Settimo ciclo
Anno liturgico A (2019-2020)
Tempo Ordinario
XXIX Domenica
(18 ottobre 2020)
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Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21
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Le ultime tre parabole scatenano la decisione da parte dei capi e degli anziani di far fuori Gesù. Occorre però un pretesto. Non potendo accusare Gesù nei suoi comportamenti, cercano di coglierlo in fallo nelle sue parole. Cercano di incastrarlo con un pretesto politico per consegnarlo all’occupante romano. Dal loro punto di vista, la strategia è vincente, perché al processo contro Gesù sarà proprio un’accusa di tipo politico a farlo condannare. La questione, scottante allora, era il tributo che ogni cittadino ebreo doveva pagare all’occupante romano. Non era una questione di esosità di tasse, ma di umiliazione di un popolo. Gli zeloti, l’ala intransigente dei farisei, proibiva ai suoi simpatizzanti di versare il tributo e saranno proprio loro la miccia dell’insurrezione di Gerusalemme nell’anno 67 che causerà, tre anni dopo, la distruzione della città ad opera dei Romani.
Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).
Il tranello era ben orchestrato perché comunque Gesù rispondesse non poteva evitare di essere accusato. Se avesse acconsentito al versamento del tributo si sarebbe inimicata la gente, se avesse invitato a non versarlo si sarebbe contrapposto al potere romano. Gesù evita il tranello, ma non la questione e risponde: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, lasciando i suoi stessi avversari pieni di ammirazione.
Il senso della sua risposta è illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi 2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico, segnale di quella vita eterna che Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la vita che vivete nel mondo tenetela aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Il verbo greco, tradotto con ‘tenendo salda’, ha due significati: tenere fermamente e offrire. Il credente in Cristo porta la parola di vita nel senso che la fa risplendere nel mondo. Nella prima lettera ai Tessalonicesi Paolo elenca le tre condizioni caratteristiche della vita di un credente, facendo memoria dell’entusiasmo della comunità di Tessalonica nell’aderire a Gesù. Parla della fede, della carità e della speranza (questo è l’ordine che adotta) e a ciascuna virtù teologale abbina una caratteristica:
alla fede l’operosità. Una fede che non si traduca in opere è morta.
alla carità la fatica. Ma quale fatica? La fatica di portare il male con il bene, la fatica di cedere i propri diritti pur di non perdere l’amore, la fatica di venire offesi e restare gioiosi, la fatica di rivolgere a tutti, senza distinzione, il movimento dell’amore.
alla speranza la fermezza (letteralmente, la pazienza, la resistenza nel tempo). Resistenza, non come sopportazione, ma come resilienza, capacità cioè di reagire con fantasia ed elasticità al reale perché l’oggetto della speranza resti sempre a portata di mano. Non lasciatevi rubare la speranza, dice papa Francesco.
Se Gesù è l’Immagine del Padre, l’uomo, che è fatto a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che è modellato su Gesù, il Verbo fatto uomo. Così, quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio, allude al fatto di vivere la propria umanità come lui la vive, vale a dire in funzione della rivelazione al mondo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Costituisce il supremo compito dell’umanità, che in questo non resta soggetta a nessun’altro tipo di potere.
L’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente esalta, ma non si apre alla salvezza. Gesù dirà invece dei farisei: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).
L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli nell’ultima cena), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Con il dire di dare a Dio quello che è di Dio, Gesù allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e della cui comunione rende anche noi partecipi. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.
Rispetto invece al ‘rendere a Cesare quello che è di Cesare’, si possono notare tre cose.
Gesù riconosce la legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa. Gesù spezza l’alleanza tra religione e Stato, che il paganesimo e l’impero esigevano. Gesù non separa semplicemente Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del piano divino di salvezza per l’uomo. E infine, che l’uomo è sopra il cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la persona sopra la collettività. ‘Io sono il Signore e non c’è alcun altro’ non significa semplicemente che c’è un solo Dio, ma che tutto ciò che di vero, di bello, di buono, desideriamo, non può avere compimento se non in Lui. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo Regno nella responsabilità della storia.
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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):
[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]
Prima Lettura Is 45,1.4-6
Dal libro del profeta Isaia
Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:
«Io l’ho preso per la destra,
per abbattere davanti a lui le nazioni,
per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,
per aprire davanti a lui i battenti delle porte
e nessun portone rimarrà chiuso.
Per amore di Giacobbe, mio servo,
e d’Israele, mio eletto,
io ti ho chiamato per nome,
ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.
Io sono il Signore e non c’è alcun altro,
fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci,
perché sappiano dall’oriente e dall’occidente
che non c’è nulla fuori di me.
Io sono il Signore, non ce n’è altri».
Salmo Responsoriale Dal Salmo 95
Grande è il Signore e degno di ogni lode.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.
Seconda Lettura 1 Ts 1,1-5b
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.
Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
Vangelo Mt 22, 15-21
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».