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Settimo ciclo

Anno liturgico B (2020-2021)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(21 marzo 2021)

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Ger 31,31-34;  Sal 50;  Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

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Ci avviciniamo alla Pasqua e la liturgia segue Gesù nel suo venire a Gerusalemme per la sua Pasqua. È entrato osannato in città, la folla gli era andata incontro con rami di palma avendo saputo del miracolo di Lazzaro. Ora si fanno avanti dei proseliti (pagani simpatizzanti della religione ebraica) e chiedono di vedere Gesù. È la domanda perno di questa liturgia: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. La richiesta è presentata a Filippo, il quale la riporta ad Andrea e insieme la presentano a Gesù. La risposta di Gesù suona strana se ci immaginiamo la scena come una questione di conoscenza di circostanza. Gesù intercetta la domanda come un desiderio di rivelazione. Come Mosè, quando dice a Dio: “mostrami la tua gloria”.

Il nome Gesù (in aramaico Yeshu’a, tardiva trascrizione aramaica del nome Yehoshu’a, Giosuè, che significa ‘Dio salva’) allude al mistero della salvezza secondo le promesse di Dio al suo popolo, tenendo conto della modalità singolare con cui Dio si mostra salvatore. Come riporta Gesù di sé nel suo colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, non significa solamente che il Figlio è venuto nel mondo, ma che la sua testimonianza dell’amore del Padre per i suoi figli si è giocata con il morire in croce, calpestato e vilipeso. Proprio come dice l’autore della lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

L’esito drammatico, a cui fa riferimento inconsapevole la domanda dei proseliti, è sottolineato con la manifestazione dei sentimenti di Gesù: “Adesso l’anima mia è turbata”. Se pensiamo che il vangelo di Giovanni non riporta la preghiera di Gesù al Getsemani, qui abbiamo descritto ciò che i lettori del vangelo già sapevano dagli altri racconti: “la mia nima è triste fino alla morte”. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio Gesù, il volto visibile del Padre.

Gesù si paragona al chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto. Il paragone era usato sia nella tradizione rabbinica che poi in san Paolo come immagine della risurrezione. L’immagine verte sulla qualità del frutto, che designa la potenza di una vita non più mortificabile, non più soggetta alla morte, quella vita che il Signore ci rende perché ci fa partecipi della sua, in intimità con il Padre. E la vita, che non è più soggetta alla morte, è lo splendore di un amore che nessuna ingiustizia e violenza piega o mortifica. Per questo Gesù continua nella sua spiegazione con la massima dell’amare o dell’odiare la propria vita: “Chi ama la propria vita, la perde [la distrugge] e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Odiare, contrapposto ad amare, ha il significato di non considerare come un valore supremo. Ne deriva il significato: chi non teme nemmeno la propria morte è sovranamente libero, per amare totalmente. Chi non teme la propria morte disarma il potere perverso del male e lo caccia fuori dal mondo, cioè lo esclude dalla vita. Evidentemente, non si tratta di un’azione puntuale, ma di un processo, secondo il paragone del chicco di grano che porta frutto, perché interessa tutto il corso della vita.

E come è di Gesù, così sarà del suo discepolo. Questo cerca Gesù: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. Per tre volte nel vangelo di Giovanni Gesù ripete la stessa cosa. Qui, in 14,3 e 17,24. Dove è Gesù? Gesù è nell’amore del Padre per i suoi figli, così anche i discepoli saranno nell’amore di Gesù per tutti, godendo di quella vita in Dio che è splendore di amore per noi. ‘Servire’, ‘seguire’, hanno il valore di essere messi a parte del segreto di Dio nel suo amore per il mondo, che in Gesù, proprio quando è innalzato sulla croce, risplende luminoso. Il suo essere levato in alto non allude semplicemente al morire, ma al trasformarsi in potenza vivificante e salvatrice dalla morte, che a noi si comunica per vivere della sua stessa vita.

Così, se riprendiamo la promessa di Dio nella profezia di Geremia, possiamo notare come i due passaggi nevralgici siano dati dalle espressioni: “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore, nella carne del nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

I cuori torneranno puri proprio quando torneranno a lasciarsi commuovere alla visione del ‘crocifisso’, come fa intendere la domanda dei proseliti. Il brano di Geremia è tratto dal cap. 31 che  descrive l’amore di Dio in termini commoventi: “Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele” (Ger 31,3) che si può rendere con: ‘così, è per amicizia che io ti attiro a me’. E più avanti: “Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza” (Ger 31,20), che si potrebbe rendere: ‘ogni volta che ne parlo, ancora e ancora devo pronunciare il suo nome; e nel mio cuore, che emozione per lui! Io l’amo, sì, io l’amo’.

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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]

Prima Lettura  Ger 31, 31-34

Dal libro del profeta Geremìa

Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.

Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.

Salmo Responsoriale  Dal Salmo 50

Crea in me, o Dio, un cuore puro.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;

nella tua grande misericordia

cancella la mia iniquità.

Lavami tutto dalla mia colpa,

dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

Non scacciarmi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,

sostienimi con uno spirito generoso.

Insegnerò ai ribelli le tue vie

e i peccatori a te ritorneranno.

Seconda Lettura  Eb 5,7-9

Dalla lettera agli Ebrei

Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.

Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Vangelo  Gv 12,20-33

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».

Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».

Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».

La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.