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Intervento di p. Elia Citterio al convegno organizzato a Bucarest sulla figura di s. Paisij a 300 anni dalla sua nascita.

Monastero di Comana (contea di Giurgiu), 25-26 maggio 2022

Qui il programma completo del convegno – PDF

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Nel settembre 2019 si è tenuto a Bucarest un Congresso internazionale sul tema “Le traduzioni di letteratura patristica nell’Europa sud-orientale”, dove il dott. Daniar Mutalap ha presentato nel dettaglio la composizione della famosa Filocalia de la Dragomirna.[1] Fin dal 1769, a Dragomirna, la prima sede della comunità paisiana in territorio romeno dopo il ritorno di Paisij dall’Athos con i suoi discepoli nel 1763, il monaco Rafail poteva raccogliere, in una voluminosa antologia di 626 pagine, una serie di testi sulla preghiera di Gesù, frutto di traduzioni romene antiche e nuove, comprendente gli autori della famosa Filocalia (Venezia 1782), più due autori moderni, vale a dire l’opera di Nil Sorskij (1433-1508) e le Introduzioni  dello starec Basilio di Poiana Mărului (1692-1767) a Gregorio Sinaita e a Filoteo Sinaita. Il manoscritto è redatto dal noto copista Rafail di Hurezi, venuto a Dragomirna fin dal 1763 e comincia con l’opera di s. Simeone il Nuovo Teologo, di cui quest’anno si celebra il millenario della morte (949-1022).[2]

Nelle mie decennali ricerche a proposito della Filocalia e della sua fecondità nei tempi moderni ho potuto mettere in luce l’importanza dell’ambiente romeno, meno noto rispetto agli altri due ambienti greco e slavo. Mi restava di fare una cosa analoga all’interno dello stesso ambiente romeno, vale a dire tornare al fuoco originario, che si è riacceso in terra romena con il movimento del Roveto ardente del secolo scorso al monastero di “Tutti i santi” di Antim. Quel fuoco è sempre stato vivo nei monasteri romeni, ma con il movimento del Roveto ardente l’esperienza è tornata visibile, condivisa, in un più largo contesto, non solo nei monasteri ma anche tra gli intellettuali, tra la gente, in un momento terribile della storia recente romena, quando la dittatura comunista cercava di soffocare ogni aspirazione alla libertà e alla cultura, oltre che alla religione.

L’esperienza del Roveto ardente ad Antim.

Sono appunto le ricerche confluite nel mio ultimo volume “Un fuoco che brucia ma non consuma. La preghiera del cuore nella singolare esperienza romena del Roveto Ardente”, Il Cerchio, Rimini 2021, che mi è stato chiesto di presentare. Il lavoro è strutturato in due parti. In una prima parte, più storica, presento la biografia possibile di Sandu Tudor, l’animatore del movimento, che potrei definire come l’erede della scuola paisiana, con i due capitoli sulla storia dell’esicasmo romeno e sulla preghiera del cuore nella riscoperta del movimento del Roveto ardente. Come un preludio a gustare, nella seconda parte, l’Inno acatisto al Roveto ardente della Madre di Dio, la composizione singolare di Sandu Tudor sulla preghiera del cuore, nella sua ricchezza e profondità, con la traduzione italiana dell’inno nella sua redazione definitiva, finora sconosciuta in occidente. La profondità del suo messaggio e dell’esperienza spirituale che descrive giustifica ampiamente la fatica della traduzione del suo straordinario testo poetico in lingua italiana, anche se impoverita rispetto all’originale.

Per definire sinteticamente l’esperienza di quegli anni ad Antim, l’immagine che usa p. Roman Braga nelle sue memorie è la più appropriata: un vulcano mistico! Il Roveto ardente ha coagulato in Romania una reazione delle élites intellettuali in un momento di crisi epocale. Quando il comunismo stava trasformando tutti in una massa anonima, in preda alla paura, senza coscienza propria e senza responsabilità, ad Antim l’uomo, cercando se stesso, ha incontrato Dio.[3] L’esperienza si riannoda a quella di s. Paisij, uomo di profonda esperienza spirituale e guida carismatica, per mezzo del quale la vita monastica torna ad essere vissuta come un ideale appassionante, capace di forgiare uomini e comunità fino a plasmare l’intera vita ecclesiale. Paisij immette nella vita del cenobio la linfa della spiritualità esicasta.[4] La riscoperta della Scrittura e dei Padri va di pari passo con la riscoperta della preghiera di Gesù. Averle poste a fondamento della vita cenobitica, con tutte le conseguenze che comportavano nell’organizzazione della vita comunitaria e dell’ascesi personale, è l’essenza del grande rinnovamento portato da Paisij. A Dragomirna la sua occupazione principale consisteva proprio nel “servizio della parola” – espressione che usano i suoi discepoli! -, nel preparare cioè i capitoli serali per la comunità dove leggeva e spiegava i testi che andava traducendo insieme ai suoi più stretti collaboratori, tutti romeni. L’introduzione di quei capitoli serali, in cui si affrontavano i temi della battaglia interiore sulla base dell’esegesi delle Scritture e dell’insegnamento dei Padri, che sono valsi a Paisij il titolo di bocca d’oro della Moldavia, il giovane Paisij li aveva visti praticare negli eremitaggi della Valacchia già negli anni 1743-46. Li riprende, li regola e li anima sulla base di tutto quel lavoro di traduzione e correzione di testi patristici, che andava organizzando.

Nella percezione degli studiosi, è ancora un’abitudine diffusa far risalire i frutti del rinnovamento esicasta nella chiesa ortodossa dei tempi moderni a quel movimento fiorito in seno alla Chiesa greca, in particolare all’Athos, nel secolo XVIII, con l’edizione della Filocalia greca a Venezia nel 1782, a cura di Macario di Corinto e Nicodemo Aghiorita[5]. Eppure, le vie per le quali il rinnovamento esicasta ha contagiato i paesi ortodossi ed ha lambito, nel secolo scorso, anche il mondo cattolico, sono riconducibili ad un altro contesto, quello di Paisij Veličkovskij e dei suoi discepoli russi, con la mediazione dell’ambiente e della tradizione romena. Se prendiamo come simbolo di quel rinnovamento la Filocalia, non ci si può riferire ad essa come a un libro sul quale istruirsi ed imparare a pregare. Prima che essere un libro, la Filocalia è stata l’esperienza quotidiana di una comunità di fratelli, con tutta l’efficacia che una realtà vivente comporta. In tal senso la Filocalia, per Paisij e per i suoi discepoli, non rappresenta soltanto il deposito della sapienza di una tradizione, ma il riverbero di un’esperienza sotto gli occhi di tutti, almeno per due generazioni. È questa vitalità spirituale, che raccorda la pratica monastica e la vita fraterna sulla centralità della rivelazione cristiana, che consiste in quel far grazia di Sé a noi in Cristo (Ef 4,32) da parte di Dio, ad aver prodotto tanti frutti. Tutto l’insegnamento era basato sulle Scritture e sui Padri, letti con amorevole sollecitudine e acribia, ma solo allo scopo di imparare a stare sottomessi l’uno all’altro e crescere nell’intelligenza spirituale del mistero di Dio. E se la pratica della preghiera di Gesù veniva privilegiata, lo era perché quella pratica si raccordava direttamente alla radicalità del mistero della rivelazione cristiana, portava cioè a sperimentare il far grazia di Sé da parte di Dio, in Cristo, al cuore peccatore, sottomesso a tutti.

Nella storia romena le figure carismatiche non comportavano solo il rinnovamento della vita spirituale delle comunità monastiche di appartenenza, ma anche un irradiamento assai più vasto. Era stato così per Basilio di Poiana Mărului, lo è stato su scala più vasta per Paisij Veličkovskij, lo è stato per Gheorghe e Callinic di Cernica e lo è stato anche per le figure contemporanee del monachesimo romeno. Il movimento del Roveto ardente si colloca nella sua specifica caratteristica sia all’interno della tradizione esicasta romena sia all’interno di un movimento più vasto che può essere definito come la reazione dei credenti alla pressione comunista. Negli anni Cinquanta del secolo scorso si possono individuare almeno quattro centri di irradiazione spirituale in Romania attorno ad altrettante figure carismatiche. Attorno a p. Arsenie Boca (1910-1989), patrocinatore e diffusore della Filocalia insieme a p. Dumitru Stăniloae, prima al monastero di Sâmbăta de Sus (Județul Brașov), poi a Slatina, sorvegliato della Securitate e più volte arrestato; attorno a p. Ioan Iovan, a Vladimirești con maica Veronica Gurău, comunità femminile dispersa nel 1955 e poi recentemente ricostituita e ancora oggi molto vivace; attorno a p. Cleopa di Slatina e Sihăstria, in particolare, al cui esempio, al cui insegnamento, dentro la cui potenza spirituale, tutta l’ortodossia romena, fedeli e monaci, hanno attinto forza e consolazione nei tempi bui dell’oppressione comunista. Il gruppo che attorno a lui si era formato negli anni cinquanta fu disperso, ma a loro volta i discepoli, dopo la prigionia, furono i testimoni credibili di una vita spirituale che rinsaldava la gente e animava la loro chiesa, ormai impedita e, per certi versi, irretita nelle spire del regime (posso ricordare il p. Petronie Tănase del monastero Prodromou all’Athos, il p. Iachint Unciuleac di Putna, il p. Arsenie Papacioc del monastero Santa Maria di Techirghiol sul mar Nero e tanti altri, senza parlare delle grandi figure femminili, più in ombra ma non meno presenti).

Il quarto centro è Antim, con Sandu Tudor e il movimento del Roveto ardente. È un centro di irradiazione spirituale del tutto particolare.  Qual era la caratteristica precipua di Antim? Che ruolo ha giocato nella tradizione della Chiesa romena? Va notato anzitutto che la coscienza del ruolo e dell’importanza del movimento di Antim è sorta nella Chiesa romena quarant’anni dopo gli eventi, con la caduta del comunismo. Si sono riprese le testimonianze del tempo, i vari partecipanti sono ritornati sulle vicende che hanno segnato profondamente le loro vite e ne è nato un dibattito ancora oggi aperto.

Caratteristiche principali

A me sembra che i caratteri principali di questo prodigio storico si possano riassumere in tre punti. Intanto, un giudizio illuminante d’insieme lo fornisce Andrei Pleșu presentando il primo tentativo di elaborazione ermeneutica degli eventi di quel tempo, quello di André Scrima, allora uno dei giovani partecipanti alle riunioni, che si riconosce segnato da quell’inizio prodigioso: “… è l’incontro unico tra gli intellettuali e i chierici avvenuto nel monastero dell’Antim intorno agli anni cinquanta. Il gruppo dell’Antim è stato l’ultimo episodio di una reale conciliarità della nostra chiesa, negli anni della dittatura comunista. Grandi intellettuali e grandi monaci hanno vissuto insieme un’esperienza di comunicazione e di ‘comunione’, in un’incredibile libertà interiore, fino a quando le autorità hanno deciso di definire tale spirito in termini di Codice penale”.[6]

Primo punto. Si tratta di un gruppo di intellettuali in dialogo con il modello monastico ortodosso. Sono uomini moderni, implicati nel dibattito culturale del tempo e con una ricerca personale dalle più svariate formazioni (filosofica, scientifica, artistica, religiosa), affascinati dalla tradizione mistica della Chiesa, in particolare dalla tradizione esicasta della preghiera del cuore. Tre figure concorrono a generare un movimento che coinvolge tutti. Sandu Tudor, nella parte di intellettuale laico trascinatore, approdato alla scelta monastica con tutto il bagaglio e la vivacità culturale che lo contraddistinguono, capace di attrarre molti altri intellettuali, come lui alla ricerca di una dimensione spirituale della vita nel solco della luminosa tradizione della chiesa d’oriente. Sul versante monastico, campeggia la figura di p. Benedict Ghiuș, amabile, dolce e profondo, con dottorato di teologia a Strasburgo e assistente universitario prima di Nichifor Crainic e poi di p. Dumitru Stăniloae. Tutta la comunità dell’Antim trova in lui il riferimento essenziale per un clima di apertura e benevolenza verso la ricerca di coloro che hanno formazione e cammini diversi. Infine, la figura di p. Ioann Kulygin, il Forestiero, che diventa la guida spirituale del gruppo come incarnando nella sua persona i valori che laici e monaci ammiravano nella riscoperta della tradizione mistica dell’Ortodossia. Se il trascinatore del gruppo era Sandu Tudor, l’anima interiore del gruppo era p. Ioann, tutti riconoscendo in lui quel magistero dei Padri di cui andavano ammirando lo splendore di verità.

Si tratta di un gruppo di intellettuali alla ricerca di una forma di vita spirituale che, nella modernità, non ha equivalenti. La convivialità con cui si tenevano gli incontri, l’amicizia tra i partecipanti, la libertà di pensiero nell’approfondimento dei temi creata dal clima di rispetto tra i partecipanti e i monaci, tutto favoriva uno spazio di cultura e spiritualità che finalmente procedevano insieme, l’una fermento dell’altra. Gli attori di Antim erano semplicemente intellettuali affascinati dalla tradizione ortodossa che scoprivano e che contribuivano a far scoprire, sulla quale si intrattenevano impegnandosi a conoscerla e ad assumerla nelle rispettive vite. Non era però un gruppo privato, dal momento che la loro ricerca, nata dall’amicizia e dal desiderio di conoscenza, aveva un’irradiazione assai più vasta. Oltre agli incontri ristretti il giovedì sera, si tenevano gli incontri la domenica pomeriggio aperti a tutti e la partecipazione era grande. Venivano molti fedeli e molti studenti. Tutto si svolgeva senza formalismi, con la possibilità di intervento da parte degli ascoltatori. L’evento contrastava con il grigiore che regnava nel paese ormai impossibilitato a pensare ad alta voce per l’oppressione ideologica comunista, che stava sottraendo ogni spazio possibile di libertà e di conoscenza. Il gruppo non rientrava in nessun tipo di organizzazione, di istituzione, di modello precostituito. L’aspetto tutto speciale di questo ritrovarsi di intellettuali in un ambiente monastico tradizionale era dato dalla convergenza di intenti tra laici e monaci, tra grandi personalità di intellettuali e grandi personalità di monaci.  Anca Manolescu, autrice di un interessantissimo studio sui cerchi di studio e di amicizia spirituale nell’antichità e nella Romania moderna, aveva invitato nell’anno 2000 André Scrima a partecipare al dibattito su “Bucarest nel tempo del comunismo: resistenza, normalità, sopravvivenza” per la rivista Martor.[7] Purtroppo la morte, avvenuta nell’agosto del 2000, ha impedito a Scrima di rivedere il suo intervento, che è perciò rimasto inedito. Ma in quell’intervento sosteneva che l’unica normalità della vita di quel periodo storico era assicurata dai gruppi di lettura e discussione, gruppi informali di amici riuniti da un interesse culturale e spirituale comune. Il caso di Antim era speciale. Ad Antim vivevano monaci sensibili e aperti alla ricerca spirituale di altre persone di diversa provenienza e formazione e queste altre persone trovavano ad Antim l’atmosfera accogliente della Chiesa nella luminosità della sua teologia liturgica tanto da far scrivere a Scrima: “Al di là dei tradizionalisti, nessuno poneva barriere, nessuno sottolineava la differenza, nessuno esprimeva rifiuto o disprezzo rispetto al nostro modo di restare coinvolti nella tradizione”.[8] Insomma, un incontro tra ‘culto e cultura’, vivendo l’esperienza spirituale non nel diminuire l’esercizio mentale, nell’impedire la conoscenza delle lettere e delle arti come fosse un territorio proibito alla santità, ma, al contrario, sottolineando la possibilità di attingere la conoscenza a livelli sempre più profondi per vivere la freschezza dell’invito evangelico e la luminosità della tradizione della Chiesa. È stato come un ritrovare la forza d’irradiazione, la capacità di attrazione dell’esperienza cristiana anche per l’uomo moderno, oltre ogni dogmatismo o tradizionalismo o devozionalismo. Credo di interpretare i sentimenti profondi dei membri del movimento riferendo a loro il tropario del poema di Cosma monaco, Ode 9, dell’Orthros del Giovedì Santo: “Venite, o fedeli, con sensi elevati godiamo, nella sala alta, dell’ospitalità del Signore e della sua mensa immortale, apprendendo dal Verbo, che noi magnifichiamo, più alte parole”.

Secondo punto. Dentro un orizzonte universalistico. Assolutamente significativo dell’atmosfera vissuta ad Antim è l’episodio ricordato da Scrima in un colloquio con Andrei Pleșu. “Alla fine di una conferenza domenicale con grande partecipazione di laici – dichiara p. André – dove si era parlato anche su Djalal-od-Din Rumi (1207-1273) e su Ramakrishna (1836-1886), si alza un monaco e dice: «Scusate. Avete citato un musulmano. Un altro cita un indù. Ma allora cosa c’è qui?». Risponde con molta semplicità p. Benedict Ghiuș: «Se il Signore ha detto che, alla fine dei tempi, radunerà tutte le pecore, come posso io escluderle? Come posso respingere uno che parla così su di lui? Come posso non ascoltarlo?»”.[9] Si è trattato di tornare a ciò che appartiene in modo essenziale alla dimensione profonda degli uomini religiosi: l’attenzione davanti all’altro, il senso di libertà, l’apertura dell’intelligenza e della propria sensibilità per poter accogliere, dall’altro, il frutto dell’intelligenza e della sensibilità elargite sotto lo stesso cielo. Sempre Scrima ricorda: “Quando, nel 1946-1947, ho avuto l’occasione di incontrare l’ortodossia come tradizione spirituale viva (intorno a colui che era, per se stesso, ‘Ioann il Forestiero’: che terminologia ‘esotica’!), essa mi è apparsa presente in quel ‘centro’ che garantisce, che comporta un orientamento universale: centro comunque ‘interiore’ e ‘fuori dal mondo’. Là, scoprendo il vero insegnamento intellettuale dell’ortodossia (gli apoftegmi dei Padri del deserto, Gregorio di Nissa, Massimo Confessore, Simeone Nuovo Teologo, Gregorio Palamas e altri), la tradizione orientale tornava nel suo… Personalmente, ho capito che essa non era estranea alla mia ricerca condotta fino ad allora”.[10] Quella catena ideale di Padri che custodisce la tradizione spirituale della Chiesa, p. Daniil (Sandu Tudor) la presenta in questa serie: Macario il Grande, Massimo Confessore, Simeone Nuovo Teologo, Gregorio Sinaita, Gregorio Palamas, Nil Sorskij e Paisij Veličkovskij. E aggiungo questa altra semplice osservazione. Nella prima parte del sec. XX l’incrocio tra culto e cultura, secondo la bella espressione di Andrei Pleșu, era già frequentato. Voci significative – Nichifor Crainic, Nae Ionescu, Mircea Vulcănescu – avevano messo a tema la fede nello spazio pubblico, adottavano un linguaggio religioso nuovo, pungolavano la chiesa criticando una devozione conformista. L’inghippo era costituito dalla preoccupazione nazionalista nel tentativo di delineare un sistema di valori a valenza nazionale per dare alla Romania un posto di importanza nell’Europa. Il passato e la tradizione religiosa romena entravano come materiali da usare per la costruzione di quella identità. La fede era percepita nella categoria del popolare e della spiritualità popolare. Si sognava un cristianesimo autoctono, una romenità obbligatoriamente ortodossa o uno stato etnico-religioso, secondo un movimento di idee e di sentire che gli storici hanno poi denominato ortodossismo. Il movimento del Roveto ardente si muoveva su altre traiettorie. Non c’è nessun privilegio etnico particolare, non c’è nessuna eccellenza garantita. Riconoscevano la problematica della creatività spirituale nella modernità, ma nella prospettiva della potenza creativa del cristianesimo che agisce nelle persone. Una delle considerazioni più acute di questo sentire interiore la ritrovo nell’amico fedele di Sandu Tudor, Alexandru Mironescu, il quale pone al centro della riflessione la persona umana alla ricerca del senso ultimo delle cose. La via cristiana si muove all’interno della grande famiglia spirituale umana, come la via per realizzare l’anelito del cuore dell’uomo. Diceva: “La coscienza che sono cristiano mi dà la pienezza di appartenenza all’intera Umanità … formata da tutti gli uomini, di tutte le culture, di tutte le epoche, con ogni tipo di esperienza e tradizione …di tutto ciò che li unisce e dà loro una comprensione, uno scopo”.[11]

Terzo punto. Il movimento del Roveto ardente aveva anche un obiettivo sociale? Nella ricostruzione memorialistica dei partecipanti la risposta non è unanime. Se per André Scrima il movimento di Antim si regge sul desiderio di conoscenza spirituale senza intenzionalità di opposizione al regime socio-politico del tempo, per altri, come Antonie Plămădeală, Roman Braga, Adrian Făgețeanu e per alcuni storici, come George Enache, corrisponde alle intenzioni di Sandu Tudor l’idea di formare giovani intellettuali allo scopo di preparare la resistenza spirituale al comunismo.[12] È  sicuro però la non partecipazione ad alcun movimento di opposizione al regime in chiave politica, anche perché la resistenza al regime avrebbe comportato la violenza, cosa che Sandu Tudor ha sempre rimproverato ai gruppi legionari, dai quali ha sempre preso le distanze, nonostante una certa affinità di pensiero. Le accuse per la sua appartenenza al legionarismo portate contro di lui dalla Securitate nei vari processi e soprattutto in quello del 1958 con la condanna di tutto il gruppo di Antim, sono false e costruite a tavolino. Il punto è esattamente questo. La scelta di Antim valorizza la dimensione spirituale delle coscienze, crede all’irradiazione e alla forza dell’impegno religioso per una purificazione dei cuori, tenendo alto l’impegno culturale nel contesto ecclesiale insieme al principio della santità della vita.  Santità di vita oltre ogni schematismo devozionale e conformistico, oltre la banalità quotidiana, nell’orizzonte della quale si accede con la preghiera e in particolare con la preghiera del cuore. Mi sembra questa la vera eredità di Antim.

L’interpretazione dell’Inno acatisto al Roveto ardente della Madre di Dio

L’inno è conosciuto in due versioni, quella breve e quella completa. La versione breve, in 8 stanze più il tropario finale, è quella del 1948, firmata da Sandu Tudor come monaco Agatone, edita a Madrid nel 1983.[13] Invece, l’inno completo, del 1958, in 12 stanze, suddivise ciascuna in un kondakion, un ikos e una litania di lode, più il tredicesimo kondakion finale, compare a Bucarest nel 1999.[14]

L’inno comporta come 24 gradini di una scala, suddivisi in tre terne, che possiamo denominare, con linguaggio musicale, tre ottave. Ogni ottava è composta da quattro stanze. Il movimento ascendente è riferito al mistero stesso della Madre di Dio, colto nella partecipazione della sua umanità alla volontà di salvezza di Dio, che si realizza con l’incarnazione del Figlio nel suo grembo.

Prima Ottava: il cammino dei principianti

I. Simbolo di trasfigurazione e ipostasi della preghiera

La Vergine è la meraviglia ottenuta con la preghiera dell’umanità che l’ha preceduta e che ha affinato a tal punto il desiderio di Dio nel cuore dell’uomo che la stessa esistenza della Vergine può essere considerata incarnazione della preghiera: “Chi è Costei, candida e radiosa come l’aurora? È la Regina della preghiera, è la preghiera incarnata”. Questo, perché lo Spirito Santo l’ha adombrata e tutto ciò che lei è, è pieno di Spirito, è puro spazio per l’azione dello Spirito. Così, in lei e per lei, nella quale sempre si innalza a Dio il canto di fuoco, l’essenza stessa di tutte le lodi divine, l’umanità è rapita nella contemplazione dell’amore di Dio e legge la sua struggente nostalgia di redenzione chiamandola: “tu che hai concepito il Pegno di fuoco, roveto dell’estasi suprema, corpo e incarnazione di gioia prorompente, stupore che hai sconfitto la vanità del mondo”.

II. L’entrata nel cuore e liberazione dalla maledizione

Secondo l’antico apocrifo della presentazione di Maria al Tempio dove lei ha vissuto fin dalla tenera età, nel Santo dei Santi, la Vergine è colta come la prima persona che sia entrata dentro il Santo dei Santi del cuore, il luogo della Presenza, il luogo di luce, per la purità assoluta del suo cuore. Così, rivolgendosi a lei, i figli degli uomini la invocano come colei che ha sciolto la maledizione della natura spezzando il giogo della schiavitù del peccato in modo da ritornare a cantare, insieme a lei, i segreti dello Sposo agognato che riguardano la salvezza dell’uomo, sull’esempio di Mosè al roveto, infuocato di grazia. Prorompe allora la lode alla Vergine chiamandola: “misura del giorno ottavo del regno che è dentro di noi, insegnamento tratto dalla gioia dell’ultimo giorno, stupore baciato dalle meraviglie dello Spirito”.

III. Il nome di gloria e il Cristo interiore

Sulla scia dell’antica profezia di Isaia della Vergine che darà alla luce un bambino, il canto si riferisce a lei come Genitrice di colui che porta un Nome ineffabile, il Nome che il profeta aveva celebrato con cinque titoli e che Gesù, il figlio di Maria, porterà. Il nome Gesù è composto da cinque lettere sia in greco che in romeno (Iisus), il nome che poi la preghiera ripeterà incessantemente. Nella invocazione del nome di Gesù, che il canto immagina come un invito della Vergine Maria a pronunciarlo, c’è l’esortazione a fare il viaggio nel cuore, a trovare la via del Nome di Luce, perché il Nome del Signore della gloria si riferisce proprio al figlio di Maria, Gesù, che abita nel cuore e che umile si è rivelato cavalcando a dorso di un’asina entrando in Gerusalemme. E allora si effonde la lode: “fondamento che ha permesso anche a noi di contenere Dio, intimità e riconciliazione fin nel più segreto di noi stessi, solitudine nella quale il Cielo si apre nel cuore, trasparenza nella quale l’angelo prende corpo in noi, purità che ha reso manifesto nel mondo il Nome di gloria”. Il cammino spirituale è immaginato come un cammino di spiritualizzazione, come la crescita di un angelo interiore, come un cherubino in divenire.

IV. La santa apatheia e il soffio dello Spirito

Sull’immagine del roveto ardente, che arde e non si consuma, la Vergine è vista come il modello dell’arte della spiritualizzazione, fino cioè a non avere in sé più nulla di passionale ma a essere mossa solamente dalla passione dell’amore di Dio. È chiamata ‘Impassibilità luminosa’, vale a dire come un oceano di pace per l’amore infuocato di Dio, che resta inattingibile da ogni manovra dell’avversario e assolutamente scevra da ogni accondiscendenza a ciò che non sia l’amore infuocato di Dio. Così, l’invocazione sale a lei per godere con lei del santo fremito dello Spirito che ci squaderna il segreto dell’amore di Dio conquistando completamente il nostro cuore, colto nell’esperienza dell’invocazione del Nome con la partecipazione di tutto l’universo interiore. È la pace dei pensieri, il riposo dai pensieri recalcitranti e dispersivi. E lei allora viene esaltata come “slancio esicasta del volo benedetto, eternità racchiusa nello spazio di un istante, ardente sapienza fiorita dalla Filocalia, illustrazione sapiente dell’arcana adorazione”.

Seconda Ottava: il cammino dei proficienti

V. Il fuoco dello Spirito e la ripetizione del Nome

Ha inizio la seconda fase del progresso spirituale, quando il cuore non è più disturbato dai pensieri estranei. Agisce ormai il fuoco dello Spirito che riempie di luce. È il tempo della pazienza nella preghiera. Il cuore della Vergine è considerato nella pienezza della luce per aver portato il Cristo e viene invocata per essere anche noi riempiti di luce nella memoria costante dell’amore infuocato di Dio, con l’anima incollata al Nome di gloria. Si prega per essere resi di fuoco, presi dall’amore del suo Nome e incendiati dalla letizia sigillata dallo Spirito Santo. In noi quel fuoco si accende con l’umile, incessante invocazione del Nome di Gesù, portandolo allo stesso modo in cui lei l’ha portato. Prorompe la lode per la Madre di Dio, che viene invocata dall’orante come modello: “ardore dolcissimo dell’invocazione del Santo Nome, rosario vivente di Kyrie eleison, sovrabbondanza della memoria continua di Dio, carismatica ripetizione incessante di un’invocazione prodigiosa”.

VI. Il cielo interiore e la sobrietà

Contemplando la Vergine si impara a vedere la vita come appartenente allo Spirito ben oltre i concetti e lo spazio, oltre il flusso della cronaca temporale. È l’esperienza di una mente pura, del cielo di fuoco che è dentro di noi, dove affondano le sorgenti del cuore e della creazione intera. È il vedere il mondo nel suo significato di via e incarnazione verso l’eternità. Deriva a noi, dalla Vergine contemplata nel suo stato di sobrietà assoluta e di attenzione allo Spirito nella volontà e nei sentimenti, la visione del cuore dove regna assoluta, nel suo centro più profondo, la più pura trasparenza del sentire spirituale.   È la trasparenza di un sentire che unisce l’acutezza della mente all’ardore della impetuosità della vita, secondo l’immagine del caldo e del freddo posti come a croce, capaci di generare qualcosa che va oltre il pensiero e la passione. È il ritorno all’infanzia spirituale, alla santa imperturbata semplicità piena di meraviglia, detto con l’espressione mirabile dell’acatisto: la sobrietà o la vigilanza dello spirito è sobrietà di un bimbo, chiave delle profondità del cuore. Prorompe allora la lode alla Vergine con immagini ardite: “luminosa trafittura della memoria di Dio, cetra del cuore suonata con l’archetto della mente, musica ineffabile della seconda nascita, fidanzata del Nome della Sapienza”.

VII. L’arcana iniziazione e il mistero dell’adozione: le nozze

L’anima umile, pacificata e pura, è come ricevesse dalle mani della Vergine, ricca di ogni santità, la veste nuziale per le splendide nozze del grande Sposo. Nozze, che non possono che essere celebrate nella più totale purezza. Solo lei ce ne può rendere partecipi e, invocata come filocalicissima Sposa, da lei si impetrano tutti i possibili beni spirituali, dal momento che riassume in sé tutta l’economia delle benedizioni che Dio ha stabilito per i suoi figli. Così la lode che si eleva, a lei indirizzata, non fa che sottolineare la pienezza delle benedizioni che ci ottiene: “adozione riuscita per la divinizzazione di tutti, dono scrupolosamente preparato dalla grazia purificatrice, luce meravigliosa che santifica le menti umili, Presenza incarnata che ci fai entrare nel riposo sabbatico, parola che dura in eterno nel meraviglioso silenzio”.

VIII. Il canto interiore e il cuore di grazia

L’ascesa si fa sempre più elevata e prima di entrare nel regno della preghiera come incontro con lo Sposo, quando lo si potrà toccare o sfiorare, il poeta-orante si perde pieno di meraviglia nella contemplazione del cuore della Madre di Dio, visto come l’unico cuore in assoluto dove, incomparabilmente, il cuore dell’uomo e il cuore di Dio vibrano all’unisono continuamente. È la preghiera a scorrere con la contemplazione del cielo, che modella il cuore sul mistero dell’amore di Dio. È la visione del cuore della Vergine come il cuore della Chiesa. Così noi domandiamo di avere un cuore nuovo, come il suo, cuore di luce, cuore di carne, cuore immacolato, cuore del Verbo. Nella percezione della dispersione che il nostro cuore ha patito, indurendosi, allontanandosi dalle vie di Dio, chiediamo di essere ridestati alla vita con cuori nuovi e puri, capaci di pescare alle sorgenti del mattino senza tramonto. Si innalza allora la lode alla Vergine chiamandola: “scrigno da cui si sprigiona la luce del canto, festa dei cieli in cui lo spirito è il vero celebrante, Chiesa ardente del desiderio trinitario delle nozze eterne”.

Terza Ottava: la meta dei perfetti

IX. L’incontro con il Cristo e l’arte dell’hesychia

È l’ultimo stadio del cammino, quello che introduce all’unione con Dio, ardentemente desiderata. L’orante ora si professa della stessa stirpe della Madre di Dio per essere ammesso all’incontro con il dolce Sposo dei cuori. Entra in gioco l’immagine dell’apostolo Tommaso davanti al Risorto che, tremante, allunga la mano nel suo costato di fuoco senza bruciarsi, come canta la liturgia bizantina. I sentimenti però non sono di esaltazione, ma di estrema umiltà, perché la luce, scaturita dalle profondità di Dio e posta nel cuore dell’uomo, come un sole intramontabile illumini interamente lo spazio dell’essere, mentre alle labbra sale spontanea e fluente l’invocazione incessante della preghiera del Nome. La Madre di Dio è invocata come colei che conosce alla perfezione tutte le vie della trasfigurazione redentrice, chiamata addirittura ‘santa accuratezza umana in tutte le cose’, colei cioè che in ogni circostanza e ogni tempo può mostrare il cammino della trasfigurazione per poter accedere all’incontro con il dolce Sposo. La lode per la sua persona indica in filigrana tutti i possibili aspetti del cammino spirituale nella chiesa in vista dell’incontro con lo Sposo: “divina dolcezza del Nome come profumo versato, stilla di grazia per una serafica infanzia spirituale, rudezza preziosa d’ascesi sopra la stuoia nel deserto, sorgente che promana dallo sgabello di preghiera per l’orante esicasta, sorriso che promana dall’engolpion che vince l’aridità del cuore”.

X. La genesi pneumatica e la benedizione delle lacrime

La Vergine ora diventa la propria Madre spirituale, quella che presiede alla luminosa nascita, alla nuova nascita dall’alto. L’orante la chiama: ‘Chiesa generatrice dell’uomo interiore’. È a lei che l’orante ricorre fiducioso, come àncora per le proprie debolezze, come arcana guida del cuore. Sembrava facile dedicarsi alla preghiera per stabilire il proprio cuore come nel luogo di Dio, nel pentimento incessante, ma l’idolo di polvere del proprio intelletto fa fatica ad acconsentire. E allora ricorre alla Vergine per avere il dono delle lacrime, il sale del pentimento ed essere purificato e liberato dalla debolezza dello spirito. Così appare, nella sua generosa benedizione sull’orante, la Madre di Dio: “rugiada di benevolenza con la quale fortifichi i credenti, aiuto anche nelle cadute di chi non cammina secondo lo spirito, manto che ti stendi sopra ogni debolezza”.

XI. La theosis e la scala teofanica

Oltre la propria debolezza, per l’intercessione della Clementissima, l’uomo ormai si sente abitato dal Signore Gesù per cui il suo guardare, parlare e comprendere, la sua stessa vista, udito e volontà, non sono più semplicemente azioni sue, sensi suoi, ma azioni e sensi dello stesso Cristo che vive in lui. Con l’incessante ripetizione dell’invocazione del Nome è giunto alla soglia del silenzio dei suoi sensi e della volontà del suo cuore per essere tutto del Signore Gesù. Potrà incominciare a vedere i frutti, potrà accedere al canto di lode degli angeli, con lo spirito tutto raccolto nella luce, nel profondo del cuore. E la stessa Madre di Dio vien esaltata come “scala che s’innalza da un cuore compunto, calore di grazia che penetri fin nella carne, energia straordinaria che tessi la nostra santificazione, progresso illimitato di perfezione per un corpo libero da corruzione”.

XII. Il modello dell’hesychia e la gnosi incarnata

Oramai si è arrivati in cima alla scala. L’orante entra nel riposo sabbatico, che il poeta chiama ‘grande pace di un riposo estatico’, lì dove si arde senza consumarsi, riposando al riparo del Volto contemplato, ormai trasfigurati dall’arcano indicibile di un’esistenza di preghiera. È l’esistenza di grazia. È la preghiera oltre la preghiera. Rivolgendosi alla Madre di Dio, l’Amma spirituale piena di amore per il mondo, tutta pura e tutta compassionevole, nella quale risiedono tutti i tesori di benedizione, l’orante la invoca perché venga donata anche a noi quella gnosi purissima di cui lei è ricolma. Quella gnosi o scienza divina si trova copiosa nei Padri che l’hanno seguita in questo cammino di trasfigurazione. La lode può ora prorompere per colei che è la custode della tradizione esicasta: “archistratega suprema dei combattimenti invisibili, sguardo che custodisci nella dolcezza le fatiche ascetiche, trebbia purificatrice dallo spirito maligno”.

XIII. L’abbraccio della Trinità

Madre di Dio e Madre dell’uomo, la Vergine presenta con le sue mani al Cristo Sposo l’oblazione di gloria dell’orante, indirizzandolo alla Santa Trinità che tutto abbraccia e nel cui abbraccio tutto canta. Dal momento che l’amore della Santa Trinità  ha presieduto all’incarnazione del Figlio nel grembo della Vergine, l’inno rimanda di nuovo all’iniziale lode di colei che appare come la Regina della preghiera, la preghiera incarnata, nel cui seno si dispiegano tutti i segreti di Dio per l’uomo.

Conclusione

Non è possibile non riandare al finale del Paradiso di Dante:

“A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

Ciò che colpisce in questa scala di ascesa verso l’unione con Dio è il fatto che negli ultimi gradini si accentuino i tratti della compassione della Madre di Dio per noi peccatori, chiamati a così alta dignità. L’orante è rimandato alla sua fragilità, come fosse avvertito che non si tratta di fondersi in Dio, ma di aprirsi alla lode più piena e totale del suo immenso amore per noi. L’uomo si perde nella lode, non nella fusione. Non solo, ma l’ascesa dell’uomo coincide con il movimento di tutto l’universo, perché tutto vive di Dio e del suo amore sconfinato. Come dirà s. Paolo mostrando la meta della tensione che muove il cuore dell’uomo come tutta la creazione che in lui si riassume nel suo anelito a Dio: “E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28). Come nel momento supremo dell’esperienza di Dante nel paradiso, non c’è più un percorso da fare, una ragione in senso classico da esercitare, non c’è più una parola che per approssimazione cerca di avvicinarsi alla verità. Qui tutto è pienezza di luce, è bellezza, verità. Non c’è più fatica da fare, l’amore e la conoscenza coincidono perfettamente. È la conoscenza apofatica, non però nel senso che è contrapposta a quella catafatica, vale a dire come la negazione di quanto si era precedentemente affermato perché la realtà di Dio risulta incommensurabilmente più elevata, ma nel senso che si è oltre l’affermazione e la negazione. Si è nella lode, nella meraviglia pura, nello stupore puro. Ma sempre nella realtà di una creatura totalmente trapassata dallo splendore di un amore sconfinato, di cui la Madre di Dio porta sempre significazione, insieme al suo Figlio. È per questo che la meta non assomiglia a un punto di arrivo, ma a una radice di senso che, segreta, sta celata nella creatura e nell’universo e che la Madre di Dio ci ha fatto scoprire. Arrivare là significa scendere qui, nel cuore, dove inabita la Santa Trinità che tutto attira a sé coinvolgendoci nella gioia suprema dell’amore eterno. Non venendo meno la coscienza del proprio essere creatura, il ritmo della preghiera non ci fa fermare nel punto supremo ma ci rimanda al movimento iniziale perché, fin tanto che siamo sulla terra, quell’ascesa è in perenne divenire, finché tutto in me e di me esprima compiutamente, come per la Madre di Dio, la lode della Santa Trinità. E qui vi si trova riassunta ed esaltata tutta la tradizione esicasta paisiana.

p. ELIA CITTERIO

FRATELLI CONTEMPLATIVI DI GESU’

15060 CAPRIATA D’ORBA (AL) – ITALIA

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National Conference Cartea veche românească și străină , with the theme “In the footsteps of Saint Paisius from Neamț (Velicikovski). 300 years since its birth (1722 – 2022)”, an event that will take place in hybrid format (online and physical) in Bucharest (Romania), between May 25 and 26, 2022.

More details about the conference can be found here: https://cartevecheconservarerestaurareabr.wordpress.com/2022/02/02/conferinta-nationala-cartea-veche-romaneasca-si-straina-editia-i-cu-tema-pe-urmele-sfantului-paisie-de-la-neamt-velicikovski-300-de-ani-de-la-nasterea-sa-1722-2022/

Dott. Silviu Constantin Nedelcu

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[1] Daniar Mutalâp, The structure and composition of a proto-Philokalic Romanian manuscript from 1769, in Translations of Patristic Literature in South-Eastern Europe. Proceedings of the session held at the 12th International Congress of South-East European Studies (Bucharest, 2-6 September 2019), edited by Lora Taseva and Roland Marti, Editura Istros a Muzeului Brăilei ‘Carol I’, Brăila 2020, p. 301-333.

[2] Altro lavoro significativo in ambiente romeno, è la recente ‘Filocalia de la Prodromul’ per l’iniziativa dei monaci romeni athoniti di raccogliere le antiche versioni romene dei testi filocalici. Il lavoro di trascrizione dei testi, dattilografato e riunito in un unico tomo voluminoso di oltre 1600 pagine, fu concluso nel 1922. L’edizione attuale, in due volumi, New York 2001, Universalia Books, ripresenta quel tomo. I testi coprono tutta la Filocalia greca del 1782 con l’aggiunta di alcuni testi: Vita di s. Nifon di Costantinopoli (estratti), Dimitri di Rostov (estratti dal titolo: Dottrina spirituale dell’uomo interiore), Basilio di Poiana Mărului (Introduzione a Filoteo Sinaita, Introduzione a Gregorio Sinaita), Paisij Veličkovskij (Sulla preghiera di Gesù), Giovanni Crisostomo (brani dalle lettere ai monaci), Nil Sorskij (la sua opera e l’introduzione ai suoi scritti di Basilio di Poiana Mărului), Giovanni di Kronštad (alcuni pensieri ).

[3] Marius Oprea, Adevărata călătorie a lui Zahei. V. Voiculescu și taina rugului aprins, Humanitas, Bucarest 2008, p. 132.

[4] Cf. Ioan I. Ică jr., Lo starec Paisij Veličkovskij e la preghiera del cuore, in AA.VV., La preghiera di Gesù nella spiritualità russa del XIX. Atti del XII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, sezione russa, Bose, 16-18 settembre 2004, Qiqajon, Bose 2005, p. 71-104.

[5] Si veda il mio Nicodemo Agiorita, in La théologie bizantine et sa tradition, II, a cura di C. G. Conticello & V. Conticello, Brepols (Corpus christianorum), Turnhout 2002, pp. 905-997.

[6] André Scrima, L’accompagnamento spirituale, Qiqajon, Bose 2018, p. 23.

[7] Cf. Anca Manolescu, Modelul Antim, modelul Păltiniș. Cercuri de studiu și prietenie spirituală, Humanitas, Bucarest 2015. Anca Manolescu è la curatrice delle edizioni dei testi di p. André Scrima presso la casa editrice Humanitas. L’inedito menzionato porta il titolo: Grupul de la Antim. Oltre ai testi e alla biblioteca di p. Scrima, nel “Fondo André Scrima” del New Europe College di Bucarest si conservano anche una cinquantina di lettere che testimoniano lo scambio amicale tra Scrima e i partecipanti del gruppo dell’Antim. I due casi clamorosi, tra i tanti, dei processi del 1958 dovuti all’accanimento del regime contro l’intellettualità romena, laica e religiosa, sono quelli contro il movimento del Roveto ardente ad Antim e contro l’entourage formatosi attorno al filosofo Constantin Noica (1909-1987) e che aveva visto la condanna di uomini del calibro di Alex Paleologu, Nicu Steinhardt, Dinu Pillat. Noica, uscito di prigione, nel 1975 si ritira a Păltiniș, un paesino di montagna a una trentina di kilometri da Sibiu, dove viveva come sorvegliato speciale della Securitate, attirando attorno a sé giovani di talento per un rinnovamento della cultura. La testimonianza che farà conoscere l’importanza della sua figura e della sua opera formativa è dovuta a Gabriel Liiceanu che redige il Jurnalul de la Păltiniș, uscito a Bucarest nel 1983 e tradotto in francese nel 1998.

[8] Idem, p. 105.

[9] André Scrima, Teme ecumenice, Humanitas, Bucarest 2004: Un test ultim al faptului religios, p. 114.

[10] Idem, p. 134.

[11] Cf. Anca Manolescu, Modelul Antim, modelul Păltiniș. Cercuri de studiu și prietenie spirituală, Humanitas, Bucarest 2015, p. 111. Si veda anche il commento di Mironescu al saggio di Constantin Noica, Pagini despre sufletul românesc (1944) in Alexandru Mironescu, Calea inimii. Eseuri în duhul rugului aprins, Anastasia, Bucarest 1998, p. 135-154.

[12] Si veda la questione in Anca Manolescu, Modelul Antim, modelul Păltiniș. Cercuri de studiu și prietenie spirituală, Humanitas, Bucarest 2015, p. 214-218.

[13] È questa la versione conosciuta in Occidente e che compare, in versione francese, nel volume a cura di p. Romul Joantă, oggi metropolita Serafim di Germania della Chiesa ortodossa romena , con prefazione di Olivier Clément: Roumanie, Tradition et culture hésychastes, Abbaye de Bellefontaine 1987, pp. 267-279. La traduzione francese era stata realizzata verso il 1960 all’abbazia di Bellefontaine da un monaco romeno ortodosso che vi soggiornava, con l’aiuto di un monaco della stessa abbazia. È stata rivista in seguito a Sihăstria in Romania da p. Petronie Tănase. La versione francese pubblicata viene generalmente attribuita al p. Placide Deseille (1926-2018), allora monaco benedettino dell’abbazia cistercense di Bellefontaine. La versione completa dell’inno si trova tra i manoscritti confiscati dalla Securitate nella notte dell’arresto di p. Daniil a Rarău nel 1958. Quei manoscritti portano la dicitura: “Trovati nella perquisizione di Sandu Tudor”. Il manoscritto dell’Inno acatisto al Roveto ardente della Madre di Dio, un dattiloscritto di 37 pagine, con l’indicazione in fondo pagina: ‘composizione dell’umile monaco Agatone del santo monastero di Antim, 1948. Correzione e completamento dello ieroschimonaco Daniil Tudor, starec dello skit di san Giovanni il Teologo dei monti Rarău,1958’, porta l’annotazione autografa dettata dagli agenti della Securitate che eseguivano l’arresto: “Trovato da me in occasione della perquisizione, V. Anania. 14-VI-1958”. È la testimonianza di Bartolomeu Anania.

[14] Ieroschimonahul Daniil Tudor (Sandu Tudor), Scrieri, I, a cura di A. Dimcea, Asociația filantropică medicală creștină / Christiana, Bucarest 1999, p. 15-78 con la presentazione di un punto di vista ermeneutico e un epilogo riassuntivo dello stesso p. Daniil. Il testo è ripreso, in edizione critica, nel volume Ieroschimonahul Daniil Tudor (Sandu Tudor), Acatiste, Editura Christiana, Bucarest 2009. Qui sono presentati i cinque acatisti composti da Sandu Tudor, in edizione integrale, a cura di Alexandru Dimcea e Gabriela Moldoveanu: l’acatisto di s. Demetrio il Nuovo, di s. Giovanni Teologo, di s. Callinic di Cernica, dell’Annunciazione e quello del Roveto ardente (pp. 139-198, edizione che seguo per la mia traduzione). Di un altro acatisto, quello della s. Croce, si ha notizia dalle carte di p. Daniil ma è solo abbozzato con tante annotazioni: Caietele Preacuviosului Părinte Daniil de la Rarău (Sandu Tudor), 3, Taina Sfintei Cruci, a cura di Alexandru Dimcea, Editura Christiana, Bucarest 2001, p. 166-209, dal titolo “Acatist al Semnelor Sfintei Învieri. Pentru sfânta și minunata Cruce a Sihăstriei Sfintei Milostiviri din Crasna Gorjului”, Agathon monah, 12/II/1950.