione segreta di questo giudizio perentorio sta nel fatto che solo Dio conosce il modo di vincere il male alla radice, conoscenza che si manifesterà nel suo splendore sulla croce, allorquando l’amore prevale vittorioso in tutto.

Se, dopo queste premesse, ci avviciniamo al brano evangelico di oggi, capiamo il valore della distinzione che regge tutto il passo. Tutto si gioca sulla contrapposizione tra un dentro e un fuori. Quanto al diavolo, che si era insinuato dentro la casa dell’uomo e ne aveva avuto il sopravvento, ora è fatto prigioniero da uno più forte di lui ed è cacciato fuori. Nel vangelo di Marco l’annotazione più comune per indicare l’azione rivelatrice di Gesù quanto al suo essere “Inviato”, è appunto la cacciata dei demoni. E se Gesù si circonda di collaboratori, con l’elezione dei Dodici, sarà per estendere questa azione rivelatrice: anche gli apostoli sono forniti del potere di cacciare i demoni. In effetti, poco prima, Marco aveva raccontato della decisione di Gesù di scegliersi collaboratori: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-14).

Se il gruppo dei farisei contesta questa azione rivelatrice del Regno da parte di Gesù non lo può fare che in mala fede. Vale a dire: interpretare il bene evidente con l’attribuirlo al male assoluto comporta la non possibilità di remissione (il cosiddetto peccato contro lo Spirito Santo) nel senso che è impedito ogni forma di pentimento. Di tutti i peccati ci si può pentire, ma del mettersi nella condizione di non possibilità di pentimento, questo significa rinnegare lo Spirito Santo. Faranno sempre in tempo ad accorgersi di questo e allora usciranno da questa impossibilità e tutto ciò che avranno causato di male al Figlio dell’uomo sarà perdonato perché lui è venuto proprio per aprire i cuori al perdono di Dio.

Quanto ai discepoli, anche per loro vale un dentro e un fuori. E la contrapposizione si gioca tra coloro che appartengono ai legami di sangue e coloro che sono introdotti in un altro genere di legami, quelli della fede in Gesù. Ricercato dalla gente, criticato dagli scribi per il suo stare con i pubblicani e i peccatori, Gesù ha suscitato certamente apprensione tra i suoi parenti, che in effetti vengono per portarlo via. È la prima annotazione significativa rispetto al mistero della persona di Gesù: non sono i rapporti parentali che hanno valore nei suoi confronti. I suoi non lo capiscono; non è la carne e il sangue che introduce nell’intimità con Dio. Pensano che sia fuori di testa! E il brano li descrive sempre nell’attesa, fuori. Gesù, invece, che parla dentro casa, risponde: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”. Spiegato da Edith Stein: “Spirito divino, vita divina, amore divino equivale a questo: colui che fa la volontà di Dio, questi conosce Dio e lo ama. Infatti, nel momento in cui si fa con dedizione interiore ciò che Dio richiede, la vita divina diventa la nostra vita, si trova Dio in se stessi”.

È possibile interpretare in senso positivo il tormento dell’inimicizia col demonio, di cui facciamo le spese nella vita. Secondo il racconto della Genesi, dopo il peccato Dio proclama l’inimicizia tra il serpente e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Motivo per cui l’uomo, che anela alla pienezza, potrà sempre ricredersi, pentirsi e tornare al suo Dio. L’uomo, che è chiamato all’amore, ne vive tutta l’angoscia perché sa che, benché aneli all’innocenza, l’ha perduta. Ma Dio, che vuole intimi i suoi figli, li attira a sé rinnovandoli nel suo amore crocifisso e rendendoli capaci della dedizione di un amore ormai svincolato dalle prese del demonio. Gesù ci attira qui.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XI Domenica

(16 giugno 2024)

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Ez 17,22-24;  Sal 91 (92);  2Cor 5,6-10;  Mc 4, 26-34

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Mi introduco all’intelligenza della parola di Dio della liturgia di oggi con la supplica della colletta: “O Padre, che spargi nei nostri cuori il seme del tuo regno di verità e di grazia …”, che collego all’invocazione di un mistico persiano, Ansari (1006-1088): “O Tu che semini il dolore del pentimento nel cuore di chi Ti ha incontrato! Tu che fai bruciare il cuore di chi fa penitenza! Tu che accogli i peccatori che confessano la loro colpa! Nessuno si converte fin tanto che Tu non lo converti; nessuno trova il cammino fin tanto che Tu non lo prendi per mano. Prendici per mano, perché non abbiamo altro salvatore all’infuori di Te! Vieni in nostro aiuto, perché non abbiamo altro rifugio che Te! Alle nostre domande, solo Tu puoi dare la risposta. Alle nostre sofferenze, solo Tu puoi portare rimedio. Ai nostri tormenti, solo Tu puoi portare riposo”.

Gesù illustra il regno di Dio con le parabole del seminatore, del seme che cresce, del minuto seme di senape che diventa albero. Sta introducendo i discepoli all’intimità della comunione con lui, attirandoli nella sua stessa intimità con il Padre nel suo amore per noi. Quando parla del regno di Dio, nascosto, segreto, ma che deve manifestarsi, allude a questo mistero di attrazione all’intimità con il Padre che lui è venuto a svelare. Per cogliere la sua rivelazione occorre farsi discepoli, e si diventa discepoli entrando per la porta delle lacrime di pentimento, che è la seconda beatitudine.

Il brano del profeta Ezechiele fa riferimento appunto alla promessa di Dio di rinnovare il suo popolo dopo la prova dell’esilio di Babilonia, dopo il pianto per aver abbandonato il proprio Dio e aver subito il tormento della schiavitù. Il salmo responsoriale risponde alla gioia della promessa di Dio che si sta realizzando, per la quale i cuori si sentono consolati e riguadagnati alla speranza di vita gioiosa.

Il brano di vangelo traduce, con le parabole del seme, il compimento delle promesse di Dio che lavora i cuori aprendoli al mistero dell’amore salvatore del Signore. Quell’amore è insopprimibile, non può essere mortificato, ha una potenza propria che cresce e conquista: basta lasciarlo operare. La parabola del seme che, piantato, cresce per forza intrinseca, è tipica di Marco, che l’affianca all’altra, al seme di senape che cresce tanto fino a diventare albero. Era proverbiale l’immagine della piccolezza del seme di senape. Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della vita, al peso dei malvagi nella vita. Non importa se abbiamo una fede grande o piccola, basta che sia genuina e questa ha la potenza di fare miracoli, cioè di fare spazio al regno di Dio che viene, in ogni cosa.

L’allusione si deduce dai termini che il vangelo di Marco usa, inusuali per una semplice descrizione. Ad esempio, non usa il verbo ‘nidificare’ ma ‘accamparsi’, ‘porre la tenda’; per dire che il frutto matura usa il verbo ‘consegnare’ (allusione alla consegna di Gesù agli uomini, alla consegna dei discepoli a Gesù!); per la mietitura che è arrivata usa l’espressione di Gioele 4,13 in cui si parla del raccolto che è presente, vale a dire che il messaggio di Gesù è destinato a tutti i popoli e tutti lo riconosceranno. Così la piccolezza del seme non è solo allusiva dell’inizio insignificante, ma dell’irrilevanza sociale della comunità dei credenti.

Sovrapporre all’immagine del seme quella del granello, come è il caso della parabola del granello di senape, significa alludere a quello che suggeriscono i Padri, s. Ambrogio in particolare: “Anche il Signore è un chicco di senapa. Egli era immune da ogni offesa, ma il popolo lo ignorava, come un chicco di senapa, perché non lo aveva ancora mai toccato. Preferì di essere sfatto, perché noi potessimo dire: Noi siamo per Dio il profumo di Cristo (2Cor 2,15)”. Ambrogio pensa alla fede, che è semplice, ma se viene macerata dalle avversità, essa effonde l’incanto della sua forza. Altri Padri parlano del granello di senape che rivela la sua qualità con grandissima potenza se viene triturato, alludendo alla passione di Gesù.

L’aspetto singolare dell’immagine della pianta che cresce fino a permettere agli uccelli di nidificare è il capovolgimento di prospettiva rispetto al suo uso profetico tradizionale. Se, nel brano di Ezechiele, l’immagine indicava l’umiliazione dei due potenti regni antagonisti del Medio Oriente antico, Egitto e Assiria, nell’intelligenza evangelica l’immagine perde tutto il sapore di potenza mondana e si applica al regno di Dio che cresce a tal punto da attirare tutte le nazioni. L’inizio è insignificante, la modalità di crescita nascosta, ma l’esito fecondo.

Aggiungo ancora che Luca, all’immagine del seme, unisce quella del lievito, per mostrare come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro: il regno goduto e manifestato.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XII Domenica

(23 giugno 2024)

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Gb 38,1.8-11;  Sal 106 (107);  2Cor 5,14-17;  Mc 4,35-41

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La liturgia collega l’immagine di Gesù che comanda al vento e al mare con quella di Dio che parla a Giobbe in mezzo all’uragano. Non si tratta di sottolineare semplicemente la potenza di Dio. Sarebbe banale l’esibizione di potenza da parte di Dio che domina il mare, pur così terribile. Se Dio parla di mezzo al turbine a Giobbe (siamo alla fine del libro, quando Dio ormai ha conquistato Giobbe all’incontro con lui e lo elogia davanti ai suoi amici perché ha pensato più rettamente di loro) è per introdurlo al mistero di un incontro, che apre al senso del vivere. La vita è assai più misteriosa di quanto siamo portati ad ammettere. Così Gesù, che si è messo a dormire sulla barca nel lago in burrasca, non è destato dai discepoli per lasciarli a bocca aperta davanti al suo potere sul mare. Il testo allude a qualcosa di più misterioso.

L’antifona di ingresso ci fornisce la finestra di luce appropriata: “Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, sii loro pastore e sostegno per sempre” (Sal 27/28, 9). Questa invocazione risuona alla fine della liturgia eucaristica celebrata secondo il rito bizantino, dopo che i fedeli hanno ricevuto la comunione e il sacerdote invoca su tutti la benedizione di Dio: “O Signore, tu che benedici coloro che ti benedicono e santifichi quelli che hanno fiducia in te, salva il tuo popolo e benedici la tua eredità. Custodisci tutta quanta la tua Chiesa, santifica coloro che amano il decoro della tua casa…”. È nell’ottica di quella benedizione che Gesù, svegliato, agisce in favore dei suoi discepoli.

Il passo della tempesta sedata comporta più livelli di lettura. Si inserisce anzitutto nella storia dei discepoli. Hanno accettato di stare con il loro Maestro, stanno imparando a conoscerlo e Gesù si premura di introdurli poco a poco nel mistero della sua persona. Gli eventi raccontati nei capitoli 4 e 5 di Marco riguardano il racconto delle parabole del regno e di vari miracoli. La prima cosa misteriosa da notare è che la parola di Gesù, capace di illustrare la realtà del regno di Dio nelle parabole e nelle spiegazioni private ai suoi discepoli, è la medesima che ha il potere di calmare la tempesta, di guarire l’indemoniato e l’emorroissa, di risuscitare la figlia di Giairo. Di fronte alla sua parola potente, i discepoli non possono non domandarsi, profondamente toccati nell’intimo: davanti a chi ci troviamo? Chi è dunque il nostro Maestro? Il canto al vangelo ci introduce alla condivisione dei sentimenti dei discepoli riportando l’esclamazione della gente di fronte al miracolo di Gesù che risuscita il figlio della vedova di Nain: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (cf. Lc 7,16) e prelude allo stupore dei commensali di fronte al comportamento di Gesù che rimanda la peccatrice perdonata nei suoi peccati: “Chi è costui che perdona anche i peccati?” (cf. Lc 7,49).

Il brano si inserisce anche nella storia di Gesù. Lui dorme sulla barca in mezzo alla tempesta e viene svegliato dai discepoli spaventati. L’annotazione non ha semplicemente il sapore di cronaca vissuta, ma di accesso a un mistero più profondo. Il mare in tempesta assume il valore simbolico delle potenze del male che Dio domina. In effetti, i verbi usati da Marco nel descrivere la scena non si addicono tanto ad un’azione di potenza sulle cose, ma si riferiscono all’azione di un esorcismo: ‘minacciò’, ‘taci’, verbi che si ritrovano in altre esperienze di esorcismo narrate nei vangeli. L’allusione alla lotta contro il male è evidente. La domanda sottesa suona: quando Dio svelerà tutta la sua potenza contro il male? Quando si addormenterà sulla croce e attraverso quel sonno sconvolgerà il regno degli inferi. La morte in croce di Gesù viene spesso percepita come un sonno perché poi si sveglia, perché poi risuscita e su di lui la morte non avrà più alcun potere e il male è vinto. Nelle catechesi sulla preghiera di monaci del Monte Athos ho letto che il passo riguarda un passaggio del cammino della preghiera del cuore. Certo, Gesù è presente nel cuore dell’orante, ma questi non ne ha ancora l’esperienza diretta. Resta come uno che dorme, come uno di cui non si coglie la presenza. Appena però il cuore comincia a vedere il male che serpeggia e che si agita nelle sue pieghe, comincia ad avere paura e allora grida: “Non t’importa che siamo perduti?”. E Gesù, svegliato dalla supplica del cuore, si fa presente con la sua potenza di salvatore.

Il brano comporta un’allusione alla storia dei credenti, che si sentiranno molte volte oggetto del rimprovero, amorevole, del Signore: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Potremmo rendere: perché avete così paura del male? Oppure: forse che non vi fidate di me? Temete che vi inganni? Gesù è amorevole nel fare il rimprovero perché sa che il cuore dell’uomo, per quanto desideri la vita, ha paura di viverla temendo l’inganno e che occorre un lungo tragitto per collocarsi stabilmente nella fiducia.

Infine, di fronte alla scena evangelica, mi faccio un’ulteriore domanda: perché i discepoli hanno avuto così paura? Detto in altre parole: quando il male comincia a ghermirci? Sappiamo in generale che c’è il male, che il male è anche dentro di noi, ma quando comincia ad avere la meglio su di noi da averne paura? Un particolare del racconto ci può illuminare. I discepoli hanno dimenticato che quella traversata l’aveva ordinata Gesù. È Gesù che ordina: “Passiamo all’altra riva”. Nel passo parallelo di Matteo è tanto evidente che si dice: “Salito sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono” (Mt 8,23). Tutto ciò che quella traversata comporta sta dentro il comando di Gesù. Se i discepoli non avessero completamente dimenticato che era stato Gesù a chiedere loro di iniziare la traversata, probabilmente non si sarebbero lasciati sorprendere dalla paura, che li ha fatti sentire soli, in balia delle onde. La fede è appunto percezione di compagnia, una compagnia di alleanza. Non che l’uomo non provi più paura di fronte al male, ma se la vive in compagnia del proprio Signore è tutt’altra cosa. Così è la nostra vita, una traversata tra i marosi, all’interno e all’esterno. Vivere la vita dentro un’obbedienza a un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore significa allora non permettere al male di ghermirci, significa non essere in balia degli inevitabili marosi. Sarebbe il senso della scena nella sua valenza ecclesiale: la barca è la chiesa che attraversa il mare di questo mondo in subbuglio; sebbene Gesù dorma, è sulla barca e la fede lo risveglia e le onde non l’affondano.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(30 giugno 2024)

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Sap 1,13-15; 2,23-24;  Sal 29 (30);  2Cor 8,7.9.13-15;  Mc 5,21-43

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Il brano evangelico di oggi riporta due miracoli di Gesù, uno incastonato nell’altro. Ambedue i richiedenti, la prima nel segreto del suo cuore, il secondo con l’insistenza aperta, cercano un contatto con Gesù: l’emorroissa, credendo che se riuscirà a toccare anche solo il vestito di Gesù, potrà essere guarita; il capo della sinagoga, credendo che se Gesù toccherà sua figlia questa guarirà. In gioco è la fede in Gesù per ricevere la rivelazione del mistero della sua persona.

Possiamo accostarci al brano evangelico attraverso il canto del vangelo: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo” (cfr. 2Tm 1,10) insieme alla conclusione della prima lettura tratta dal libro della Sapienza: “Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,24). Una prima osservazione sulla traduzione. Paolo, alla fine della sua vita, nell’imminenza del martirio, sintetizza il senso del vangelo nello splendore della vita che il Signore Gesù ha fatto scaturire per l’uomo riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il testo greco non riporta ‘ha vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece risplendere’, dice con più precisione ‘ha reso inefficace la morte’, vale a dire ha svigorito la morte di tutto il suo potere, potendola ormai patire senza subirne la condanna.

La conclusione del brano della Sapienza andrebbe così inteso: “Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e quelli della sua parte la sperimentano”. E il versetto precedente: “Dio ha creato l’uomo con incorruttibilità, lo ha creato a immagine della propria eternità”, intendendo: l’eternità è la perfetta felicità perché senza possibilità di corruzione. Così, quelli che sono tratti dalla parte del diavolo sperimentano la morte. E qui morte non allude alla morte biologica, ma alla morte spirituale, alla mortificazione del cuore che non conosce più l’amore e subisce la mortificazione dell’essere. Si tratta della conclusione del ragionamento degli empi, introdotto con le parole: “Dicono fra loro sragionando” e definito: “Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio …” (Sap 2,1.21-22). Ora, quel ragionamento è ripreso nel vangelo di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “… facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (Mt 27,42-43). I segreti di Dio riguardano proprio quel Figlio, venuto perché gli uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza.

Così, i miracoli, narrati nel brano di oggi con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono alla potenza salvatrice del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo, amore che farà risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando il potere della morte sarà esautorato. I miracoli sono l’occasione di rivelazione del Figlio di Dio, rivelazione che necessita, per esplicitare la sua potenza nel cuore dell’uomo, della fede.

L’emorroissa, la donna che per la sua malattia era dichiarata immonda (cf. Lev 15,25-27), nella calca generale, è l’unica a toccare Gesù. Nessuno se ne avvede, solo Gesù, perché chi lo tocca con fede permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così, lui che è il Santo santifica, lui che è il Salvatore salva, lui che è il Potente soccorre e guarisce. Come ci si dicesse: chi non ha vivo il senso della propria immondezza, della propria miseria, non ha fede sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello (o della frangia, che veniva aggiunta al mantello dei rabbi in memoria dei comandamenti di Dio, come nel passo parallelo di Matteo) ha fatto pensare al vestito del Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può indottrinare con la Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla folla dei discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si accosta anche a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che racchiudeva e l’anima è guarita.

La fede del capo della sinagoga è messa in risalto allorquando i messaggeri da casa gli mandano a dire che tutto è inutile: sua figlia è morta. Lui aveva insistito con Gesù perché venisse presto a casa sua: temeva l’irreparabile. Gesù acconsente, ma in un certo senso se la prende comoda. Tutto l’episodio dell’emorroissa, agli occhi del capo della sinagoga, deve essere suonato come una terribile perdita di tempo prezioso, come un penoso dover sostare. Gesù però lo invita a continuare a credere. Di lui non viene riferito più nulla perché l’essenziale è stato detto: ha continuato a credere. Per quella fede Gesù ha operato, Gesù si è manifestato. Quella fede Gesù ha nutrito. E se alla fine comanda di non divulgare il fatto vuol dire che solo nella e alla fede Gesù può apparire per quello che è.

Le parole di Gesù alla donna guarita sono da interpretare nel senso che lui è sempre nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’ in pace e sii guarito dal tuo male!

La tua fede: la fiducia in colui che ci può accogliere e guarire e far vivere dell’amore del Padre, dando splendore alla nostra umanità.

Va’ in pace: se il cuore ha potuto gustare ciò che cercava, allora è frantumata ogni sorta di pretesa e rivendicazione, restando disposti a vivere riconciliati.

Sii guarita: si torna a vivere nella luce della santità di Dio, che è amore per noi, diventato radice e forza dei nostri comportamenti e del nostro orizzonte interiore.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(7 luglio 2024)

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Ez 2,2-5;  Sal 122 (123);  2Cor 12,7-10;  Mc 6,1-6

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I brani scritturistici oggi parlano di occasioni mancate, le preghiere di occasioni godute e degli effetti della salvezza accolta. L’antifona di ingresso celebra la misericordia di Dio e l’esperienza che tutti gli uomini possono farne dovunque e sempre (O Dio, accogliamo il tuo amore nel tuo tempio); la colletta fa pregare perché possiamo riconoscere la gloria dell’amore di Dio nell’umiliazione del Figlio e la sua potenza di consolazione e salvezza nella nostra infermità (O Padre, che nell’umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l’umanità dalla sua caduta, dona ai tuoi fedeli una gioia santa); l’antica orazione sulle offerte domanda di poter agire come il Figlio di Dio, nella dinamica di quell’amore che non viene mai meno e di cui ci è fatto dono (Ci purifichi, o Signore, quest’offerta … e ci conduca di giorno in giorno a esprimere in noi la vita nuova nel Cristo tuo Figlio); l’orazione dopo la comunione suggella ogni richiesta precedente con la capacità di vivere in gratitudine perché ricolmi dei benefici del Signore, inattaccabili dalla ruggine dei nostri peccati e dalle vicende del mondo (O Signore … fa’ che godiamo i benefici della salvezza e viviamo sempre in rendimento di grazie).

Il vangelo di Marco fotografa bene la reazione di Gesù: “E si meravigliava della loro incredulità”. Da dove proveniva ai suoi concittadini una tale diffidenza nei suoi confronti? Luca sembra suggerire che non abbiano accolto di buon grado il modo con cui Gesù fa memoria della storia della salvezza, perché, per sottolineare la grandezza dell’amore di Dio, ha ricordato la preferenza per i pagani da parte di Dio (la vedova di Zarepta di Sidone al tempo del profeta Elia e Naaman il siro al tempo di Eliseo). Per Luca l’esito negativo della prima predicazione di Gesù a Nazaret è la prefigurazione del rifiuto finale di Gesù e della sua morte in croce. Il passo parallelo di Matteo sembra suggerire altro, perché il brano fa da contrappunto alla scelta di Gesù di chiamare sua madre e suoi fratelli i suoi discepoli ai quali “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11) con la proclamazione delle parabole del regno. Alla fine, però, gli ascoltatori non comprendono e Matteo li definisce come coloro che non vogliono essere familiari di Dio, esattamente come i concittadini di Gesù che lo rifiutano.

Le letture sottolineano la premura, incompresa, di Dio. La prima lettura riporta la parola rivolta al profeta Ezechiele: “Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genia di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.  Il popolo rifiuterà il profeta, ma la presenza del profeta illustra la premura di Dio per il suo popolo. E tutti sapranno che il profeta è in mezzo a loro, non per l’insegnamento che impartisce, ma per la sua testimonianza dell’amore del Padre quando lo perseguiteranno. Quello che i concittadini di Gesù non hanno fatto, il salmo responsoriale ce lo mostra come atteggiamento da tenere: “A te alzo i miei occhi … Come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi”.

L’episodio della predicazione di Gesù a Nazaret illustra bene la premura di Dio. La scena è racchiusa da due identici sentimenti di valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, diffidente, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire. Marco conclude: “E si meravigliava della loro incredulità”. Una meraviglia, quella di Gesù, però, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, come il resto del racconto evangelico proverà, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività ovunque.

Noi non ci accorgiamo che spesso la nostra incredulità nasconde una cattiva idea di Dio. A dire il vero non si tratta realmente di una mancanza di fede, ma di diffidenza, di riserva mentale. Quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani, si offendono, come se questa preferenza comportasse un’accusa per loro. Del resto, sembra la nostra stessa situazione. Il problema per noi suona più o meno così: perché la grazia non compie tutto ciò che promette? Pensiamo al perdono che domandiamo a Dio per i nostri peccati. Perché, pur chiedendolo sinceramente e ottenendolo, non ci troviamo poi ad agire da riconciliati qualora subissimo noi un’offesa? Forse che Dio vincola il suo perdono? Non sarebbe morto per noi! Pensiamo alla richiesta di una virtù: “Signore, fammi umile”. Perché, pur desiderando l’umiltà, non viene meno l’orgoglio e l’egoismo? Forse che Dio è geloso dei suoi doni? Non ci avrebbe dato il suo Figlio! Ecco, dunque, la meraviglia di Gesù: la nostra diffidenza o presunzione.

Il pensiero consolante è che Dio non si arrende alla nostra diffidenza. Sa che il nostro cuore ha bisogno di tempo per cedere, per arrendersi, per sciogliere le sue paure, le sue resistenze, le sue ambiguità. Per noi, l’importante è non lasciare mai il Signore, lasciarsi sempre riaccostare da lui in modo da supplicare il Padre: “vinci l’incredulità dei nostri cuori, perché riconosciamo la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio, e nella nostra debolezza sperimentiamo la potenza della sua risurrezione”. Il movimento suggerito dalla preghiera è appunto quello di imparare a vedere la gloria, cioè lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, proprio nell’umiliazione del Figlio che si consegna agli uomini perché sappiano quanto lui ami il Padre e quanto sia grande il suo amore per noi. Il che significa riconoscersi dentro una provvidenza di bene per noi, stando solidali con i sentimenti di Dio, in favore dei fratelli. Così facendo, potremo sperimentare la potenza della vita che viene da Dio, accogliendo in pace le infermità e le afflizioni della nostra storia, perché non sono quelle che ci allontanano dalla comunione con Colui che il nostro cuore cerca e di cui potente è la salvezza.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(14 luglio 2024)

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Am 7,12-15;  Sal 84 (85);  Ef 1,3-14;  Mc 6,7-13

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L’antica colletta: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”, fa ben vedere dove l’annuncio apostolico prende linfa e vigore. Chi annuncia, mandato dal Signore, ha già sperimentato quel ‘non avere nulla di più caro del Figlio’, l’unico che può colmare i cuori nei loro aneliti e nelle loro angosce. D’altra parte, è assai significativo che la chiesa vincoli l’intelligenza della verità al fatto di percepirla capace di interferire con le radici del nostro cuore (‘donaci di non avere nulla di più caro’), dentro cioè la possibilità di un’esperienza che renda la verità amabile e rigenerante. Per questo Paolo, come annuncia il canto al vangelo, può augurare: “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (cfr. Ef 1,17-18), riaccendendo la speranza iscritta nei cuori, sebbene spesso sepolta e persa.

Dopo il fallimento dell’annuncio a Nazaret, Gesù associa alla sua predicazione i dodici. Aveva già descritto la costituzione dei dodici in precedenza, con la motivazione: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (3,14). Li aveva formati e ora li raduna e li invia. Fa alcune raccomandazioni. Prima di tutto la tenuta dell’apostolo. Nella descrizione di Marco è ravvisabile la tenuta da viaggio del popolo all’uscita dall’Egitto, raccontata in Es 12,11: “Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta”. Gli apostoli guidano il nuovo esodo con l’annuncio del regno di Dio che in Gesù si manifesta. Ogni annuncio nella Chiesa ha così un sapore pasquale: comporta l’esodo dall’Egitto e l’accoglienza del regno di Dio, dentro l’esperienza della manifestazione della potenza di salvezza di Dio. Matteo e Luca, per sottolineare l’urgenza e la radicalità dell’invio, negano all’apostolo perfino il bastone e i sandali. All’urgenza della missione si può anche ricollegare il racconto della vocazione del profeta Amos. Caratteristica la successione dei verbi nel resoconto autobiografico del profeta: mi prese, mi chiamò, vai! Prima viene coinvolto nell’alleanza con Dio, poi gli è mostrata come sarà chiamato a vivere quella alleanza, infine gli viene ingiunto di eseguire il compito affidatogli.

Il gesto dello scuotere la polvere dai piedi, quando non dovessero essere accolti – gesto che era comune al pio israelita quando saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme proveniente da territori pagani e non voleva contaminare il sacro suolo d’Israele -, assume allora il significato: la pace che non avete accolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi, se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi; non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. La responsabilità dei discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa apparire davvero desiderabile.

Marco è l’unico a riportare che gli apostoli sono inviati due a due, come sigillo di fraternità per la pace ottenuta con la rivelazione del Signore Gesù salvatore. Quella pace ha un volto misterioso, invisibile, che riluce, ma nel nostro cuore, ed è il volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, costatabile, amabile, che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le ripeteranno, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l’efficacia appare dalla fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella non da soli, ma due a due.

È il senso della benedizione larga, onnicomprensiva, dell’apostolo Paolo all’inizio della sua lettera agli Efesini. Ricorda loro che tutte le cose devono essere ricondotte a Cristo (Ef 1,10). Usa un’immagine particolare, quella del ‘capitolo’, come era chiamata l’asta attorno a cui veniva avvolto il rotolo di pergamena che costituiva il volume. La missione degli apostoli tende appunto a ri-capitolare tutto in Cristo. È la stessa benedizione che Gesù ci insegna con la preghiera del Padre nostro, benedizione nella quale poter comprendere tutta la nostra vita, la storia dei nostri fratelli, la nostra storia comune. La missione che Gesù affiderà ai suoi apostoli mira a rendere percepibile, a far gustare ai cuori quella benedizione perché si radichino in essa e non possano più vivere se non a partire da e dentro di essa.

Si possono allora comprendere meglio le parole del salmo: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere annunciatori di quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù. Per questo il salmo, dopo avere supplicato: “Mostraci, Signore, la tua misericordia”, aggiunge: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio” (antica versione greca e latina), vale a dire: nella misericordia posso ascoltare la parola d’amore che spingerà il mio cuore a vivere nella misericordia perché l’amore sia condiviso. Di questo è intessuto la pace che gli apostoli annunceranno a tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(21 luglio 2024)

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Ger 23,1-6;  Sal 22 (23);  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

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Il brano evangelico di oggi, in verità, serve da introduzione al miracolo della moltiplicazione dei pani, che sarà proclamato nelle cinque domeniche successive a partire dal testo di Giovanni 6. Anche nei commenti antichi il brano è letto nella prospettiva del banchetto messianico, simbolo della salvezza definitiva offerta da Dio al suo popolo. In Marco, si racconterà poi una seconda moltiplicazione dei pani e sempre l’evangelista annoterà di Gesù che ‘ebbe compassione’ (Mc 6,34 e 8,1). Come fa pregare la colletta, il senso dell’ascoltare la proclamazione del vangelo è quello di riconoscere in Gesù colui che rivela agli uomini la compassione del Padre.

L’immagine che fa da sfondo a tutta la liturgia è quella del pastore. Nel brano di Geremia Dio rimprovera i cattivi pastori perché non hanno cura delle sue pecore e promette che lui stesso si incaricherà di pascere le sue pecore. Il salmo responsoriale riprende quella promessa di Dio e la mostra compiuta nell’anima: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Il brano di vangelo, a sua volta, mostra in Gesù colui che adempie quel desiderio di Dio tanto che diventa lui stesso il ‘buon pastore’, che istruisce e sfama le sue pecore.

Gesù ha premura degli apostoli, che invita a venire in disparte con lui per riposarsi dopo la fatica della missione e ha premura della folla che cerca la sua parola di vita. La compassione di Gesù per l’umanità è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. In essa prendono senso e valore tutti i suoi gesti e le sue parole, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra. Per il nostro cuore è estremamente importante riuscire a percepire gli echi di quella compassione. Se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). E ancora, perché sa che il cuore dell’uomo è angosciato e cerca riposo e, se non lo trova, è perché si illude di trovarlo fuori di Lui. Così quando, mosso dalla sua compassione, Gesù invita i discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, come riporta il passo di Mt 9,36-38, fa pregare non solo perché mandi tanti operai, ma soprattutto perché ne mandi di quelli che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Gli operai, che lavorassero in questa messe immensa, senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Del resto, come diventare il riflesso dell’amore e della compassione di Dio per gli uomini, senza stare in disparte con Gesù, senza godere la sua compagnia, senza la preghiera?

Un particolare del brano può aprire orizzonti insospettati. Quando Gesù invita in disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. L’accenno al riposarsi è misterioso. Si tratta dello stesso termine che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e io vi darò ristoro… e troverete ristoro”. In greco, riposo/ristoro è un unico termine. Ora, quel ‘ristoro/riposo’ corrisponde al movimento della sua compassione che viene incontro all’uomo perché l’uomo, agitato, tormentato, sfinito, finalmente possa riposarsi. Esso pesca nel riposo di Dio del settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna. Quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (Sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’. Stessa allusione che troviamo nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-31). L’ umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio, che è splendore di amore per noi, che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.

È singolare che Gesù inviti i discepoli a cercare un luogo solitario per riposare e che contemporaneamente si trovino davanti una folla numerosa, della quale Gesù ha compassione. Quando i discepoli annunceranno il regno di Dio non faranno che far arrivare ai cuori l’eco della compassione di Gesù, buon pastore, mandato a riunire i figli di Dio dispersi. L’annuncio che non provenga dalla condivisione, dalla solidarietà con quella compassione, sarà piatto e ripetitivo e non toccherà i cuori. D’altra parte, se i discepoli non impareranno a starsene in disparte con il loro Signore, non sentiranno la profondità di quella compassione e non potranno annunciare con potenza il regno di Dio. La vivacità, la vitalità – nel senso di portare la vita – della parola di Dio trova qui le sue radici.

Inviando gli apostoli in missione, Gesù li aveva forniti delle stesse sue prerogative: ‘scacciare i demoni, guarire ogni malattia e infermità’. La fonte di quelle prerogative sta nella condivisione della compassione di Dio per i suoi figli. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. Se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un ‘chiamato’, un ‘inviato’, lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(28 luglio 2024)

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2Re 4,42-44;  Sal 144 (145);  Ef 4,1-6;  Gv 6,1-15

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Per cinque domeniche successive la liturgia si soffermerà sul miracolo della moltiplicazione dei pani, ripreso dal cap. 6 di Giovanni, insieme al lungo discorso di spiegazione da parte di Gesù.

La rivelazione di Gesù, che l’evangelista vuole presentare, è ottenuta sovrapponendo il racconto del miracolo con la trama della storia di Israele e la celebrazione liturgica dell’eucaristia nella chiesa. La moltiplicazione dei pani è un gesto messianico e la folla sente giusto, anche se alla fine interpreta male. Nei libri sapienziali il regno messianico era presentato sotto l’immagine di un banchetto al quale la Sapienza invitava tutti “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato” (Sap 9,5). Tutto poi fa allusione alla celebrazione dell’eucaristia, di cui il miracolo è simbolo. Il racconto non ha il sapore di un semplice ricordo, ma la potenza di un ‘memoriale’ che si rinnova e partecipa la grazia che racchiude, grazia che arriva fino a noi che leggiamo o ascoltiamo.

È interessante costatare che la prima lettura, che riporta il miracolo della moltiplicazione dei pani ad opera del profeta Eliseo, è commentata con il salmo 144 (145), salmo che nell’interpretazione dei Padri è letto sulla falsariga della preghiera del Padre Nostro secondo le tre invocazioni: venga il tuo regno, dacci il pane quotidiano, liberaci dal male. Lo esplicita bene Cipriano di Cartagine: “Noi chiediamo che il regno di Dio sia ricreato in noi, così come chiediamo che anche il suo nome sia santificato dentro di noi. Aggiungiamo anche questo: ‘Sia fatta la tua volontà’, non perché Dio faccia ciò che vuole ma perché noi possiamo realizzare ciò che Dio vuole. La volontà di Dio è quella che Cristo ha compiuto e insegnato. L’umiltà nella vita, la fermezza nella fede, l’onestà nel comportamento, la misericordia nelle opere di bene, il non saper offendere e il saper sopportare l’offesa ricevuta, essere in pace con i fratelli”. Ebbene, di questo si tratta nel miracolo della moltiplicazione dei pani: essere rivestiti della gloria del regno, nella comunione con il proprio Dio, in solidarietà con i fratelli, nella fede del Figlio di Dio, pane disceso dal cielo.

Possiamo considerare tre piste differenti per cogliere la portata del miracolo evangelico. Possiamo vedere le cose dal punto di vista dei personaggi, dell’avvenimento e dell’esito finale.

Prima di tutto i personaggi: la folla, gli apostoli, Gesù. La folla cercava Gesù, aveva visto i prodigi di guarigioni che Gesù aveva compiuti e, come dice il canto al vangelo di oggi, aveva pensato: “Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo”. Quando si accorge del miracolo della moltiplicazione dei pani, ne coglie il valore simbolico e si entusiasma e vuole proclamare Gesù re pensando: “Finalmente i nostri guai sono finiti. Ecco chi ci libererà e stabilirà il regno di Israele”. Ma alla fine, quella stessa folla resterà delusa e abbandonerà quel Gesù di cui si era entusiasmata. Perché è così difficile per l’uomo entrare nel progetto di Dio e accogliere la Sua grazia? Seguire il Signore è diverso che desiderare il Signore. Rammentando un altro passo del vangelo, potremmo dire che effettivamente troviamo se cerchiamo ma non troveremo quello che cerchiamo. Se la grazia è grazia, vuol dire che non è semplicemente in funzione dei nostri desideri, sebbene sia proprio la grazia a colmare davvero i nostri desideri. Poi gli apostoli. Nella scena agiscono da intermediari. Sono ‘strumenti’ perché la compassione del Signore raggiunga tutti e tutti siano sfamati. C’è l’allusione al compito dei ministri della chiesa: spezzare il pane della Parola per l’intelligenza della fede.

E poi c’è Gesù. Alcuni dettagli sono preziosi. Sale sul monte (non dimentichiamo che nel vangelo di Giovanni non si fa cenno al discorso delle beatitudini sulla montagna). Alza gli occhi, come verrà descritto prima della grande preghiera sacerdotale nell’ultima cena (quello che sta per compiere o per pronunciare deriva dall’intimità con il Padre, di cui ne svela il mistero di misericordia per l’uomo). È vicina la Pasqua dei Giudei e i pani offerti da un ragazzo sono pani d’orzo, con l’allusione alla festa degli Azzimi che segnava l’inizio della mietitura dell’orzo: la vera Pasqua sarà quella celebrata da Gesù con la sua immolazione sulla croce. Moltiplica i pani, non li crea, con l’allusione all’episodio della tentazione di Gesù nel deserto dove appunto è tentato di trasformare le pietre in pani per dimostrare a tutti che lui è il Messia.

Se consideriamo l’avvenimento, molti particolari proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta erba, con una disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. Come ribadirà nel suo discorso, è Gesù il vero Pane disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo che possa colmare i desideri degli uomini. I verbi usati per descrivere il miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della celebrazione eucaristica.

L’esito però è drammatico. Tutti mangiano, tutti si entusiasmano ma nessuno in realtà capisce e nessuno sa vedere l’opera di Dio. Gesù si darà da fare per cercare di far capire, ma invano. Gli uomini potranno capire, ma dopo che avranno rimirato Colui che hanno trafitto. Quel pane mangiato diventerà pane di vita solo quando parlerà di quella passione d’amore di Dio per l’uomo. L’amore di Dio per l’uomo non lavora mai secondo il registro della potenza, così caro agli uomini, i quali vorrebbero soddisfare i loro desideri servendosi di Dio, invece che aprire i loro desideri a Dio e accoglierne la grazia. In realtà, tutta la difficoltà per il cuore degli uomini nei confronti di Dio risiede qui. Gesù sa bene questo e pur cercando in ogni modo di aprire la mente degli ascoltatori, nelle varie occasioni, sa di dover andare a Gerusalemme, dove la verità del Suo amore per gli uomini si farà splendente da conquistare finalmente i cuori e infiammarli dello stesso amore.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XVIII Domenica

(4 agosto 2024)

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Es 16,2-4.12-15;  Sal 77 (78);  Ef 4,17.20-24;  Gv 6,24-35

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Il senso del brano evangelico di oggi risalta maggiormente se teniamo conto di due particolari. Prima dell’incontro a Cafarnao, nella notte i discepoli avevano assistito a un altro miracolo: Gesù si era avvicinato loro camminando sulle acque e appena lo accolgono a bordo la barca tocca immediatamente terra. L’annotazione è preziosa perché alla fine, dopo il lungo discorso eucaristico di Gesù con la gente, anche per gli stessi discepoli le parole di Gesù suoneranno ostiche. Perché? Secondo particolare. Il brano è disseminato di allusioni scritturistiche. Gesù si presenta come il ‘Pane disceso dal cielo’, quindi come cibo. Ora, il cibo è in rapporto alla vita, e il passo da tenere bene a mente è l’affermazione solenne del prologo del vangelo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Quando Gesù si definisce pane è a questa rivelazione che si riferisce. A sottolinearne l’assolutezza, Gesù ritorna al suo battesimo al Giordano quando si aprono i cieli e ode la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17). L’aspetto straordinario dell’allusione è dato dal fatto che viene riportata con gli stessi termini della sposa in Cant 8,6: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore”. La relazione a cui si allude è una relazione di intimità di amore sconfinato. Presentandosi come ‘cibo per la vita eterna’, Gesù allude a quella relazione a noi partecipata perché è lui che fa conoscere il Padre nel suo amore per noi, è lui a introdurci nella sua stessa intimità con il Padre.

È tipico di Giovanni formulare la verità su Gesù attraverso un dialogo che, mentre allude all’esperienza della storia dell’alleanza di Israele con Dio, fa emergere gli aneliti e i sogni dei cuori. Al centro della pericope di oggi sta una grande questione: come decifrare i segni di Dio. E di conseguenza: quale opera il Signore ricerca dai suoi fedeli? Tutti avevano visto il miracolo, si erano entusiasmati per quel profeta straordinario e taumaturgo, ma alla fine tutti l’abbandonano. Perché non sono riusciti a vedere? Che cosa è mancato loro? Cosa si aspettavano?

L’esperienza del popolo di Israele è ben descritta dal salmo 77, vera griglia di lettura del miracolo della manna nel deserto, là dove si proclama: “Ciò che abbiamo visto e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, diremo alla generazione futura: le lodi del Signore, la sua potenza e le meraviglie che egli ha compiuto”. Hanno visto certi eventi, certi fatti straordinari, ma l’oggetto del loro racconto è altro: loro vogliono raccontare le meraviglie del Signore. Dicono la storia, ma raccontano Dio. Non si sono solo sfamati mangiando la manna, ne hanno colto il valore di segno: Dio li guidava, adempiva le sue promesse, restava fedele al suo amore per loro. Dal fatto si passa ad una storia, ad una relazione che mi ha costituito in essere e dà senso alle mie fatiche e ai miei drammi, che fa la mia storia.

La folla che aveva seguito Gesù vedendo il miracolo della moltiplicazione dei pani, non ha fatto questo passaggio nei suoi confronti. Ha preferito, delusa, giudicare il futuro a partire dal passato, l’inatteso a partire dall’atteso. Ha esigito di portare Dio nella sua testa piuttosto di aprirla a Dio. Ha preferito avere qualcosa che Qualcuno. Ora, se la folla, discepoli compresi, nonostante il fascino iniziale, non ha fatto quel passaggio, vuol dire che non è un passaggio scontato. Quando Gesù, per avvalorare le sue parole, risponde alla folla che su di lui il Padre ha posto il suo sigillo, dobbiamo rammentare le parole solenni, decisive e assolute con cui Giovanni presenta la singolarità di Gesù rispetto alle attese dei cuori: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

A me pare che due siano le domande di fondo della folla. Recependo il valore dell’invito di Gesù, la folla anzitutto chiede: quali opere compiere? Ma Gesù fa notare: la domanda vera non è quali opere, ma quale opera di Dio va compiuta. Come a dire: le opere non coinvolgono la radice di senso, di intelligibilità della vita. Il cuore non troverà il compimento dei suoi desideri nelle opere. La gente capisce che Gesù si attribuisce un compito che viene da Dio e chiede di venire istruita su ciò che è gradito a Dio. La particolarità della risposta di Gesù, imprevedibile per l’immaginario interiore della folla, sta nel fatto che Gesù non indica alcuna nuova legge o comandamento da attuare. Un’opera sola ricerca Dio: credere in Colui che egli ha mandato, perché è Colui che dà la vita al mondo. Credere a Dio significa accogliere il suo amore per l’uomo, manifestato nel Figlio, al punto da non poter vivere che di quell’amore, che dentro quell’amore, che dà senso a tutte le opere che posso intraprendere. Non sono però le opere a precedere, ma l’amore di cui queste si nutrono. E senza questa esperienza le opere non porteranno gioia e non si risolveranno in conoscenza amorosa di Dio e in tenerezza per il prossimo.

L’agire gradito a Dio è quello in rapporto alla salvezza. L’agire però non è un assicurarsi la salvezza (faccio bene, così sarò ricompensato). L’agire, quello che nel testo suona ‘datevi da fare per’ significa lasciare agire la salvezza che viene da Dio (partecipo al Bene di Dio per il mondo). Se il Bene di Dio per il mondo si concentra nel Figlio, inviato per essere dato in cibo (ecco tutto il significato eucaristico del brano), allora credere in Gesù significa entrare nella manifestazione del Bene di Dio al mondo. È questo che dà lode a Dio; è questo che risulta gradito a Dio. Ed è questo che compie gli aneliti dei cuori. Quando Gesù dichiara che il pane che lui dà soddisferà la fame dei cuori intende dire che i cuori non avranno più fame di altro, non si disperderanno in altro, non si illuderanno più di trovare altrove. Tanto che la domanda della folla “che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?” potrebbe essere resa: “Come vivere in concreto il comando dell’amore?”, tenendo presente che l’unica possibilità per l’uomo resta quella offerta da Gesù: l’unione con lui comunica la vita di Dio, che è amore, al mondo.

La folla avanza il dubbio: ma come possiamo essere certi della verità che ci viene svelata? È il dubbio celato nella richiesta del ‘segno’. Ma il segno non è più qualcosa, è Lui, l’Inviato. Accoglierlo significa accogliere la storia dell’amore di Dio per l’uomo; significa radicare in quell’amore l’intelligibilità della nostra vita e del mondo stesso. Dio nel Figlio fa grazia di sé agli uomini perché gli uomini possano, nel Figlio, fare grazia di loro a tutti e così far splendere la signoria di Dio nel mondo. È questa la porta stretta della fede: dare fiducia incondizionata al Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette libertà, verità e vita. Come interpreta l’antifona alla comunione: “Ci hai mandato, Signore, un pane dal cielo, un pane che porta in sé ogni dolcezza e soddisfa ogni desiderio”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(11 agosto 2024)

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1Re 19,4-8;  Sal 33 (34);  Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

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L’uomo, benché desideri la vita, ha paura a viverla. L’uomo fa difficoltà a cogliere e accogliere i segreti di Dio. Possiamo leggere in questa ottica il brano evangelico di oggi. Davanti all’offerta di un pane speciale da parte di Gesù, tutti chiedono: ‘dacci allora questo pane!’. Come la samaritana al pozzo, quando Gesù le parla di un’acqua speciale, chiede di averla. Forse, la richiesta, qui come là, nasconde una punta di ironia: sarebbe bello avere l’acqua, avere il pane, in modo da non avere più sete o fame, in modo da non fare più fatica, ma così non è. Chi promette questo non ci sta illudendo? Tuttavia, il desiderio del cuore è pur sempre quello e resta profondamente vero: il cuore cerca davvero un’acqua e un pane speciali, che ristorino, che rigenerino, che fortifichino, che facciano gustare la vita.

Nel rispondere alla folla, Gesù enuncia una segreta verità: “Non mormorate. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. E poco dopo aggiunge: “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui …”. Essere attratti, ascoltare, imparare. Il contrario di quello di cui la folla è rimproverata: voi sapete, conoscete, vedete, ma non arrivate a credere, cioè non vi lasciate toccare dall’amore di Dio. Commentando questo brano, S. Agostino ha un’intuizione geniale e cita un verso del poeta Virgilio: “trahit sua quemque voluptas” (Egloghe 2). Vale a dire: ognuno è attratto dal suo piacere. Corrisponde a quello che cantiamo nel salmo: “cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 37,4). In verità il testo del salmo non dice che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Gesù convalida la sua affermazione con la citazione del profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34). Ecco il punto, là dove si scopre l’amore del Signore: proprio nel Cristo siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo, cioè, nella sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere ‘direttamente’ Dio accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio. È quello che il salmo responsoriale ci invita a godere: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (Sal 33,9).

Il brano della lettera agli Efesini, che leggiamo tutte le settimane nell’ora di compieta, al mercoledì, lo illustra meravigliosamente: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”. Una precisazione sui termini. Benevolo corrisponde al termine buono del salmo 33. È lo stesso termine che usa Gesù per se stesso quando dice: ‘il mio giogo è dolce’ (Mt 11,30). In greco è sempre la stessa parola, con questa sfumatura di significato: si è buoni nel senso di servire, essere utili, giovare alla vita dell’altro. L’espressione poi “perdonandovi a vicenda …” andrebbe resa con “facendovi grazia gli uni gli altri come Dio ha fatto grazia di sé in Cristo a voi. Fatevi dunque imitatori di Dio”. Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo.

Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

In effetti, sembra risieda qui la risposta al perché l’uomo, per quanto desideri l’amore, fa resistenza a viverlo, per quanto desideri partecipare ai segreti di Dio se ne immagina illusoriamente di propri. La risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’, come di sé dice Gesù, non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente la vince sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo, là dove l’uomo perde ogni paura perché si trova perdonato e a casa.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2024)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla, con il rendere inefficace, vuoto, ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa della sua assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia visibile a tutti! E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Guardando alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, i fedeli non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”, e ripetere con il poeta: “Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

In lei i credenti possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). È la lettura evangelica della messa vespertina nella vigilia. Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Come Gesù ha detto di sé: “viene il principe del mondo; in me non ha nulla” (cfr. Gv 14,30). In lui c’è solo la parola del Padre, lui è la Parola del Padre, niente che sappia di questo mondo abita in lui e quindi il diavolo non trova nulla di suo in lui e così lui può esprimere in tutto il suo splendore l’amore infinito del Padre per noi. Così è della madre di Gesù.

Se poi colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio, racchiusa nella sua parola, di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio, che Dio ha di incontrare l’uomo, finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa maternità spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Da interpretare: ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il proprio Dio. Per questo la Chiesa prega oggi la Vergine gloriosa dicendo con l’orazione alle offerte: “… per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”. Così come è stato per lei.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XX Domenica

(18 agosto 2024)

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Pr 9,1-6;  Sal 33 (34);  Ef 5,15-20;  Gv 6,51-58

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Di fronte alla mormorazione della gente, Gesù non retrocede e radicalizza ancora di più il suo discorso. A partire dal v. 54, per quattro volte, Gesù non dice più ‘chi mangia’, ma ‘chi spezza con i denti’, dando al mangiare tutto il suo realismo. Non solo, ma collega il mangiare al ‘rimanere in’, come si spiegherà nell’ultima cena: “rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Così l’invito a cibarsi della sua vita diventa: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia (spezza con i denti) me vivrà per me” (Gv 6,57).

Il discorso ha dell’inaudito, evidentemente. La gente alla fine concluderà: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Per questo, la colletta di oggi fa pregare: “donaci l’intelligenza del cuore”. Il primo collegamento di intelligenza risalta dall’abbinamento del passo del libro dei Proverbi al brano evangelico. Ciò che Gesù promette corrisponde al desiderio profondo dei cuori. Ciò che va dicendo illustra il compimento del desiderio dei cuori. I credenti sono assunti nella stessa dinamica di vita del Figlio di Dio, inviato come pane del cielo per renderci partecipi della stessa vita divina. Questo è l’aspetto straordinario delle parole di Gesù. Ciò significa che l’uomo ha radici celesti per cui la sua umanità fiorisce in ragione di quel ‘rimanere’ in colui che ci ha mostrato tutto l’amore di Dio in modo da condividerlo con tutti.

Così, la grande questione risulta essere: come ottenere l’intelligenza della vita. Essa appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la ricerca comunque.

Il brano dei Proverbi presenta l’invito di Donna Sapienza e di Donna Follia agli uomini, che sono inesperti e privi di senno rispetto alla vita, che misteriosamente li attrae ma non in maniera scontata. Si tratta di ‘camminare per la via dell’intelligenza’, che la Scrittura presenta come il fascino di una donna che attira, l’una alla vita, l’altra alla morte, ma con una ‘esortazione’, non con una ‘dimostrazione’. Il che significa che occorre saper ‘vedere’, occorre ‘imparare l’intelligenza’, occorre fidarsi dei desideri del cuore e di chi lo guida. Alla fine, l’intelligenza si manifesta con il seguire chi è degno di fede, non chi ammalia solo.

Il brano di Paolo rivela il contesto in cui avviene questo discernimento: i giorni sono cattivi, occorre fare buon uso del tempo (letteralmente, occorre riscattare il tempo, aprirlo cioè al mistero sul quale si affaccia). In sostanza ci dice che per essere intelligenti, occorre essere spirituali, per essere spirituali occorre essere oranti, per essere oranti occorre diventare capaci di rendere grazie, per avere questa capacità occorre essere sottomessi: “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti spirituali, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,18-21). Purtroppo, le edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: “…rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Anche il testo liturgico della seconda lettura è stato decurtato dell’ultima espressione.

Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c’è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere grazie continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti, il prossimo.

Se consideriamo le parole di Gesù da questa prospettiva, tutto appare più chiaro. Se le persone che lo ascoltavano non avevano accettato l’idea di un Gesù ‘pane vivo che discende dal cielo’, come avrebbero potuto accettare l’idea di Gesù che si fa pane da masticare, da rompere con i denti, di un Gesù che intende dar da mangiare la sua stessa carne? È evidentemente necessario un forte supplemento di intelligenza!

Quando mangiamo il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il corpo di Gesù, ma è lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore, partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio per il mondo. La preghiera dopo la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Mangiare l’Eucaristia significa diventare partecipi della vita del Cristo, significa rivestirsi dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende, imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio? E così, se l’uomo vuole la vita e dimorare nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(25 agosto 2024)

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Gs 24,1-2a.15-17.18b;  Sal 33 (34);  Ef 5,21-32;  Gv 6,60-69

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Si conclude il lungo discorso di Gesù a proposito della sua rivelazione: lui è il pane disceso dal cielo, il cibo di vita eterna. L’esito non è felice, nessuno ha compreso e il grosso dei discepoli conclude: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”, andandosene via. Di per sé, l’esito è ancora più drammatico se consideriamo la finale del capitolo 6 di Giovanni, che la liturgia omette, con l’accenno a Giuda Iscariota, colui che consegnerà il maestro nelle mani dei suoi avversari. È Gesù stesso a sottolinearlo: “Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!” (Gv 6,70).

Davanti all’abbandono di tanti, Gesù non abbassa la posta in gioco per essere accettato e passa la palla ai suoi apostoli: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Pietro, a nome dei Dodici, risponde a partire da ciò che l’aveva affascinato fin dall’inizio e che la parola ostica del discorso di Gesù non ha scalfito: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,67). Anche lui non comprende, come la folla dei discepoli, ma, a differenza loro, rimane con Gesù. La fiducia rinnovata in lui lo renderà capace, a suo tempo, di cogliere il segreto di Gesù.

La liturgia di oggi pone due grosse questioni. La prima: l’uomo può scandalizzarsi del suo Dio. Può facilmente passare dall’entusiasmo alla delusione, forse per le attese/pretese che non abbandonano mai il cuore dell’uomo e restare sulla sua fame. La seconda: su chi o cosa fare fiducia per non fallire la vita?

La prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, descrive il popolo d’Israele entrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, e con la sola eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si vuole servire? Quale dio servire? La scelta è appunto tra Dio e gli dèi, gli idoli. L’insegnamento di fondo è che l’uomo non dispone di libertà assoluta; ha la libertà di scegliere chi servire. Nel linguaggio della Scrittura ‘servire’ Dio allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima, sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. E il ‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. Ma per quale verità si è disposti ad impegnarsi?

Lo esprime bene il popolo: “Perciò anche noi serviremo il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (Gs 24,18). ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. Da notare che coloro che parlano così non hanno visto personalmente i prodigi di Dio che li aveva liberati dalla schiavitù egiziana. Lo affermano sulla base del racconto dei loro padri. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri; c’è soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i loro padri, e quindi per loro stessi. La stessa cosa avviene per i discepoli di Gesù. Di fronte alla sua persona, questo appunto risalta: lui mostra il Dio che si appressa a noi. Come in lui Dio serve noi, così noi in lui serviamo Dio, vale a dire lo riconosciamo nel suo amore per noi. Come ripetiamo nel salmo responsoriale, il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi. Perché l’amore di Dio si mostra nell’umanità di Gesù sotto le categorie della debolezza e della stoltezza al giudizio del mondo, che è lo stesso giudizio della carne, quella che Gesù dice non servire a nulla per trovare e avere la vita.

Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non banalizza il suo mistero. Ne svela i vari aspetti, ma il mistero resta. Questo significa che la tensione del cuore, come giustamente proclama Pietro, non va puntata sul contenuto del mistero, ma sul dinamismo che lo caratterizza: “Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito…”. Da cogliere è la ‘intenzione’ di Dio, che va diritta al cuore. È appunto ciò che fa Pietro rispondendo a Gesù. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore, perché intuisce che lì può trovare la vita. L’accento della sua affermazione cade sul ‘Tu’ hai parole di vita eterna. Sarà sempre quel ‘tu’ che permetterà a Pietro di attraversare le sue fragilità, i suoi tormenti, il suo tradimento. Se si fosse fermato a ciò che Gesù diceva, molte volte avrebbe abbandonato il suo maestro, perché spesso non riusciva a capire, perché fraintendeva, perché la sua pretesa di gloria gli impediva di entrare nel segreto di Gesù. Basta rileggere il racconto evangelico da questa angolatura per rendersene conto.

Alla fine viene da pensare: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del suo rifiuto? È Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone per rispondere con il nostro amore al suo amore. Niente è scontato, se tutto è grazia. Così, lo spazio di libertà in cui è posto l’uomo è in funzione della possibilità dell’incontro col suo Dio, nella gioia di servirlo facendo fiorire la sua umanità. L’uomo però può anche scegliere di andare dietro altri dèi, che gli sembrano garantirgli migliore soddisfazione, per scoprire poi che si è lasciato illudere, restando in balia delle sue ossessioni. Ecco, l’uomo è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza con i suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. È lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, toccata da una gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza però sempre misteriosa, imprevedibile e decisamente drammatica.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(1 settembre 2024)

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Dt 4,1-2.6-8;  Sal 14;  Gc 1,17-18.21b-22.27;  Mc 7,1-8.14-15.21-23

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La grande questione che oggi la liturgia propone è come acquisire l’intelligenza della vita. Gesù appunto rimprovera i suoi discepoli: “Così neanche voi siete capaci di comprendere?” (Mc 7,18). Nel libro del Deuteronomio, Mosè dice al popolo: “Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente” (Dt 4,6). Interessante notare la ragione di tale intelligenza: “Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,7). Ecco, la vicinanza di Dio, la percezione della sua vicinanza, l’esperienza custodita della sua vicinanza, questa è la radice di intelligenza. Il che significa che il cuore dell’uomo ha bisogno di quella ‘prossimità’ per fiorire nella sua umanità. E, nello stesso tempo, significa che è la parola di Dio a nutrire il cuore dell’uomo, a custodire il suo cuore.

A sottolineare la verità, niente affatto scontata, di questa intuizione santa, il testo del Deuteronomio aveva premesso: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio” (Dt 4,2). Solo il comandamento di Dio ha il potere di portare la vita. Ma è così facile per l’uomo aggiungere e togliere, rivestendo i suoi ideali o i suoi obblighi di coscienza con la nobiltà del comandamento di Dio. Quando però l’esecuzione del bene non porta vita, vuol dire che al comandamento di Dio abbiamo aggiunto o tolto e proprio in quell’aggiungere o togliere ci esponiamo all’illusione e poi alla delusione.

Ben a proposito, quindi, la Scrittura dice: non aggiungere né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un comandamento, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Posso mangiare e avrò la conoscenza…! E incontra la morte.

L’aspetto misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto al nostro cuore, abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter accogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge, fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose [parole] che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita”.

La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14 (15), il quale riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur nobile, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica deriva spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, obblighi, esclusivamente umani. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore, ma solo con l’apparenza, con la società, con i vincoli di coscienza. Le parole di Gesù si riferiscono a un problema particolare, quello della purità rituale quanto al cibo (negli Atti degli apostoli, ascolteremo ancora Pietro dire che nella sua bocca non è mai entrato nulla di impuro!) ma hanno un valore generale. Forse, non teniamo sufficientemente in conto che l’osservazione di Gesù sul fatto che è dal cuore che proviene ciò che può contaminare l’uomo e non dai cibi, stabilisce una perfetta uguaglianza tra gli uomini. Ogni pratica rituale è separante nel senso che stabilisce confini e distanze tra gli uomini, mentre Gesù plaude a una solidarietà piena, davanti a Dio, di tutti gli uomini. Ciò che rende impuro l’uomo vale allo stesso modo per tutti gli uomini. Così non ci sono più distinzioni tra gli uomini, perché tutti siamo confrontati con le stesse cose e con lo stesso bisogno di invocare Dio.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(8 settembre 2024)

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Is 35,4-7a;  Sal 145 (146);  Gc 2,1-5;  Mc 7,31-37

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Secondo il vangelo di Marco, Gesù non ha mai predicato ai pagani, ma ha attraversato le loro terre e ha compiuto alcuni miracoli a favore di persone pagane. Il brano di vangelo di oggi riporta appunto il secondo di questi miracoli in terra pagana, la guarigione di un sordomuto. I gesti e le parole di Gesù hanno un’alta valenza simbolica tanto che il toccare gli orecchi e la lingua è diventato un rito specifico battesimale.

Rispetto al mistero di Dio e della vita siamo come sordomuti: non sappiamo ascoltare né parlare ‘bene’. Potremmo chiederci: di quale parola abbiamo bisogno? Nelle preghiere quaresimali, ad es. quella di s. Efrem, domandiamo di venir liberati dalla parola vana, dalla parola vuota. La prima preghiera che la Chiesa fa pronunciare ogni mattina, al sorgere del sole, ripresa dal salmo 50, v. 17, proclama: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode”. Ed è significativo che la lode sia contrapposta al sacrificio nel senso che il Signore non vuole il sacrificio, ma la lode di un cuore contrito che torna al suo Signore, pentito e desideroso della sua comunione. Nei riti battesimali dell’apertura e della rinuncia a satana, quando, la vigilia del battesimo, al candidato venivano toccati orecchi e bocca perché diventassero capaci di ascoltare e parlare dei misteri di Dio, la Chiesa si riferisce ai battezzandi come a bambini piccoli che imparano a parlare. E quale parola si suggerisce loro di dire? “Padre nostro” e non: ‘padre mio’, rinunciando così ad ogni dipendenza nei confronti di qualsiasi altro padre terreno e carnale, cioè al diavolo.

Il miracolo di Gesù narrato nel vangelo fa risaltare la dinamica che la guarigione comporta. Si tratta di miracoli di apertura. Gesù non è un mago, sebbene taumaturgo; non pronuncia parole magiche, ma semplicemente la parola effatà, cioè apriti. La sordità comporta spesso anche il disturbo della parola. Non si tratta però solo di rivelare la potenza di guarigione di Gesù, ma di far convergere il cuore, nella fede, verso la rivelazione del mistero della Persona di Gesù in rapporto alla grandezza dell’amore di Dio per gli uomini. Ciò verso cui il sordomuto è invitato a volgersi è proprio Gesù perché possa vivere la sua vita nell’alleanza con Dio che si è fatto suo prossimo. La lode delle persone guarite allude a questo tipo di apertura del cuore.

Il miracolo è segno dei tempi messianici che in Gesù si compiono. Ce lo rivela la risposta di Gesù ai messaggeri di Giovanni Battista, che dal carcere gli manda a dire: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù risponde proprio citando il profeta Isaia: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono …” (Mt 11,5). Risposta, a cui allude la costatazione della gente dopo la guarigione del sordomuto: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Chi sia Dio in verità ce lo rivela solo Colui che appunto è stato inviato a svelare a tutti la grandezza del suo amore. È il segreto messianico, che si svelerà a suo tempo. Ora prevale il comando del silenzio, perché il miracolo parla solo della potenza di quel taumaturgo e non è ancora capace di rivelare la grandezza dell’amore del Signore, come avverrà sulla croce e con la risurrezione.

Se consideriamo la meraviglia della gente: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”, non possiamo non riandare al racconto della creazione secondo il libro della Genesi. A conclusione di ogni atto creativo, viene annotato: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’espressione della gente rivela che siamo in presenza ormai della nuova creazione, quella dei tempi messianici, quando Dio rinnova ogni cosa ridando a ciascuna cosa il suo splendore eterno perché tutto torni a proclamare la gloria del suo amore.

Lo stesso termine con cui viene designato il sordomuto, prima come uno che parlava confusamente, poi come uno che parla correttamente, distintamente, fa pensare al miracolo della Pentecoste. La confusione del linguaggio è la conseguenza della stoltezza degli uomini che vogliono competere con Dio. Rinunciando alla gloria di Dio, gli uomini si trovano estranei tra di loro tanto da non capirsi più. Una volta che gli orecchi possono ascoltare la Parola, la lingua sarà libera di glorificare Dio perché in quella parola, sanante, è riconosciuta la Presenza del Signore che unifica tutti.

Il salmo responsoriale descrive come Dio manifesta il suo regno sigillando la sua presentazione con l’affermazione: Dio mantiene la fedeltà per sempre, Dio rimane fedele per sempre. L’aspetto straordinario di questa descrizione dell’agire di Dio sta nel fatto che collega creazione e redenzione, riportando sotto un’unica luce tutto il mondo: nelle cose e nell’uomo splende l’amore di Dio che soccorre. Corollario di questa intuizione profonda è il fatto che la perfezione dell’uomo è descritta nel suo diventare lode di Dio nel mondo. La lode sposta il baricentro dell’uomo, non più centrato su di sé, ma tutto teso al suo Signore riconosciuto per l’immensità e la fedeltà del suo amore. Gesù è proprio questo che svela, proprio di questo si fa testimone tra di noi. Tutte le sue parabole parlano di questo. Tutta la sua vita illustra questo. Così la lode della gente non è una semplice annotazione di cronaca, ma diventa indicazione di percorso. La via della perfezione è diventare lode, farsi lode, trasparenza dello splendore dell’amore di Dio per il mondo.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(15 settembre 2024)

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Is 50,5-9a;  Sal 114 (115);  Gc 2,14-18;  Mc 8,27-35

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È il primo annuncio della passione nel vangelo di Marco. Gesù prende sul serio la confessione di Pietro che, a differenza della gente, crede che Gesù sia proprio il Messia e non semplicemente un profeta inviato a preparargli la strada. È la sua confessione a indurre Gesù a svelare il suo segreto.

Tre sono i particolari che ci guidano a cogliere la rivelazione di Gesù. Anzitutto, il vangelo non riporta che Gesù abbia cominciato a parlare del suo destino di passione, ma annota: “cominciò ad insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto…” (Mc 8,31). I due termini, insegnare e doveva, indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso. Pietro, in effetti, non ci arriva e subito dopo viene rimproverato. D’altro canto, non si vuole sottolineare una necessità di destino, ma il segreto di un amore che si consegna, un segreto di cui si è messi a parte, anche se misterioso. Quell’insegnare riguarderà tutto il movimento che caratterizzerà il discepolo nell’entrare nel segreto di Gesù e si riferisce al dono dello Spirito, perché la carne si troverà spiazzata. Sarà il passaggio dallo Spirito alla carne, dal dentro al fuori.

Secondo particolare. Pietro riconosce il Messia, ma conserva una sua idea di Messia. In pratica, vuole suggerire a Dio come dovrebbe essere. Gesù lo richiama all’unico movimento che gli permetterà l’intelligenza del suo mistero: “Va’ dietro a me”.  Gesù riprende la rivelazione di Dio raccontata in Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè che potrà vederlo solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola, si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo camminando dietro il Maestro si potrà vederlo in verità fino alla ‘contemplazione’ (termine caratteristico per indicare la visione di realtà supreme, oltre la materialità della vista) della croce, là dove risplende l’amore di Dio per gli uomini, convincendo i cuori che solo da quell’amore scaturisce la vita per l’uomo e che solo in quell’amore la dignità della vita si fa godibile. In quel ‘dietro a me’ sta tutto il movimento di abbassamento del Figlio di Dio che assume la forma di servo, movimento che l’uomo fatica ad assumere perché vuole la gloria prima dell’amore, la soddisfazione della carne prima della gioia dello Spirito.

Terzo particolare. Gesù aggiunge la ragione del suo rimprovero: “tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. In cosa si differenzia il pensiero secondo Dio dal pensiero secondo gli uomini? Gesù lo spiega subito dopo rivolgendosi a tutti: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. L’uomo, sempre alla ricerca della gloria, non si sognerebbe mai di impostare la sua vita secondo questa dinamica. Ma la ragione è quella che dicevo prima: vuol vivere l’amore in funzione della gloria, invece di lasciare la gloria per vivere l’amore, che peraltro è il desiderio più assoluto del cuore dell’uomo. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana, come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù, che sulla croce rivelerà lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto (anche questo significa l’insegnare con cui si apre il brano di oggi) per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia a ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Il ‘rinnegare se stessi’ ha il valore: rinuncio alle mie paure per dare spazio alla fiducia di te, non resto bloccato nel mio passato, e di vissuto e di inconscio, per aprirmi al futuro che mi viene incontro e mi segnala il dono di Dio. In questo senso vale quello che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere vivacemente percepibile al nostro cuore tale verità.

Perché si possa avverare per ciascuno di noi quello che invoca la bellissima preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”. L’azione dello Spirito apre la nostra carne alla conoscenza del segreto di Gesù, che ci rende partecipi della sua stessa dinamica di vita e di amore, oltre ogni impedimento. Avverrà come un incontro, profondissimo, intimissimo, dell’ascoltarsi a vicenda di Dio e dell’uomo, come suggerisce il brano del terzo canto del servo del Signore: “mi ha aperto l’orecchio” e il salmo commenta: “ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo”. L’orecchio di Dio e quello dell’uomo tesi all’ascolto reciproco. Anche così può essere descritto il nostro ‘star dietro’ a Gesù. Da intendere però, come insegna la tradizione chassidica, in questo modo: “Un uomo entusiasta di Dio vagò nell’universo fino ad arrivare alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali, ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(22 settembre 2024)

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Sap 2,12.17-20;  Sal 53 (54);  Gc 3,16-4,3;  Mc 9,30-37

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Il brano evangelico concatena tre contesti: il secondo annuncio della passione, la discussione tra i discepoli, l’esortazione di Gesù di accogliere i bambini. Partiamo dalla discussione dei discepoli. In effetti, non si tratta semplicemente di un parlarsi, ma della contesa della discussione, come esprime il verbo che usa Gesù quando fa loro la domanda: “Di che cosa stavate discutendo per la strada? …. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande”.

La liturgia ci introduce nei sentimenti di Gesù verso i discepoli con la lettura del libro della Sapienza. Il brano non va letto solo come un annuncio profetico della passione di Gesù, ma per la prospettiva nella quale la profezia dona la sua luce. Il brano riporta il discorso degli empi introducendolo con le parole: “Dicono fra loro sragionando…” e concludendolo: “Non conoscono i segreti di Dio”. Ecco, la rivelazione di Gesù consiste nell’essere messi a parte dei segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. E l’annuncio della passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla mente degli uomini, eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.

La ricerca della grandezza è tema sensibile per il cuore dell’uomo. Gesù non condanna i discepoli; accetta che l’uomo desideri essere grande. La sfida è appunto: quale grandezza cercare? Se si confrontano i passi paralleli di Marco 9 e di Matteo 18, potremmo interpretare la discussione dei discepoli tra di loro in questo modo. Marco si preoccupa di non tradire l’insegnamento di Gesù. Per lui, ‘grande’ allude al voler essere ‘primo’ in ordine di prestigio, di importanza. Matteo invece si preoccupa di non fallire l’entrata nel regno dei cieli. Per lui ‘grande’ allude alla conversione per il regno dei cieli: chi entra nel regno dei cieli?

Così al desiderio di grandezza dell’uomo segue l’indicazione della sapienza dall’alto che indica la strada e la natura della grandezza secondo Dio, come fa pregare l’antica colletta: “O Dio, Padre di tutti gli uomini…donaci la sapienza dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”. La qualità della grandezza gradita a Dio è nell’ordine della comunione, della gioia per l’altro, della gioia condivisa con il Maestro. È questo il senso del servizio.

Nel racconto di Marco, quando Gesù dice: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”, pone se stesso a modello della grandezza. Di sé dice: “Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Così, voler essere il servo di tutti significa voler essere ritrovato in colui che è il Primo e che si è fatto servo di tutti. Quando, nel racconto dell’Apocalisse, il Figlio d’uomo compare in visione a Giovanni, si presenta con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente”. Quelle parole non attestano semplicemente la verità personale del Risorto, ma la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio ai suoi figli che Gesù ha mostrato in tutto il suo splendore. Da intendere: io, che sono il primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene.

L’esempio dei bambini è più misterioso. Marco riporta l’abbraccio di Gesù a un bambino mentre dice: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me” (Mc 9,36). Accogliere un bambino, quindi al di là di ogni riconoscimento mondano del bene che si compie, significa vivere la propria umanità come espressione della gloria del Signore. Significa far splendere in questo mondo la gloria del Signore. Nel testo di Matteo 18,1-5, invece, leggiamo: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”. Purtroppo, la traduzione ‘si farà piccolo’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, cioè con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è risuscitato.

Quando accogliamo un uomo senza altra qualificazione se non quella della sua ‘umanità’, senza altro titolo di importanza o di merito o di demerito, allora accogliamo Gesù. E lo possiamo fare perché già abbiamo imparato a godere dell’intimità con il Padre, che in quella ‘umanità’ ha posto la sua compiacenza e di cui abbiamo potuto fare esperienza credendo al Figlio dell’Uomo dato per noi. Così diventare come bambini comporta l’esperienza di una umanità che non ha bisogno di altri titoli di gloria, proprio come davanti ai bambini non si guarda ad altro se non che sono bambini.

Se Giacomo, nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando, nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(29 settembre 2024)

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Nm 11,25-29;  Sal 18 (19);  Gc 5,1-6;  Mc 9,38-43.45.47-48

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Se in precedenza la domanda che serpeggiava nel cuore dei discepoli era: “chi è grande?”, ora, nella risposta di Gesù, quella domanda suona come un avvertimento: guai a vivere la grandezza sulla testa di qualcuno; guai a non tener conto dei piccoli!

Il brano di vangelo, al di là del contenuto specifico delle parole di Gesù, sottolinea due realtà: l’estrema preziosità della fede nel Signore Gesù e la segreta tensione per il Regno. Ambedue le realtà sono suggerite dal canto al vangelo: “La tua parola, Signore, è verità; consacraci nella verità” (cf. Gv 17,17). Come se, davanti alla proclamazione del vangelo, pregassimo: fa’ che viviamo della verità delle tue parole, aderendovi intimamente, in tutta evidenza per il nostro cuore.

Le letture di oggi evidenziano una strana realtà dei credenti: si può essere gelosi dei doni di Dio! Giosuè, il servitore fedele di Mosè, non accetta che lo spirito di profezia possa essere donato al di fuori dell’autorità del suo maestro e i discepoli di Gesù non accettano che il dono di scacciare i demoni possa essere esercitato al di fuori della loro cerchia. Dio invece è libero nell’elargire i suoi doni, non è vincolato a nulla e da nulla. Presso Dio, la gelosia degli uomini per i suoi doni rivela l’incomprensione totale dell’agire di Dio, l’incapacità di riconoscere la dinamica dell’agire di Dio.

Il discorso di Gesù però va oltre e allude ad un aspetto misterioso della vita. Rispetto a chi non ha ancora fede in lui Gesù dice: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico che non perderà la sua ricompensa”. La sottolineatura risulta: chi accoglie voi, accoglie me. Gesù ritiene fatto a sé ogni attenzione o cortesia rivolta ai suoi discepoli. È la benedizione di Gesù su coloro che non lo conoscono, ma ne rispettano l’insegnamento con la gentilezza nei confronti dei suoi discepoli. E potremmo dedurre per tutti in generale: anche un semplice bicchiere d’acqua è degno di ricompensa, se offerto in rettitudine di cuore! L’aspetto misterioso consiste appunto nel fatto che ogni minima cosa, fatta nel nome di Cristo, apre sul mistero del regno dei cieli, che Gesù è venuto ad indicarci presente, fruibile. Per i discepoli di Gesù sembra suoni strano che Dio dia la stessa ricompensa anche a coloro che discepoli non sono! Sono così incomparabili il regno dei cieli e i nostri meriti, che non è pensabile di raggiungere il regno dei cieli con qualche azione straordinaria, strepitosa, sempre immensamente impari allo scopo. La speranza viene dal fatto che nel nome di Gesù ogni minima azione può aprirsi sul regno dei cieli e ciò è accessibile a tutti perché a tutti Gesù rende vicino il Regno.

Gesù si rivolge poi ai discepoli e indica la condizione di fondo che rende possibile quell’apertura misteriosa. “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala … Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo … Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna …”. Gesù parla in modo duro, ma solo per esprimere la radicalità della possibilità che ci è offerta. Il senso delle sue parole potrebbe essere così interpretato: se l’uomo ha il coraggio di agire seguendo i desideri più profondi del suo cuore, nell’esperienza della fede, allora abbandonerà i desideri superficiali, momentanei, che sono in contrasto con quelli. Posso portare un esempio. Vengo offeso da un fratello? Il mio cuore mi convince di esigere scuse da lui per ristabilire il mio diritto e se il fratello tarda o si rifiuta io resto nella mia offesa. A volte è solo il senso della mia importanza ad essere ferito o la mia vanità o la mia presunzione. Ebbene, se applichiamo gli esempi di Gesù, potremmo spiegare: vuoi ottenere il tuo diritto? Rischi di perderti completamente. La tua importanza ti impedisce (=scandalizza) di entrare nel regno dei cieli? Abbandonala, tagliala via e tu entrerai nel regno. La difesa del tuo diritto ti fa entrare in guerra con il tuo fratello? Lasciala, tagliala via e tu vedrai il regno dei cieli. Oppure: vuoi prevalere sul tuo fratello? Stagli invece sottomesso: scoprirai la grazia del Regno. È l’invito perentorio di Gesù: una strada a metà non esiste. Esiste solo l’incapacità nostra di seguire il Signore fino in fondo, ma questa, una volta riconosciuta, senza ulteriori giustificazioni, senza più contrapposizioni con il prossimo, ci può far entrare nel regno per la via dell’umiltà. E l’aspetto più misterioso della faccenda si rivela nel fatto che quel tagliare via, in realtà, è un pervenire ad una integrità più fondamentale, più armonica, più profonda. L’esempio di un s. Francesco di Assisi è di una eloquenza suprema. Rinunciando completamente ad ogni forma di possesso, non solo dei beni materiali, ma di ogni diritto personale esigito sugli altri, scopre la grazia di una nuova fraternità che ha fatto sognare moltitudini immense e che ancora oggi sa suscitare energie segrete per seguire il Signore e stare in comunione con gli uomini.

I misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù, fuoco e sale della vita. Non per nulla il capitolo 9 di Marco termina con queste parole misteriose: “Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale … Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. Potremmo interpretare: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore (ecco il fuoco) e rinuncerete sia a ogni forma di ambizione e rivalità che di impoverimento di desideri e di tensione spirituale (ecco il sale), vivrete custoditi e lieti, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di Dio in voi, come frutto del dono dello Spirito Santo e godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato.

Gli atteggiamenti interiori che rivelano l’esperienza del Regno si riducono così a due: gioire del bene (sia quello fatto da noi che da altri, ascrivendolo a Dio) e non ferire mai la coscienza del prossimo, specie dei deboli e dei piccoli. Allora potremo cantare con il salmo responsoriale: “i precetti del Signore fanno gioire il cuore”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(6 ottobre 2024)

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Gn 2,18-24;  Sal 127 (128);  Eb 2,9-11;  Mc 10,2-16

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Per comprendere la richiesta dei farisei a Gesù è necessaria qualche precisazione esegetica. La domanda non verteva tanto sul carattere lecito del divorzio, che anche la Legge consentiva (Dt 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”), ma a quale condizione lo fosse. Nella controversia tra le due scuole di Hillel e Shammai, ai tempi di Gesù prevaleva la prima, più rigorista: il divorzio è lecito solo a una condizione, in caso cioè di unione illegittima (che anche Mt 5,32 contempla) o di adulterio, mentre più tardi prevalse la seconda, più lassista: il divorzio è lecito per qualsiasi motivo. La legge sul divorzio proteggeva la donna dall’accusa di adulterio, perché le permetteva un nuovo matrimonio. Sembra che i farisei si siano accorti della radicalità dell’insegnamento di Gesù e sperano di coglierlo in fallo rispetto alla Legge che invece permetteva il divorzio.

La risposta di Gesù si colloca nell’interpretazione più rigorista della legge mosaica, ma in una prospettiva completamente diversa. La lettura del passo in parallelo con Mt 19 ne fa scaturire tutta la portata. La legislazione sul divorzio non è un comandamento ma una concessione.

Gesù, contrapponendo comandamento a concessione, arriva al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. Fondamentalmente, vale per l’uomo il pensiero di Dio: “Non è bene che l’uomo sia solo”. La sovranità esercitata sugli esseri viventi, che vengono fatti sfilare davanti all’uomo perché dia loro un nome, non arriva a soddisfare l’anelito costitutivo dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Il termine uomo del testo è un nome indicativo generale. Si potrebbe tradurre: “L’uomo è un essere per”. Praticamente un uomo diventa tale quando non è più il centro di se stesso. Ma per farlo uscire da se stesso, occorre un ‘tu’ a cui riferirsi e così Dio crea la donna, in modo che l’uomo (questa volta, il singolo uomo, la singola donna, in ebraico non più ‘adam’ ma ‘ish’ e ‘isshah’) possa agire come Dio. È a quel punto che Dio li definisce nella benedizione mai venuta meno: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”.

Potremmo spiegare la cosa così. Dio è Uno, ma non è solo. In questo mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle Persone, rivelato da Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce, l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la donna, che non è tratta come Adamo e tutte le cose dalla polvere del suolo, ma dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.

Lo sottolinea anche la liturgia con il canto al vangelo: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Come a suggerire: l’amore, che ha le sue origini in Dio, rende uomini e donne di pari dignità perché solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è proprio la consumazione dell’amore di Dio che si rivela in essi. Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino in fondo la decisione di quell’amore da essere vissuto in modo indissolubile.

In effetti, la posizione di Gesù è vincolata all’accoglienza del Regno, al fatto di vederlo come colui che compie il volere di Dio per l’uomo. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima passione.

Così, l’indissolubilità del matrimonio diventa una esigenza del regime messianico insieme a tutto il resto. Proprio in questo trova senso il paragone dei bambini che leggiamo subito dopo: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”. Vi è l’allusione alle beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli …”. I bambini, da interpretare come ragazzi prima del bar mitzvah, quando cioè a pieno titolo entrano nella società degli adulti con il poter leggere pubblicamente la Bibbia e contribuendo al numero legale per un’assemblea di preghiera, sono l’immagine dei discepoli che non hanno titolo di importanza o prestigio, che non si aspettano nulla, che non esercitano alcun potere, che possono confidare solo in chi vuole loro bene. Di questi è il regno dei cieli, di quanti cioè hanno posto in esso tutta la loro confidenza e in nient’altro, non cercando quindi ricchezze o prestigio o finendo di servirsi di Dio invece che essere suoi servi. L’insegnamento di Gesù è chiaro e i discepoli restano pensierosi. Dovranno fare ancora tanta strada insieme al loro Maestro per accogliere queste sue parole e viverne la potenza.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(13 ottobre 2024)

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Sap 7,7-11;  Sal 89 (90);  Eb 4,12-13;  Mc 10,17-30

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Se paragoniamo le figure di Salomone, a cui si ascrive la paternità del libro della Sapienza, da cui è tratta la prima lettura di oggi e quella del giovane ricco che chiede a Gesù come poter avere la vita eterna, comprenderemo meglio la risposta di Gesù e lo sbigottimento dei discepoli.

Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. La sapienza viene dall’alto, procede da una rivelazione accolta come partecipazione alla vita di Dio e diventata energia di vita, radice di comportamento. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘manifestazione della gloria di Dio’, di consistenza dell’agire dell’uomo. Grazia, gloria e consistenza, che esprimono la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, rivelazione che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende splendente. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza.

E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le colpe, Signore, Signore chi ti può resistere? Ma con te è il perdono …” vuol dire che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono di Sé.

Quando si presenta il giovane ricco, sembra che l’orizzonte della sua richiesta sia molto più limitato. Non è soddisfatto delle sue ricchezze e della sua vita, e per questo corre da Gesù, ma non riesce a distinguere tra i beni il Bene. La vita eterna che mostra di volere è assai diversa da quello che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha dettato. In effetti, un conto è eseguire i comandamenti, un conto è cogliere l’ispirazione segreta dei comandamenti; un conto è praticare il bene, un conto è cogliere il frutto della pratica del bene. Certo non ha ancora scoperto quello che si legge nel Cantico dei cantici: “Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo” (Cant. 8, 7). E questo perché aveva appena proclamato: “Le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina”. Letteralmente ‘una fiamma di Jah [YHWH]’, cioè la manifestazione al cuore della verità di Dio. La sapienza è la capacità di non contrabbandare questo amore goduto con le ricchezze del mondo che passano. In effetti, il salmo responsoriale non fa che sottolineare il fluire inesorabile del tempo, dove ricchezza-salute-bellezza [piacere] svaniscono con lui. Per questo si chiede: “Saziaci con il tuo amore”.

Il dramma di noi credenti viene proprio dal fatto che possiamo praticare il bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona nell’affermazione di Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Si possono fare i comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. È per questo motivo che Gesù, desideroso di avere amici che condividono quei segreti, invita il giovane. Non si tratta tanto di lasciare tutto, quanto di venire dietro a Gesù, l’Inviato sul quale riposa tutta la compiacenza del Padre e nel quale anche gli uomini possono gustare la benedizione di quella compiacenza. L’uomo non arriva direttamente al frutto se non stando dietro al Signore Gesù: è Lui che ci introduce nel Regno, in quella intimità con Dio che sazia il desiderio del nostro cuore.

Se Gesù sottolinea che la ricchezza rende impossibile agli uomini il Regno, intende dire che è impossibile secondo le vedute che hanno gli uomini, mantenendo le vedute proprie degli uomini, ma non secondo le loro possibilità, tra le quali, la prima, è proprio quella di dare credito di fiducia al loro Dio. Ed è esattamente quello che i discepoli sono invitati a fare tanto che, alla fine, Gesù confermerà i suoi discepoli nel seguirlo fino in fondo, rendendoli partecipi del suo stesso vissuto: ‘Viene il principe del mondo ma in me non ha nulla e perciò non mi potrà sottrarre l’amore per voi che condivido con il Padre in tutta intimità e anche per voi sarà così’. È l’esito che il giovane ricco rifiuta perché mantiene la sua veduta. Pensa che il dono di Dio segua il principio dell’addizione: a quello che ho vorrei si aggiungesse quello che è da Dio. Invece – ed è lo sbigottimento dell’uomo! – la grazia viaggia sul principio di sottrazione: avrai se lasci e quello che avrai ti ridarà maggiorato quello che hai lasciato. È avvenuto per Salomone, è avvenuto per gli apostoli, è avvenuto per i santi, avviene anche per noi.

Dalla reazione dei discepoli si deduce che la distanza tra loro e quel giovane non è poi così marcata. Anche i discepoli condividono con quel giovane il suo modo di pensare. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono ‘capaci’ di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano e si compiono lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno nell’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro; dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la ‘promessa’ che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore la beatitudine: “beati i poveri in spirito [= non hanno altra ricchezza se non il regno di Dio], perché di essi è il regno dei cieli”, ricordato dal canto al vangelo.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(20 ottobre 2024)

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Is 53,10-11;  Sal 32 (33);  Eb 4.14-16;  Mc 10,35-45

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Si possono cogliere le implicazioni profonde delle parole di Gesù se si collocano nel loro contesto appropriato. Gesù sta salendo a Gerusalemme e gli apostoli sono impauriti per la sua decisione. Per la terza volta annuncia la sua passione descrivendola dettagliatamente, parole che la prima lettura riprende con il quarto carme del Servo del Signore nella visione del profeta Isaia. L’annuncio del profeta, però, non va ascoltato nella tragicità degli eventi dolorosi che si intravedono, ma nella logica del salmo 32 che lo commenta, cantato come salmo responsoriale, a partire dal versetto 11: “Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni”. Introducendo il commento alla preghiera del Padre nostro scrive Massimo Confessore: “È probabile che con ‘volontà’ [disegno] di Dio, del Padre, intenda l’ineffabile abbassamento (cfr. Fil 2,7) del Figlio unigenito per la divinizzazione della nostra natura, in ragione della quale ha circoscritto tutti i secoli; e con ‘pensieri’ del suo cuore intenda i principi della Provvidenza e del Giudizio, secondo i quali regola saggiamente la nostra vita presente e quella futura, come differenti generazioni, assegnando a ciascuna il modo conveniente di operare”.

L’abbassamento del Figlio è dunque lo spazio nel quale gli uomini sono collocati per apprendere l’amore del loro Dio, mentre tutti gli eventi della vita sono retti dalla Provvidenza di Dio che ci vuole partecipi del frutto che quell’abbassamento ci ha procurato. Rivelazione, che tutta la liturgia di oggi si premura di sottolineare con la solenne dichiarazione di Gesù: “il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, proclamato dal canto al vangelo. La sofferenza del Figlio dell’uomo nel progetto di Dio per gli uomini, che non vuole lasciare lontani da sé, può essere così intesa: se su di noi è l’amore del Signore, non ci saranno più contese e divisioni tra noi, perché i cuori saranno conquistati alla sua gloria, cioè allo splendore del suo amore, che si rivela nel Cristo che patisce e muore per noi. E se questo è il progetto di Dio, non c’è pensiero ostile o forza contraria che potrà prevalere.

Nel passo di Marco, la richiesta dei due discepoli è seria, non proviene da cuori vanesi o boriosi. È in gioco il senso stesso della loro vita, il senso della loro sequela, il senso di quell’evangelo che li ha toccati profondamente e che nella persona del Maestro ha concentrato le tensioni dei loro cuori. I due discepoli, insieme a Pietro, sono i prescelti per ogni circostanza speciale, dal Tabor al Getsemani. E Gesù riconosce la loro lealtà. Sa che sono disposti a seguirlo fin nella sua passione [di fatto Giacomo morì martire verso l’anno 44 a Gerusalemme, secondo At 12,2, mentre la tradizione che, fondandosi su questo passo, fa martire Giovanni è chiaramente posteriore. Anche in questo risalta la ‘misteriosità’ della parola di Dio: in che senso Giovanni ha bevuto il calice della passione, se non è morto martire?]. Eppure, la loro richiesta è inaccoglibile e non certo per evitare la gelosia degli altri. A cosa mirano dunque le parole di Gesù?

Gesù rifiuta ogni collegamento tra il desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito da Dio solo. Non che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne scaturirebbe un fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione profonda credo risieda nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro significa uscire da quella dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa assolutezza Gesù richiama e rimanda.

Del resto si concatena bene a questa anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo: “…chi vuole diventare grande  tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Perché voler essere grandi comporta dover servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Si tratta di realizzare una grandezza che sa liberare la dignità degli uomini rivelando loro di essere non soltanto oggetto di amore, ma soggetti di amore. Il servire procura questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto sa troppo di questo mondo, sul quale esercita il suo potere il diavolo. Quando Gesù chiede ai figli di Zebedeo: ‘potete bere il calice che io bevo?’ è come se chiedesse: potete stare solidali con il desiderio di Dio verso gli uomini e contemporaneamente stare solidali con l’umanità di modo che il suo amore risplenda liberatore per voi stessi come per loro? Questa è la posta in gioco del servire. E questa è la posta in gioco della grandezza secondo Dio, che compie, per noi e per tutti, insieme, le attese dei cuori.

Un’ultima annotazione. Nel brano di Marco, rispetto alla grandezza vale il servizio vicendevole (nel testo: sarà vostro servitore), rispetto al primato vale l’essere ultimi nel senso di essere schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo di tutti). Nell’ultima cena, Gesù si muove non solo come servitore, ma come schiavo e in questo rivela il segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo potesse condividere quel segreto, si troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe la sua vita nella dinamica di liberare la dignità degli uomini in modo che sia esaltato l’amore di Dio per loro.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(27 ottobre 2024)

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Ger 31,7-9;  Sal 125;  Eb 5,1-6;  Mc 10,46-52

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Il brano evangelico di oggi ha degli accenti assolutamente speciali. I verbi, anzitutto. Tutti i verbi del brano sono intensivi: Bartimeo, il cieco alle porte di Gerico, grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro un’emozione che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e, appena lo vede, non può che mettersi a seguirlo. Tutto il racconto assume una valenza simbolica precisa, che la liturgia fa risaltare.

La prima lettura è tratta dal cap. 31 di Geremia, il capitolo che descrive il compiersi della promessa di Dio per gli esuli a Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore al suo popolo e tutto sarà riedificato nuovamente. Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso.

A noi sfugge la dimensione drammatica di queste promesse di Dio, come sfugge la tensione emotiva del cuore del cieco che ha tanto atteso il suo momento. Geremia vede in sogno la realizzazione del ritorno del popolo dall’esilio e legge il suo sogno come la profezia del futuro. In realtà, attorno a lui, a Gerusalemme, tutto è distrutto, la città svuotata, le sofferenze immani e la prostrazione abissale. Ma Dio non può venir meno alle sue promesse e il profeta vede, spera, crede, lotta per rianimare e consolare.

Così per Bartimeo, che troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato. Quando gli si presenta l’occasione, tutto scoppia, prorompe, e lui perde ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio.

I particolari che illustrano la tensione interiore di Bartimeo sono due: il grido, ‘Figlio di Davide’ e il nome con il quale si rivolge a Gesù: ‘Rabbunì’. Nei vangeli sinottici, se non vado errato, soltanto nel caso del o dei ciechi di Gerico ci si rivolge a Gesù con ‘Figlio di Davide’ (in Matteo, anche la donna cananea usa quel titolo, lei, pagana!). L’espressione è da collegare all’esclamazione che subito dopo, entrando Gesù in Gerusalemme, la folla proclama festante. Allude al mistero di Gesù che si sta svelando e che nessuno coglie. Bartimeo sembra presagirlo. Lo conferma il titolo con il quale si rivolge a Gesù quando gli arriva davanti: “Rabbunì”, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù. Quella espressione nasconde un mondo. Quel modo di riferirsi a Gesù fiorisce solo sulle labbra di un’altra persona: Maria Maddalena. Quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16), ella risponde: Rabbunì! Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto ricco di intimità, assolutamente personale, riassume la sua storia, contiene tutto il suo cuore di donna e di discepola. Per Bartimeo quell’appellativo cela tutto il desiderio che aveva a lungo lavorato il suo cuore, esprime una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie, il Paradiso nel quale tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori.

Ora, questo è l’esito della preghiera: tornare ad avere il cuore che vede svelarsi e compiersi nel concreto della vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità. La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo risplenda della Sua presenza.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1 novembre 2024)

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23 (24);  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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La Chiesa contempla oggi il paradiso dei santi attorno al trono dell’Agnello. Il suo sguardo non è attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo fondano, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Lo splendore della santità come manifestazione dell’amore di Dio per noi costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgersene più. Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana.

È caratteristico che nella liturgia bizantina la domenica di tutti i santi segua la festa della Pentecoste. Come presentasse la vera icona dello stato escatologico, che ci ha ottenuto la risurrezione di Gesù, vissuta ora come caparra, ma contemplata nella sua pienezza di splendore, in rispondenza alla domenica del giudizio finale e della cacciata dall’Eden dei progenitori, che aveva segnato l’inizio del periodo di digiuno quaresimale. Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, fino allo splendore finale in cui tutto si fa manifesto. Ecco, la liturgia ci affina gli sguardi per contemplare la figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8) perché su tutto prevalga e rifulga l’amore di Dio per il mondo.

Il vangelo mostra le finestre attraverso le quali quella luminosità si fa visibile con la proclamazione delle beatitudini. Vanno intese come le vie che lo Spirito di Dio ci fa percorrere per essere trovati in quel Figlio, capace di attirare gli sguardi degli uomini che così possono contemplare la santità di Dio, che è splendore di amore immolato:

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità;

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini;

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere e agire come figli di Dio, fino a che la terra del loro cuore splenda della presenza del loro Signore;

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono;

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce;

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo se non di perseguire la pace con tutti ottenutaci dal Figlio di Dio;

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che promette.

Con l’invito di una santa nostra contemporanea a purificarci: “Non rimproveriamo il mondo, non rimproveriamo la vita, di velare per noi il volto di Dio. Troviamolo questo volto, ed esso velerà, assorbirà ogni cosa” (Madeleine Delbrêl).

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, quella che ti rende capace di vedere nella stessa luminosità le icone dei santi e i volti dei peccatori, quella che non toglie bellezza a nessuno. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

(3 novembre 2024)

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Dt 6,2-6;  Sal 17 (18);  Eb 7,23-28;  Mc 12,28b-34

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Il brano del vangelo di Marco comporta una particolarità unica nei vangeli. È l’unico passo di tutto il vangelo in cui Gesù si congratula con uno scriba. Quello scriba, che alla fine riceve l’elogio di Gesù: ‘Non sei lontano dal regno di Dio’, aveva assistito alla discussione di Gesù con i sadducei a proposito della risurrezione dei morti. Aveva certamente notato che la forza del ragionamento di Gesù si basava sul fatto che Dio era proclamato Dio dei vivi: “Non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio Giacobbe?  Non è Dio dei morti ma dei viventi!” (Mc 12,26-27; cfr. Es 3,6). Se Dio è Dio dei viventi, vuol dire allora che la morte non costituisce barriera per Lui; vuol dire che la morte non distrugge la Sua fedeltà che tutto sovrasta. Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa che il cuore enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore, che arriva all’uomo nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme la sua storia. Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. In altri termini, non si può conoscere Dio che stando in relazione con lui. E siccome Dio è tutto amore, non si può conoscere che nell’amore. È appunto un Dio così scoperto che vuole essere amato con tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.

Mi ha sempre colpito il fatto che gli antichi commentatori ebrei abbiano spiegato la compassione del loro Dio in questi termini: Dio aveva previsto che il suo popolo l’avrebbe rigettato, ma lo volle liberare lo stesso per amore del suo nome; Dio aveva previsto la ribellione del suo popolo, ma anche visto che il suo popolo avrebbe proclamato: “Dio è il mio Dio” (Es 15,2) e “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7), commuovendosi davanti al popolo che avrebbe professato l’impegno incondizionato di obbedienza al proprio Dio prima ancora di udire i comandamenti che avrebbe ricevuto.

L’espressione del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” comporta tanti aspetti segreti. Anzitutto ricorda che ‘nostro/mio’ e ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza.  Secondo la bellissima espressione di Origene tale è la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”. L’amore è una questione di appartenenza nell’intimità, all’opposto dell’appartenenza come possesso, perché l’amore esalta la libertà e la libertà l’amore.

La dichiarazione di Gesù allo scriba costituisce la preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante, denominata ‘Shema’, dalla prima parola iniziale: ascolta, Israele! L’ebreo prega Dio che dice al suo popolo: ascolta! La cosa straordinaria è che il nome del popolo contiene il nome di Dio; non solo, ma il nome del popolo finalizza la preghiera a uno scopo ben preciso. Israele è il nome che viene assunto da Giacobbe dopo la lotta con l’angelo. È un nome di benedizione. La lotta con l’angelo era per ottenere la sua benedizione, cioè la manifestazione di Dio. Si danno due etimologie di questo nome a seconda del verbo ebraico a cui si fa riferimento: Israele, colui che combatte con Dio (per ottenere la sua manifestazione, e vince); Israele, colui che ha visto (l’angelo di) JHWH. In ogni caso, il movimento interiore è per la visione, è per la conoscenza in intimità di Dio. L’invito ‘ascolta’ è teso al fatto di conoscere Dio, conoscere il suo amore e coglierlo nella sua azione redentiva nella storia.

Tre sono i passaggi da notare. Anzitutto: ‘Ascolta’! L’atteggiamento che meglio corrisponde, da parte dell’uomo, a questo invito, è la disponibilità ad ascoltare comunque, prima ancora di udire che cosa viene detto; a mettere in pratica comunque, prima ancora che ci vengano dette le cose da fare. Proprio come gli antichi commentatori ebrei spiegavano Es 24,7.

Poi: ‘Il Signore è il nostro Dio’. È il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio.

Quindi: ‘Tu amerai’, cioè posso rispondere personalmente e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso a un segreto, a un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà va letto dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro, della fioritura di ciò che portiamo in germe. La ‘scoperta’ della fede in Gesù ci colloca proprio dentro quella prospettiva. Ed è per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia di quella scoperta, viene elogiato.

Del resto, nella risposta di Gesù viene descritto tutto il movimento di intelligenza delle Scritture, che non può non portare a far condividere con tutti quello che ormai è percepito come il tesoro del cuore, per cui dal primo comandamento si passa direttamente al secondo, quello dell’amore del prossimo. Non però nel senso che l’amore per l’uomo è parallelo, per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso che l’amore per l’uomo non sarà totale che a partire dall’amore per Dio. La fede è sempre all’origine della carità, sebbene sia la carità a verificare la sincerità della fede. Così tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito e che è tesa a mostrare il mistero della fraternità come rivelazione della presenza di Dio nel mondo, parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Se hai scoperto quel che comporta l’incontro col Signore Gesù (“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”, Mt 11,28-30), allora vivi della sua promessa (“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”, Gv 14,21.23), nella fiducia che “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(10 novembre 2024)

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1Re 17,10-16;  Sal 145 (146);  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

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I testi della liturgia di oggi suonano strani per il nostro modo di ragionare. Dio ordina al profeta Elia di rifugiarsi a Sarepta, in territorio pagano, perché una vedova provvederà a lui, ma quella donna non ha di che sfamarlo. Il salmo 145 (146) esalta la fedeltà di Dio, ma non è proprio così usuale in questo mondo vedere gli oppressi liberati; i ciechi, gli storpi, i malati, risanati; gli stranieri, gli orfani e le vedove, categorie di persone per eccellenza, nell’antichità, deboli, sostenuti; gli empi, i potenti, gli oppressori, abbattuti.

Tutta la liturgia di oggi può essere letta come il commento della Chiesa all’elogio che Gesù tributa a una povera vedova, a sua insaputa, per i due spiccioli che vi aveva buttato restando senza più risorse lei per vivere. La preghiera della vedova è proprio giunta al Signore, come canta l’antifona di ingresso: “Giunga fino a te la mia preghiera, tendi l’orecchio alla mia supplica, Signore”. Perché è a pieno titolo ‘familiare’ di Dio, come proclama il canto al vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. L’antifona alla comunione ne svela la ragione: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla …” Di questa certezza era colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Se traduciamo letteralmente l’espressione di Gesù ne capiamo meglio la profondità. Si dovrebbe tradurre: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti … portatori di pace … misericordiosi …”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché, se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose, vale a dire il tempio e il suo popolo per cui si portavano le monete al tesoro. Gesù vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze sembrano giocare a sfavore.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita sua e del profeta e del popolo dei credenti in generale. Nessuna offerta di questo tipo ha un valore meramente individuale. Riguarda sempre l’insieme, coinvolgendo insieme Dio ed il suo popolo, per cui la vita in questo mondo risulterà più vivibile e la presenza di Dio più tangibile, per tutti. Il canto al vangelo: ‘beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli’, se letto in rapporto alla vedova, acquista una risonanza più profonda. Lei è di quei poveri nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri in spirito avranno parte al regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, avremo toccato il regno dei cieli, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi. Così in effetti prega la chiesa dopo la comunione: “La forza dello Spirito Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi tutta la nostra vita”. Come a dire: lo Spirito del Signore radichi i nostri cuori nello stesso atteggiamento di fede della vedova, che ha strappato a Gesù quell’elogio pieno di ammirazione.

Un’ultima annotazione. Il salmo responsoriale 146 è il primo dei cinque salmi che ogni mattina vengono proclamati insieme nella liturgia ebraica, l’Hallel quotidiano. I dieci alleluja che li caratterizzano sono paragonabili alle dieci parole con cui Dio ha creato il mondo (“Dio disse” ricorre dieci volte) e alla dieci parole dell’alleanza del Sinai. Creazione e alleanza percepite sotto il segno della lode, dentro una vita aperta allo splendore del regno. Questo la vedova elogiata da Gesù viveva nella sua indigenza per la fede nel suo Dio.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(17 novembre 2024)

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Dn 12,1-3; Sal 15 (16);  Eb 10,11-14.18;  Mc 13,24-32

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Il ciclo dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa si trova proiettata nella tensione della ‘attesa della fine’. Le letture di oggi ricordano gli eventi ultimi, misteriosi, quelli che precedono la seconda venuta del Figlio dell’uomo sulle nubi, quando verrà nella gloria a giudicarci e ad aprirci le porte del Regno. In un’unica sequenza vengono mescolati gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente. Come disporre il cuore ad ascoltare la parola di vita che risuona in tutte queste parole?

La finestra di luce è data dall’antifona di ingresso che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura. Voi mi invocherete e io vi esaudirò: vi radunerò da tutte le nazioni dove vi ho disperso»”. È la testimonianza del profeta fatta recapitare per lettera agli esiliati in Babilonia, invitati ad accettare la prova nell’attesa dell’intervento liberatore del Signore, senza cedere a false promesse di falsi profeti per false e presunte liberazioni che non ci sarebbero state. Anche la colletta si esprime nella stessa ottica: “… accresci in noi la fede, ravviva la speranza e rendici operosi nella carità, mentre attendiamo la gloriosa manifestazione del tuo Figlio”, che l’antica colletta concludeva con l’aggiunta: “che verrà per riunire tutti gli eletti nel suo regno”. Come a dire: donaci lo Spirito di Gesù che fa risplendere il tuo amore tra gli uomini perché anche noi, mossi dallo stesso amore, possiamo vedere fin da ora l’avvento del tuo regno che compone in unità i figli di Dio dispersi. Se per questo lui è venuto, in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi. Questo, perché dice il Signore: “Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi. Oracolo del Signore” (Ger 29,13).

L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini roboanti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da lui discende e che a lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di lui, progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è sempre il medesimo: state attenti, vegliate! Non ingannate il vostro cuore, non lasciatevi ingannare! Tra l’altro, il capitolo 13 di Marco finisce con la parola ‘vegliate’. E subito dopo inizia il capitolo 14 con il racconto della passione di Gesù. Niente di quel che accade è coglibile nel suo mistero se il cuore è disperso, vaneggia o resta irretito nelle passioni umane.

Lo ripete il canto al vangelo: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo”. La frase completa suona: “… perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire [stare in piedi] davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,36). L’avvertimento riguarda la verità della vita che sempre ci sfugge, la realtà di un incontro che farà emergere la verità della vita, come ci ricorda il seguito del passo parallelo di Matteo con la parabola del giudizio finale. Qui si insiste sul fatto che non ci sarà tempo per prepararsi come noi vorremmo, non varranno giustificazioni di sorta, non ci sarà possibilità di sottrarsi al giudizio e perciò tanto vale vivere oggi nell’ottica della verità che comporta quel giudizio. Perché, ci ricorda Gesù: “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.

Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini sia che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il nostro agire, nell’oggi che ci è dato, sia teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Così, ogni evento della fine non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero consuma la storia, aprendola al suo fine, alla rivelazione di quel progetto di pace.

La domanda angosciosa che ci accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno tanto dolore? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Potremmo timidamente rispondere: si convince forse un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio. Proprio come canta l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore ho posto il mio rifugio”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”. Da intendere: possiamo davvero venir custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così ne resta conquistato, in modo tale che quell’amore risulti il segreto vero della nostra umanità, la nostra potenza di vita.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico B (2023-2024)

Solennità e Feste

XXXIV Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

(24 novembre 2024)

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Dn 7,13-14;  Sal 92 (93);  Ap 1,5-8;  Gv 18,33b-37

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Il ciclo liturgico si chiude fissando lo sguardo su due immagini che si sovrappongono: quella dell’Agnello e quella del Re. L’antifona di ingresso canta: “L’Agnello immolato … a lui gloria e potenza nei secoli dei secoli”. Salmo responsoriale e letture presentano la figura del Figlio dell’uomo nello splendore della sua gloria regale. Sebbene l’immagine del re richiami la signoria universale di Gesù e il suo ruolo di Giudice alla fine dei tempi, la liturgia sceglie come icona della regalità il brano evangelico del processo davanti a Ponzio Pilato e ai capi dei giudei.

Quando Pilato rientra nel pretorio e fa chiamare Gesù, prima di chiedere che cosa abbia fatto di male, gli chiede: “Sei tu il re dei Giudei?”. Non usa l’espressione tradizionale ‘re di Israele’, dal significato messianico, improprio sulla bocca di un romano. Secondo lui, il fatto che sia reo di morte per le autorità giudaiche comporta che si sia fatto passare per re. E quando Pilato chiede a Gesù cosa abbia fatto di male, Gesù risponde parlando della propria regalità. E abbina il suo essere re alla testimonianza della verità. È questo il passaggio determinante che va compreso.

Nel linguaggio biblico verità e fedeltà sono espresse da un unico termine ‘èmet’. A differenza della lingua greca per la quale la verità è la rivelazione di ciò che è nascosto, nella lingua ebraica la verità è ciò che resta fedele a se stesso, che rimane stabile senza cambiamenti. Ora, la verità e la fedeltà che di Dio si professa in tutte le Scritture è la sua misericordia, il suo amore misericordioso, che non viene mai meno nonostante le ribellioni dell’uomo. Potremmo dire: la verità di Dio è la fedeltà ininterrotta al suo amore per l’uomo. Gesù è proprio il Testimone per eccellenza di quella verità.

Il re messianico, colui che avrebbe inaugurato l’era messianica, era designato con l’espressione ‘colui che viene’, espressione che era risuonata festosa, pochi giorni prima, sulla bocca dei discepoli all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ripresa dal canto al vangelo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11,9-10). Per mettere maggiormente in risalto il valore dell’espressione sarebbe bene tradurre: ‘Benedetto nel nome del Signore colui che viene!’. Se teniamo presente che quell’espressione risuona come definizione di Dio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) e che l’ultima parola della Bibbia si raccoglie in un doppio grido da e per Colui che viene: “Sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), allora se ne può intuire la densità di significato. Sono tutti termini che si riferiscono alla grandezza e infinitezza dell’Amore misericordioso di Dio per l’uomo, Amore che ha posto in essere le cose, le ha guidate al loro compimento nel fatto di partecipare alla dinamica di questo amore che tutto avvolge e tutto fa splendere, Amore che si concentra proprio in Gesù nel suo essere vilipeso e condannato ma in cui sovrano regna l’amore. Nella definizione di Dio non rientra la qualifica ‘Colui che sarà’, come verrebbe spontaneo aggiungere alle prime due: Colui che è e che era. Perché il futuro non è che la potenza del presente infinitamente dilatato fino a comprendere tutti i tempi e l’eternità. Perché di questo si tratta con Gesù, proclamato re: l’Amore di Dio è vittorioso su tutto. Re va abbinato a Onnipotente nell’amore. E qui risalta ancora più stridente l’accusa delle autorità giudaiche con cui Gesù è stato consegnato a Pilato: è un malfattore (letteralmente: fa cosa cattiva), lui, che incarna la Bontà di Dio per l’uomo, proprio di lui viene detto che fa cosa cattiva!

Un’espressione nel prologo della Regola di s. Benedetto richiama potentemente questa rivelazione della regalità di Gesù che permea i discepoli che vogliono correre nelle vie di Dio descritti ‘col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore’. Partecipano di quello che il prefazio della messa di oggi canta rispetto alla regalità del Cristo: ‘assoggettate al suo potere tutte le creature …’. Se Gesù è re e la sua regalità si manifesta come testimonianza alla verità, che è splendore dell’amore del Padre per noi, allora non possiamo non intendere che l’amore è l’azione di signoria sul mondo. La verità è l’opposto del potere ed è per questo che la verità proclamata da Gesù splende regale sulla croce. In questo senso il suo regno non può essere di questo mondo. Non vuol dire però che non riguarda questo mondo, ma più semplicemente e più potentemente che si esprime in questo mondo potendo trasfigurare il mondo nella potenza del suo amore misericordioso, potendo far risplendere le minime cose senza sciuparle, potendo riprendere ciò che è rotto e farne un canale. Come Gesù aveva promesso: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Se riandiamo alla grande preghiera sacerdotale di Gesù nel cap. 17 del vangelo di Giovanni, notiamo come la sua intercessione per i credenti riguarda il fatto che siano una cosa sola, che siano custoditi dal maligno e che conoscano il vero Dio e colui che ha mandato. Ora, conoscere il vero Dio comporta il fatto che l’uomo rinunci radicalmente all’adorazione di sé, al fatto di prendersi per piccolo dio, in modo che non abbia più bisogno di esercitare alcun potere per farsi grande ma si sottometta totalmente all’amore che rende tutti grandi. Nel definire i figli di Dio come re, sacerdoti e profeti, come testimonia il Nuovo Testamento, si allude al regno della signoria di Cristo per cui si partecipa alla comunione con lui nell’essere una sola cosa con il Padre (re è allusivo anche di Adamo prima del peccato quando l’abito della carne era lo splendore della comunione con Dio), alla sua dignità sacerdotale nell’offrire la vera adorazione al Padre, alla sua dignità profetica nel bucare la cronaca quotidiana aprendola alla potenza della parola che salva. Così preghiamo con l’invocazione del Padre Nostro: venga il tuo regno, si manifesti in noi il tuo regno, ora e sempre.