WORDPDF

Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(24 ottobre 2021)

___________________________________________________

Ger 31,7-9;  Sal 125;  Eb 5,1-6;  Mc 10,46-52

___________________________________________________

L’intensità del brano di oggi, che precede immediatamente l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, è tutta concentrata nei titoli con cui Bartimeo, mendicante cieco, si rivolge a Gesù: Figlio di Davide, Rabbunì. Notiamo subito una cosa. I verbi usati nel racconto hanno accenti assolutamente speciali. Tutti i verbi del brano sono intensivi: Bartimeo grida, non semplicemente chiama; ripetutamente grida (tra l’altro, il grido del cieco è diventato il paradigma dell’invocazione della preghiera di Gesù, della preghiera del cuore!); getta via il mantello, non semplicemente se lo toglie; balza in piedi, non semplicemente si alza; si rivolge a Gesù da dentro un’emozione che aveva già lavorato il suo cuore, sebbene non avesse ancora mai potuto vederlo in faccia e, appena lo vede, non può che mettersi a seguirlo. Tutto il racconto assume una valenza simbolica precisa, che la liturgia fa risaltare.

Bartimeo, troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato. Quando gli si presenta l’occasione, tutto scoppia, prorompe, e lui perde ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio.

I particolari che illustrano la tensione interiore di Bartimeo sono appunto i titoli con cui si rivolge a Gesù: il primo, Figlio di Davide, gridato e il secondo, Rabbunì, sussurrato. Nei vangeli i due titoli sono assolutamente singolari. Come invocazione verso Gesù, Figlio di Davide, solo il cieco o i ciechi di Gerico e la donna cananea lo usano. Il titolo, come tale, appartiene alla genealogia di Gesù e alla proclamazione della folla nel suo ingresso trionfale in Gerusalemme. È il titolo che legittima la rivendicazione messianica di Gesù, che lo inserisce nella storia di Israele secondo la promessa di Dio al suo popolo e cela tutte le attese dell’uomo nel vedere realizzate proprio le promesse di Dio. Allude al mistero stesso di Gesù, l’Inviato, Colui che mostra la grandezza dell’amore del Padre al suo popolo, ma che ha valenza universale, tanto che è la cananea, pagana, a usarlo riconoscendo l’estrema generosità di Dio per l’umanità.

L’altro titolo, Rabbunì, evidentemente pronunciato con un tono accorato, a differenza delle grida che gli avevano ottenuto l’attenzione dello stesso Gesù, cela tutto un mondo. Quel modo di riferirsi a Gesù fiorisce solo sulle labbra di un’altra persona: Maria Maddalena. Quando, nel giardino, si sente chiamare per nome da Gesù subito dopo la sua resurrezione (cfr. Gv 20,16), ella risponde: Rabbunì! Immaginiamo il trasporto, l’emozione con cui viene pronunciato! Rivela la natura di un rapporto ricco di intimità, assolutamente personale, riassume la sua storia, contiene tutto il suo cuore di donna e di discepola. Per Bartimeo quell’appellativo cela tutto il desiderio che aveva a lungo lavorato il suo cuore, esprime una tensione fortissima dell’anima. E non solo in funzione della guarigione che invoca, ma in funzione dell’orientamento di tutta la sua vita, come poi il brano testimonia annotando che Bartimeo va dietro a Gesù. Quel suo ‘andar dietro’ a Gesù porta l’eco del comando di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E dove Gesù lo porta? A Gerusalemme, perché subito dopo il miracolo, il testo del vangelo prosegue descrivendo l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, dove si compie la sua ora. La vista che gli ha ridato, nella visione della fede che ormai abita il cuore, lo porta a vedere in Lui il Regno che si compie, il Paradiso nel quale tutti i discepoli di Cristo sono chiamati ad entrare. E così la figura di questo cieco diventa l’immagine-simbolo della tensione dell’anima e della scoperta di Colui che ormai ha rapito i nostri cuori. La richiesta del cieco di ‘vedere’ è correlata al ‘vedere’ dei discepoli che hanno seguito Gesù fin sul calvario e i cui cuori si aprono alla visione del Risorto. Quel ‘vedere’ non è il semplice guardare, ma il riconoscere, il vedere dall’alto, l’entrare nella contemplazione del segreto di Dio nel suo amore per l’uomo.

Ora, questo è proprio l’esito della preghiera: tornare ad avere il cuore che vede svelarsi e compiersi nel concreto della vita il segreto di Dio. In questa prospettiva va letta l’esultanza del credente come ripete l’antifona d’ingresso di oggi, ripresa dal salmo 105: “Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, perché vi renda complici del suo segreto per l’uomo. Come la versione greca e latina rendono: ‘cercate il Signore e siate fortificati’. Fortificati dalla comunanza di vita con colui che dell’amore per noi ha fatto la ragione della sua umanità. La preghiera è allora la condivisione della fretta che muove Gesù di veder compiersi il segreto di Dio in favore degli uomini, fretta che trascina i discepoli e muove il mondo. Soltanto l’invocazione gridata con tutto il cuore, senza alcun ritegno, come è avvenuto per la donna Cananea (Mc 7, 26) e per Bartimeo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” farà vedere la fretta che muove il Signore nel suo appressarsi all’uomo aprendoci il suo segreto e sanando così il nostro cuore, tanto da trascinarci nella sua stessa dinamica perché tutti ne siano lambiti e il mondo risplenda della Sua presenza.

La prima lettura fa presagire il contesto drammatico in cui si compiono le promesse di Dio. È tratta dal cap. 31 di Geremia, il capitolo che descrive il ritorno degli esuli da Babilonia, l’arrivo a Sion del Signore con il suo popolo, realizzazione che allude a un’altra promessa, quella di una nuova alleanza, scritta sui cuori, quando Israele corrisponderà con la stessa dedizione all’attaccamento del Signore e tutto sarà riedificato nuovamente. Straordinaria è la descrizione dei sentimenti di Dio: “Ti ho amato di amore eterno … il mio cuore si commuove e sento per lui profonda tenerezza … tutti mi conosceranno … poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale celebra l’esperienza del ritorno dall’esilio e la riconsegna del popolo al suo destino di bene e di felicità, come il Signore aveva promesso. Ma a noi sfugge la dimensione drammatica delle promesse di Dio, come sfugge la tensione emotiva del cuore del cieco che ha tanto atteso il suo momento. Geremia vede in sogno la realizzazione del ritorno del popolo dall’esilio e legge il suo sogno come la profezia del futuro. In realtà, attorno a lui, a Gerusalemme, tutto è distrutto, la città svuotata, le sofferenze immani e la prostrazione abissale. Ma Dio non può venir meno alle sue promesse e il profeta vede, spera, crede, lotta per rianimare e consolare.

***

I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]

Prima Lettura  Ger 31, 7-9

Dal libro del profeta Geremia

Così dice il Signore:

«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,

esultate per la prima delle nazioni,

fate udire la vostra lode e dite:

“Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”.

Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione

e li raduno dalle estremità della terra;

fra loro sono il cieco e lo zoppo,

la donna incinta e la partoriente:

ritorneranno qui in gran folla.

Erano partiti nel pianto,

io li riporterò tra le consolazioni;

li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua

per una strada dritta in cui non inciamperanno,

perché io sono un padre per Israele,

Èfraim è il mio primogenito».

Salmo Responsoriale  Dal Salmo 125

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,

ci sembrava di sognare.

Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,

la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:

«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».

Grandi cose ha fatto il Signore per noi:

eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,

come i torrenti del Negheb.

Chi semina nelle lacrime

mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,

portando la semente da gettare,

ma nel tornare, viene con gioia,

portando i suoi covoni.

Seconda Lettura  Eb 5, 1-6

Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.

Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.

Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».

Vangelo  Mc 10, 46-52

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ».

Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.

Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.