WORDPDF

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Avvento

I Domenica

(1° dicembre 2019)

___________________________________________________

Is 2,1-5;  Sal 121;  Rm 13,11-14;  Mt 24,37-44

___________________________________________________

Nell’ultima settimana dell’anno liturgico, la trentaquattresima, la chiesa ci ha accompagnati con questa antifona alla comunione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” – sono le ultime parole del vangelo di Matteo – e con la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che in questi santi misteri ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita, non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene”.

Con l’inizio del nuovo anno liturgico, l’Avvento, quando la Chiesa ci invita alla vigilanza, allude alla capacità del cuore e dell’intelligenza di percepire proprio la ‘presenza’ del Signore Gesù che tutto attira a sé e al suo regno per consegnarlo nelle mani del Padre. Avvento non significa primariamente attesa, ma presenza. Il periodo liturgico dell’Avvento non è un’attesa della nascita di Gesù a Betlemme, ma la tensione a una capacità di sensazione, di intuizione cordiale della compagnia di Gesù che opera continuamente perché il suo regno conquisti i cuori e la storia. E se di attesa si parla, si tratta dell’attesa della manifestazione del Signore Gesù al nostro cuore.

Il profeta Isaia rivela la presenza nella storia di un movimento opposto a quello della torre di Babele, allorquando le genti si sono disperse sulla terra senza più comprendersi. La visione del profeta rivela che le genti tornano a riunirsi, verso l’alto. È la forza della parola del Signore che muove all’unità elevando. Si tratta della verità espressa dalla colletta: “O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Ecco descritto il movimento tipico della rivelazione: verità per la riconciliazione, verità in vista della riconciliazione. Gesù è inviato per mostrare al mondo la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi. La verità riguarda la testimonianza di un amore, la riconciliazione lo scopo di quella testimonianza. Non è però un movimento troppo visibile; è necessaria una buona vigilanza, un’attenzione che non venga mai meno, che sia tesa a scoprire e favorire quel movimento, liberi dalle cose e dai desideri contrari, pieni di amore per non subire il fascino mortificante di una concentrazione su di sé.

Per questo s. Paolo ci esorta alla vigilanza scuotendoci dal sonno e invitandoci ad affrontare la vita rivestendoci dell’umanità di Gesù che ha vissuto in pienezza quel movimento di verità e riconciliazione, che ci fa intimi del Padre e solidali tra di noi. La vigilanza a cui ci invita la liturgia è così finalizzata ad uno scopo preciso: essere in condizione di realizzare la vocazione all’umanità che il Signore Gesù vive nel suo splendore originario. Paolo dichiara: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza, senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da una armatura di luce: “indossiamo le armi della luce”. Luce, che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il salmo: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.

L’avvertimento di Gesù ai suoi discepoli: “Vegliate dunque” riguarda la tensione del cuore, come dicesse: non fate come al tempo di Noè quando, nonostante fosse avvertita, la gente non si avvide di nulla; scopritela, avvertitela, viveteci dentro, fatevene la ragione del vivere. E quando aggiunge ‘tenetevi pronti’ l’allusione evidente, come del resto suggeriscono le parabole del padrone che torna dalle nozze, è al servizio vicendevole perché tutti possano vedere lo splendore del regno e la manifestazione del suo amore. L’avvertimento contiene questa sfumatura, come ne dà testimonianza una mistica del sec. XIII, Hadewijch di Anversa: “Chi vorrà alleggerire la pena [l’inquietudine di non amare mai abbastanza] dovrà mettere tutto il suo cuore ad essere costantemente fedele in ogni circostanza. Soffrirà volentieri ogni pena per l’Amore … preferirà pazientare al di là delle sue forze perché non manchi nemmeno una virgola a ciò che è dovuto all’Amore”. In altre parole, il vegliare e il tenersi pronti riguarda la manifestazione del Signore nel suo amore per noi e nel nostro amore per i fratelli in ogni circostanza, in ogni dettaglio della vita.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2019)

___________________________________________________

Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

___________________________________________________

La benedizione che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini ha ricoperto e intriso in modo singolare la Tutta Santa, la Vergine Maria. In lei quella benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla di prezioso da desiderare. La tradizione venera la Vergine come “la madre del creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”.

Frutto di quella benedizione è la lode che prorompe dalla Vergine e che l’antifona di ingresso riprende come compimento della profezia di Isaia: “Esulto e gioisco nel Signore; l’anima mia si allieta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come una sposa adornata di gioielli” (Is 61,10).

Lode e benedizione che i fedeli riprendono con la preghiera dell’Ave Maria, preghiera che è entrata nell’uso così come la conosciamo con la sua adozione da parte dell’ordine dei Mercedari nel 1514. Lei è la ‘benedetta’ perché porta il ‘Benedetto’, salutato dalla folla degli ebrei nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme con la proclamazione: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Mc 11,9).

La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi. L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio la cui luce tutto attraversa e struttura.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione.

Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio: “dove sei?”, che continuamente bussa al suo cuore, superando l’inganno, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine. La Vergine è proprio colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Io collegherei la domanda di Dio ad Adamo allo stesso volere di Gesù che, prima della sua passione, svelando ai discepoli i suoi segreti, proclama loro: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Dove è Gesù? Gesù è nell’amore del Padre per noi, così noi, in lui, siamo nello stesso amore per tutti. La Vergine è colei che da sempre ha abitato quel ‘luogo’, che da sempre è collocata nel ‘luogo’ dove Gesù è.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

La Vergine Immacolata è anche chiamata Signora nostra. Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas ne spiega la portata: “… signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato” (Omelia 14). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Avvento

III Domenica

(15 dicembre 2019)

___________________________________________________

Is 35,1-6a. 8a.10;  Sal 145;  Gc 5,7-10;  Mt 11,2-11

___________________________________________________

Giovanni Battista si trova in prigione e sente parlare di quello che Gesù fa. Non era proprio quello che si era immaginato rispetto al messia che aveva indicato presente nel mondo. È lui oppure lui fa parte di coloro che precedono la venuta del messia? La domanda, nel suo risvolto angosciante, rivela la libertà del mistero di esprimersi al di fuori dei nostri schemi. Lo ‘scandalo’ è sempre in agguato. Perché il messia si muove così? Come mai la sua azione non corrisponde a quello che ci eravamo immaginati, che ci aspettavamo, che sembrava corrispondere alla stessa promessa di Dio? Non è solo la domanda del Battista, ma di tutti i credenti.

Gesù risponde con le parole della Scrittura. L’evangelista assembla una serie di passi profetici, di Isaia in particolare, per esprimere ciò che di importante aveva da dire a Giovanni Battista. Cita Is. 26,19; 29,18; 35,5; 61,1. E proprio con questa ultima citazione ha da dire qualcosa di particolare al cuore del Battista. Il v. 1 del cap. 61 di Isaia suona: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Nel testo evangelico compare solo la frase: ‘ai poveri è annunciato il vangelo’. Ma chi annuncia il vangelo è colui sul quale riposa lo Spirito del Signore e tra le sue azioni rivelatrici c’è anche quella di liberare i prigionieri. Ma Giovanni è in carcere: verrà liberato? No. E allora Gesù aggiunge: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”. Così Gesù esalta la fede del Battista, lo rassicura. Gesù non gli risponderà: sì, sono io il messia; ma: tu sei l’Elia che deve venire. Su quella assicurazione, il Battista comprende: è proprio lui il messia. Non c’è più motivo di scandalizzarsi perché la sapienza di Dio opera secondo i suoi segreti.

Nel vangelo di Matteo, in altre due occasioni si parla di scandalo a proposito di Gesù: in 13,57, allorché i compatrioti di Nazaret fanno resistenza all’insegnamento di Gesù e in 26,31, allorché i discepoli restano scandalizzati nella notte della cattura di Gesù. Sta di fatto che il Messia si manifesta diversamente da quanto ci si aspetta. Se vale per i profeti, è valso per i discepoli, come non varrà anche per noi? Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita. La rivelazione di Dio sorpassa ogni pensiero, sorprende le attese del cuore perché “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d’uomo aveva più l’aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.

Appena i discepoli di Giovanni si allontanano per portare la risposta al loro maestro, Gesù intesse l’elogio del Battista: “In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Il paragone va preso in assoluto, vale a dire: se Giovanni è più grande dei profeti perché, a differenza di loro, non solo ha intravisto la venuta del messia parlando di lui ma l’ha incontrato personalmente, l’ha indicato presente nel mondo e quindi nessuno è più grande di lui, Gesù, che viene dopo, il piccolo dopo il grande, il discepolo dopo il maestro, solo lui mostra la realtà del regno di Dio venuto, solo lui è il compimento delle promesse, in lui si manifesta tutto lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. Il più piccolo nel regno è più grande del più grande tra gli uomini. L’invito è a seguire l’indicazione del Battista nel suo indicare l’agnello di Dio e Gesù si proclama come colui verso il quale guardare. La finale del brano comporterà appunto la rivelazione prodigiosa di Gesù che è ‘mite e umile di cuore’, motivo per cui i figli degli uomini trovano in lui il riposo. Si tratta di rivelazione perché l’aggettivo ‘mite’ (in greco πραυς) si trova nella terza beatitudine (Mt 5,8) e nel racconto dell’entrata di Gesù in Gerusalemme citando la profezia del ‘re mite, seduto su un’asina’ (Mt 21,5), dove la mitezza ha che fare con la passione di Gesù che esalta appunto lo splendore del suo amore per gli uomini. Con questo riferimento va compresa l’annotazione della ‘violenza’ con cui ci si impadronisce del regno, come lo è stato per il Battista e che il vangelo di Luca rende chiaramente con ‘ognuno si sforza [si fa violenza] di entrarvi’ (Lc 16,16). È la violenza del perdere se stesso per guadagnare la vita, del perdersi per ritrovarsi, del rinnegare se stessi per far fiorire la propria umanità e lasciarla sotto l’azione dello Spirito che la esalta.

La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell’evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù. Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l’uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l’uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Se l’uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e onnipotente potrebbe gioire. Ma può derivare all’uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell’illusione di una letizia che avesse tali radici.

Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell’uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela proprio questo al Battista e quando ne tesse l’elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l’ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell’uomo la ‘grazia della verità’ che viene da Dio.

Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza (nel testo italiano traduciamo con costanza: ‘siate costanti’), invita a camminare e a lavorare con generosità e fiducia in vista della manifestazione del Salvatore al nostro cuore, finché essa diventi radice di letizia: il Signore è con noi! Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l’amore salvatore di Dio. Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del ‘Dio con noi’ la ragione profonda della sua storia.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(22 dicembre 2019)

___________________________________________________

Is 7,10-14;  Sal 23;  Rm 1,1-7;  Mt 1,18-24

___________________________________________________

Nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento, Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto alla profezia di Isaia. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture raccontano la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’.

Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.

Il racconto di Matteo comporta molti particolari singolari. Non parla semplicemente della nascita di Gesù, ma specificamente della sua concezione ‘dallo Spirito Santo’. Matteo usa il termine γενεσις, che richiama il libro della Genesi, perché parla dell’origine di Gesù, della sua generazione. Giuseppe ha già saputo della gravidanza della sua sposa, gliene avrà parlato lei stessa. Si trova confuso non perché sospetta della sua infedeltà, ma perché, secondo la legge, non potrebbe prendere come sposa una donna che aspetta un bambino da un altro. Nemmeno però ha mai pensato di ripudiarla perché sa che la sua sposa è innocente, sa che l’evento viene da Dio ma non sa come viverlo, forse non si sente all’altezza. Come fare? Se è dichiarato giusto, lo è in ragione della presunzione di innocenza per la sua sposa. Continua a rimuginare questi pensieri senza decidersi sul da farsi.

In questa situazione di perplessità e indecisione avviene la rivelazione dell’angelo in sogno. Matteo è l’unico autore del Nuovo Testamento che riporta una rivelazione durante un sogno. Due cose lo convincono nelle parole dell’angelo che nel sonno percepisce nitidamente: tu devi dare il nome a questo bambino; si compie la profezia di Isaia. Dare il nome al bambino significa accogliere il bambino come suo e in questo si sente invitato a un compito direttamente da Dio. La conferma delle Scritture, che lui conosceva bene, lo convince nella fiducia che la cosa corrisponde al volere di Dio. Matteo cita il testo di Isaia dalla versione greca dei LXX e non dal testo ebraico ma modificando un particolare che risulta convincente per Giuseppe. Il testo di Isaia suona: “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà [chiamerai, secondo alcuni codici] Emmanuele”. Matteo riporta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”. Giuseppe sa che il nome che dovrà dare al bambino è Gesù, mentre tutti coloro che lo conosceranno lo riterranno l’Emmanuele, cioè il compimento della promessa di Dio nell’amore per l’umanità.

La liturgia di oggi proclama che l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è il segno di Dio per noi. L’aspetto misterioso dell’evento è descritto con la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. L’allusione più diretta è all’imminente nascita di Gesù dal grembo della Vergine.

Ma la colletta allarga questa allusione anche alla terra del nostro cuore invitata a far nascere il Verbo della vita: “… concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”. Come è possibile che uno contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? È appunto il mistero dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. Non bisogna dimenticare che, in termini spaziali, ‘alto’ e ‘dentro’ alludono alla stessa regione, in contrapposizione a ‘basso’ e ‘fuori’. La grazia proviene dall’alto e agisce dal di dentro, mentre il peccato viene dal basso e agisce dal di fuori. Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”.

Il nome Emmanuele, come nome di persona, non è attestato altrove nell’A.T. e porta la promessa di salvezza.  Il racconto evangelico riporta il nome Emmanuele a spiegazione del nome di Gesù che verrà imposto al bambino secondo l’annuncio dell’angelo. L’equivalenza che ne deriva è di questo tipo: il Dio-con-noi, l’Emmanuele è il nostro Salvatore, Gesù, la salvezza consistendo nel poter godere nuovamente nella e della comunione con il proprio Dio. Il perdono dei peccati allude alla piena godibilità della comunione con il proprio Dio, nella partecipazione alla santità di Dio, che è splendore di amore per gli uomini.

La vocazione di Giuseppe può essere allora definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico Segno che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2019)

___________________________________________________

Messa vespertina della vigilia:          Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                              Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                             Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                              Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

___________________________________________________

La liturgia canta l’evento del Natale di Gesù in termini di luce: luce che splende e illumina, luce che scalda, luce che rigenera, luce che libera. E richiama il versetto del prologo di s. Giovanni, che viene letto nella messa del giorno: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4). Sono però gli occhi dello spirito a vedere la luce, perché gli occhi fisici vedono altro. Vedono un semplice neonato, in condizioni disagevoli, per quanto circondato di tenerezza. Per di più, nel dramma che incombe perché il bambino sarà cercato per essere ucciso, dovrà fuggire, nonostante la visita di personaggi illustri, anche se sconosciuti, che gli presentano doni specialissimi. Vivrà nel nascondimento, fino al giorno della sua manifestazione. Gli antichi pittori di icone avevano segnalato tutti questi elementi: il bambino giace in una grotta scura, la mangiatoria assomiglia a una tomba, i pannolini alludono alle fasce mortuarie. Eppure, c’è qualcosa nell’aria di irresistibilmente luminoso, che apre i cuori alla speranza.

S. Efrem ne descrive lo stupore con queste parole: “Quanto sei audace, o bimbo, che a tutti ti concedi. A chiunque ti viene incontro tu sorridi e di chiunque ti guarda tu hai desiderio. È come se il tuo amore avesse fame degli uomini. Non fai distinzione tra i tuoi parenti e gli estranei, tra tua madre e le serve, tra colei che ti ha allattato e le donne impure. È questa la tua audacia o il tuo amore, o tu che tutti ami?”. La liturgia bizantina gli fa eco con espressioni mirabili invitandoci però prima ad elevarci: “Eleviamoci divinamente per contemplare la divina discesa dall’alto a Betlemme, verso di noi, visibilmente” e proclama: “Gloria alla tua condiscendenza, o solo amico degli uomini”; “La tua nascita, o Cristo nostro Dio, ha fatto sorgere per il mondo la luce della conoscenza”. È il calore luminoso che si sprigiona dall’amore finalmente conosciuto nella sua concretezza che ti tocca: ‘Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito’ nella forma più accattivante e, nello stesso tempo povera, di un piccolo bambino. Fatto che fa esclamare a Paolo nella sua lettera a Tito: “è apparsa la grazia”, “apparvero la bontà e l’amore”. Apparve, prende forma visibile, toccabile. Esperienza che risulterà evidente con la persona concreta di Gesù tanto che oramai Dio non può essere cercato che nell’umanità, perché con l’umanità si è confuso.

La colletta della messa del giorno di Natale invoca: “fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”. Ne consegue che l’uomo pienamente umano è l’immagine più trasparente di Dio e Dio risplende dall’umano, questa è la novità annunciata dal Natale di Gesù. Ciò significa che, a dispetto di tutte le forze contrarie, a dispetto dell’avversario che sempre insidia l’umanità, Dio e l’uomo sono della stessa famiglia, condividono la stessa gioia. Come canta s. Efrem: “Beato chi ha fatto dimorare le tue gioie nel suo cuore e che ha smarrito in te le sue pene!”. È il mistero dell’incarnazione svelato al cuore.

Davanti al Bambino che veniamo ad adorare, ci accompagna l’eco delle parole del Padre: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22), proferite al battesimo di Gesù nel Giordano. Nella genealogia di Gesù che Luca fa seguire, quel Bambino non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità. Gesù è il sigillo di questa storia d’amore di Dio con l’umanità; è colui che ci introduce in questa storia e ce ne svela il senso.

Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero di quel Bambino, nato per noi, è delineata secondo la traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “…fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “…fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

BUON NATALE A TUTTI.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Santa Famiglia

(29 dicembre 2019)

___________________________________________________

Sir 3, 3-7.14-17a;  Col 3, 12-21;  Sal 127;  Mt 2, 13-15. 19-23

___________________________________________________

È significativo che la Chiesa non celebri l’incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare sia questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero. Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente.

Si appartiene all’umanità perché si nasce da una donna, ma si diventa ‘umani’ perché accolti in una famiglia. È il destino della chiamata alla vita, della vocazione umana: si diventa uomini solo dentro una storia riconosciuta, che ci precede e ci accompagna, imparando a riconoscere e vivere quella ‘promessa’ di vita che resta inscritta in noi venendo al mondo sia per i genitori che per i figli. La famiglia è il luogo di svelamento di quella promessa che viene dall’alto, il luogo di riferimento esistenziale che segna la natura dei nostri sogni. Non è il luogo da dove proviene la promessa; è più semplicemente il luogo dove la promessa diventa nostra, diventa mia.

La figura di Giuseppe nella famiglia di Nazaret è altamente eloquente. La sua vita si gioca attorno a tre sogni che orientano le sue decisioni. “Prendi la tua sposa…” gli dice l’angelo e Giuseppe acconsente. Non aveva previsto in questo modo la sua vita, ma l’obbedienza a questo invito gli fornisce le condizioni concrete in cui vivere il suo amore a Maria compiendone la promessa di vita che racchiudeva nel sogno d’amore di Dio per l’umanità. Non può però prevedere lo svolgimento della storia per cui, ancora una volta, deve acconsentire all’invito dell’angelo che lo distoglie dalle sue attese: “Fuggi…”. E poi ancora: “Ritorna… Va’ in Galilea…”. L’amore di Giuseppe si gioca nel vivere con responsabilità, coraggio, intelligenza, determinazione, le sempre nuove condizioni di vita in cui è come costretto. Più si immerge nei dettagli della storia, più deve allargare la sua percezione del mistero: al massimo di dettaglio corrisponde il massimo di allargamento. È tutto il mistero della fede di Giuseppe, come del resto della Vergine. L’amore è in funzione del compimento del sogno di Dio di stare con gli uomini.

La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come il luogo di esercizio e di visione nella fede. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’ per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La ‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione all’uomo: è l’espressione di quella visione del mistero che appartiene alla donna, che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’‘amore’ che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così tutti restano immersi in quell’unico mistero che regge e orienta la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanarne i segreti nel concreto della vita.

L’avvertimento di Paolo ai Colossesi “…rivestitevi, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia … perdonandovi a vicenda … e la pace di Cristo regni nei vostri cuori…” allude appunto al mistero di obbedienza. L’obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi vicendevolmente e a Lui. E se l’obbedienza non porta a svelare la tenerezza vuol dire che non procede dall’adorazione, da una visione, ma solo da una volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere custodi del segreto di Dio per noi?

Il vangelo presenta Giuseppe proprio come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l’umanità, che per lui si concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l’assunzione di un compito di grazia che fa dell’obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all’assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell’amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore ‘vedono’ quanto basta per non tirarsi indietro. Con la figura di Giuseppe viene descritto il ‘dramma’ in cui si vive la storia di un amore, in quel gioco di responsabilità che continuamente rimanda e alla concretezza dell’agire e alla grandezza del mistero in cui si è buttati e di cui si svela poco a poco la benevolenza per noi tutti.

Abbiamo solo bisogno di ‘rivestirci’, di divenire cioè consapevoli del dono e compito di grazia che ci ha riguardati nell’intimo e ci ha resi, nella nostra piccolezza e nelle situazioni concrete, ‘evangelici’, cooperatori della gioia altrui, segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella salvezza operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli altri, ma di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza degli uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù ‘il nazareno’.

In effetti, l’ultimo versetto del brano evangelico letto riporta: “… andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»“. Non è chiaro a quali passi profetici l’evangelista si richiama, ma è chiara l’allusione al mistero che quell’aggettivo comporta. Due sono almeno i significati di quell’aggettivo. Designa Gesù come proveniente da Nazaret: esprime la concretezza della sua umanità quanto alle radici, agli affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è nato, ma perché è stato allevato, nutrito, curato, educato, amato, in una famiglia umana. Nazareno richiama poi ‘nazir’ (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il consacrato a Dio, il Santo di Dio: esprime la natura del compito che è chiamato a compiere: salvare Israele, salvare l’umanità.

Se poi andiamo a vedere quando Gesù è chiamato ‘nazareno’ notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24), gli angeli (Mc 16,6); ma soprattutto l’aggettivo compare nei racconti della passione di Giovanni, all’arresto e soprattutto sull’iscrizione sopra la croce: Gesù Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà della sua umanità: è proprio quell’uomo che è vissuto a Nazaret, la cui famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Maria SS. Madre di Dio

(1° gennaio 2020)

___________________________________________________

Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

___________________________________________________

Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta e ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Con la Vergine Maria, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodisca…”. Come devono risplendere gli occhi di Dio guardando questa sua umile ancella! Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:

– che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

– che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e renda luminoso il tuo volto del suo splendore

– possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti custodisce nella Sua pace.

E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

“Così porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatto, dentro un’intimità, alle radici del cuore.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi.

L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non percepiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto con più esattezza: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose‘ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita tornerà a risplendere della presenza del nostro Dio.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Natale

II Domenica dopo Natale

(5 gennaio 2020)

___________________________________________________

Sir 24,1-4.8-12;  Sal 147;  Ef 1,3-6.15-18;  Gv 1,1-18

___________________________________________________

Le magnifiche espressioni di s. Efrem nei suoi canti natalizi svelano lo splendore di consolazione per l’umanità, che con la nascita di Gesù può ritrovare la gloria della sua dignità: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”. E con le parole messe in bocca alla stessa Madre di Dio: “Se una madre ha un bambino, questo diventa fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché venga per servire il suo Signore … A causa tua una serva diventa libera. Se una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”. Il mistero della fede: vedere nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una visione nuova, trasformante.

Se davvero crediamo, come dice il ritornello del salmo responsoriale, che “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”, allora l’augurio più bello e convincente, dal punto di vista della fede, non può essere che quello di Paolo agli Efesini: “…il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi”. Conoscenza, qui, allude all’esperienza degli apostoli che, davanti al mistero del Figlio di Dio fatto uomo, con il quale hanno vissuto, di cui hanno ascoltato la voce, le cui azioni hanno ammirato e del cui fascino sono rimasti folgorati, proclamano: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). Da dentro quell’esperienza, testimoniata dagli apostoli e a noi trasmessa perché la condividessimo, la percezione del mistero dell’amore di Dio per gli uomini, della benevolenza di Dio che tocca le radici dei cuori con il dono di quel Figlio, dato per noi, diventa chiarissima, prepotente: la benedizione non si allontanerà mai più dall’umanità.

Volessimo indagare la ragione profonda di quella percezione, non potremmo che riconoscerla espressa nell’affermazione: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Qui risiede tutta la fierezza e l’umiltà del cristiano di fronte ai suoi fratelli, in cammino e alla ricerca della verità che riguarda tutti allo stesso titolo. Se prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio dell’uomo, l’esito supremo della vita, il compimento di ogni desiderio di verità e bellezza? E se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del Volto stesso di Dio. Ma se questo è vero, allora tutti i nostri pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i nostri ideali. Secondo i nostri Padri, la preghiera non è che il luogo di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione ai suoi sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio. E se davvero i nostri occhi stanno aperti a riconoscere la venuta tra noi di Colui che è l’Atteso del cuore, perché smarrirci allora nelle paure e nelle angosce, come se qualcosa di essenziale ci mancasse ancora?

È in ragione di questo mistero che l’annuncio evangelico si rivolge a tutti, a tutte le genti, a tutto l’uomo. Il Padre ci ha donato il suo Figlio ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare figli a nostra volta: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura, censo, qualità, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno.

La letizia del Natale rimanda a tale ‘possibilità’, a tale ‘potere’ e qui si radica la speranza per il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Epifania del Signore

(6 gennaio 2020)

___________________________________________________

Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

___________________________________________________

La festa di oggi, che in Oriente si festeggia insieme al Natale, viene presentata così nel Martirologio romano: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. L’episodio dell’adorazione dei Magi non sembra potersi ricondurre a un evento storico preciso, ma, nella logica narrativa di Matteo, la rivelazione è che Dio guida la storia perché sia conosciuto il suo Figlio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. Lo esprime molto bene s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando scrive: “[tutte le genti, tutti gli uomini] sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Battesimo del Signore

(12 gennaio 2020)

___________________________________________________

Is 42,1-4.6-7;  Sal 28;  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

___________________________________________________

Il battesimo di Gesù al Giordano è celebrato nell’ottica natalizia, come una manifestazione di Gesù. Un’antifona della festa dell’Epifania riassume così il mistero celebrato: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”. Un tropario della liturgia bizantina canta: “Ti sei manifestato al mondo, tu che hai fatto il mondo, per illuminare quanti siedono nelle tenebre. O amico degli uomini, gloria a te”. L’invocazione “o amico degli uomini” comporta tutta la risonanza dell’intimità di un rapporto, come nel Cantico dei cantici l’amata è chiamata amica. Si tratta dell’immagine di fondo del mistero di Dio che si rivela all’uomo: Dio cerca l’uomo, Dio sposa l’umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei magi, espresso nella sua valenza redentrice con il battesimo al Giordano, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l’umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l’umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l’è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più gemere sull’umanità senza aver compassione di Dio!

Sant’Efrem canta: “Siete diventati figli di Dio, fratelli e amici di Cristo, congiunti dello Spirito nel battesimo, figli della luce in virtù delle acque. Benedetto colui che ha moltiplicato la vostra bellezza”. E così intravede la compassione di Dio per l’uomo: “Dio, nella sua misericordia, si è chinato ed è sceso, per mescolare la sua clemenza alle acque e unire la natura della sua maestà ai deboli corpi degli uomini. Nelle acque ha trovato il modo di scendere e dimorare in noi, come il modo della misericordia quando scese e dimorò nell’utero. Oh misericordia di Dio, che si cerca tutti i modi per prendere dimora in noi”.

È quanto risalta dalla risposta di Gesù al Battista, riluttante nel battezzarlo. La sua riluttanza è segno della sua giustizia: come è possibile che l’Innocente venga a chiedere a me peccatore il battesimo? Eppure Gesù gli risponde: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”. Non è più però la giustizia secondo la legge, la giustizia dell’uomo a compiersi, ma quella di Dio. Gesù solidarizza con i peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio, che è amore per noi.

Così, la voce del Padre non rivela qualcosa di Dio in rapporto a Dio, ma qualcosa di Dio in rapporto all’uomo. Dio si compiace in Gesù per la sua modalità di vivere l’umanità assunta in totale intimità con il suo amore per noi e in totale solidarietà con noi per essere conquistati al suo amore. È il risvolto tutto speciale del mistero del battesimo di Gesù nelle acque del Giordano. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare: ” … trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità”.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Amato non dice soltanto tutta l’intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche lo sconfinato amore per l’umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell’amore del Padre per l’umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È l’amato perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l’umanità e lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui, in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

II Domenica

(19 gennaio 2020)

___________________________________________________

Is 49, 3. 5-6;  Sal 39;  1 Cor 1, 1-3;  Gv 1, 29-34

___________________________________________________

Il tempo ordinario è introdotto, in tutti e tre i cicli, dal vangelo di Giovanni: nel ciclo A, con la testimonianza del Battista; nel ciclo B, con la testimonianza dei primi apostoli; nel ciclo C, con l’evento della manifestazione di Gesù alle nozze di Cana. Il primo capitolo di Giovanni ha una struttura particolare nel senso che si premura di collocare gli eventi che racconta, a partire dal battesimo di Gesù, in un lasso di tempo di sei giorni, dopo i quali, il settimo giorno, si narra la venuta di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua.

Il brano di oggi è collocato il primo giorno dopo il battesimo di Gesù, che Giovanni non racconta. È il giorno della testimonianza del Battista: Gesù è l’Agnello di Dio; Gesù è il Figlio di Dio. Il Battista l’ha potuto riconoscere perché ha visto scendere e rimanere su di lui lo Spirito Santo. Colui che il Battista designa come l’Agnello di Dio, è il Servo del canto di Isaia che la liturgia proclama nella prima lettura. Secondo il testo del profeta Isaia, Dio parla al suo Servo la cui persona è disprezzata, che tutti guardano come scarto, schiavizzato dai potenti, esaltandolo nella sua obbedienza. Corrisponde alla voce celeste udita subito dopo che Gesù esce dal Giordano (e che il vangelo di Giovanni non riporta): “Questi è il Figlio mio, l’amato; in lui ho posto il mio compiacimento”. A tale proclamazione Gesù risponde con le parole del salmo 39: “Ecco io vengo. Nel rotolo del libro è scritto su di me di fare la tua volontà”. Parole, che Paolo commenterà in Ef 5,2: “Cristo ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio”.

Fin dall’inizio del racconto evangelico di Giovanni Gesù appare così nella luce pasquale. L’obbedienza del Servo, che gli deriva dalla totale intimità con il Padre nel suo amore per noi, si esprimerà con il suo consegnarsi per essere crocifisso, rivelando che tutta la sua vita, tutto il suo insegnamento, non sono stati altro che un’offerta in sacrificio a Dio per manifestare la grandezza dell’amore per noi che lo abitava.

Un particolare della testimonianza del Battista è assolutamente prezioso, se letto nell’ottica pasquale. Quando il Battista vede venire verso di lui Gesù all’indomani del suo battesimo esclama: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Gesù toglie nel senso che prende su di sé il peccato del mondo, ma non lo toglie dal mondo. Il mondo sarà sempre lì a testimoniare la sua contrarietà al volere di Dio, all’agire di Dio, nella storia e nel cuore degli uomini. Ma chi aderirà a Gesù, chi lo seguirà, chi si farà guidare dallo Spirito di cui lui è ripieno, non subirà danno dal male che imperversa in questo mondo. Come è stato per lui. Proprio quando il male si è come concentrato su di lui per distoglierlo dal suo segreto, proprio allora lui l’ha vinto con la sua assoluta fedeltà all’amore per noi, nella più totale intimità con il Padre suo che ama noi suoi figli. Di sé Gesù dirà: io ho vinto il mondo! Così anche i suoi discepoli, ma nella stessa via, negli stessi modi. Come leggevo ieri in una testimonianza di una donna lacerata dal dolore per le vessazioni e le ingiustizie subite: il male si vince davvero solo con il bene.

Non va dimenticato che in greco figlio e servo sono espressi da un unico termine e in aramaico servo e agnello sono espressi dallo stesso termine: talya. Quando l’evangelista Giovanni mette in bocca al Battista la sua testimonianza a Gesù con il denominarlo agnello, svela un doppio collegamento: si riferisce a Gesù come all’agnello pasquale immolato (Gv 19,36 descrive Gesù sulla croce in riferimento all’agnello al quale non viene spezzato alcun osso, secondo la prescrizione rituale dell’immolazione dell’agnello pasquale) e soprattutto rileva come Gesù toglie il peccato del mondo in riferimento a ciò che dice il profeta: “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti …” (Is 53,4-5).

E questo avviene perché Gesù è servo del volere di salvezza del Padre nei nostri confronti. L’aver accettato di prendere un corpo e di vivere nella natura di servo sottolinea l’obbedienza a questa volontà di salvezza del Padre per noi. Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

L’aspetto più straordinario poi è dato dal fatto che questa obbedienza fino all’immolazione in croce è vissuta in quanto Figlio, intimo del Padre. La sua intimità di sentire e di agire con il Padre è definita in rapporto all’amore per noi: tutti e due condividono lo stesso immenso amore per noi. E proprio la visione della discesa e permanenza su Gesù dello Spirito, dopo il battesimo al Giordano, rivela questa comunanza del Figlio con il Padre nell’opera della nostra salvezza. È lo Spirito che, colmando Gesù nella sua natura di servo, lo rende solidale con l’amore del Padre per noi da indurlo a fare sempre la volontà del Padre, cioè a cercare in ogni modo, senza alcuna riserva, con tutto lo splendore di amore che comporta, la nostra salvezza. In altre parole, Gesù tende a inglobare noi, per mezzo dello Spirito, nella stessa comunione di amore che lo lega al Padre e a noi. E sarà per questo che il segno dell’esperienza di salvezza per noi verrà individuato nell’amore a Dio e nella solidarietà piena con i nostri fratelli, in Cristo.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

III Domenica

(26 gennaio 2020)

___________________________________________________

Is 8,23b – 9,3;  Sal 26;  1Cor 1,10-13. 17;  Mt 4,12-23

___________________________________________________

La liturgia di oggi è incentrata sul mistero di Gesù che è luce. Come dirà più tardi lui stesso: io sono la luce vera (Gv 8,12). Così la preghiera di oggi è per essere toccati da questa luce, è per essere nella luce, è per diventare luminosi. Matteo, come solitamente fa, usa le antiche profezie come filtro di comprensione per la novità di Gesù. Gesù è colui che compie le promesse. Così facendo, dà la chiave per comprendere Gesù e per leggere le stesse Scritture.

Subito dopo le tentazioni nel deserto e saputo della prigionia di Giovanni Battista, Gesù si sposta nel nord della Galilea, a Cafarnao, dove abiterà nella casa di Pietro. Quella località è chiamata terra delle genti perché è stata la prima porzione di territorio di Israele ad essere invaso dalla potenza assira con la deportazione degli abitanti e l’insediamento di popolazioni pagane volute dall’invasore. Non per nulla Matteo colloca in questo territorio l’inizio della predicazione di Gesù. Non si tratterà, come diceva il profeta Isaia, di salvare solo Israele, ma di salvare l’umanità intera. Nel vangelo di Matteo per due volte viene riportato solennemente: “Da allora Gesù cominciò …”. La prima volta riguarda l’inizio della predicazione di Gesù alle folle, dopo che Giovanni Battista è stato incarcerato: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»” (Mt 4,17). La seconda, dopo la confessione di fede di Pietro a Cesarea, quando Gesù comincia ad annunciare ai discepoli la sua passione (cfr. Mt 16,21). Si tratta di decisioni precise di Gesù che vive il suo mandato messianico in vista della rivelazione della grandezza dell’amore di Dio per l’uomo.

Ora, la prima attività specifica che l’evangelista descrive è la chiamata dei primi apostoli. È evidente che la prontezza della risposta dei primi quattro discepoli non ha nulla di miracolistico. Sappiamo dal vangelo di Giovanni che i primi discepoli di Gesù sono stati prima discepoli di Giovanni Battista ed è stato il Battista a indirizzarli verso Gesù. Quando Gesù va a Cafarnao sa che loro sono tornati a casa loro e li va a chiamare, come a dare seguito a quello che era intercorso fra loro quando si erano conosciuti sulle rive del Giordano. Nel racconto di Matteo, non viene tanto sottolineata la prontezza degli apostoli a seguire Gesù (forse se l’aspettavano già), ma la condizione che rivela quella prontezza. Di loro si dice: Pietro e Andrea lasciano le reti, Giacomo e Giovanni lasciano barca e papà. Tre sono le condizioni che danno consistenza alla loro prontezza nel seguire Gesù: lasciano la loro attività, lasciano i loro averi, lasciano i loro affetti. Non si tratta semplicemente di lasciare, ma di risiedere nella disposizione di lasciare. “Cercate prima di tutto il regno dei cieli e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” sentiranno dirsi poi. “Chi avrà lasciato padre, madre, casa, beni ….avrà cento volte tanto” sperimenteranno poi. Così resta illuminante il commento di Gregorio Magno: non hanno lasciato molto perché avevano poco; ma non lascia poco chi non trattiene nulla per sé.

In questo ravviso la somiglianza con la vicenda del Figlio di Dio che lascia la sua gloria divina per assumere la forma di servo (cfr. Fil 2,7). Quando si lascia, non è per restare vuoti, ma per assumere altro. Ora, l’altro che si assume è la preferenza di Dio per i poveri, è la preferenza della debolezza e della stoltezza dell’amore rispetto a ogni progetto di potenza e prestigio, è la preferenza della via di Dio nel vivere la propria umanità che così splende della luce del suo amore. Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione. Dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. L’intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c’è un uomo, fin dove c’è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell’incontro, fin dove c’è una malattia da curare, l’apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell’incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Un altro particolare poi è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo del regno. La richiesta però si fonda su di un convincimento incrollabile del cuore: “Il Signore è mia luce”, espressione che nelle Scritture risuona solo qui e in Michea 7,8. Quella luce è la medesima che è creata il primo giorno e che poi è stata oscurata. Gesù la riporta a splendere nel cuore perché quella era la luce della santità di Dio nel suo amore per l’uomo nella quale tutto è stato creato. Gesù torna a far vedere luminoso tutto il creato e tutta l’umanità. La condizione? Come dice questa bellissima preghiera di un mistico musulmano: “O Tu che semini il dolore del pentimento nel cuore di chi Ti ha incontrato! Tu che fai bruciare il cuore di chi fa penitenza! Tu che accogli i peccatori che confessano la loro colpa! Nessuno si converte fin tanto che Tu non lo converti; nessuno trova il cammino fin tanto che Tu non lo prendi per mano. Prendici per mano, perché non abbiamo altro salvatore all’infuori di Te! Vieni in nostro aiuto, perché non abbiamo altro rifugio che Te! Alle nostre domande, solo Tu puoi dare la risposta. Alle nostre sofferenze, solo Tu puoi portare rimedio. Ai nostri tormenti, solo Tu puoi portare riposo”. Così il cuore sperimenta: il Signore è mia luce, quando potrà proferire in sincerità: Tu solo …!

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Presentazione del Signore

(2 febbraio 2020)

___________________________________________________

Ml 3,1-4;  Sal 23;  Eb 2,14-18;  Lc 2,22-40

___________________________________________________

La festa di oggi è ancora ancorata al natale di Gesù nella logica del compimento messianico che caratterizza quel bambino. È il quarantesimo giorno dalla sua nascita e, secondo gli usi ebraici, si doveva presentare al tempio il primogenito per il cosiddetto riscatto. Luca parla della loro purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lev 12,1-8). Nemmeno c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13). Luca, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà chiamato santo’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, Lui è il Consacrato, il Cristo del Signore, Lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In Lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come Lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.

Si conclude la dinamica del riconoscimento: appena nato a Betlemme è riconosciuto dai pastori, gente povera, ai margini della società che conta; poi è riconosciuto dai magi, stranieri, pagani, invece che dalla città di Gerusalemme; ora è riconosciuto dai santi di Israele, Simeone e Anna, a sottolineare il compimento dell’attesa del popolo eletto. Dopo questo episodio Gesù ritorna con i suoi genitori a Nazaret perdendosi nel nascondimento della vita quotidiana fino al giorno della sua manifestazione a Israele. Tra l’altro, risalta l’affinità con il brano della trasfigurazione sul Tabor quando, dopo la visione, il testo annota: e videro Gesù solo! La luminosità della visione, come qui la luce vista in quel bambino, lascia il posto alla quotidianità dove visione e luce non compaiono più all’esterno, ma solo intraviste nei cuori.

Il brano della lettera agli Ebrei dice tutta l’importanza e il significato della presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme con l’annotare una cosa straordinaria. Se i fratelli hanno in comune sangue e carne, Gesù allora è proprio nostro fratello perché è quel sangue e quella carne che assume e questo in vista della redenzione. Ma come viene esposto il mistero della redenzione? Avere in comune sangue e carne è la condizione propria dei fratelli in una famiglia, dove la difesa dell’uno si gioca fino al dono della propria vita per l’altro. Gesù ha assunto radicalmente questa disposizione dell’amore fraterno nella sua autenticità e l’autore della lettera agli Ebrei la definisce come la capacità di soffrire personalmente. La cosa strana è che Gesù soffre personalmente nel suo essere sangue e carne per ridurre all’impotenza colui che è alla radice di ogni sofferenza, colui che è la causa della sofferenza per i propri fratelli. Non viene detto che Gesù distrugge il diavolo, ma che lo rende impotente, che lo svuota della sua capacità di fare danno.

Ora – e questo è il mistero che la liturgia fa intravedere – il ridurre a impotenza il diavolo non si giocherà con le stesse armi del diavolo, cioè con il potere, la gloria, il prestigio, così espressivi del suo essere principe di questo mondo. Al contrario, si giocherà nella debolezza e nella stoltezza, perché l’amore di Dio prevalga su tutto e tutti conquisti. La croce sarà il sigillo di quel ‘soffrire personalmente’ perché l’amore di Dio si riversi su tutto. Il salmo responsoriale lo rimarca con il commentare l’entrata nel tempio di quel bambino come l’entrata trionfale in cielo del Signore risorto con il vessillo della croce accompagnato da tutti i redenti. Il titolo di re della gloria non ha nulla di questo mondo. Gesù lo accetta solo sulla croce perché la gloria di Dio ha a che fare con lo splendore dell’amore e con nient’altro.

Di qui il significato profondo della festa di oggi. Il sacerdote introduce la liturgia con le parole: “Anche noi qui riuniti dallo Spirito Santo andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio, dove lo troveremo e lo riconosceremo nello spezzare il pane nell’attesa che egli venga e si manifesti nella sua gloria”.  E nella benedizione dei ceri prega: “… illuminati dalla luce di questi ceri, infondi nel nostro spirito lo splendore della tua santità, perché possiamo giungere felicemente alla pienezza della tua gloria”. Di quale gloria si tratta se non dello splendore dell’amore di Dio che, in Gesù e con Gesù, condividiamo con tutti i fratelli? D’altra parte, non è questo il significato profetico della vita consacrata, che vede nella festa di oggi la sua celebrazione tipica: risplendere della santità di Dio?

Non si tratta di un cammino placido, come non si tratta di un’attesa beata, come del resto non è stato un cammino placido quello di Gesù. Il brano del profeta Malachia lo proclama chiaramente: “… entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate … Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai“. Nel testo del profeta Malachia Dio rimprovera all’uomo le sue richieste fasulle, le sue lamentele, che provengono dalla menzogna del suo cuore: Quando abbiamo disprezzato il tuo Nome? Come ti abbiamo stancato? Che vantaggio abbiamo ottenuto dall’osservanza dei comandamenti? In una parola: ce l’abbiamo con Dio, perché non fa quello che vogliamo noi! Come non dover essere purificati da questa lamentosità menzognera che indurisce il cuore e non lo rende sensibile né all’incontro con Dio né all’incontro con i fratelli?

La Chiesa prega: “… infondi nel nostro spirito lo splendore della tua santità …” perché riconosciamo il bisogno di te e del tuo amore!

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

V Domenica

(9 febbraio 2020)

___________________________________________________

Is 58,7-10;  Sal 111;  1Cor 2,1-5;  Mt 5,13-16

___________________________________________________

Quando le beatitudini sono diventate le vie del proprio cuore, allora possiamo anche sentirci rivolgere le parole di Gesù: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Evidentemente, seguire Gesù non comporta uscire dal mondo, appartarsi dal mondo, vivere in qualche nicchia a parte. Tutto l’opposto: Gesù invia al mondo. Tanto che proprio la vita nel mondo, nella realtà del mondo, in tutte le mediazioni che comporta, deve essere il luogo dove far splendere la luce, dove dar sapore alle cose, dove far emergere la presenza del Signore che è venuto a dare la vita. A questa condizione di fondo: essere nel mondo, ma non del mondo; vivere la vita nel mondo, senza pretendere di succhiarla dal mondo.

Qui risalta in tutta la sua forza la testimonianza dell’apostolo che scrive ai Corinzi di non essersi presentato sulla base di eccellenze umane o religiose, come si trattasse di convincerli con la sua sapienza o la sua dirittura. Non ha ritenuto importante se non una cosa e solo quella ha fatto valere: Gesù Cristo e questi crocifisso. Non però come argomento di predicazione, bensì come fondamento di tutto ciò che dice e fa. In questo lui è stato luce e sale della terra. Luce e sale perché uno spirito solo con Cristo, perché obbediente in tutto alla sua parola, perché in lui ha scoperto l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo da costituire l’unica radice di senso e di attività nella vita. Le beatitudini di Gesù sono diventate le vie del suo cuore. Era nel mondo senza essere in nulla del mondo. Come dirà: non vivo più io, ma Cristo vive in me!

D’altro canto, il brano del profeta Isaia non fa che definire in un altro modo le condizioni per diventare sale e luce, conseguenza del vivere l’insieme delle beatitudini. Elenca cinque condizioni, tre negative e due positive. Le tre negative: non opprimere, non accusare, non lamentarsi. E potremmo interpretare così: quando un uomo non schiaccia nessuno, non porta accusa contro nessuno, non è insolente verso nessuno, allora è sulla via di Dio. Le due positive: apri il cuore all’affamato, sazia l’afflitto. Non si dice semplicemente di dare da mangiare all’affamato, ma di togliersi il pane di bocca per darlo a chi ha fame e così togliere l’afflizione non solo della fame, ma della solitudine al proprio fratello nel bisogno. Il brano di Isaia termina: “Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa: sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono” (Is 58,11). Si realizza la promessa della presenza del Signore in mezzo al suo popolo.

Il salmo responsoriale definisce la beatitudine dell’uomo nell’essere misericordioso, pietoso e giusto, che sono le qualità che la Scrittura attribuisce a Dio nei confronti degli uomini. Sono queste a rendere luminoso l’uomo. E Gesù le applica ai discepoli che hanno accolto le sue beatitudini con l’immagine del sale e della luce.

Consideriamo separatamente le due immagini. Il sale ha due qualità: rende saporito il cibo e conserva. Nella Scrittura si conosce l’espressione ‘alleanza di sale’ (Nm 18,19 e 2Cr 13,5) per indicare la perpetuità dell’alleanza di Dio con gli uomini. Applicata ai discepoli l’immagine significa che i discepoli sono chiamati a conservare e a rendere saporito il mondo nella sua alleanza con Dio. Da notare che se il sale dà sapore alle cose, le cose non possono dare sapore al sale. Il che significa ancora: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile. Se poi ci riferiamo al fatto che in Palestina con i blocchi di salgemma si alimentava il fuoco del focolare, l’immagine del sale comporta acquista anche la valenza di qualcosa che scalda, che dà calore.

La luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le vie per le quali si può partecipare alla effusione nell’universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l’azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità (ecco l’azione della luce). Le buone opere che gli uomini devono vedere nei discepoli sono le opere che derivano dalla pratica delle beatitudini.

Noi vorremmo, sì, percepirci luminosi, ma tutti riconosciamo di dover fare i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. Opportunamente, quando Massimo Confessore spiega l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ nella preghiera del Padre Nostro, ha l’ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora – continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all’oppressione, perché il Signore è con lui. Non c’è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall’intimità con il suo Signore.

Se Gesù chiede ai discepoli di essere la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. In questo senso l’invito e il comando ad essere sale e luce si riferisce all’attuazione di quello che Gesù dirà ai suoi discepoli alla fine del vangelo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli … insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Se le nostre opere buone devono risplendere davanti agli uomini, secondo il comando di Gesù, ciò significa che le nostre opere buone devono essere a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(16 febbraio 2020)

___________________________________________________

Sir 15,15-20;  Sal 118;  1Cor 2,6-10;  Mt 5,17-37

___________________________________________________

Nella tradizione ebraica si trova questa affermazione: “La Torà che si impara in questo mondo non è nulla in confronto alla Torà del Messia” (Midrash Qohelet 11,8). Il vangelo di Matteo legge la Legge con gli occhi di Gesù perché Gesù è la Torà vivente. Non c’è antitesi tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Il vangelo dice: c’è compimento. Cosa significa? Gesù non contrappone il suo insegnamento all’insegnamento di prima. Il suo insegnamento consiste nello sviscerare quello antico, interpretandolo secondo l’autorità che aveva all’origine. Risale all’intenzione stessa di Dio nel dare la Torà. La novità non sta nel suo insegnamento, ma nel fatto che l’insegnamento compiuto è la sua persona, la sua umanità, è lui stesso. Per questo può proclamare: avete inteso che … ma io vi dico!

Il canto al vangelo, che nella liturgia costituisce come la finestra di luce per cogliere il vangelo nella sua portata di rivelazione, è costituito dalla lode che Gesù innalza al Padre vedendo i suoi discepoli tornare contenti dopo la predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno” (Mt 11,25). Come collegare la rivelazione ai piccoli con questo elenco di ingiunzioni che riguardano la vita adulta nelle sue specificazioni drammatiche: omicidi, adulteri, divorzi, tribunali? Mi sono ricordato dell’invito della prima lettera di Pietro alla comunità dei credenti: “Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza” (1Pt 2,2). Solo con un cuore luminoso da bambino si possono ascoltare queste parole di Gesù. Come dice, in modo inconsueto, il libro del Siracide: “A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare”.

Il principio di fondo è riconducibile all’eccedenza del vangelo rispetto alla legge: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). La frase non riguarda una categoria di persone. Riguarda l’umanità nel suo insieme, riguarda la nostra umanità. Cercare di arrampicarsi fino al cielo con l’esibizione delle proprie opere è fatica vana. In altri termini: cercare semplicemente di essere irreprensibili non porta alla gioia. E siccome il regno dei cieli è la condivisione della gioia di Dio che si appressa all’uomo attirandolo a sé, inondandolo del suo amore e indirizzandolo a vivere di quell’amore verso tutti, pensare alla propria irreprensibilità è fatica sprecata. Le parole del Signore, i suoi comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di Lui, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con lui e con i fratelli, luoghi di intimità. Gesù allude sempre nel suo annuncio del Regno a una eccedenza, a una sovrabbondanza rispetto alla giustizia che cerchiamo con le nostre opere. In effetti, il senso della nostra vita si gioca non nel fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio. È un’intimità, che fa vivere la vita dentro un’obbedienza e un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore; un’intimità capace di riempire il cuore, di rendere la vita degna di essere vissuta.

In questa luce, la ‘giustizia superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il ‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’ con la propria giustizia, dal momento che la propria giustizia non fa splendere il cuore.

Così, gli esempi che Gesù porta dicono ciò che conta nell’osservanza dei comandamenti, cioè la tensione del cuore. Non basta non uccidere fisicamente per non essere condannati davanti a Dio. Se il cuore coltiva l’ira contro il proprio fratello, non sarà mai luminoso. I padri del deserto hanno ben interpretato il senso di questi versetti: hai offeso il tuo fratello? L’hai assassinato! È la radicalizzazione dell’amore ottenuto con la vigilanza sul cuore per custodirlo nella mitezza e rapportarsi al fratello nella benevolenza di Dio. La stessa cosa vale per la preghiera. Sarebbe vano cercare di tirare Dio dalla nostra parte facendo valere le nostre ragioni. Dio accorre in un cuore che splende della benevolenza verso il prossimo. D’altra parte, quella luminosità non si può ottenere se non si è in armonia con il proprio mondo interiore. È il detto sul mettersi d’accordo con il proprio avversario prima del giudizio. Detto, che i Padri hanno sempre interpretato nel senso di non fare mai nulla contro la propria coscienza, che agisce come il nostro accusatore. Fare armonia significa vivere unificati e solo a questo livello non si è passibili di giudizio.

Anche rispetto all’adulterio vale la stessa osservazione. Senza la purità dello sguardo, il cuore non può restare puro. Purità, che si ottiene con la rinuncia a un certo uso dei sensi esteriori per non atrofizzare il senso interiore. È l’esemplificazione paradossale dell’invito: rinnega te stesso! Ma siccome Gesù ha di mira la tensione del cuore, il valore dell’invito non può essere negativo. Gli atti negativi non hanno plausibilità per il cuore. L’invito significa invece: fai spazio a ciò che davvero conta, fai crescere ciò che risponde al desiderio profondo del cuore, sii creativo nel bene e non semplicemente negatore del male. Come l’antica colletta ben esprime: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

VII Domenica

(23 febbraio 2020)

___________________________________________________

Lv 19,1-2.17-18;  Sal 102;  1Cor 3,16-23;  Mt 5,38-48

___________________________________________________

L’antifona di ingresso esprime molto bene l’atteggiamento con cui ascoltare l’annuncio della parola di Dio oggi: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato” (cfr. Sal 12 (13),6). Lo stesso atteggiamento è ripreso dal salmo responsoriale, a commento del comando proclamato nella prima lettura: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2), con il ritornello: ‘Il Signore è buono e grande nell’amore’. Ma quando risuonano queste parole nella Scrittura? In una situazione così altamente drammatica da temere, da parte del popolo, di aver ormai perso tutto. Occorre riandare al contesto in cui il nome di Dio era stato proclamato per cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). È la seconda volta che Dio rivela il suo nome e questa volta nel dramma più assoluto.

Così, la ripresa di questa proclamazione nelle parole del salmo responsoriale, a commento del comando di santità da parte di Dio ai suoi figli, assume questa particolare sfumatura. Se Dio è il misericordioso, sperimentato nella situazione di massima lontananza da lui e non respinge il pentimento dei suoi figli, ciò significa che tutte le virtù o l’agire buono degli uomini, se non introducono nella misericordia verso i propri fratelli, provengono dalla millantata giustizia umana, che non ha nulla a che fare con la santità di Dio. Gli effetti da osservare sono questi: quando l’agire buono trasborda in misericordia, si è fecondi, generosi di cuore, portatori di comunione; quando l’agire buono non si traduce in misericordia, ci si irrigidisce, si resta sterili e si rende la vita temibile. Non si dimentichi che il termine ebraico che esprime misericordia è collegato all’utero materno, non solo perché allude al legame viscerale tra madre e figlio, ma soprattutto al fatto che dall’utero materno scaturisce la vita. La misericordia favorisce sempre la vita, altrui e nostra.

Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, ma compiendone i misteri che alludono alla rivelazione di Dio nella sua persona, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.

La giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli, che in lui si fa manifesto e partecipabile.

La ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene). ‘Chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(1° marzo 2020)

___________________________________________________

Gn 2, 7-9; 3, 1-7;  Sal 50;  Rm 5, 12-19;  Mt 4, 1-11

___________________________________________________

Ci è abituale pensare al tempo quaresimale come a un periodo di impegno serio di conversione. Non ci è affatto abituale collegare il cammino spirituale alle tentazioni. Non comprendiamo nemmeno bene perché Gesù debba essere tentato né accettiamo le tentazioni nostre nella logica dello Spirito. Avessimo dovuto scrivere noi il racconto evangelico non avremmo certo collegato la pienezza dello Spirito di cui Gesù gode al battesimo nel Giordano con l’impulso dello stesso Spirito a condurlo subito nel deserto per esservi tentato. Tentato per che cosa?

Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata. Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno fasullo. Le tre tentazioni sono precedute dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è stato investito come Messia: portare tutti a Dio. Il ritirarsi di Gesù nel deserto segue l’evento del battesimo al Giordano allorquando si è sentito proclamare ‘Figlio amato’, ripieno dello Spirito Santo. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce: ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.

La scena richiama l’esperienza del popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.

Il riferimento a Dio suggerito dal diavolo è ingannevole, perché il destinatario ultimo dei miracoli non è Dio, ma lui stesso. Così se mai Gesù avesse accolto l’inganno, non si sarebbe trovato dalla parte di Dio, ma del diavolo; vale a dire non avrebbe portato a compimento la missione affidatagli da Dio, ma ne avrebbe pervertito il senso a danno degli uomini e li avrebbe condannati alla disperazione.

Se consideriamo la tentazione dalla parte del diavolo, potremmo chiederci: quale sarebbe l’esito per noi se acconsentissimo? Ci ritroveremmo condannati a queste illusioni: all’oppressione dell’esibizione del nostro potere, che in realtà ci allontana dalla vita, perché rende tutto il resto insignificante; all’ipertrofia di se stessi a tal punto da servirci persino di Dio pur di riempire la scena; alla tirannia della gloria effimera di questo mondo che vuole la nostra vita.

In realtà la posta in gioco della vita sta in questa corrispondenza: scegliere Dio stando dalla parte degli uomini e scegliere gli uomini stando dalla parte di Dio. Quando questa corrispondenza si spezza – lo scopo del diavolo è proprio quello di pervertirla – allora l’uomo diventa schiavo, perché idolatra. L’intenzione segreta del diavolo la vediamo emergere nella terza tentazione: “… se, prostrandoti, mi adorerai”. Sottrarre l’uomo a Dio significa sottrarlo alla gloria che gli spetta. L’uomo schiavo non rientra nel progetto di Dio.

Se consideriamo invece la tentazione dalla parte di Dio che la consente, vediamo come sia in gioco la verità della promessa di Dio al nostro cuore: ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere; ci è promesso il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere; ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi.

Le parole di satana nella seconda tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.

Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l’illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell’umanità da riempire.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(8 marzo 2020)

___________________________________________________

Gn 12,1-4a;  Sal 32;  2Tm 1,8b-10;  Mt 17,1-9

___________________________________________________

Il racconto della trasfigurazione ha senso solo per un cuore che può dire con il salmo: “Il mio cuore ripete il tuo invito: ‘Cercate il mio volto!’. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26/27,8). Reso nella versione latina con il trasporto dell’emozione: “Tibi dixit cor meum: exquisivit te facies mea; faciem tuam, Domine, requiram”. Non è un caso che la trasfigurazione sia collocata tra due annunci della passione, a sottolineare che il Figlio di Dio risorto e il Figlio dell’uomo che soffre devono stare insieme nella fede dei discepoli. La consegna del silenzio riguarda proprio la natura della gloria di Gesù. Non si tratta di parlare di Gesù in termini di divinità gloriosa e potente, ma in termini pasquali: colui che ha sofferto la passione è colui che viene esaltato con la risurrezione. E questo non poteva essere colto che alla conclusione della storia di Gesù. La cosa ha un risvolto potente, che non è mai assimilato una volta per tutte dai credenti. La profezia di Daniele sul figlio dell’uomo: “Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14) risponde all’essenza di quel silenzio perché l’unico potere di vittoria che Gesù si arroga è quello dell’amore crocifisso. Tanto da far dire al papa Leone Magno: “è più importante pregare per la pazienza che per la gloria”.

In effetti ciò che è decisivo per i discepoli non accade sul monte, ma dopo, quando si ritrovano davanti Gesù solo, senza gloria e senza la compagnia celeste di Mosé ed Elia e devono ridiscendere per annunciare a tutti la verità di Gesù. Mi ricorda la rivelazione di Dio ad Elia che si sente come rimproverare del fatto di attardarsi sul monte e viene invitato a scendere per compiere la sua missione, obbedendo alla voce del suo Dio. Matteo, a differenza di Marco e Luca che senza mezzi termini riferiscono della sua ‘incoscienza’, non infierisce su Pietro che si perde come in un vaneggiamento: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne …”. Origene ha un commento meraviglioso. Come pretende di tenere separati Gesù dalla Legge e dai Profeti? Proprio in quell’occasione Mosé ed Elia vengono illuminati da Gesù sul significato della loro opera e sul segreto di Dio che la loro opera voleva manifestare. Tanto che quando Gesù resta solo, viene come sottolineato che oramai tutto prende luce solo in Gesù. E se Pietro si perde in vaneggiamenti, non fa che riesprimere quello che gli era stato difficile comprendere una settimana prima a Cesarea, quando non riusciva ad accogliere il destino di passione di Gesù.

La sincerità del cuore credente è abbinata all’accoglienza della rivelazione della passione, ad accogliere lo scandalo della croce, come Gesù ripetutamente insegna ai suoi discepoli. La mescolanza di fascino e timore, di attrazione e paura, che suscita il Signore Gesù proprio nel momento in cui lascia trasparire la bellezza del suo volto “altro” (Luca riporta espressamente: “Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto”) è resa molto bene dagli antichi pittori di icone. I tre apostoli sono raffigurati scaraventati a terra e solo come di soppiatto riescono a intravedere la scena straordinaria che si presenta ai loro occhi. Il testo del vangelo li descrive nell’atto di svegliarsi come da un sonno, resi capaci per un attimo di restare abbagliati dalla visione di Gesù con i suoi interlocutori mentre questi si congedano da lui. Più che la visione il testo accentua la voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. Sensazione rimarcata dal fatto che la voce orienta gli sguardi non alla gloria di Gesù, ma al Gesù solo, al Gesù dell’aspetto di sempre, quello che gli apostoli conoscevano bene, quello che con decisione andrà a Gerusalemme per subirvi la passione.

Nel contesto della narrazione evangelica l’evento della trasfigurazione si presenta come la firma all’intero vangelo, che si concluderà con la confessione di fede del centurione sotto la croce e con la glorificazione di Gesù, il Crocifisso. Quel Gesù, di cui è detto alla fine dell’evento della trasfigurazione: “Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo”, è proprio il Figlio di Dio che annuncia agli uomini la volontà del Padre e l’evangelo del Regno.

Nel cammino degli apostoli l’evento della trasfigurazione, riservato ai tre discepoli che presenzieranno al dramma del Getsemani, ha un valore di conferma nella loro fede in Gesù, fede che sarà duramente messa alla prova al tempo della passione. Non che l’evento risparmi agli apostoli la prova, ma farà in modo che i loro cuori, quando saranno smarriti e confusi, non si separeranno dal loro maestro, anche se momentaneamente lo abbandoneranno. È anche lo scopo segreto della preghiera. Non si tratta di godere di una visione, ma di essere confermati nel cuore per poter sostenere la prova e seguire il Signore fino a gustarne la compagnia nelle afflizioni sopportate per amore di lui. Quella ‘sopportazione’ non riguarda la propria fedeltà, ma la solidarietà con i nostri fratelli fino a far splendere davanti a loro la bontà del Signore che non vuole che nessuno si perda, ma che tutti abbiano la vita. Lì conduce la visione della ‘gloria’ di Gesù, il Testimone per eccellenza dell’amore del Padre per gli uomini. E questo è il senso della preghiera della Chiesa nel tempo quaresimale.

L’esempio di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. L’espressione singolarissima, nel testo ebraico, è ‘lek leka’, che traduciamo con ‘vattene’, ma che andrebbe resa, secondo la vocalizzazione tradizionale: ‘vai a te’, ‘vai verso te stesso’, ‘vai per te stesso’. Contemporaneamente un esodo e un ritorno. Un esodo da qualcosa che impedisce la scoperta del senso pieno del vivere e un ritorno a ciò che ci costituisce nell’intimo per vivere in gratuità e servizio la nostra vocazione all’umanità. Abramo non conosce nulla del nuovo paese: sa solo che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell’amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.

Così, se Abramo ascolta Dio, Gesù ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà nel condividere, nella loro umanità, lo sguardo di compiacenza del Padre, che riposa tutto sul suo Figlio benedetto, fatto uomo. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che, mentre ci squaderna il segreto di Dio per l’uomo, fa rilucere il mondo dello splendore della sua bellezza.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(15 marzo 2020)

___________________________________________________

Es 17,3-7;  Sal 94;  Rm 5,1-2,5-8;  Gv 4,5-42

___________________________________________________

Secondo l’antica catechesi battesimale, in preparazione al battesimo nella solenne veglia pasquale, questo di oggi è il primo appuntamento: Gesù è definito Acqua viva, sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna. I due prossimi si riferiscono alla guarigione del cieco nato, dove Gesù è definito Luce e alla risurrezione di Lazzaro, dove Gesù si presenta come Vita.

La liturgia quaresimale indica i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). La domanda del popolo non è provocatoria o irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo. Del resto, è significativo che solo dopo i doni di Dio (manna e quaglie, acqua) il popolo possa affrontare la battaglia contro Amalek mentre Mosé intercede sul monte.

Il commento del salmo responsoriale di oggi, dopo la prova di Massa e Meriba, non può essere che la riaffermazione della fiducia nel nostro Dio, roccia della nostra salvezza. Tanto che la Chiesa, nei secoli, ha sempre interpretato quell’esperienza come l’esperienza di riferimento per la vita dei fedeli. Ogni mattino, nella preghiera della Chiesa d’occidente risuona l’invito: “Venite, prostrati adoriamo” e nella Chiesa d’oriente: “Venite, adoriamo e prostriamoci al Re, nostro Dio. Venite, adoriamo e prostriamoci al Cristo, nostro Dio. Venite, adoriamo e prostriamoci a lui, il Cristo re e Dio nostro”. L’invito è per l’esultanza. Si è convocati per l’esultanza nella salvezza goduta del nostro Dio. Risuona l’eco delle parole di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt 11,28); “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità…” (Mt 25,34).

Non so se un dettaglio del racconto evangelico abbia un valore simbolico, insieme a tanti altri dettagli. Ho notato che il testo, parlando del pozzo di Giacobbe, quando riferisce l’annotazione delle Scritture e quando parla Gesù, il termine che viene usato è ‘sorgente’, quando parla la samaritana è ‘pozzo’. Sorgente si riferisce all’acqua corrente, all’acqua viva; pozzo al deposito di acqua. Davanti all’acqua che Gesù promette di dare, ogni altra acqua non è che acqua stagnante.

Il brano dell’incontro di Gesù con la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni dandoci netta l’impressione di sentirci davvero stranieri in casa nostra. Il brano acquista ben altre risonanze se teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gen 12,6; 34; 37; Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo, carico di una simbolica nuziale. Nota era la leggenda targumica legata al pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gen 29,10, quando Giacobbe leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano: “Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo. Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti e che quello che aveva non era suo marito vuol dire alludere al trasferimento di cinque popolazioni pagane in Samaria per opera del re di Assiria (cfr. 2Re 17,24) e al traviamento rispetto all’alleanza con il Signore non più servito in santità.

Il brano è suddiviso in due scene: il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca di relazione, di senso, di vita, di felicità. Voler praticare la Legge come un assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore. Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo, desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna, il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita diventa vita mia, la sua sete e fame di noi si fa acqua e cibo per la vita del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(22 marzo 2020)

___________________________________________________

1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a;  Sal 22;  Ef 5, 8-14;  Gv 9, 1-41

___________________________________________________

Il racconto della guarigione del cieco nato è costruito con rara maestria. La chiesa lo legge nella prospettiva battesimale per cui vede nella figura del cieco la progressiva apertura alla fede del battezzando. Alcuni particolari sono significativi. Non è lui a chiedere la guarigione: l’iniziativa è di Gesù. Lui ha fiducia e va a lavarsi alla piscina di Siloe (quella dalla quale veniva attinta l’acqua portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne, cfr. Gv 7,37-39. Siloe significa piuttosto ‘chi invia [le acque]’e Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, indica che la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre, v. 4). Nelle parole del cieco guarito Gesù è indicato prima come ‘quell’uomo che si chiama Gesù’, poi ‘un profeta’, poi ‘che è da Dio’ e infine, davanti alla domanda di Gesù che lo va a cercare dopo che è stato cacciato dai farisei: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”, risponde: “Io credo, Signore!”.

La progressione segnala la dinamica spirituale del credente. Dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella vita che da lui promanano.

Il brano è introdotto dalla interrogazione dei discepoli: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”. La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo alludere al fatto che Gesù si appresta a fare il miracolo? No, certamente. Gesù indica la prospettiva per vivere la vita segnata dal male, nella fede in lui. Cercare la causa del male ‘indietro’ ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata ‘in avanti’, rispetto a un qualcosa che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. Ma non si tratta più semplicemente di cose, di eventi, bensì di incontri, di volti. È il mistero stesso della fede. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere ricevendola dalle mani di colui che ci è venuto incontro ed ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell’amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.

L’unico modo per riscattare il male è quello di aprirsi allo spazio futuro, nella consapevolezza però di non stupirsi che il male ci venga a cercare. Ma se il male ci viene a cercare, è perché si manifestino in noi le opere di Dio. È l’insegnamento della Tradizione sulle tentazioni: “quando sopraggiunge una tentazione, non cercare perché o a causa di chi è venuta: ma in che modo sostenerla con rendimento di grazie, senza tristezza e senza rancori”; “Prega perché non venga su di te la tentazione. Ma se poi viene, accettala non come cosa estranea, ma tua” (Marco Asceta, A quelli che si credono giustificati, 198; La legge spirituale,164). E per quale scopo se non per rinunciare definitivamente alla rivendicazione dei nostri diritti e fidarsi invece del Bene di Colui che ci viene incontro? Non stare inchiodati al passato significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro.

Il canto al vangelo che riporta la promessa di Gesù: “Io sono la luce del mondo; chi segue me avrà la luce della vita” (Gv 8,12), rivela la ragione della proclamazione del salmo responsoriale: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Quando non è vero che il Signore è il mio pastore perché ci lamentiamo di tutto, allora è vero che il Signore non è la luce del nostro cuore. Il brano del cieco guarito finisce con l’osservazione di Gesù ai farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. E noi possiamo interpretare così. Le ragioni addotte dalle nostre lamentele rivelano la cecità del cuore. Se il cuore riconosce per valide le sue ragioni resta cieco; se invece riconosce la sua cecità torna luminoso per la luce del Signore.

Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della sua vita, che è vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille – in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Gli antichi rabbini intravedono un atto di creazione anche nel settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

Non solo. Ma quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(29 marzo 2020)

___________________________________________________

Ez 37, 12-14;  Sal 129;  Rm 8,8-11;  Gv 11,1-45

___________________________________________________

Gesù ha appena saputo della malattia mortale del suo amico Lazzaro, ma non si muove subito: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Il lettore del vangelo è subito avvertito di aguzzare lo sguardo. Non si tratterà di assistere semplicemente al miracolo di un richiamo alla vita di un uomo morto, ma di cogliere quello che da quel miracolo scaturisce, cioè la passione di Gesù nella quale lui sarà glorificato. Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Dal punto di vista degli affetti umani, sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio non impedisce la morte? Gli amici della famiglia di Lazzaro così pensano. Per noi invece la domanda che rimbalza può essere formulata così: sarà mai possibile vedere la gloria di Dio nella nostra vita?

È la stessa domanda della fede di Marta, che inaspettatamente risponde a Gesù, non di credere a quello che gli ha detto, ma: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l’amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.

La fede apre ad una vita che consiste nel vedere la gloria di Dio. Cosa significa per noi? È sempre questo il punto misterioso del discorso e dell’agire di Gesù. Quando il seguito del vangelo confermerà che effettivamente Gesù viene condannato alla morte di croce, l’evangelista parla proprio di glorificazione. E non allude semplicemente alla glorificazione che seguirà la morte in croce quando risorgerà, ma al mistero di quella gloria che consiste nella rivelazione di quanto Dio ami gli uomini. È nell’amore di Dio che arriva agli uomini che va cercato il senso della gloria di Gesù. Gloria, che si fa rivelazione e dono di una vita ormai definitivamente segnata da quell’amore, di cui lo Spirito ci fa partecipi. Di questo è segno il miracolo della risurrezione di Lazzaro. Un passo della lettera agli Ebrei illustra bene l’esperienza del cuore dell’uomo che ha fede: “trassero vigore dalla loro debolezza” (Eb 11,34). Corrisponde alla frase di Gesù: “questa malattia non è per la morte”. Ciò che costituisce la pena o l’afflizione della vita è solo il contesto in cui si gioca la rivelazione dell’amore di Dio che dà vita.

La colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.

Il nostro gridare, nel salmo responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta la promessa di Dio di aprire le nostre tombe in riferimento alla liberazione del popolo da Babilonia: “Dal profondo [secondo la versione greca: Dalle profondità] a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Proprio quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. Nel salmo la preghiera dell’uomo ruota attorno a due verbi: attendere e sperare. Sono i verbi della fede. Si resta pazienti e fiduciosi nell’attesa di una parola di salvezza perché si spera nella misericordia di Dio che ci soccorre.

È interessante osservare che l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.

Il punto di verità del racconto, che solo un lettore attento può cogliere, è il fatto che con il miracolo della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua ora. La finale del capitolo lo sottolinea espressamente: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la ragione del suo agire, sottolineato dal potere di fare miracoli, di cui questo della risurrezione di Lazzaro è il settimo nel racconto di Giovanni, si manifesteranno chiaramente con la sua stessa morte e risurrezione.

Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l’arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l’attraversa, la porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere. Ciò che Gesù ci ottiene non è la vita dopo la morte, ma la vita nella morte. È la rivelazione dell’amore come vita eterna, immortificabile perché piena.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme

(5 aprile 2020)

___________________________________________________

Ingresso in Gerusalemme      Mt 21,1-11

Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Mt 26,14-27,66

___________________________________________________

Con la liturgia della Domenica delle Palme ha inizio la settimana cruciale per la storia del mondo. Creazione e redenzione sono considerate con uno sguardo d’insieme, sulla base dell’affermazione evangelica: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito … per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 3,16 e 11,52). Le celebrazioni della settimana santa mostrano fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l’uomo è prezioso agli occhi di Dio.

La liturgia di oggi è suddivisa in due momenti distinti: la prima parte, con la commemorazione dell’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ha un tono festoso, esultante; la seconda parte, con la commemorazione della passione di Gesù, ha un tono accorato, di partecipazione al dolore. Anche se quest’anno, per via della pandemia, non si potrà celebrare la liturgia nel modo consueto, possiamo sostare ugualmente, fermarci a contemplare il mistero e a lasciarci sorprendere dalla rivelazione dell’amore di Dio che ci ha amati fino a tal punto.

Una prima considerazione sull’ingresso festoso di Gesù in Gerusalemme. Nella narrazione di Matteo gli eventi comportano questa successione: ingresso trionfale, purificazione del tempio, discorso escatologico, le tre parabole sui misteri del regno, il complotto, l’unzione a Betania, il tradimento di Giuda, l’ultima cena e il racconto della passione. La liturgia di oggi collega il primo e l’ultimo momento, ingresso e passione, saltando gli eventi intermedi. Gesù sta salendo a Gerusalemme e a Gerico, l’ultima tappa prima di arrivare alla città santa, due ciechi lo implorano di guarirli (Marco racconta l’episodio riferendolo a un unico cieco, Bartimeo) e dopo che sono stati guariti seguono Gesù. Lo seguono nel suo ingresso in Gerusalemme. La domanda del lettore potrebbe essere questa: ma chi si accorge di quello che sta succedendo? Tutti osanneranno Gesù, faranno festa al loro profeta, ma chi si avvede che quell’osanna non è che l’inizio della settimana di passione di Gesù? Gesù sembra solo a custodire il segreto. L’evangelista fa rimarcare la cosa, ma come da fuori campo: la risurrezione di Lazzaro ha scatenato gli eventi della passione, alla quale Gesù volontariamente si consegna. Di ciò Gesù è consapevole, ma Lui solo. Due personaggi, però, intravedono, presagiscono cosa in realtà stia avvenendo. E sono proprio i ciechi guariti (nel racconto di Marco la cosa è assai più evidente perché Bartimeo chiama Gesù ‘rabbunì’, titolo che soltanto sulle labbra di un’altra persona si riscontra nei vangeli, sulle labbra della Maddalena quando riconosce Gesù risorto!) e la donna (nel racconto di Giovanni, come è più verosimile storicamente, è Maria di Betania, la sorella di Lazzaro, che Gesù aveva appena risuscitato) che unge i piedi di Gesù con un profumo costosissimo. E quando la liturgia passa dal tono festoso a quello accorato per la proclamazione della passione del Signore, ci invita a guardare con gli occhi dei ciechi guariti che seguono Gesù e con gli occhi della donna che a Betania unge i piedi di Gesù, per accompagnarlo, per testimoniargli il nostro amore, condividendo il suo segreto di amore per noi.

Matteo presenta l’ingresso di Gesù in Gerusalemme come il re messianico che entra nella sua città, secondo la profezia di Zaccaria 9,9, a cui fa seguire la cacciata dei venditori dal tempio, a compimento della profezia di Malachia 3,1 che riferisce come il Signore viene nel suo santuario. Secondo la profezia messianica di Zaccaria, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

Nel particolare delle fronde tagliate riecheggia il Sal 117,27: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell’altare” allorquando i sacerdoti dal tempio benedicevano i pellegrini che vi salivano dicendo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Osanna]”. La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino agli angoli dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’Osanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte.

Il fatto che Matteo sottolinei, come senza accorgersi dell’incongruenza, che Gesù si ponga sopra due animali, l’asina e il suo puledro, rivela l’urgenza per lui di simboleggiare il rapporto tra l’antica e la nuova alleanza, riassunte tutte e due nel gesto messianico di Gesù, il Messia pacifico nel senso che fa la pace tra ebrei e gentili, tra i vicini e i lontani. Anche la folla è descritta in due gruppi: c’è quella, più numerosa, che l’accompagna nel suo salire a Gerusalemme e c’è quella che esce da Gerusalemme incontro a lui, sebbene la città nel suo insieme resti sotto choc, come ai tempi di Erode e della visita dei Magi.

La meditazione che introduce alla proclamazione della passione è l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7.8). L’aspetto straordinario di rivelazione di questo testo paolino è dato dal fatto che il movimento di svuotarsi (non ritenere un privilegio l’essere come Dio) continua anche nel suo essere uomo perché vive la sua umanità nel farsi servo, nel farsi schiavo fino a essere calpestato e ucciso. Però Gesù vive la sua umanità nell’obbedienza, vale a dire nella condivisione più intima dell’amore del Padre per i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. Così il suo svuotarsi diventa un inno d’amore, il dono di accessibilità per tutti a godere di questo grande amore. È tutto il mistero della redenzione che i riti della settimana santa illustreranno.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Risurrezione del Signore

(12 aprile 2020)

___________________________________________________

At 10, 34a. 37-43;  Sal 117;  Col 3, 1-4;  Gv 20, 1-9

___________________________________________________

Nell’annuncio al mondo della risurrezione di Gesù, la Chiesa proclama che vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell’essere e dell’agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il bisogno dell’uomo per essere compiuto nella sua umanità. E il mistero scaturisce proprio qui: l’uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

La Settimana Santa era cominciata con la colletta del lunedì: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio”. Lungo la settimana più volte era risuonata la profezia di Isaia: “ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12). Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più potenti: “… poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.

Nell’ufficio della santa passione nel rito bizantino, la liturgia additava tre personaggi per suscitare i sentimenti dei cuori nei confronti di quell’Uomo disprezzato e maltrattato, senza più apparenza né bellezza: Giuda, con l’insistente annotazione: “ … ma non ha voluto comprendere l’iniquo Giuda”; il ladrone sulla croce: “Ricordati anche di noi nel tuo regno”; la Vergine, sua Madre, straziata dalla spada del dolore, tormentata dalle doglie che non aveva sofferto nel parto, con gli angeli che assistono e dicono: ‘Incomprensibile Signore, gloria a te!’, mentre lei supplica: “Dimmi una parola, o Verbo, non passare accanto a me in silenzio …”.  Nel riposo del sabato la Chiesa ha contemplato: “Per riempire della tua gloria tutte le cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli uomini”.

E con la veglia pasquale viene aperto il mistero della morte e risurrezione di Gesù: se la morte è l’ultimo nemico che deve essere annientato, allora vuol dire che non c’è nemico che abbia potere su Colui che l’ha vinta. E se l’ha vinta come primogenito di tanti fratelli, allora vuol dire che la sua stessa vita, non più segnata dalla morte, diventa la nostra vita, quella che può segnare e vivificare il nostro vivere quotidiano, sempre tallonato e ferito dalla morte e spirituale e fisica.

Come sottolinea un canto bizantino: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. Nella gioia esultante per il Signore risorto, gli angeli dicono alle donne che si erano recate al sepolcro: “Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui”. Bisogna intendere: Gesù non è più confinato in un posto perché dovunque lo si può vedere e sentire. Come aveva promesso che sarebbe restato con noi fino alla fine del mondo. Dice una preghiera: “Oh, la tua divina, la tua dolcissima voce amica! Con verità hai promesso, Cristo, che saresti rimasto con noi fino alla fine dei secoli. E noi fedeli esultiamo, possedendo quest’ancora di speranza”.

L’augurio è proprio quello di sentire la sua voce, come la Maddalena, come i discepoli e non solo quella degli angeli che ci dicono che è vivo. Quella voce, che potremo udire e riconoscere nelle parole di vita del suo vangelo quando penetrano nel nostro cuore, quando rivelano la forza prodigiosa di vita che celano perché in esse sentiamo l’eco della dolcissima voce amica, di Colui che, vivo, vive in mezzo a noi.

Nel racconto di Giovanni, la domenica di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora appare nella sua luce vera. Il personaggio che ci conduce alla soglia di questa scoperta è proprio Maria Maddalena, quella che per prima sente la dolcissima voce amica chiamarla per nome. Essa viveva un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei il Signore era l’Assente; non poteva che sentirlo così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. E Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro: “Vide e credette”. Il brano evangelico introduce al mistero della risurrezione con un crescendo rispetto alla ‘potenza’ del vedere espressa in greco da tre verbi. Prima semplicemente si guarda (Maria Maddalena vede la pietra tolta dal sepolcro e Giovanni, arrivato per primo al sepolcro, guarda da fuori nel sepolcro e vede i teli); poi si osserva attentamente, si contempla (Pietro, entrato nel sepolcro, guarda attentamente i teli e il sudario posto in un luogo a parte); infine si conosce, si intuisce intimamente la verità delle cose (Giovanni, entrato nel sepolcro, vede e crede). È l’ascesa suggerita dall’evangelista per fare esperienza del mistero della risurrezione, assolutamente imprevedibile per gli uomini.

Tanto che nell’inno pasquale la chiesa canta l’esultanza che la muove, incrollabile, pur nei dolori e nelle tragedie della storia: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha anche a che fare con i tre doni di Gesù che il vangelo di Giovanni riporta: la gioia, la pace e la libertà. Sono i doni tipicamente pasquali che, nell’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita. Perché anche noi possiamo dire al termine della nostra vita, come lui ha detto di se stesso: “l’abbiamo amato sino alla fine’, ‘abbiamo amato i nostri fratelli sino alla fine’, come meglio abbiamo potuto”.

IL SIGNORE È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO. ALLELUIA.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

II Domenica

(19 aprile 2020)

___________________________________________________

 At 2,42-47;  Sal 117;  1Pt 1, 3-9;  Gv 20, 19-31

___________________________________________________

Se ascoltiamo la proclamazione del vangelo dall’invito della lettera di Pietro ai cristiani percepiremmo più nitidamente l’intensità e la forza della confessione di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. È appena scoppiata a Roma la persecuzione di Nerone contro i cristiani. Siamo nell’anno 64. Forse è lo stesso anno in cui trova la morte lo stesso Pietro (alcuni la datano all’anno 67). Nel 66 scoppia la ribellione a Gerusalemme e Nerone manda Vespasiano e Tito a ristabilire l’ordine in Palestina. Nel 70 è incendiato il tempio di Gerusalemme e nel 73 cade Masada, l’ultimo baluardo della resistenza. La comunità romana dei cristiani è violentemente perseguitata. E Pietro scrive: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva … Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove … Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui” (1Pt 1,3.6.8). Sulla bocca di quei cristiani, perseguitati ma gioiosi, risuonano potenti le parole del salmo responsoriale: “Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre”. Quella letizia, nelle prove e nelle afflizioni sopportate per il nome di Gesù, rivela l’onda lunga della straordinaria confessione di Tommaso, che è diventata la confessione di tutti i credenti in Cristo: “Mio Signore e mio Dio”. Potente e intima. La confessione di fede più solenne (è l’unico passo in tutto il vangelo in cui Gesù è chiamato ‘mio Dio’) e più intima (dove il cuore di ciascuno è implicato nel modo più personale). Tutta la narrazione evangelica tende a portare il possibile lettore a quella confessione.

La prima lettera di Pietro lo dice chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza averlo visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi trasalite di gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo l’epoca apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla ‘fede’ che permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che scorre nel Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza ‘vista’ (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini.

Teniamo presente che nel racconto evangelico non si tratta tanto di riconoscere che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia tutto, perché Lui ormai è sempre con noi. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Non vuole essere semplicemente informato della verità dell’evento, vuole la presenza di Colui di cui si certifica che è vivo. Parla con foga. Non dice che vuol semplicemente toccare Gesù (non è un fantasma) ma che vuol ficcare il dito e la mano nelle sue ferite (il risorto è davvero il crocifisso). Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo, si rivolge a lui con le sue stesse parole. Noi traduciamo: metti il dito, metti la mano …, ma il testo è più espressivo: getta, ficca il dito, ficca la mano nel mio fianco. Tommaso vuole vedere, non Gesù, ma il segno dei chiodi nelle sue mani; vuole ficcare il suo dito, la sua mano, proprio nelle ferite del corpo di Gesù. Vuole come sincerarsi che il Risorto è proprio il suo Maestro, quello che hanno trattato in modo così ignominioso e crudele. E quando Gesù gli sta davanti, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di ficcare cioè il dito e la mano nelle ferite), perché evidentemente Gesù gli ha letto i pensieri, ha ascoltato il suo sfogo davanti ai compagni e, sopraffatto, riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

Perché però Gesù proclama beati quelli che non hanno visto e hanno creduto? La narrazione evangelica ha presente non semplicemente la cronaca degli eventi pasquali, ma la storia dei credenti. Finirà il tempo di una certa ‘visione’, come finirà il tempo dei testimoni oculari sulla cui autorevolezza coloro che verranno dopo continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che non finisce, perché continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la possibilità reale dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo popolo, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.

È interessante osservare la successione dei comportamenti pasquali di Gesù come sono narrati nel vangelo di Giovanni. Quando appare la sera di Pasqua ai discepoli tutti riuniti (eccetto Tommaso, di cui però viene ripresa la testimonianza con l’apparizione la domenica successiva) Gesù, prima dona la sua pace, la pace messianica, quella capace di attraversare ogni afflizione possibile perché l’amore del Signore è invincibile; poi invia i discepoli nel mondo, a prosecuzione del suo invio al mondo perché tutti conoscano l’amore del Padre; poi soffia su di loro lo Spirito per il perdono dei peccati. La pace è in rapporto al segno dei chiodi e alla ferita del costato (è la pace pasquale, che deriva dall’agnello immolato, che invita a far dono di sé perché quella pace tutti conquisti); l’invio nel mondo è in rapporto alla missione di Gesù (adombrata dal fatto che lo Spirito, di cui è ripieno al battesimo nel Giordano, lo spinge nel deserto e lo conduce a consegnarsi alla passione perché l’amore di Dio possa splendere su tutto); il dono dello Spirito è in rapporto alla adozione a figli con il perdono dei peccati (Dio non è mai stato separato da noi ma noi possiamo vivere separati da Dio e dai fratelli, cosa che costituisce la sostanza del peccato. Se veniamo perdonati, ritroviamo la possibilità della nostra dignità di figli, che vivono secondo i sentimenti del Padre, il quale vuole tutti alla mensa del suo amore). Se Gesù risorge, vuol dire che il peccato non ha più potere definitivo sul cuore dell’uomo, che può vivere della vita del Risorto, cioè di quell’amore che non può più essere mortificato da nulla. Credere in Gesù per avere la vita, questa è la confessione di fede nel Risorto, lo stesso che ha patito per noi. La prima comunità cristiana di questo è testimone nel mondo.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

III Domenica

(26 aprile 2020)

___________________________________________________

At 2,14a.22-33;  Sal 15;  1Pt 1,17-21;  Lc 24,13-35

___________________________________________________

Nella lettera di Pietro Gesù, crocifisso e risorto, è colto a partire dal mistero della Trinità: “Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo” (1Pt 1,20). È possibile per noi tenere uno sguardo così acuto e coinvolgente? È lo sguardo mancato ai due discepoli di Emmaus, i quali si rassegnano alla loro tristezza. Avevano iniziato un’avventura entusiasmante e ora si dichiarano delusi nelle loro aspettative. Se ne tornano a casa, col volto triste. “Speravamo” dicono al misterioso pellegrino riferendo dei fatti di cui sono stati testimoni.

Però, due cose possono essere dette a loro favore. Non hanno ancora voltato pagina. I loro pensieri, pur nella tristezza, sono ancora occupati da Lui. Non sono arrabbiati; solo intristiti. La lingua batte dove il dente duole, dice il proverbio. Ecco, il loro cuore non si è ancora staccato dalle vicende che li hanno interessati. Seconda cosa. Sono disposti ad ascoltare, a fare amicizia. Sono tristi, ma toccabili. E sarà proprio quella disponibilità ad ascoltare, a fare amicizia, che permetterà loro di riconoscere il loro Signore nel gesto che più di tutti gli appartiene: spezzare il pane e donarlo, simbolo della sua persona donata, della sua vita donata.

Luca intende presentare, nella vicenda dei due discepoli, la situazione delle comunità cristiane invitate alla mensa della parola e del corpo del Signore Gesù. Il luogo di riconoscimento del Signore è proprio la celebrazione eucaristica in cui risuona la parola che scalda il cuore e la comunione con il suo corpo dato per noi, in modo da imprimere alla vita dei credenti lo stesso movimento di invio al mondo del Figlio dell’uomo perché il mondo creda e abbia la vita. Perché per tutti suonino assolutamente condivisibili le espressioni del salmista: “il mio Signore sei tu: il mio bene non è che in te”. Come a dire: se non ho te, nessun bene mi soddisfa; se ho te, qualsiasi cosa si tramuta in bene per me.

I due discepoli conoscevano le Scritture, ma restavano loro chiuse. La loro vicenda potrebbe essere riassunta in questo modo: proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele erano stati affascinati dalla figura di Gesù e avevano creduto in lui; l’avevano seguito, ma forse in funzione delle loro attese secondo la storia di Israele, perché avevano, sì, sentito Gesù predire la sua passione, ma a passione avvenuta non si raccapezzavano più e cedettero alla delusione. S. Agostino spiega: “Nel tempo trascorso con loro prima della passione, infatti, egli aveva predetto ogni cosa: che avrebbe patito, che sarebbe morto, che il terzo giorno sarebbe risorto. Aveva predetto tutto, ma la sua morte fu per loro come una perdita di memoria. Quando lo videro sospeso al patibolo furono così turbati che dimenticarono i suoi insegnamenti, non attesero più la sua risurrezione, non rimasero saldi nelle promesse”. I due discepoli non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù e quando il viandante che si accompagna loro ritorna alle Scritture, che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.

‘Aprire’ e ‘ardere’ sono le due facce della stessa medaglia. Singolari i due passi scritturistici con cui i Padri illustrano il movimento del cuore: l’episodio di 2Re 6,17, quando il profeta Eliseo prega che si aprano gli occhi del servo in modo che possa vedere i carri e i cavalli di fuoco mandati a difesa del profeta e il passo di Lc 12,49 con la dichiarazione di Gesù che lui è venuto a gettare il fuoco sulla terra. E s. Ambrogio commenta: “Ali di fuoco sono, dunque, le fiamme della Scrittura divina”. E Origene: “… ascoltando le parole divine, si infiammino di fede, brucino di carità, si consumino di misericordia”.

Il salmo responsoriale, il salmo 15/16, racconta proprio la letizia della scoperta della presenza del Signore che si accompagna a noi. Siccome però il dono di Dio risponde direttamente al desiderio dell’uomo, al cuore dell’uomo sembra che le attese che lo muovono corrispondano al dono di Dio. Il dramma della vita e la vicenda dei discepoli, come dello stesso Signore Gesù, parlano invece diversamente. Ci attende un lungo cammino perché le nostre attese si convertano al dono di Dio, ma quando questo avviene scatta quella letizia che tutto riempie.

Come per i discepoli di Emmaus, una volta che gli occhi si sono schiusi e la fede si è fatta ‘visione’ per la parola e per il corpo del Signore Gesù, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni: una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria visione; l’altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di questa visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell’uomo. In questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia, nel regno di Dio. Ma il riposo che si godrà è assai diverso da quello che ci si immagina … sicuri però che comunque sarà il vero riposo.

E non per nulla il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore, che soltanto in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è proprio il nostro cuore, che alimenta il suo ardore lasciando bruciare le sue delusioni.

Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

IV Domenica

(3 maggio 2020)

___________________________________________________

 At 2,14a.36-41;  Sal 22;  1Pt 2,20b-25;  Gv 10,1-10

___________________________________________________

L’immagine di fondo della liturgia odierna è quella del buon pastore, anche se il brano evangelico non la riporta espressamente, fermandosi all’immagine della porta. Basta però continuare la lettura del capitolo 10 di Giovanni per accorgersi che l’immagine di riferimento è proprio quella del buon pastore. Tutta la liturgia è focalizzata su questa immagine potente, sebbene essa non susciti più in noi le stesse risonanze che poteva suscitare nei contemporanei di Gesù. Vorrei provare a far riemergere udibili per il nostro cuore quelle risonanze.

Il discorso di Pietro riportato dagli Atti degli apostoli a Pentecoste è commentato dalla liturgia con il salmo 22 (23) che inizia: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla …”. Quale collegamento tra il salmo e il discorso di Pietro? Coloro che lo ascoltavano, probabilmente gli stessi che cinquanta giorni prima avevano partecipato o comunque avevano saputo della vicenda di Gesù, si sentono trafiggere il cuore. Le parole di Pietro sono toccanti, coinvolgenti. Spontanea la domanda: cosa possiamo fare adesso? E Pietro li invita: convertitevi, fatevi battezzare e riceverete lo Spirito Santo. Noi interpretiamo in rapporto ai sacramenti che riceviamo nella chiesa. Pietro però sottolinea la valenza dinamica dei passaggi che il suo invito comporta. Il mio tornare a Dio comporta l’essere seppellito con Gesù rispetto a tutto ciò che questo mondo esalta sotto l’azione del principe di questo mondo (potere, prestigio, supremazia, gloria) in modo da essere guidato dallo Spirito a vivere ogni situazione unicamente nell’esperienza dell’amore di Dio. Questo significa essere ricondotto, come dice la prima lettera di Pietro, al pastore delle anime nostre.

Il salmo 22, soprattutto secondo il testo greco e latino, definisce l’azione del pastore nei nostri confronti come un guidarci a un luogo di ristoro dove trovare conversione (che il testo ebraico riporta come un ‘rinfrancare’). È interessante collegare questa azione a quella che, sempre Pietro, nella sua prima lettera, dice avvenire nel cuore dei credenti: “se facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio” (1Pt 2,20). Il testo dice espressamente: questa è la grazia! È l’azione di grazia del pastore delle nostre anime quando è accolto da noi. E il cuore può lasciar operare questa grazia perché ha gustato il ‘ristoro’ che il pastore procura.

È il ristoro di un’umanità rinnovata, che torna luminosa, che non si fa ingabbiare da nessuna lusinga del mondo perché non c’è confronto tra la vivacità e fecondità dell’amore goduto e la volontà di dominio che si pensa dover esercitare per garantirsi la felicità o perlomeno la libertà di procurarsela. Quando Pietro descrive Gesù, nel suo essere pastore delle nostre anime, lo descrive così: “soffrendo non minacciava vendetta”. A questo io collego l’espressione forte di Gesù rispetto a noi che lo vogliamo seguire: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-15).

Il conoscere è in rapporto alla disponibilità a porre in gioco la propria vita. La particolarità dell’espressione di Gesù sta nel fatto che, non solo dà la sua vita per le pecore, ma che dà la vita alle pecore. Fa in modo cioè che la vita sua passi a noi, perché anche noi viviamo di quella stessa vita, che è splendore di amore. È l’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori.  Per questo possiamo dire che il Signore è il nostro pastore e non manchiamo di nulla, perché, una volta che si sia entrati nella prospettiva di una vita vissuta nell’amore, non c’è nulla che ci potrà distogliere, non c’è nulla capace di rapircela, nulla sarà superiore all’amore. Non è però una conquista puntuale, ma un vero e proprio processo di vita, il vero processo di conversione.

Lo ricorda Pietro con l’invito a convertirsi: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel Trafitto, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere in quel trafitto lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel Trafitto ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore. Proprio come chiediamo nella colletta: “O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita”. ‘Infondi in noi la sapienza del tuo Spirito’ allude alla possibilità di accogliere la comunione con Gesù perché il suo amore sia reso noto in questo mondo.

Ultima annotazione. Non si chiede di mettere in pratica i comandamenti ma, più umilmente, di riconoscere la voce del Cristo. Dalla voce alle parole: questo è il passaggio dell’esperienza dell’amore. I comandamenti sono tutte opportunità di vivere l’amore che ci sentiamo arrivare dalla voce, riconosciuta, dell’Amato.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

V Domenica

(10 maggio 2020)

___________________________________________________

At 6, 1-7;  Sal 32;  1Pt 2,4-9;  Gv 14,1-12

___________________________________________________

Gesù sta introducendo i suoi discepoli al mistero della sua persona e della sua morte-risurrezione. Per comprendere le parole del brano di oggi dobbiamo fare un passo indietro. Quando Giuda è uscito dal cenacolo, Gesù commenta: “ora è glorificato il Figlio dell’uomo”. E rivela che dove va lui i discepoli non possono venire. È a questo punto che Gesù inserisce il comandamento nuovo dell’amore vicendevole. Spesso la rivelazione evangelica non scaturisce dal contenuto delle affermazioni fatte ma dal collegamento sotterraneo che ci offre il fondale di luce necessario per comprenderle.  L’amore vicendevole è collegato alla sua dipartita. Vale a dire: l’amore vicendevole perpetuerà la presenza del Cristo tra di noi, sarà il suo volto visibile tra di noi. Questo, Pietro non lo poteva ancora comprendere e quindi lui non segue questo discorso di Gesù; segue il precedente: perché lui non può andare dove va Gesù? È pronto a dare la vita per lui! Qui si innesta il secondo passaggio nevralgico: Gesù non rifiuta la sua offerta, ma lo avverte dell’illusione che vive. Di lì a poco lo rinnegherà.

Attenzione però. Gesù non gli predice semplicemente il suo rinnegamento. Lo vuole portare più in profondità. Come gli dicesse: se non prenderai la vita da me, ti illudi di potermi dare la tua. Se prima io, che sono il maestro, non avrò dato la vita per voi, come potete pensare che io chieda a voi una cosa che ancora non vi ho dato? E poi, non ho bisogno io della vostra vita, ma voi della mia. A voi verrà richiesto di dare la vostra vita ai vostri fratelli perché tutti possano credere all’amore di Dio. I discepoli non sono ancora pronti a entrare in questa prospettiva e restano bloccati sul timore della predizione. Gesù allora li esorta: “non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Ed è per sciogliere in loro questo turbamento che promette loro di tornare indietro da dove andrà perché “dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Il mistero è dato da quel ‘dove’. Dove è Gesù? Quel ‘dove’ esprime il punto in cui rimanere con lui. Ma qual è? Se ritorniamo al principio del racconto evangelico di Giovanni noteremo che la prima domanda che i discepoli fanno a Gesù è: “maestro, dove rimani” (abiti, dimori, stai, vivi)? In greco, il verbo è sempre il medesimo: rimanere. Lo stesso verbo, che ricorre nell’ultima cena quando Gesù dice: ‘rimanete in me e io in voi’. Rimanere in lui dove? È questa la sfumatura di senso da cogliere.

Ecco il terzo passaggio nevralgico. Il ‘dove’ è definito dalla risposta di Gesù a Tommaso, l’uomo ardente e con i piedi per terra: ma se non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via? L’impossibilità per i discepoli di capire è proprio data dal fatto di non collegare luogo e movimento. Il dove è una via, non è un posto. La via ha una valenza dinamica potente perché corrisponde alla direzione del movimento di riportare tutto al Padre. Il dove è il movimento in cui essere trascinati con Gesù nel dare testimonianza al mondo della grandezza dell’amore del Padre perché tutto torni a splendere proprio nel suo amore. Ecco perché Gesù non ha bisogno di chiedere ai suoi discepoli di dare la vita per lui. Lui trascina i suoi discepoli perché, in lui, diano la loro vita ai fratelli perché tutti conoscano l’amore di Dio. Ora, questo movimento non è che il movimento dell’emergere della verità dell’amore che prevale su tutto e l’amore non è che vita eterna, vita cioè non più soggetta ad alcuna mortificazione o confinamento o restrizione. È la descrizione della stessa vita divina, della vita della Trinità che, in Gesù, ci viene partecipata.

Quando il salmo responsoriale annuncia: “dell’amore del Signore è piena la terra”, allude proprio al mistero dell’invio di Gesù al mondo perché torni a vivere della comunione con il suo Dio, che fa la sua bellezza e il suo compimento. Quell’invio aveva come obiettivo la passione-morte-risurrezione del Figlio dell’uomo a sigillo di questo movimento dell’amore di Dio che tutto trascina a sé. La fede in Gesù non è che la visione e la condivisione di questo movimento a favore del mondo. È da dentro questa prospettiva che prende risalto il comandamento nuovo, l’amore vicendevole, consegnato da Gesù ai suoi discepoli quando ancora non ne potevano capire la portata.

Di tutto questo Pietro mostra la gloria per l’uomo dicendo: “Onore dunque a voi che credete” (1Pt 2,7). Quando la Parola è riconosciuta vera vuol dire che l’uomo ha ritrovato, ha scoperto, si è lasciato toccare dalla dignità dell’amore, non l’amore suo che indirizza verso Dio, del resto, sempre fallibile e fragile, ma dell’amore di Dio che su di lui viene riversato.

Così la fede dei discepoli non può non avere una tensione ‘apostolica’: per credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato, cioè di amare tutti. Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo. Tanto che possiamo dire: noi siamo il luogo della gloria di Dio (cfr. Gv 1,14)! Grazia e responsabilità tremenda per i discepoli.

Se Filippo incalza: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” e Gesù risponde: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”, vuol dire che si ripresenta l’antica richiesta di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18).  Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce.

L’ultimo sigillo sarà posto con l’intervento Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). La rivelazione di Dio non atterra nessuno, non si impone a nessuno, non costringe nessuno. Dio si svela nell’amore per lui, scoperto in Gesù e quello che è avvenuto per i suoi discepoli, così avverrà per tutti e i discepoli si presenteranno a tutti come l’invito a entrare nella stessa via, per vedere la stessa verità e avere la stessa vita. Il luogo del Padre, nel Figlio e grazie al Figlio, sono i credenti!

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

VI Domenica

(17 maggio 2020)

___________________________________________________

At 8,5-8.14-17;  Sal 65;  1Pt 3,15-18;  Gv 14,15-21

___________________________________________________

Tutta la liturgia di oggi è incentrata sulla promessa dello Spirito Santo. Tra due settimane sarà Pentecoste e domenica prossima è l’Ascensione, che sigillerà appunto la promessa dello Spirito. A che scopo Gesù intercede presso il Padre perché venga inviato a noi lo Spirito Santo? I brani di oggi celano collegamenti segreti che parlano più al cuore che alla mente, ancora bloccata nelle sue fissazioni. Non per nulla il seguito del brano proclamato oggi comporta l’intervento di Giuda di Giacomo, stupito e perplesso nel constatare che quello che si immaginava non corrisponde al senso delle parole di Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22).

Primo collegamento: la Parola comporta la dinamica di manifestazione di Colui che quella parola proferisce. Ecco il primo scopo dell’invio dello Spirito Santo: agirà nel senso di procurarci un’intimità di conoscenza del Signore Gesù, in cui crediamo. La sottolineatura è la seguente: non si tratta semplicemente di credere a certe cose, a certi fatti, ma di dedurre dalla fede in quei fatti, che riguardano la persona di Gesù, una potenza di vita che investe tutta la nostra esistenza. Intimità comporta sia profondità sia vitalità. E non può che riferirsi al legame con il Signore Gesù, nostro Salvatore. La conoscenza di Gesù comporterà l’intimità di condivisione con lui dell’invio al mondo perché il mondo conosca la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli.

A questo proposito il testo del vangelo è costruito in modo mirabile, in perfetta corrispondenza tra quello che avviene in Gesù e quello che avverrà nei discepoli. Di sé Gesù dirà alla fine del capitolo 14: “…viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). Il diavolo eserciterà contro di me tutta la sua violenza cercando di piegarmi ai suoi voleri ma non otterrà nulla, anzi, resterà scornato e sconfitto. Il testo però dice espressamente: viene il principe di questo mondo e in me non ha nulla. Cercherà qualcosa di suo in me, ma non troverà nulla. Il diavolo cerca ciò che appartiene a questo mondo nei suoi valori di potere, prestigio, gloria, superiorità, ecc. ma di tutto questo nell’umanità di Gesù non c’è neppure l’ombra. In lui c’è solo ed esclusivamente tutto l’amore del Padre per noi. Gesù descrive il discepolo che ama lui e accoglie la sua parola alla stessa maniera perché dice: “Chi accoglie (letteralmente: ha) i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Vuol dire: chi nel suo cuore non trattiene nulla di questo mondo ma ha solo la mia parola, allora è pieno dell’amore del Padre come me perché la mia parola è espressione di questo amore per tutti voi. Ora è esattamente l’azione dello Spirito in noi quella di custodire la parola di Gesù nel nostro cuore perché tutto sia mosso da questo amore.

Ecco il secondo collegamento. Quando Gesù dovrà spiegare più in dettaglio l’azione dello Spirito che promette di mandare dirà: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito” (Gv 16,13). Guidare a tutta la verità, ecco l’azione dello Spirito. Ma anche qui, il testo non dice di guidare alla verità come moto a luogo, ma come stato in luogo. Vale a dire: guiderà a che la verità dell’amore di Dio emerga in tutte le situazioni della vita e farà in modo che solo la verità dell’amore prevalga nel cuore, anche quando subiremo violenza e ingiustizia, perché non venga meno nel mondo la manifestazione della presenza di Dio nel suo amore per tutti. A questo allude la prima lettera di Pietro. Nella promessa di Gesù va colta l’urgenza per i discepoli di ricevere il dono dello Spirito Santo perché nel mondo essi si troveranno a testimoniare la fede in Gesù in situazione di persecuzione. Dovranno vivere quel “rimanete in me e io in voi” che Gesù dirà loro subito dopo (Gv 15,4) nel contesto di una lotta senza respiro, perché l’amore di Dio prevalga e redima il mondo. Come è stato per il Maestro, così per i discepoli. Tanto che la traduzione italiana della lettera di Pietro ‘adorate il Signore nei vostri cuori’ non rende la drammaticità di quello che quell’adorazione comporta. Il termine greco è ‘santificate il Signore’, alludendo al profeta Isaia quando dice: “Non chiamate congiura ciò che questo popolo chiama congiura, non temete ciò che esso teme e non abbiate paura». Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura” (Is 8,12-13). Il contesto è quello della persecuzione, quando il principe di questo mondo si scatena e il profeta invita a restare fermi nella fede in Dio: solo lui è il Santo, nessun altro va temuto. Proprio come un vecchio detto chassidico spiega: “Rabbi Michal diceva: “Questa è la nostra vergogna, che noi temiamo qualcun altro fuori di Dio”.

L’abbinamento: parola/manifestazione evoca il senso del comandamento come la verità di un legame, di un’alleanza. Il comandamento non ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.

Lo Spirito ci è inviato perché i nostri cuori godano del ‘manifestarsi’ di Gesù nel suo essere Signore e Salvatore e dell’intimità di quel ‘dimorare’ della Trinità nel cuore perché ogni tipo di prova che si subisce nella vita del mondo non ci svii né dall’amore di Dio né dall’amore dei fratelli, mai. Avviene quello che Gesù aveva appena detto loro: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). Questa è la distinzione tra il discepolo e il mondano: il discepolo vede con gli occhi del cuore, percepisce quello che l’altro non vede né può vedere. È lo sguardo aperto della fede. A questa fede, alla potenza di questo sguardo, nemmeno gli apostoli erano pronti. Si immaginavano una specie di rivelazione costringente tanto che tutti avrebbero dovuto riconoscere la potenza di Dio, come atterrati. Noi ora sappiamo bene che non è così e lo sappiamo per l’azione dello Spirito Santo che ci toglie dalle nostre fissazioni per spingerci nel movimento di amore capace di conquistare il cuore e di svelare la presenza del Signore nel mondo comunque il mondo ci tratti.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

Ascensione del Signore

(24 maggio 2020)

___________________________________________________

At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 1,17-23;  Mt 28,16-20

___________________________________________________

Due sono le immagini dell’ascensione al cielo di Gesù presentata dalle letture di oggi: la visione di Luca e la visione di Matteo. Luca, autore anche del libro degli Atti degli apostoli, che inizia appunto con il racconto dell’evento dell’ascensione, conclude il suo vangelo con una immagine plastica: Gesù si sottrae alla vista dei discepoli in atto di benedirli. È quella benedizione che riempie i cuori tanto da rimarcare, stranamente, che i discepoli non vedranno più il loro Maestro, ma i loro cuori sono totalmente conquistati dalla gioia. In quella gioia attenderanno il dono dello Spirito Santo che unirà alla gioia la forza, la capacità di offrire quella gioia a tutti nel loro percorrere il mondo annunciando il vangelo di Gesù.

Matteo, invece, non indulge in particolari, non fissa la sua attenzione sui discepoli e nemmeno su Gesù che scompare alla vista dei discepoli. Dato che l’evento dell’ascensione conclude il suo vangelo, si premura di riassumere in quaranta parole (contate!) tutto il vangelo, tutto l’annuncio del vangelo di Gesù. Chi ascolta le sue parole ha modo di ripercorrere in filigrana tutto il vangelo e tutto l’insegnamento di Gesù. Possiamo intravedere nel suo racconto i rimandi al vangelo attraverso cinque parole.

1. Parla di un monte, senza specificare quale. Il lettore del vangelo può riandare almeno a tre monti che ha ritrovato nel racconto di Matteo: il monte altissimo della tentazione (proprio quello dove il diavolo ha chiesto a Gesù di prostrarsi in adorazione a lui), il monte delle beatitudini dove Gesù ha proclamato la novità del suo insegnamento, il monte della trasfigurazione dove Gesù ha svelato la luce della sua divinità;

2. Parla dell’adorazione dei discepoli, ma annotando che serpeggiavano ancora dubbi. Matteo non presenta mai la fede dei discepoli sicura, definitiva, totale. La fede è sempre passibile dell’incertezza del cuore, incertezza che si risolve nel riferirsi fiducioso alla persona di Gesù. Caratteristico il brano del tentativo di Pietro di camminare sulle acque, che sembrava avere una fede sicura ma che poi, sentendo il vento, teme e affonda e allora supplica Gesù per essere salvato;

3. Parla di un potere: “a me è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. È forse il termine più ambiguo per i nostri cuori. Di quale potere Gesù si arroga? È il potere dell’obbedienza all’amore del Padre, del servizio, dello stare in mezzo ai discepoli come colui che serve. Questo potere è lo splendore della divinità. Tutto il vangelo descrive Gesù in questo atteggiamento. E volendo entrare più a fondo in questa solenne dichiarazione di Gesù che sigilla la sua missione, in cielo e in terra, potremmo spiegare così. Come Figlio di Dio, ha tutto il potere di rivelare il vero volto del Padre, che è amore misericordioso per noi; ha il potere della verità su Dio. Come Figlio dell’uomo, ha il potere di portare a compimento tutti gli aneliti di fondo della umanità; quel disporsi al servizio, quello stare solidale anche con coloro che lo oltraggiano, quel custodire l’amore nell’ingiustizia, rivela una pienezza di umanità desiderabile;

4. Parla di un comando: “fate discepoli tutti i popoli”. È il comando che riassume il senso stesso del discepolato di Gesù. Credere in Gesù significa accettare di essere assunti nella dinamica del suo stesso invio al mondo per far conoscere la grandezza dell’amore del Padre. Il testo non dice di ‘istruire’, di ‘indottrinare’, ma di ‘fare discepoli’, vale a dire solleticare la libertà di ciascuno ad aderire al vangelo di Gesù come all’esperienza singolare della vita per gustare la verità dell’amore di Dio. In pratica, quella che è stata l’esperienza dei discepoli rispetto all’agire di Gesù con loro, diventa il modello di riferimento per l’agire dei discepoli verso il mondo. Con questo piccolo dettaglio di senso: il percorrere il mondo ha valore solo in riferimento a questo invitare i fratelli a Gesù. La frase in greco non è costruita sull’andare, ma sul fare discepoli. Il comando non è di andare ma di fare discepoli e siccome tutti sono degni dell’essere discepoli di Gesù, allora a tutti si va perché questo anelito si compia per tutti;

5. Parla di una presenza costante: “Io sono con voi tutti i giorni”. Con questo è giustificata la gioia dei discepoli rispetto alla sottrazione di Gesù ai loro sguardi. Ciò significa che nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Se volessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineata sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro. Come è in cielo, così nei cuori: questa è la radice della gioia. Gioia ecclesiale, perché è il tesoro della propria umanità come dell’umanità di tutti. Ed è proprio in questa gioia che sta il superamento più radicale di ogni forma di gelosia, che tanto affligge i rapporti umani, soprattutto nella chiesa.

Il testo evangelico comporta una sottolineatura speciale per la nostra umanità. Per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere … tutti i popoli … tutto ciò che vi ho comandato … tutti i giorni”. Viene sottolineata la compiutezza, l’universalità, la totalità del mistero che si compie.

Potremmo comprendere così: il tempo della missione della chiesa mira a rendere evidenti per i cuori gli effetti del saper riconoscere che a Gesù è stato dato ogni potere. Perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa di Gesù? Non è scontato per noi arrivare a dire: riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c’è nulla in me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna perché tu sei in noi e con noi!

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo di Pasqua

Pentecoste

(31 maggio 2020)

___________________________________________________

At 2,1-11;  Sal 103;  1Cor 12,3b-7.12-13;  Gv 20,19-23

___________________________________________________

Due sono i racconti relativi all’evento dell’effusione dello Spirito Santo, quello di Luca e quello di Giovanni. Consideriamo prima il racconto di Giovanni. Gesù compare agli apostoli, riuniti a porte chiuse nel cenacolo, la sera di Pasqua. Offre loro il saluto pasquale per eccellenza: shalom, pace a voi. La pace sta in relazione con il mostrare le cicatrici delle ferite della passione, non solo per rimarcare che il risorto è proprio il crocifisso, ma per suggerire che la pace che annuncia è il frutto della passione. È una pace che scaturisce dal crogiolo dell’amore, di un amore così obbediente da consegnare se stesso senza ombra di rivendicazione. Di questa pace fa dono (l’aveva già proclamato nell’ultima cena: ‘vi do la mia pace non come la dà il mondo’) per la missione di cui investe i suoi discepoli, come lui a sua volta è stato investito dal Padre.

La fede in Gesù, che è gioia della sua presenza, vale in rapporto all’essere trovati nello stesso movimento di invio al mondo perché tutti conoscano la grandezza dell’amore del Padre. Proprio nella prospettiva di tale invio Gesù ‘soffia’ lo Spirito Santo. Il termine corrisponde al soffio dello Spirito all’inizio della creazione, per cui quel ‘soffiare’ equivale a ‘ricreare’, ridare la vita secondo la potenza divina di un amore che tutto ha conquistato. E in che cosa viene descritta questa potenza? Nel perdono dei peccati. È la presentazione più radicale del compito missionario evangelico: il perdono è la cifra storica della pace divina che tiene insieme tutto e tutti nell’amore di Dio. Lo Spirito è colui che disporrà e guiderà i discepoli alla realizzazione di questo supremo volere di Dio testimoniato da Gesù nella sua preghiera sacerdotale: che si faccia una cosa sola, tu in me e io in loro, perché tutti conoscano te! La preghiera della chiesa: Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore, non è che l’invocazione pressante perché quel ‘volere’ di Dio si compia finalmente. Gesù abilita i discepoli a far arrivare a tutti la sua buona notizia e a far sì che tutti formino una sola famiglia alla mensa dell’amore di Dio. È la venuta del regno, secondo l’invocazione della preghiera del Padre Nostro.

Luca invece sottolinea un altro aspetto dell’effusione dello Spirito Santo. Il racconto va letto in filigrana con il racconto della torre di Babele quando gli uomini non si sono più capiti perché Dio ha confuso le loro lingue. Gli ebrei erano spaventati dalla potenza assira e si sono accorti che il principio del dominio universale, che l’impero assiro richiamava, non corrispondeva al piano di Dio per l’uomo. L’uomo sente la potenza dell’unità e della coesione, ma la gioca sul registro del dominio su tutti, secondo il principio di forza. Da ciò deriva schiavitù, non felicità. Quando, a Pentecoste, lo Spirito è effuso, assume la forma di lingue di fuoco a sottolineare che sarà lo Spirito dell’amore a realizzare quell’unità e quella coesione tra gli uomini attraverso l’armonia delle differenze, sul registro della comunione. Tutti, diversi tra loro, sentiranno la stessa cosa e tutti, nelle loro diversità, si troveranno uniti a lodare Dio per la stessa cosa. Se la Scrittura aveva fatto intervenire Dio a mettere scompiglio tra gli uomini in modo che non si capissero più, non è per invidia o gelosia, ma per significare che, se il tentativo di unità procede dalla forza, non si realizzerà mai quella comunione che corrisponde al progetto di Dio per l’uomo. Così, non viene condannato l’anelito all’unità, ma solo il modo perverso di realizzarla. La cosa non è scontata nemmeno oggi. Quante perversioni per raggiungere l’unità senza la comunione! Quello che solitamente si dice: comunione, non uniformità. Ma nelle differenze serpeggia la paura di essere da meno, di essere messi da parte, di essere prevaricati. Così si preferisce la menzogna di un’unità imposta piuttosto che la fatica di una comunione cercata.

Qui allora è bene ricordare le caratteristiche dell’azione dello Spirito Santo secondo la descrizione di Gesù, come la liturgia della novena di Pentecoste ha sempre sottolineato: ‘il Padre vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi, egli vi insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto, vi guiderà a tutta la verità’. Lo Spirito è colui che non permetterà che nessuno si arroghi qualche diritto speciale sugli altri; è colui che custodirà nel cuore dei discepoli la potenza di salvezza delle parole di Gesù; è colui che farà in modo che ogni circostanza, soprattutto di afflizione o di persecuzione, si possa aprire all’esperienza dell’amore di Dio, tanto che niente e nessuno possa disperdere o mortificare il fuoco che ha acceso. È colui che, conoscendo la lingua della comunione, potrà ascoltare tutti con benevolenza e custodire la dignità di tutti.

Acquistano allora tutto il loro senso anche le preghiere della chiesa che hanno preceduto la festa: “Venga su di noi, o Padre, la potenza dello Spirito Santo, perché aderiamo pienamente alla tua volontà, per testimoniarla con amore di figli” (colletta del lunedì); “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo, perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta del giovedì). Così si realizza la promessa di Gesù: “Riceverete la forza dello Spirito Santo, che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni sino agli estremi confini della terra” (At 1,8), intendendo terra non solo in senso geografico ma spirituale, vale a dire in ogni circostanza, in ogni situazione, in ogni prova, in ogni afflizione interiore ed esteriore. E come fare, se non riempiti e accesi del fuoco del suo amore, come il canto al vangelo proclamava?

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Santissima Trinità

(7 giugno 2020)

___________________________________________________

Es 34,4b-6. 8-9;  Dn 3,52.56;  2Cor 13,11-13;  Gv 3,16-18

___________________________________________________

I brani delle letture di oggi sono una mirabile sintesi della rivelazione di Dio testimoniata dalle Scritture. Dio è unico ma Trinità, vale a dire un fuoco di amore che dà esistenza a tutto e tutto ingloba nel suo amore. Il Padre creatore, il Figlio redentore, lo Spirito santificatore, in un’unica comunione d’amore in se stesso e con noi. Potremmo interpretare sinteticamente le letture di oggi in questo modo. Siccome il nome del Signore è ‘Dio misericordioso’, il Padre ha mandato il Figlio perché mostri quanto ha amato il mondo, affinché la vita di Dio, che è splendore di amore, diventi per tutti godibile e piena nel suo Spirito.

Il brano della seconda lettera ai Corinzi riporta la formula trinitaria più chiara di tutto il Nuovo Testamento, formula che è diventata il saluto liturgico iniziale della celebrazione eucaristica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio [Padre] e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13). La risposta a questo saluto si avrà alla conclusione della grande preghiera eucaristica quando, dopo aver fatto memoria della grande opera di salvezza del Cristo e del dono dello Spirito Santo, la chiesa proclama: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. È l’eco della lode eterna che l’Apocalisse descrive come l’esultanza dei redenti davanti alla manifestazione dell’amore eterno di Dio per i suoi figli.

Il saluto e la risposta della chiesa acquistano tutto il loro valore nella doppia testimonianza del libro dell’Esodo e del vangelo di Giovanni. Dopo il peccato del vitello d’oro e l’angoscia tragica che ne era seguita per l’eventualità del ritiro di Dio e quindi della distruzione del popolo, Mosé si era interposto tra il popolo e Dio per ottenere misericordia. I capitoli 32-34 dell’Esodo sono tra i brani più eccelsi di tutta la Bibbia. Mosé era riuscito nella sua intercessione, aveva ottenuto che Dio continuasse a stare con il suo popolo ma si chiede: potrò mai vedere il volto di Dio? E domanda: “Mostrami la tua gloria” (Es 33,18). Voglio vederti in faccia, voglio sapere chi davvero sei! Richiesta oltremodo pericolosa, sapendo che non si può vedere Dio e restare in vita. Dio però si concede al suo servo e si dichiara in modo da infuocare il cuore di Mosé: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6). Insieme al brano del roveto ardente (Es 3,2) e alla rivelazione al profeta Elia sull’Oreb nella brezza leggera (‘un silenzio sottile’, secondo il termine ebraico, 1Re 19,12), qui si raggiunge l’apice della rivelazione di Dio nell’AT.

Ora, quel NOME, così carico della Presenza di Dio da significarne la natura intima, è proprio quello che il Figlio rivela con la sua passione-morte-risurrezione. Gesù anticipa questa rivelazione nel suo colloquio con Nicodemo dicendogli: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,19).  Gesù è la rivelazione del volto del Padre, che è misericordia. Se Gesù fornisce la ragione di questa sua rivelazione (‘perché abbiano la vita eterna’) non è per motivare la sua opera, ma per mostrare il fuoco che anima lui e la sua opera redentiva fin dall’eternità, negli abissi divini delle relazioni trinitarie. La sottolineatura resta la seguente: se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che è stato concepito perché potesse, lui, creatura, godere dello stesso amore che costituisce Dio in se stesso, nelle sue relazioni trinitarie. La rivelazione ha dell’inaudito. L’uomo è chiamato a condividere la stessa vita divina, che è splendore di amore in se stesso. Vita eterna e amore dicono la stessa realtà perché definiscono la natura intima di Dio.

Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e donandoci il suo Spirito.

Così, avere la vita eterna comporta l’essere conquistati radicalmente dall’amore (per questo è effuso lo Spirito Santo) in modo che quell’amore divino diventi radice e splendore di vita, nella lode al Dio delle misericordie, come lo è stato per l’umanità di Gesù. La richiesta di Mosé: “Mostrami la tua gloria”, con Gesù che rivela il volto del Padre, assume un significato nuovo: possiamo conoscere personalmente il Dio che ci ha amati così tanto da darci il suo Figlio.

L’aspetto drammatico, che continua a essere tale per noi nonostante l’assolutezza e la definitività di questa rivelazione, sta nel fatto che non si tratta di un riconoscimento fattuale, puntuale, ma di un inglobamento totale della nostra esistenza in quella rivelazione, dentro una storia che tende a mettere continuamente in discussione la sua verità. Non per nulla la definizione di Dio che l’Apocalisse riporta suona: “Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (Ap 1,8). Vale a dire: l’assorbimento degli effetti di questa straordinaria rivelazione si gioca nella successione degli eventi, belli e brutti, beati e dolorosi, della nostra vita. Non veniamo custoditi per il fatto che tutto avverrà come piace a noi, ma per il fatto che comunque avremo l’opportunità di fare esperienza della grandezza dell’amore di Dio, perché, come dice s. Paolo, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio.

È caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Corpus Domini

(14 giugno 2020)

___________________________________________________

Dt 8,2-3.14b-16a;  Sal 147;  1Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

___________________________________________________

L’intelligenza del mistero dell’eucaristia da parte della Chiesa è ben espressa, nella liturgia di oggi, dalla preghiera sulle offerte: “Concedi benigno alla tua Chiesa, o Padre, i doni dell’unità e della pace, misticamente significati nelle offerte che ti presentiamo”. Gli uomini presentano all’altare il pane e il vino, che verranno loro ridonati come corpo e sangue del Signore, perché di tutti si faccia un corpo solo. Quando s. Agostino si domanda quale sia la virtù specifica dell’Eucarestia, non può che rispondere: “La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”. In effetti, quando ci accostiamo alla comunione eucaristica, l’amen che il fedele risponde non significa: sì, credo che quel pezzo di pane è il corpo di Cristo, ma, più in verità: sì, so che faccio parte di quel corpo e accetto di vivere come un corpo solo!

L’unità riguarda l’essere uno in Cristo, il rimanere in lui come lui rimane in noi. Esprime tutta l’intensità e la profondità dell’unione del discepolo con il suo Maestro nella stessa dinamica di vita che lo caratterizza: inviato per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per fare di tutti un’unica famiglia. La pace riguarda la dimensione di quell’unità nella storia nel senso che tutti gli uomini sono fratelli perché l’unico pane è per l’unico corpo. Il ‘vero pane’ disceso dal cielo, come Gesù dichiara nel vangelo, ha lo scopo di nutrire, vale a dire portare vita, accrescere la vita, renderci partecipi della sua potenza di ‘eternità’. Da non intendere: per ereditare domani la vita eterna in paradiso, ma: per avere oggi la qualità eterna della vita come splendore di amore immortificabile.

Il vangelo esprime questa tensione con termini estremamente realistici. Noi traduciamo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”. In realtà, il testo dice: ‘chi mastica la mia carne’. Esprime il realismo del mangiare. Già l’espressione di Gesù sembra irricevibile (in effetti, nel brano di Gv 6, i farisei respingono la cosa), ma l’accentuazione realistica la rende ancora più assurda. L’accentuazione sottolinea la veridicità del mistero, il realismo del mistero. Come comprenderlo?

L’eucaristia è chiamata ‘farmaco di immortalità’. Richiama il convito celeste a cui i santi partecipano nella lode perenne del loro Dio. Come preghiamo nel Padre nostro: ‘come in cielo così in terra’. Il mangiare però allude al partecipare alla dinamica che rende la vita ‘eterna’. Potremmo spiegare così. Chi mangia il corpo di Gesù, che si è consegnato nelle mani degli uomini perché fosse nota la grandezza dell’amore del Padre, resta abilitato, come Gesù e in Gesù, a consegnarsi a sua volta perché quell’amore che l’ha conquistato splenda nel mondo e lo trasfiguri (in effetti Gesù non dice solo che lui è il pane vivo, ma che è il pane disceso dal cielo e che lui darà per la vita del mondo), in modo da far entrare la concretezza della vita quotidiana nel movimento dell’amore divino. Questo significa vivere per il regno, secondo l’espressione programmatica di Gesù: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33).

In questo senso il riferimento alla manna e al suo significato nel racconto del Deuteronomio resta essenziale. Nella discussione tra i farisei e Gesù ricorre il tema della manna come il segno che ha rivelato Mosè come l’inviato di Dio al suo popolo. Gesù accetta il riferimento e ne rivendica la verità applicandola direttamente a se stesso. Gli ascoltatori non potevano ancora comprendere ma noi possiamo afferrarne meglio la portata. Le parole di Mosè, nel libro del Deuteronomio, sono pronunciate alla fine della traversata del deserto dopo quarant’anni di peregrinazioni prima di arrivare alla terra promessa. Ad ascoltarle non ci sono più coloro che erano usciti dall’Egitto perché nel frattempo erano morti. Ci sono i loro figli, coloro che non avevano conosciuto la schiavitù in Egitto. Li istruisce spiegando perché la liberazione dei loro padri aveva richiesto un viaggio così difficile. La liberazione dalla schiavitù aveva comportato un periodo di umiliazione e di prova perché emergesse la verità dei cuori. Vale a dire, se fossero davvero disposti a seguire il loro Dio, a fidarsi di lui (ecco il segno della manna), a adorare solo lui. Dice loro di tenere a mente, di fare memoria che in realtà non si tratta tanto di essere soddisfatti nella fame materiale (non sparire come popolo) ma di essere nutriti della parola che esce dalla bocca di Dio (vivere nella e della santità di Dio). È come se ricordasse loro l’emozione delle origini quando Dio era intervenuto, quando Dio aveva fatto sentire la sua voce, quando Dio si è messo alla guida del popolo tramite Mosè.

L’eucaristia è entrare nell’emozione delle origini per il cammino tormentato della vita. È fare memoria della grazia delle origini, così potente da inglobare tutto il cammino nella sua luce e nella sua energia di vita. Il mangiare l’eucaristia, il corpo di Cristo dato per noi, vuol dire ricevere sostentamento ed energia per realizzare quello che significa: diventare un corpo solo, a immagine della comunità dei santi uniti nella lode dell’amore sovrano di Dio. È l’eucarestia, come dice s. Francesco, a comunicare al cuore dell’uomo credente, che fa affidamento alla logica che viene dall’alto, la potenza di una memoria, di una intelligenza e di un sentimento per un amore grande che ci ha toccati, per Colui che si è rivelato al nostro cuore come capace di amore per noi. Sperimentando questo, allora le sue parole, il suo agire ed il suo soffrire, si impastano con il nostro, lo lievitano e, mossi ormai dalla sua stessa dinamica di vita, impariamo a stare solidali con tutti, in quell’umanità che ci rende un unico corpo, un corpo solo con il nostro Dio.

Come i farisei di allora, anche noi mettiamo avanti le nostre resistenze, le nostre perplessità. Perché, quello che appare così tanto desiderabile, spesso non convince i nostri cuori nel viverne tutte le implicazioni nella vita concreta? Se rileggiamo tutto il capitolo 6 di Giovanni riusciamo a intuire la natura di questa difficoltà. Gesù si presenta come il pane disceso dal cielo, ma gli ascoltatori, che pure avevano goduto del miracolo della moltiplicazione dei pani, sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono? Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il discendere dal cielo non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore. Pensano sempre in termini di grandezza, ma mondana, dove il potente prevale sul debole, il grande la spunta sul piccolo e l’affermazione di sé è una questione di innalzamento. Gesù invece, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, cioè al suo abbassamento, perché è lì che risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Il dimorare in Gesù, mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, allude al rimanere in questo movimento di discesa per essere testimoni dello splendore dell’amore di Dio in mezzo agli uomini, non avendo altro tesoro più prezioso da custodire. Dovremmo imparare a collegare il mangiare e il rimanere in funzione della manifestazione al mondo dell’amore di Dio.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Sacratissimo Cuore di Gesù

(19 giugno 2020)

___________________________________________________

Dt 7, 6-11;  Sal 102;  1Gv 4,7-16;  Mt 11,25-30

___________________________________________________

Molti testi della liturgia di oggi possono illustrare emblematicamente l’immagine del cuore di Gesù, spalancato sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al calvario lascia intravedere. “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore, per salvare dalla morte i suoi figli, e nutrirli in tempo di fame” (Sal 32,11.19) canta l’antifona di ingresso. I nostri pensieri sono mutevoli, i nostri progetti pure, ancor più i nostri desideri. Ma sperimentare che quelli del Signore sussistono per sempre, non mutano mai, non vengono mai meno, significa cogliere e accogliere il segreto di amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale segreto possa essere svelato in tutto il suo splendore solo nel momento più drammatico della vita di Gesù la dice lunga sul fatto che quell’amore non sia scontato coglierlo e viverlo, per quanto desiderabile.

L’affermazione del Deuteronomio: “Il Signore si è legato a voi … perché vi ama” resta il fondamento dell’esperienza dei credenti. E quando il salmo 102, v. 8, proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” non fa che sottolineare la verità di quell’affermazione, colta nel dramma del peccato dell’uomo che non allontana Dio dall’uomo. L’espressione fa parte della rivelazione del Nome di Dio a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro, quando l’angoscia del possibile rifiuto di Dio tormentava i cuori (cfr. Es 32-34).

Proprio come dice Giovanni nella sua prima lettera: “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito … non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1Gv 4,7.9). Il nostro guaio è che restiamo così insensibili alle vicende di quel ‘Figlio dato per noi’, così poco toccati nell’intimo dalla testimonianza della sua vita per noi da vivere la nostra vita più nella lamentela che nel rendimento di grazie, più nell’affanno che nella consolazione, più nel tormento e nel disprezzo che nella pace.

Gesù nel vangelo di Matteo proclama: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio ...”. Vale a dire: tutta la verità a cui anela il cuore dell’uomo, tutto il bene di cui è capace il cuore dell’uomo, tutto il contenuto dei pensieri e dei desideri dell’uomo, tutta la gloria che un uomo può portare, tutti gli aneliti del cuore degli uomini nella loro immensità e profondità, tutto trova in lui il compimento, ha in lui il suo sigillo. Per questo, continua: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Quello che cercate, quello che, non trovandolo, vi procura oppressione, quello per cui vanamente vi affaticate, tutto potrete avere in me! La parola di Gesù è una parola di vita non solo nel senso che procura la vita a chi l’accoglie, ma anche che rivela come sussiste la vita, come si esprime la vita, come la vita si regge e si sviluppa. È il principio della fede come radice di umanità, umanità piena. Ed è per questo che ancora aggiunge: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. La struttura della sua umanità è commisurata alla nostra e ci raggiunge là dove più misterioso è il segreto delle sue origini: siamo nel mondo, ma non del mondo.

Due particolari sono da rilevare nel passo evangelico: la beatitudine dei piccoli e l’invito a imparare. Per amare è necessario farsi piccoli: l’amore è rivelazione, non conquista. Vediamo l’amore di Dio in Gesù perché lui si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare totalmente la sua gloria e poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora, la sua piccolezza ha a che fare con la situazione degli uomini, incapaci di vedere Dio perché non più capaci di amare (“Chi non ama non ha conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore (potrebbe essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli uomini che tanto li inasprisce). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù morire sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono cioè di uscire dal peccato che corrode la loro umanità), con ciò non vogliono semplicemente mettersi a posto, ma vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà sarà sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore e più saranno disposti a condividerlo con tutti.

E se Gesù invita: “Imparate da me”, che cosa dobbiamo imparare? Nel fatto di ‘imparare’ va letta la sfumatura di significato di ‘essere attratti’, come si può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”). Imparare e essere attratti comportano lo stesso movimento, alludono alla condivisione di una intimità di vita e di sentire che diventa potenza di azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a lui, per vivere della sua stessa vita. Significa imparare da lui a conoscere Dio e imparare ancora da lui a conoscere noi stessi, la nostra umanità. Se rispetto al male che devasta la nostra umanità noi ci giustifichiamo con l’attrattiva e la propensione che ci agita subendo la tristezza del diavolo, rispetto al bene noi ci muoviamo secondo la forza di una nostalgia che ci abita, nostalgia che l’umanità del Signore ci accende.

La proclamazione del salmista: “Benedici il Signore anima mia …” (sal 102) risuona in tutta la sua potenza sulle nostre labbra appena ci apriamo al mistero del cuore di Gesù, lui che è mite e umile di cuore. Avremo modo di comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno. La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come l’amore è la dimensione della santità di Dio che accomuna a sé l’uomo. Il cuore di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, il cuore di Gesù è lì a ricordarci il contrario: possiamo entrare anche noi nella santità dell’amore di Dio e avere la vita.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XII Domenica

(21 giugno 2020)

___________________________________________________

Ger 20, 10-13;  Sal 68;  Rm 5,12-15;  Mt 10,26-33

___________________________________________________

La liturgia di oggi è imperniata sull’invito di Gesù ai suoi discepoli, che manda per il mondo come testimoni del suo vangelo, a non avere vergogna e non avere paura. Il passo parallelo di Luca ne mostra la ragione: “Dico a voi, amici miei” (Lc 12,4). Gesù fa leva appunto sulla confidenza del rapporto, sulla forza di intimità di un rapporto che ha conquistato il cuore. La considerazione è assolutamente importante perché Gesù non nasconde che la missione dei suoi apostoli incontrerà difficoltà e opposizioni, contrasti e resistenze, perfino aperte persecuzioni, come del resto avviene per lui. Tutto il capitolo in effetti si fonda sul principio: “Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone” (Mt 10,24-25). La paura che prendesse il discepolo nella tribolazione non equivarrebbe semplicemente alla mancanza di coraggio, ma alla mancata intimità con il proprio maestro. Il contrario della paura non è il coraggio, ma la confidenza; non si conquista con l’esibizione, ma con l’intimità. Tale è l’ottica di lettura per i brani di oggi.

In questo senso risuona potente l’invocazione del profeta Geremia messo alle strette dai suoi falsi ammiratori, rivelatisi nemici perversi: “possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te affido la mia causa” (Ger 20,12). Nella terribile esperienza del profeta, insidiato da ogni parte e abbandonato da tutti, la sua preghiera è esaudita nel senso che i suoi nemici non ottengono la sua anima, cioè non la piegano ai loro voleri e non la distolgono dal perseguire la verità della parola di Dio, che lui continua a proclamare imperterrito. Ma da dove deriva la sua forza, la forza di non avere paura nonostante le angosce e i terrori che lo tormentano? “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7.9). La sua vita scaturiva dal legame con il suo Signore che gli aveva rapito il cuore. Così la sua supplica: “possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa” significa: che il povero, per paura del malvagio, non venga meno alla sua dignità, non desista dal fare il bene e non ceda al male. Alla vendetta degli uomini contro il giusto corrisponde la vendetta di Dio contro i malvagi. Da intendere: in modo che il giusto resti nell’intimità con il suo Dio e non ceda alla vendetta. La vendetta non appartiene al giusto.

Quello che il salmo 68 (69) proclama: “Per te io sopporto l’insulto”, per non perdere il tuo amore, sapendo che il Signore ascolta i miseri, i poveri, i miti. È questa la testimonianza dello Spirito della verità che parla di Gesù nel cuore dei discepoli, come sottolinea il canto al vangelo, citando Gv 15,26-27. La verità che lo Spirito farà risplendere è la verità, accolta, del mistero della persona di Gesù, di cui si è condiviso la vita e l’insegnamento, imparando a conoscerne l’amore e a viverne la dinamica di rivelazione che comporta. Davanti alla tribolazione che sorprende il discepolo, quando subirà persecuzione dagli uomini, quando subirà ingiustizie e oppressione, quando si sentirà ingiustamente canzonato, egli potrà mostrare che cosa il suo cuore cerca, di che cosa è pieno, che cosa costituisce il suo tesoro. Di qui deriva la sua non paura.

L’uomo che ha rinunciato alla sua pretesa di innocenza di fronte all’amore di Dio che lo accoglie e lo perdona, gli fa godere la sua intimità, è un uomo che non ha più paura, che non ha più paura di essere calpestato dagli uomini, di essere da loro discreditato o umiliato. Il segreto che porta, di cui è testimone, è più potente. E sarà proprio quel segreto che dovrà essere manifestato, gridato a tutti e in tutto il mondo. Proprio quello che nella più personale intimità di incontro col Signore costituisce la verità del proprio cuore, proprio quello andrà gridato in tutti modi, perché tutto sarà svelato a suo tempo, a tutti apparirà chiara la verità di quel segreto a suo tempo. Forse Gesù allude a un proverbio popolare: tutto finisce per arrivare al grande giorno. Ciò che ora è ancora un segreto, sarà la verità più limpida e convincente per tutti a suo tempo. Non temete dunque, conclude Gesù: fate risuonare quel segreto, fate risplendere davanti a tutti quella verità.

In termini meno entusiastici, ma più realistici, è quanto riporta questo aneddoto chassidico: “Rabbi Michal diceva: “Questa è la nostra vergogna, che noi temiamo qualcun altro fuori di Dio. È questo che si deve intendere quando di Giacobbe è detto: “Ed egli temette e fu angosciato” (Gen 32,8). Noi dobbiamo angosciarci del nostro timore di Esaù”.  Non è che l’uomo non deve avere alcun timore. Deve solo temere Dio e nessun altro, per nessun motivo. Ora, il temere Dio è il corrispettivo della forza di intimità goduta con Dio perché è l’espressione del timore di perdere ciò che è prezioso per il cuore.

Quel ‘timore’ di Dio porta i discepoli a non avere paura, a non sgomentarsi. Se il brano evangelico di oggi richiama al principio della fedeltà nella persecuzione – cosa che di per sé supporrebbe un coraggio incredibile! – ricorda però che la testimonianza si alimenta nella prospettiva di una confidenza goduta: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza che il volere del Padre vostro”. Come a dire: il Padre vostro è sempre con voi; voi siete cari al Padre vostro. Tutto quello che vi capita non è un incidente, ma ha lo scopo di mostrare il suo desiderio di comunione con gli uomini, desiderio che in voi è diventato il vostro segreto di vita. Se il male che ci viene dagli altri uccide la nostra anima nel senso che ci distoglie dalla comunione con Dio e soffoca il suo amore, come potrà il mondo ancora risplendere della presenza di Dio? Come la salvezza di Dio potrà ancora lambire i cuori?

Da notare la corrispondenza tra il riconoscimento di Gesù davanti agli uomini e il riconoscimento suo davanti al Padre. A dire il vero, il testo evangelico suona: ‘Chi confesserà in me davanti agli uomini, anch’io confesserò in lui davanti al Padre mio’. Un’espressione aramaizzante per indicare il fatto di riconoscersi in qualcuno, dalla parte di qualcuno. Noi potremmo interpretare: non si può confessare il Signore Gesù se non a partire da un’intimità di vita con lui, per cui riconoscerlo significa godere dell’intimità che ci offre. E la cosa avviene davanti agli uomini nel senso che quell’intimità si svela nell’amore verso gli uomini, alla comunione coi quali tende il desiderio di Dio, proprio quando gli uomini, rifiutando di rispondere a quel desiderio, contestano e opprimono coloro che vivono secondo quel desiderio che è diventato il loro segreto. Il riconoscere di Gesù davanti al Padre significa mostrare al cuore la verità dell’amore salvatore di Dio per gli uomini che prevale in ogni circostanza, anche la più drammatica o la più affliggente.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(28 giugno 2020)

___________________________________________________

2Re 4,8-11.14-16a;  Sal 88;  Rm 6,3-4,8-11;  Mt 10,37-42

___________________________________________________

La liturgia di oggi ruota attorno al verbo ‘accogliere’. La donna sunamita della prima lettura, infatti, attua il detto di Gesù: “Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto” (Mt 10,41). Ma ciò che colpisce nella proclamazione del brano evangelico odierno è altro. Riguarda la radicalità del discepolo del regno: “Chi ama padre o madre più di me non è degno di me … Chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà …” (Mt 10,37-39). Espressioni che suonerebbero con altra potenza se si proclamassero come sono riportate nel brano evangelico, che inizia con: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare…” (Mt 10,34). Il testo stesso dà forza al detto di Gesù con il verbo ‘gettare’: gettare pace, gettare spada. Espressione inusuale anche al tempo di Gesù, quindi particolarmente significativa sulla sua bocca. Anche Luca riporta lo stesso detto unendolo all’immagine del fuoco: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!… Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione” (Lc 12,49.51). E anche Luca usa il verbo ‘gettare’.

Che cosa intende Gesù? In rapporto al mistero del regno di Dio che è venuto ad annunciare e a realizzare, tutto il resto è secondario, perfino gli affetti più naturali e oggetto del comandamento di Dio. Anche Gesù si è trovato nella circostanza se preferire i legami familiari di parentela o l’ardore per il regno. Chiara la sua scelta: chi fa la volontà del Padre mio, questi è madre, fratello e sorella per me. Quando racconta le parabole del regno, la sottolineatura evidente è: entrare nella familiarità con Gesù significa stabilire un legame ancora più forte dei legami di sangue. È il mistero dell’alleanza svelato nelle sue radici di intimità che portano pienezza al cuore dell’uomo, tanto che non si resterà più chiusi nella cerchia della propria parentela, ma si accoglierà ogni uomo nella parentela con il Figlio di Dio. Tutto questo però ha un costo perché, quando i due movimenti entreranno in conflitto, il cuore deve saper scegliere. Di quale dignità si vuol godere? Risuonano qui le espressioni del vangelo di Matteo: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta … se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 6,33; 5,20).

Gesù non teme di spaventare i suoi discepoli e dichiara loro apertamente: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,38.39). Dopo aver ricordato loro che saranno perseguitati, che lui non è venuto a portare pace sulla terra ma spada e che la fede in lui sopravanza l’amore per i propri cari (l’amore per i propri cari non può essere ragione sufficiente per separarsi da lui), Gesù esorta: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10,38). Un’altra volta l’evangelista riporta la stessa espressione. In occasione della confessione di Pietro a Cesarea, quando Gesù decide di rivelare la sua prossima passione e redarguisce l’apostolo per aver pensato in termini mondani: “Va’ dietro a me, Satana!” e allarga a tutti l’ammonizione: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,23-24). Mentre Luca ricorda l’ingiunzione di Gesù a portare la croce come la firma alla parabola del saper calcolare se si hanno i mezzi sufficienti a costruire una torre (la sequela di Gesù comporta una prospettiva di vita, non semplicemente un’emozione o un entusiasmo del momento) e alla ricerca dell’ultimo posto come espressione di sapienza evangelica.

In ogni caso, il prendere la croce ha a che fare con il voler essere discepolo di Gesù, con il voler stare dove lui sta, con l’andare dove lui va. Non si tratta di pazientare con la propria croce, ma di cogliere il segreto che regge questo invito: cosa cerchi? Dove vuoi arrivare? Per quale tesoro ti angosci? Si tratta di cogliere la promessa che sta racchiusa in ogni parola di Gesù: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Il prendere la croce vuol dire portare ogni cosa in vista di godere di quel regno, non nell’attesa del regno che verrà, ma del regno che è davanti a noi, che è alla nostra portata, perché Gesù ce lo apre. Così il discepolo rinuncia a tutti i beni, non nel senso che non ne gode, ma nel senso che non li preferisce all’amore di Gesù, nel senso che non ne fa motivo di ira e tristezza se gli vengono tolti pur di custodire la sequela di Gesù. Senza percepire però la verità e l’emozione interiore della promessa del regno non sarà possibile prendere la propria croce e andar dietro Gesù.

È proprio riferendosi alla promessa del regno che si può comprendere l’immagine della spada che Gesù dice di essere venuto a gettare. Nella lettera agli Ebrei la parola di Dio è paragonata a una spada a doppio taglio: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Ecco la divisione, la separazione che Gesù provoca: il cuore può distinguere ciò che si riferisce al regno e che risponde alla sua dignità di figlio di Dio da ciò che lo rinchiude in un movimento di interessi, per quanto nobili o dietro steccati che ne limitano l’azione o ne indeboliscono la potenza.

San Paolo, per riassumere questa sapienza evangelica, non troverà di meglio che definirla così: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio … Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,18.25). Di modo che: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Da intendere: nel mondo non c’è nulla da preferire all’amore di Gesù e in me non c’è nulla che può essere portato a compimento se disattende l’amore di Gesù.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(5 luglio 2020)

___________________________________________________

Zc 9, 9-10;  Sal 144;  Rm 8, 9. 11-13;  Mt 11, 25-30

___________________________________________________

Le letture di oggi proclamano la venuta godibile del regno impersonato dal re-messia che si presenta mite e umile, portatore di pace e di ristoro. Il profeta Zaccaria lo descrive così: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zac 9,9), passo che gli evangelisti riferiscono a Gesù che entra trionfalmente in Gerusalemme, ma per vivere la sua passione d’amore. Quello che la descrizione profetica delinea in immagini, Gesù lo svela nel movimento interiore del suo cuore: “Venite a me, voi tutti …imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,28-29).

Il vangelo di Matteo non rivela la circostanza della proclamazione di Gesù, ma il passo parallelo di Lc 10,17-22 lo dice chiaramente. Tornano dalla missione di predicazione i 72 discepoli che Gesù aveva inviato davanti a sé, tutti contenti per il successo registrato, tanto che Gesù prorompe in un grido di esultanza: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo. L’uomo può godere del fatto che Dio si approssimi a lui in Gesù e tutto si risolve in una questione di sguardo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già dalla sua parte. L’unica conquista è quella di acquisire quell’atteggiamento del cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. È proprio questo a caratterizzare i ‘piccoli’, adulti che imparano a guardare come i bambini. I pensieri degli uomini non corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del compiacimento di Dio non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui.

Gesù, dopo aver esultato per la benevolenza del Padre, aggiunge una affermazione misteriosa. Nessuno può conoscere la bontà di Dio se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (cfr. Mt 11,27). Cosa significa? Dal momento che ai piccoli vengono rivelati i misteri del Regno, quel ‘colui’ non può che alludere a chi è piccolo. La sfumatura di senso risulta essere questa: non si tratta semplicemente di accogliere la parola che dice Gesù (in altri termini, non è la spiegazione che Gesù dà a colpire) ma di godere della presenza che la sua parola benevola suscita. È la presenza in intimità a svelare i misteri del Regno. Così ‘piccolo’ è colui che gode del suo esserci, del suo stare con noi, in intimità, senza perdersi in nessun altro pensiero o pretesa, proprio come i bambini che dipendono in tutto dal bene voluto loro. In questo senso risuona potente l’affermazione di Giovanni: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).

La celebrazione di una rivelazione siffatta intesse tutto il salmo 145 (144), una lode ininterrotta per la venuta del regno di Dio, come d’altronde invocherà la preghiera del Padre nostro: venga il tuo regno! Venga il tuo regno in noi, si manifesti in noi, diventi godibile da noi, conquisti i cuori di tutti, perché tutti si ritrovino nella medesima lode dell’amore di Dio. E come il salmo celebra la cosa? Dicendo: “appaga il desiderio di quelli che lo temono”, che l’antica versione greca e latina rende con “farà la volontà di quelli che lo temono”. Non è più l’abituale richiesta di compiere noi la volontà di Dio, ma la singolare constatazione che Dio fa la volontà di coloro che a lui si affidano.  Qui si esprime tutto l’amore di Dio, qui si mostra la verità del suo Nome, come il salmo riprende dalla rivelazione sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” [in latino: patiens et multum misericors]. Non sono qualità di Dio, insieme ad altre; no, è la verità di Dio, è Dio in se stesso. E Gesù è venuto a far conoscere proprio il volto di Dio, quel volto, il vero volto di Dio. Se si pensa che il salmo 145 è composto di 150 parole, non si può non vederlo come il salmo conclusivo di tutto il salterio (a parte la dossologia finale dei salmi 146-150) e così non si può non constatare che tutta la preghiera dell’uomo tende a far entrare l’uomo nella benedizione del regno: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25,34). Quel regno che Gesù dice essere il ‘ristoro per la vostra vita’.

Se non esiste via d’uscita alla fatica del vivere, è però possibile aprirsi alla grazia che la feconda. In effetti, se consideriamo il racconto della creazione nel libro della Genesi, scopriamo che Dio: “cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto” (Gn 2,2). L’espressione ‘cessare da ogni lavoro’ corrisponde a ‘riposare’. Ora, ‘riposare’, ‘riposo’, non sono concetti negativi, ma intrinsecamente positivi. Ciò che rende completa la creazione è quel ‘riposo’, sinonimo di pace, armonia, felicità, pienezza, vita eterna. Il termine greco usato nella Bibbia dei LXX per rendere ‘riposo’ è lo stesso che viene usato per le parole di Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. Il ‘ristoro’ che dà Gesù è quel ‘riposo’ che caratterizza la completezza della creazione. Ciò significa che Gesù costituisce davvero il compimento della nostra umanità; che in lui la nostra umanità si compie, si realizza e si ‘riposa’ (cfr. Mt 5,5). Non solo, ma che le caratteristiche del cuore di Gesù, mitezza e umiltà, costituiscono le coordinate di ogni possesso in pienezza, la cifra dello splendore dell’amore che ‘soddisfa’ il cuore dell’uomo. La dolcezza e leggerezza della legge evangelica derivano da qui, sebbene all’inizio e ad uno sguardo superficiale la legge evangelica appaia esigente e pesante, come del resto altri passi del vangelo dichiarano senza reticenze.

La colletta poi riassume in tre caratteristiche l’andare a Gesù: ‘rendici poveri, liberi ed esultanti’. Poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione del volto di misericordia di Dio per noi, liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione ed esultanti per tutto ciò che la consente. Ma giustamente ‘a imitazione del Cristo tuo Figlio’ perché, per quanto si sia desiderosi dei segreti di Dio, non si è disposti a riconoscerli dove si trovano, ad accettarli per quello che sono, a goderli per quello che comportano. Stare con il Signore Gesù è il modo migliore per riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi segreti e non illudere il nostro cuore. Per questo, per quanto strana suoni l’espressione, viene aggiunto ‘per portare con lui il giogo soave della croce’. Nulla di più contrastante tra ‘soavità’ e ‘croce’. Ma quel ‘con lui’ cambia tutto.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(12 luglio 2020)

___________________________________________________

Is 55,10-11;  Sal 64;  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

___________________________________________________

Per tre domeniche consecutive verranno proclamate le parabole del regno dal capitolo 13 del vangelo di Matteo. La prima parabola, quella del seminatore, non è semplicemente la prima di una serie, ma quella che fa da perno, quella secondo la quale è da intendere tutta l’attività di predicazione di Gesù. La comprensione di questa parabola deriva, più che dal racconto stesso, dal contesto in cui viene proclamata.

Le parabole del regno sono l’illustrazione di quello che Gesù ha inteso dire ai suoi familiari rifiutandosi di accondiscendere alle loro aspettative: “Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre»” (Mt 12,48-50).  Gesù pensa a legami oltre quelli di sangue; a legami che parlino del mistero dell’amore di Dio che si è appressato all’uomo nella sua persona, stando uniti alla quale si viene resi partecipi della stessa intimità tra il Figlio e il Padre, si arriva a godere della piena familiarità con Dio, tutti riuniti all’unica mensa del suo amore. È il mistero di questa nuova, singolare, intimità che Gesù racconta con le sue parabole.

Non solo. Ma nel dare ragione del perché solo ora viene svelato il mistero, Gesù annuncia: “Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!” (Mt 13,16-17). Tutto si fa comprensibile se si partecipa a questa beatitudine e si può partecipare a questa beatitudine se ci si colloca nella storia degli uomini che da sempre hanno ricercato verità e sapienza. Se il cuore non accoglie le parole di Gesù come risposta agli aneliti più profondi e pressanti che gli uomini migliori da sempre hanno coltivato, non può coglierne la densità, la potenza, la grazia. Tanto più che Gesù, parlando a gente che conosceva le Scritture, ma che restava dura di cuore, cita la famosa profezia di Isaia: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito (Is 6,9-10).

Ho osservato che questa stessa citazione di Isaia ricorre due altre volte nel Nuovo Testamento: in Gv 12,40, alla fine del ministero pubblico di Gesù quando, a parte alcuni che credono, la sua predicazione è rifiutata e subito dopo inizia il racconto della passione; e in At 28,26-27, alla fine della vita di Paolo quando il testo annota che la sua predicazione è contrastata. Quelle parole, che il profeta Isaia sente dopo la sua visione della maestà di Dio e che sancisce la sua vocazione di profeta, sono il suggello della durezza di cuore dell’uomo che avrà bisogno della tragedia della storia per ritornare al suo Dio. Non sono però parole di condanna, ma di esortazione sia al profeta, che è invitato a credere nella potenza salvatrice di Dio sia al popolo che non viene rifiutato perché recalcitra.

In questo senso, la prima lettura di oggi, se considerata nell’insieme dei cap. 54 e 55 di Isaia, che concludono il cosiddetto Libro della consolazione, rivela chiaramente quali sono i sentimenti di Dio davanti alla durezza di cuore del suo popolo, sentimenti che noi possiamo attribuire al seminatore della parabola di Gesù: “In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore…. Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia… Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 54,8.10; 55,8-9).

L’esempio che segue, quello della pioggia, che non cade sul terreno senza farla germogliare, è l’illustrazione della potenza della parola del Signore che si esprimerà con la promessa, mantenuta: “Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace” (Is 55,12). La generosità del seminatore, l’abbondanza del suo seminare, il suo non temere di sprecare il seme, alludono alla fedeltà di Dio alle sue promesse comunque. La parabola è narrata sottolineando la stessa azione di Gesù che esce e del seminatore che esce: “Quel giorno Gesù uscì di casa … Ecco, il seminatore uscì a seminare”.  Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la Sua parola nei cuori, ma seminando Sé, Sua Parola Vivente, nei cuori. Quello che Giovanni riassume in due espressioni paradigmatiche del segreto di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito …” (Gv 3,16) e “Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 12,51-52). Il seminatore esce per svelare il volto del Padre che è misericordia per noi e per riunirci alla mensa del suo amore. Così c’è identità tra il seminatore e il seme, perché Colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. E questo è il significato profondo della parabola. L’eredità del Regno è proprio Lui, quel Figlio dell’uomo che riunisce la famiglia degli uomini nella gioia del Padre che vuole la comunione con i suoi figli.

Non si può non tener conto che la rivelazione dell’amore del Padre avviene nello scandalo della passione di Gesù. Tutto ciò che si riferisce al Regno (il che significa: tutto ciò che ha attinenza con il compimento dei desideri profondi del cuore nella vita) passa per l’accettazione della debolezza di Dio che è più forte della forza degli uomini. Forse non riusciamo più a cogliere il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Riprendendo quello che dicevo sopra, siamo ancora capaci di sentire la verità di quel “beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita che Gesù ci offre: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50)? Con le parabole del Regno Gesù ci invita appunto alla sua comunanza di vita con il Padre, che è amore per noi, come ci fa pregare la colletta per tutta l’umanità: “Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola …perché riveli al mondo la beata speranza del tuo regno”.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(19 luglio 2020)

___________________________________________________

Sap 12,13.16-19;  Sal 85;  Rm 8,26-27;  Mt 13,24-43

___________________________________________________

La parabola della zizzania risponde alla domanda che tutti angoscia: perché il bene è mescolato al male? Gesù, quando racconta le parabole, spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui, l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i significati nascosti. Il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo, non è mai dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di intimità con Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio. La spiegazione della parabola in effetti non racconta semplicemente l’evento che succederà alla fine della storia, ma illustra la prospettiva nella quale vivere il presente della storia, segnata dalla presenza dei malvagi e dall’imperversare del male. Come convivere con i malvagi è domanda più pertinente del perché ci sono i malvagi (i servi della parabola chiedono al padrone da dove viene la zizzania). L’unico buon atteggiamento possibile resta quello del padrone: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”.

In effetti, per noi non è importante sapere quello che avverrà alla fine, ma è importante cogliere cosa sta dietro alla volontà del padrone di lasciar crescere insieme grano e zizzania. Sarà su quella ‘volontà’ che i buoni potranno misurare la loro bontà condividendo la pazienza del padrone verso tutti. Il regno dei cieli, come la parabola illustra, sta esattamente nello splendore di quella pazienza condivisa con Dio. E per mostrare come la pazienza abbia un impatto straordinario nella vita dei cuori Gesù racconta le parabole della senape e del lievito: da una realtà minuscola deriva una potenza straordinaria. Il regno dei cieli è una questione di fede: la fiducia nei sentimenti di Dio! Quando Gesù dice: ‘il regno dei cieli è simile a’, vuole squadernarci l’orizzonte della fede.

La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, ha un modo singolare di presentare la questione che angoscia i giusti: “Perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al male?”. Dopo aver ricordato che Dio ha compassione di tutti perché tutto può e che chiude gli occhi sui peccati degli uomini aspettando il loro pentimento (Sap 11,23) il testo dichiara: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento”. ‘Tale modo di agire’ fa riferimento all’indulgenza e alla mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’ o, ancora meglio, ‘il giusto deve essere ricco di umanità’. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana.

Il salmo responsoriale 85 riprende, a commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, fedele e misericordioso, espressioni che sono tratte dalla rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai, dopo il peccato del vitello d’oro, raccontata nel cap. 34 dell’Esodo.  Se il salmo ricorda la misericordia di Dio, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “O Dio, gli arroganti contro di me sono insorti e una banda di prepotenti insidia la mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi” (Sal 85,14). L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza …’. È esattamente il contesto della parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto della sua pazienza, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la forza di Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere la potenza di amore paziente di Dio.

Il Signore vuol fare degli uomini i figli del Regno, ma insieme, di nascosto, è all’opera anche il Maligno che invece vuole renderli suoi figli. L’esito della contesa tra l’uno e l’altro è scontato: prevarrà il Regno di Dio. Il problema nasce dal fatto che, se il Regno di Dio è reale per noi e dentro di noi, non è ancora però manifesto, per cui l’uomo si sperimenta come un campo di tensioni contrapposte, che la venuta di Gesù rende ancora più evidenti.

All’uomo giusto il malvagio non interessa per il giudizio, ma per la segreta provvidenza che comporta. Là dove il male imperversa si acuisce la sofferenza, ma chi accoglie la sofferenza degli altri permette alla propria umanità di splendere. Solo così il mondo è passibile della rivelazione del Regno e se il malvagio non viene meno è solo perché, nella pazienza di Dio, il bene risplenda nella scoperta di nuove dimensioni di umanità, cosa che fa presagire la presenza accompagnatrice di Dio nel mondo.

Le altre due parabole rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno? La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. La parabola del lievito mostra come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza e la comprensione delle Scritture, la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi e dice che la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre storia sacra.

Così, davanti al dramma del male che non ci abbandona, resta la fiducia ancora più grande nella potenza di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui. Solo coloro che preferiscono i pensieri di Dio ai propri (“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, Mt 11, 25) possono confidare sulla forza paziente di Dio, resi partecipi dei segreti di amore per gli uomini nel Signore Gesù. Lo preghiamo con l’orazione sui doni: “… ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. Come a dire: sono graditi a Dio solo i doni che procedono da quella ‘forte pazienza’ nel rispondere con il bene al male perché a tutti sia reso noto il mistero dell’amore di Dio per gli uomini.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(26 luglio 2020)

___________________________________________________

1Re 3,5.7-12;  Sal 118;  Rm 8,28-30;  Mt 13,44-52

___________________________________________________

Per cogliere la portata di rivelazione delle parabole di oggi mi rifaccio a due altri passi del vangelo che riportano due affermazioni di Gesù: “Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21) e “di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10,42). La sottolineatura è la seguente: il cuore cerca il suo tesoro; un solo tesoro conta! L’affermazione non riguarda solo la cosa, cioè il tesoro, ma anche il cuore, vale a dire: il cuore è strutturato per godere del tesoro che lo riempie.

L’accento delle parabole di oggi non è posto sulle cose (tesoro o perla) ma sull’azione della scoperta. Come se Gesù dicesse: il regno dei cieli è simile a quando un uomo scopre un tesoro e pieno di gioia vende tutto quello che possiede per impossessarsene. Così, l’uomo non è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli, ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli riempie il cuore. Il Regno non si contrappone a nulla di per sé. Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente, la perla di ‘grande valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso degli altri beni. È l’unica cosa di cui c’è bisogno (da intendere: l’unica cosa che può riempire il cuore, l’unica cosa che durerà per sempre, l’unica cosa che dà valore a tutto il resto e in funzione della quale tutto il resto è vissuto). Saper cogliere questo è frutto di sapienza e la colletta fa pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo Regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.

Se percorriamo i libri sapienziali, che spesso usano l’immagine del tesoro per descrivere la sapienza, scopriamo una cosa assolutamente singolare. Nella tradizione profetica di Israele il timore del Signore è calcolato come il tesoro dell’uomo retto (cfr. Is 33,6) e quando il libro del Siracide riprende il tema del timore del Signore così lo descrive: “Il timore del Signore è come un giardino di benedizioni e protegge più di qualsiasi gloria” (Sir 40,27). Il tesoro comporta ogni tipo di benedizioni e prevale su ogni altra possibile gloria. È quello che s. Paolo descrive nella sua esperienza di incontro con Gesù là dove riporta: “Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. E Dio, che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2Cor 4,5-7).

Ecco la scoperta singolare. Il tesoro non è solo una ricchezza, ma una potenza, la potenza di un amore che conquista e trascina, potenza che è riferita all’amore misericordioso di Dio che, prevalendo su tutto, rende libero il cuore con la gioia che dona. Non si tratta evidentemente di una gioia soddisfatta, ma di una gioia che fa attraversare tribolazioni e prove pur di non perdere mai l’amore, pur di far arrivare a tutti l’amore.

La parabola della rete completa l’immagine del tesoro come potenza perché rimarca che solo alla fine verrà esaltato l’amore del Signore, per cui ciò che si richiede ai discepoli è la perseveranza sino alla fine. Come è detto di Gesù prima della sua passione: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1), intendendo: fino a che quel suo amore si manifestasse in tutto il suo splendore. E a questo collego la finale del brano di oggi quando Gesù dichiara: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Sarebbe suonato più logico dire cose antiche e cose nuove. In gioco qui non c’è la somma dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma l’azione dello Spirito che guida a tutta la verità (cfr Gv 16,13). Io intendo: non si tratta di fare memoria di quanto ho in precedenza imparato, ma di aprire ogni evento che succede per fare esperienza dell’amore del Signore in modo che la novità dell’evento si innesti nella testimonianza di cui custodisco la memoria. Anzi, serva a ravvivare quella memoria, a confermarla, ad accrescerne la vivacità e l’intensità.

Quella memoria è frutto di una sapienza dall’alto, come Salomone domanda a Dio, che attiva il principio del discernimento proprio in vista del tesoro del Regno dei cieli, godibile per il nostro cuore. Non per nulla, s. Antonio il Grande, padre del monachesimo egiziano, diceva che il discernimento è la virtù essenziale, la più fondamentale. La domanda finale di Gesù ai discepoli allude proprio a questa operazione del cuore: avete afferrato che cosa le mie parole abbiano a che fare con la vostra vita? Allora unirete la comprensione all’ubbidienza e all’azione, nella fiducia in me che vi parlo e consegno a voi i miei segreti, che diventeranno i vostri stessi segreti.

Ritornando al racconto delle parabole, sottolineo di nuovo che il punto nevralgico per la loro comprensione è dato dalla gioia della scoperta, dell’incontro. Tutta l’azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente della scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione significativa a livello dell’orientamento della propria vita, sebbene le parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.

Alla dinamica di ricerca, anzitutto. Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono sufficienti, al cuore dell’uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare il suo desiderio.

Alla dinamica di compravendita. Ciò che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno, insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si deve disfare di una cosa per comprare l’altra. È inevitabile.

Alla dinamica di rischio. Più grosso è l’affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia, percepita così profonda da cacciare ogni timore, con un cuore mai sazio del suo Signore come mai sazio di vita e di amore.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XVIII Domenica

(2 agosto 2020)

___________________________________________________

Is 55,1-3;  Sal 144;  Rm 8,33.37-39;  Mt 14,13-21

___________________________________________________

Il brano evangelico incastona l’episodio della moltiplicazione dei pani nel movimento di compassione di Dio per l’uomo: “e sentì compassione per loro”. Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni gesto sta la sua compassione, che rimanda direttamente all’amore sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il suo Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo splendido commento a Ezechiele: “Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”. Proprio come proclama il salmo 144 riportando la rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature”. È a partire da quella ‘passione’ che Gesù si ‘muove nelle viscere’ davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli uomini.

Ed è per aver percepito quella ‘passione’ che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione …? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”.

Quando il profeta Isaia, sempre percependo quella passione di Dio per il suo popolo, riassumerà l’invito di Dio per gli uomini alla comunione con lui e dirà: “Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”. Il desiderio di Dio e dell’uomo si richiamano. Come Dio invita l’uomo a venire a lui, così l’uomo grida a Dio perché venga a lui. Tutta la Scrittura è modulata sul grido del desiderio di Dio e dell’uomo perché tornino in comunione e tornino a godersi a vicenda. Dio dà la vita e l’uomo, che vi anela angosciosamente, da lui la può accogliere. L’ascoltare riguarda sempre l’ascoltare una ‘parola viva’ per avere la vita. L’ascoltare comporta così l’immagine corrispondente del mangiare perché allusivi di un’unica realtà: avere la vita. Il Signore sa saziare la fame dei suoi figli! Eppure, non risulta sempre evidente questa capacità di Dio per noi tanto che ha bisogno di invitarci insistentemente al suo banchetto, ha bisogno di sollecitarci a venire al suo banchetto. Le letture di oggi si intersecano per illustrare appunto il pressante invito di Dio. Si mangia per vivere.

Nello stesso capitolo 55, Isaia riporta la parola di Dio: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (v. 8). Il punto è esattamente questo. Quando Dio fa rilevare che il suo pensiero non è come il nostro vuol sottolineare che Lui è paziente e misericordioso con gli uomini, mentre gli uomini, con se stessi e con i loro simili, non lo sono; Lui è buono verso tutti, comunque, mentre gli uomini sono buoni ogni tanto e verso qualcuno piuttosto che verso altri. Se applichiamo la cosa al nostro cuore ne deriva che, se anche si ritrova cattivo, può sempre sperare nella bontà di Dio che non lo respinge; se anche si condanna, Dio può salvarlo, basta che abbandoni la sua iniquità. Tenendo conto di come sono fatti i nostri cuori, che si confondono con le loro azioni passate, proprie e altrui, incapaci di aprirsi al futuro come allo spazio di verità e di bene offerto loro da Dio, questa verità è estremamente consolante, è vivificante per i cuori. Proprio come dice s. Giovanni nella sua lettera: “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20). La parola del Signore, ascoltata nel cuore, porta a gustare l’alleanza di Dio nella fioritura della propria umanità e l’alleanza di Dio è compiutamente rivelata nel Signore Gesù Cristo, colui che moltiplica i nostri pani condividendoli con tutti.

Se Gesù dice agli apostoli “date voi loro da mangiare” intende cooptare i discepoli nella sua stessa ‘compassione’. La cosa è stata interpretata dai Padri come un affidare loro il compito di spiegare le Scritture come un pane spezzato per nutrire l’intelligenza dei fedeli. E l’intelligenza dei fedeli resta nutrita appena il cuore si apre a quella rivelazione: i pensieri di Dio sono diversi dai nostri, il suo amore ci raggiunge comunque, il suo perdono, cioè la comunione con Lui, ci è sempre offerto. E questo è il banchetto a cui siamo invitati. Non per nulla tutto il brano evangelico ha una forte coloritura eucaristica. I verbi che introducono il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci sono i verbi tipici della celebrazione eucaristica: prese i pani, li benedisse, li spezzò, li diede. E l’Eucaristia costituisce il momento culminante dell’offerta di comunione da parte del Signore all’uomo tanto da renderlo un tutt’uno con Sé. È questa comunione che sazia il cuore dell’uomo.

Sapremo dal seguito del racconto, tenendo conto soprattutto della narrazione di Gv 6, che i discepoli non hanno compreso. Non è così agevole entrare nei segreti di Dio, pur intuendo che quei segreti rispondono alle attese dei nostri cuori. Il miracolo avviene nella sua materialità, vale a dire Gesù ha la capacità di compierlo, l’effetto però non è ancora quello sperato da Gesù. La gente non interpreta secondo i pensieri di Dio, ma secondo i propri e non s’avvede che quel pane distribuito è segnale della consegna di Dio agli uomini perché gli uomini vivano da figli di Dio. Gesù, dopo il miracolo, si ritrova solo. Quando allora tale mistero diventerà accessibile? Lo riferisce s. Paolo: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Quando, nell’amore del Signore per noi, che ci ha rigenerati nel perdono, sapremo accogliere con gratitudine la vita; quando non permetteremo a nulla, nemmeno ai nostri nobili sensi di colpa, di sopraffare il nostro cuore al di sopra dell’amore del nostro amato Signore, che a noi si è consegnato.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(9 agosto 2020)

___________________________________________________

1 Re 19,9a.11-13a;  Sal 84;  Rm 9,1-5;  Mt 14,22-33

___________________________________________________

Quanto all’esperienza di fede dei discepoli, potremmo interpretare sinteticamente i brani proposti oggi dalla liturgia in questo modo: la protezione di Dio non elimina le tempeste, ma è nelle tempeste che la si sperimenta! La sperimenta chi corre il rischio dell’obbedienza e rinuncia alle proprie sicurezze. Probabilmente, l’evangelista Matteo vuole sottolineare una caratteristica fondamentale dell’esistenza cristiana: la fede dei discepoli è sempre ‘poca fede’ (Gesù chiama Pietro ‘uomo di poca fede’), cioè una miscela di coraggio e paura, di ascolto del Signore e angoscia per il vento contrario, di fiducia e di dubbio. Tra l’altro, è singolare che la scena di Pietro che vuole camminare sulle acque e che poi grida al Signore di salvarlo sia descritta con le espressioni del salmo 68/69, che è il salmo della passione.

Fin dall’antifona di ingresso la liturgia esprime la supplica del credente tormentato dalle afflizioni e dalle prove: “Sii fedele, Signore, alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri” (Sal 73/74,20.19). La prima lettura presenta forse il compimento più alto dell’esperienza di un credente: l’incontro ravvicinato con Dio. Il racconto si premura di precisare due situazioni, una esteriore e una interiore. Il profeta Elia è sfuggito per un soffio alle grinfie della regina Gezabele che lo vuole morto. È impaurito e depresso, non regge più. Riceve però misteriosamente il cibo che gli consente di attraversare il deserto e arrivare al Sinai, al luogo fondativo dell’alleanza di Dio con il popolo di Israele. Il popolo ora ha abbandonato l’alleanza e il profeta si sente l’unico combattente in grado di restare fedele all’alleanza e farla durare nel tempo. Il profeta è invitato a uscire, sul monte, alla presenza di Dio che passa nella voce di un silenzio sottile, come si dovrebbe rendere letteralmente l’espressione tradotta come ‘il sussurro di una brezza leggera’. Stranamente però il racconto non indugia sulla sublimità di quell’esperienza, ma insiste come sul rimprovero di Dio al profeta: “Che cosa fai qui, Elia?”, svelandogli l’inconsistenza del suo pensiero interiore. No, lui non è l’unico testimone dell’alleanza. Il Signore si è riservato i suoi testimoni senza l’aiuto del profeta. E viene rimandato al popolo: sarà questa obbedienza a sottolineare la verità della ‘visione’. Assolutamente determinante per il significato della scena la descrizione della visione come il Signore che passa davanti al profeta, sottintendendo che il profeta vede le spalle, come Mosè al Sinai e come risalta dalla descrizione del passo parallelo di Marco del vangelo di oggi. Lo stesso verbo greco ricorre nei tre brani.

La situazione in effetti si ripete nel brano evangelico. Gesù ha appena sfamato la folla e, almeno secondo il racconto parallelo di Giovanni, temendo che la gente venisse per farlo re e intuendo il pericolo dell’esaltazione messianica prima del tempo, costringe i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva. Lui si ritira solo a pregare sul monte e vi resta fino a notte inoltrata. Nel vangelo di Matteo è molto rara l’indicazione che Gesù si ritiri a pregare e qui dunque è sottolineata l’estrema importanza della situazione. Così, quando torna dai discepoli camminando sulle acque, vedendoli alle prese con un forte vento contrario che impediva loro di arrivare alla meta, il racconto allude a una rivelazione speciale. La descrizione dell’episodio ricalca le apparizioni del Risorto quando Gesù si rivolge ai discepoli impauriti: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Per un ascoltatore antico del vangelo l’espressione ‘sono io’ faceva risuonare nelle orecchie la voce di Dio al roveto ardente che parla a Mosè svelandogli il suo nome: Io-sono!

Ma la rivelazione speciale non consiste nella sottolineatura della divinità di Gesù, come poi i discepoli confessano: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”. La sottolineatura sta nel modo di rapportarsi di Gesù a Pietro e di Pietro a Gesù. Quando Pietro, focoso come sempre, vuole ricevere da Gesù il comando di camminare anche lui sulle acque, Gesù glielo permette ma nell’eseguire il comando Pietro si impaurisce per il vento e affonda. Allora grida: “Signore, salvami!”. E subito Gesù stende la mano, lo afferra e lo riporta sulla barca. Quando sono tutti sulla barca, il vento cessa e la barca torna a navigare sicura e veloce. La rivelazione speciale sta nel presentare la divinità di Gesù nella sua premura di salvatore, nel salvare dall’abisso il suo discepolo e nell’accompagnare i suoi nella traversata, che in realtà non c’è stata, perché sono rimasti sullo stesso versante del lago, da dove erano partiti. Questi è il Figlio di Dio e contemporaneamente il Figlio dell’uomo, che si premura di condurre i suoi alla conoscenza del Dio vero, rendendoli servi per tutti di quell’amore di cui hanno fatto esperienza. L’esperienza è vivissima, ma mai compiuta, tanto che alla prossima tempesta si rinnoveranno la paura e il dubbio, ma per sperimentare sempre più profondamente l’intervento salvatore del proprio Signore, conosciuto sempre più intimamente.

Un antico inno, tramandato nelle Odi di Salomone, un’opera cristiana di stampo gnostico della fine del primo secolo, commenta così l’episodio della camminata sulle acque: “Rivestite dunque il nome dell’Altissimo e conoscetelo; voi passerete senza pericolo, mentre i fiumi saranno a voi ubbidienti. Il Signore con la sua parola ha gettato un ponte su essi; camminò e li attraversò a piedi. Le sue impronte rimanevano nell’acqua e non si guastarono; erano come legno, fissato per bene. Di qua e di là si alzavano le onde, le orme però di Cristo, Signor nostro, rimanevano e non erano cancellate né guastate. Un sentiero fu posto per chi dietro a lui attraversa, per chi col passo della sua fede conviene e il suo nome adora” (Ode 39).

La denominazione del ‘Dio che passa’, come Gesù fa mostra di assumere, rivela il fatto che Dio può essere conosciuto solo stando dietro, solo seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo osservando la sua parola. Ed è quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire Cristo, che rivela al mondo lo splendore dell’amore di Dio. E sarà solo seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà lo splendore della presenza di Dio in questo mondo.

Noi tutti siamo invitati a identificarci con Pietro, con le sue generosità e debolezze. Ci si può appoggiare sul Cristo più e meglio che su qualsiasi realtà fluida di questo mondo. È nella fiducia di quel ‘se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque’ che si intraprende il cammino spirituale di una vita. Ma c’è da vincere la paura che agita, paralizza, chiude, sommerge. E allora non si parla più semplicemente, come se si trattasse di una provocazione, di una sfida, di una competizione; si comincia a gridare: è il tono della preghiera quando è sincera. Non c’è più ombra di sfida, di pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiamo una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al nostro cuore come si è rivelato a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà …” (Es 34,6). Il salmo responsoriale, nell’antica versione greca, così interpreta: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore, in me: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli”.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2020)

___________________________________________________

Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

___________________________________________________

Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa della sua assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia visibile a tutti! E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Guardando alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, i fedeli non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”, e ripetere con il poeta: “Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

In lei i credenti possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). È la lettura evangelica della messa vespertina nella vigilia. Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Come Gesù ha detto di sé: “viene il principe del mondo; in me non ha nulla” (cfr. Gv 14,30). In lui c’è solo la parola del Padre, lui è la Parola del Padre, niente che sappia di questo mondo abita in lui e quindi il diavolo non trova nulla di suo in lui e così lui può esprimere in tutto il suo splendore l’amore infinito del Padre per noi. Così è della madre di Gesù.

Se poi colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio, racchiusa nella sua parola, di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa maternità spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Da interpretare: ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il proprio Dio. Per questo la chiesa prega oggi la Vergine gloriosa dicendo con l’orazione alle offerte: “… per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”. Così come è stato per lei.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XX Domenica

(16 agosto 2020)

___________________________________________________

Is 56, 1.6-7;  Sal 66;  Rm 11, 13-15.29-32;  Mt 15, 21-28

___________________________________________________

Il tema della liturgia di oggi è l’ingresso dei pagani nell’alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l’annuncia il profeta Isaia: “… il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. Con il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani e eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le nazioni’.

A dire il vero, siamo piuttosto abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l’alleanza del Signore, non tutto di me l’ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l’insieme di me deve poter godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui attraverso il pentimento. Se un pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al Signore, e così un mio peccato, una mia debolezza. “Tutti i confini della terra” del salmo 66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.

Il brano del vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell’Alleanza non con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L’ora però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di Israele. Ma allora perché Gesù cede all’insistenza della donna, come se lui fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con la richiesta del centurione (cfr. Mt 8), che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una inopportunità che tende a suonare ai nostri occhi, oltre che sgradevole, dura e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo cuore, a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della salvezza, che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto messianico il pane sarà così in sovrabbondanza che lei si può accontentare delle briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli.

La particolarità dell’atteggiamento della cananea sta in quel grido ‘Signore figlio di Davide’ dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani erano chiamati ‘cani’ dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.

La fede della cananea proveniva poi dall’urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l’amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel ‘profeta’ di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare soddisfazione?

L’aspetto misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l’una è custode dell’altra, l’una dice la sincerità dell’altra. Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della propria indegnità e l’urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L’insincerità del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l’annacqua, è la pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell’israelita ‘fariseo’ che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla e il miracolo non avverrà.

Ci si avvicina a Dio più si ha coscienza di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai propri guai. Quando finiremo di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore. Manifestazione che avverrà secondo l’invocazione dell’antica colletta: “O Dio, che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio”. La chiesa insegna a pregare con insistenza presso il Signore al fine di provare nel cuore, non semplicemente l’amore, ma la dolcezza del suo amore, perché sa che non è agevole credere che i beni del Signore, non solo rispondono ai nostri desideri, ma li precedono e li sopravanzano! Sarà quella ‘dolcezza’, gustata almeno una volta, a convincere il cuore a stare nella pazienza e nella fiducia, a dispetto della nostra evidente indegnità.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(23 agosto 2020)

___________________________________________________

Is 22,19-23;  Sal 137 ; Rm 11,33-36;  Mt 16,13-20

___________________________________________________

Risuona potente l’affermazione di Paolo ai Romani: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Non però perché sono incomprensibili o oscuri, ma perché rispondono alla grandezza di un amore così impensabile, che il cuore dell’uomo stenta a riconoscere. Nel brano di oggi risuona l’eco della lode di Gesù al Padre: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). In primo piano non sta l’opera dell’uomo, ma l’azione di Dio che si manifesta nel suo amore per l’uomo. Gesù testimonia proprio questa azione della manifestazione di Dio agli uomini. Solo coloro che non alzano barriere di pretese o rivendicazioni, solo i piccoli, coloro che sono disposti ad accogliere con fiducia e stupore, solo questi possono partecipare alla gioia di quella manifestazione. Di questa beatitudine Pietro partecipa e, con lui, tutta la chiesa.

Nel colloquio a Cesarea con i discepoli, quando chiede loro che cosa pensa la gente di lui e che cosa loro pensino di lui, Gesù usa per l’ultima volta il titolo di ‘figlio dell’uomo’. Pubblicamente non lo userà più, fino a riprenderlo davanti al Sommo Sacerdote in occasione del suo processo davanti al Sinedrio (cfr. Mt 26,64), a significare il contenuto messianico di quel titolo. Ma nessuno è ancora pronto a cogliere il contenuto di rivelazione di quel titolo e per evitare malintesi Gesù non lo usa più. In effetti, dopo la confessione di lui come il Messia, Gesù ingiunge ai discepoli di non parlare, di non dire. È confessato come Messia, ma non è ancora il momento di dichiararlo pubblicamente.

Cesarea di Filippo è la città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon, nell’estremo nord di Israele. Prima di scendere a Gerusalemme, Gesù, che aveva raccolto attorno a sé i suoi apostoli, li interroga. Per la gente io chi sono? Nella loro risposta i discepoli alludono alla grande attesa che abita i cuori: verrà il messia e ci libererà. Non era importante definire la persona del messia, era sufficiente che fosse definito il ruolo del messia. La gente si ferma qui. Sono riprese le descrizioni scritturistiche del messia, cominciando dall’affermazione di Erode: costui è il Battista redivivo, interpretato come l’Elia che deve venire. E Matteo aggiunge anche il nome del profeta Geremia per sottolineare il destino di sofferenza del messia, come poi Gesù dirà poco dopo. Gesù però insiste con i discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. La risposta di Pietro, portavoce dei suoi compagni, fa un passo avanti rispetto alla gente; cerca di cogliere la persona del messia senza fermarsi semplicemente al ruolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nella sua professione di fede c’è la confessione di Gesù come l’Eletto, l’Unico, il Figlio Unico, l’Unigenito, nella sua unicità di relazione con Dio; ma anche nella sua unicità di relazione con gli uomini, per i quali è l’Inviato, il Figlio prediletto che rivela l’amore del Padre, l’Unico che può rivelare il vero volto di Dio. Tutto questo esprime la sua confessione di fede ed è per questo che Gesù lo proclama beato in quanto quella percezione non può derivare dalla carne e dal sangue, dalla sua esperienza umana, ma deriva dall’iniziativa stessa di Dio che al suo cuore si è mostrato.

Allora Gesù fa una promessa a Pietro: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia). Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona. L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’, Pietro (nel racconto di Matteo, fin dall’inizio Simone è chiamato Pietro; perciò non si deve vedere in questo evento l’attribuzione del nome Pietro a Simone, bensì la spiegazione del fatto che Gesù l’abbia fin dall’inizio chiamato così) indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce, ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile. Si può ravvisare nella promessa di Gesù l’eco di Is 28,14-18, dove il profeta annuncia la messa in opera della pietra angolare per la ricostruzione di Gerusalemme e del Tempio, rovesciando l’alleanza con gli inferi dei capi di Israele. Per alleanza con gli inferi o con la morte si intendeva il patto scellerato dei capi di Israele con l’Egitto in funzione antiassira, cosa che ha solo accelerato il disastro. Ma Dio non viene meno alle sue promesse e prepara la nuova pietra angolare, che poi è Gesù stesso, confessato appunto da Pietro come Messia.

Nel giudaismo il legare e sciogliere alludeva al proibire e permettere secondo la Legge. Qui invece assume il significato dell’escludere e dell’ammettere, nel senso che non saranno più gli scribi (a loro sono tolte le chiavi, cfr. Mt 23,13) a far entrare nella comunità dell’alleanza, ma saranno i discepoli che allargheranno alle genti la possibilità di entrata. Allude anche al potere della confessione di fede nel Signore Gesù che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. Con la conseguenza che la disposizione di legare/sciogliere riguarda il movimento profondo del cuore davanti al prossimo. Come a dire: se sciolgo il fratello dal suo peccato verso di me, anche il mio peccato sarà sciolto davanti a Dio. Se lego il peccato del mio prossimo, anche il mio resterà legato davanti a Dio. È il mistero della dinamica del perdono, forse la dimensione evangelica più marcata nell’insegnamento di Gesù.

È però anche il mistero della ‘conversione’ che ci ottiene la riconciliazione con Dio, nel Signore Gesù, garantita dalla Chiesa. Come se la Chiesa ci ripetesse sempre: il regno dei cieli è davanti a voi; Colui che Dio ha designato per mostrarvelo, per aprirvelo, per introdurvici, è qui davanti a voi. Lo potete toccare, è finalmente alla vostra portata. Niente e nessuno può rapirci al Signore: questo significa che le porte degli inferi non prevarranno contro la chiesa. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(30 agosto 2020)

___________________________________________________

Ger 20, 7-9;  Sal 62;  Rm 12,1-2;  Mt 16,21-27

___________________________________________________

Le letture di oggi rivelano la dimensione insospettata dell’esperienza della fede in Gesù. Potremmo collegare il severo comando di Gesù a Pietro: ‘stammi dietro, non davanti’ all’esperienza drammatica del profeta Geremia: ‘mi hai fatto violenza e hai prevalso’, compresi nell’ottica di Paolo che scrive alla comunità di Roma: ‘non conformatevi al mondo, trasfigurati secondo l’uomo nuovo in Cristo’.

Cosa c’è in gioco nella fede in Gesù? Guardiamo a Pietro. È proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “… vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33,23)]. Eco anche della disponibilità del popolo a seguire Dio prima che a capirlo: “Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: ‘Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto’” (Es 24,7). Da notare la successione dei verbi: prima eseguire, poi ascoltare. Nell’ascoltare è sottolineata la disponibilità a mettere in pratica, non la capacità di capire.

Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore, tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana, come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia ad ogni prospettiva mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT, al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso è la seguente: imparare a custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché la vita torni bella e desiderabile sempre.

Quando Gesù spiega ai discepoli il suo dover soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo; intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’ indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). La difesa porta sempre sulla vita che temiamo venga oppressa o mortificata; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio. La conformazione al mondo riguarda la difesa di sé come principio supremo. La trasfigurazione secondo l’uomo nuovo riguarda la consegna di sé per godere del dono di Dio.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo amore vale più della vita’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare se stessi per avere la vita in se stessi.

Nella reazione di Pietro vediamo la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo “tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne” (Sal 62). Ma è vero anche che, nel concreto delle situazioni, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio, finiamo sempre per riscegliere noi stessi misconoscendo il Signore. Con accenti drammatici, lo esperimenta anche il profeta Geremia: “Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome”. A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: “Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”, noi fin troppo bene riusciamo a contenere quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di godere la vita e impedendolo anche agli altri. Non rimaniamo conquistati, non ci lasciamo conquistare, come invece è avvenuto per Geremia, per Paolo. In noi prevale la paura.

L’espressione finale del brano, che normalmente si traduce con “e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”, nel testo di Matteo, che unisce la figura del giudice a quella del messia, acquista una valenza insospettata. È il giudizio sulla fede, non sulle opere. Letteralmente la frase andrebbe resa con “allora renderà a ciascuno secondo il suo modo di agire”, intendendo: il giudizio verterà sulla relazione con Gesù. In particolare, sullo star dietro e non davanti, sull’eseguire e non sul suggerire, sulla rinuncia a ogni prospettiva mondana pur di stare dalla parte di Gesù. In pratica, sull’aver rinnegato se stessi e aver portato la croce, sull’essere discepoli che non cercano la gloria del messia ma la compagnia del messia, comunque, nella capacità di discernere la volontà di bene di Dio, comunque.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(6 settembre 2020)

___________________________________________________

Ez 33,7-9;  Sal 94;  Rm 13,8-10;  Mt 18,15-20

___________________________________________________

Il brano evangelico di oggi e di domenica prossima è tratto dal capitolo 18 di Matteo, quello in cui viene delineata l’immagine realistica della comunità dei credenti, una comunità bisognosa sempre del perdono vicendevole. Il brano di oggi riguarda i peccati pubblici e quello di domenica prossima i peccati privati. Per meglio dire, oggi l’accento è sul peccato contro l’appartenenza alla chiesa e domenica prossima sul peccato che interessa le relazioni tra persone. In effetti, l’espressione che oggi si proclama: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …”, nei codici più antichi, il Sinaitico e il Vaticano del IV secolo, non è riportato l’inciso ‘contro di te’, a indicare che si tratta di un peccato pubblico. Matteo delinea la linea da seguire in questi casi. Si può pensare che per peccato pubblico si intenda una posizione eretica rispetto alla fede della Chiesa, una rivendicazione di liceità in contrasto con l’insegnamento comune quanto al comportamento. L’invito è: non abbiate fretta di condannare! Cercate in ogni modo di far emergere le intenzioni del cuore, date spazio all’ascolto, lasciate che le cose si possano giudicare con calma, prima a tu per tu, poi con qualche persona e infine pubblicamente. Lasciate che i cuori si possano spiegare. Solo dopo aver tentato tutte le vie, allora la chiesa può ricorrere alla sua autorità di ‘legare e sciogliere’, vale a dire di scomunicare e accogliere. Evidentemente, la presa d’atto che la persona in accusa sia riconosciuta fuori dalla chiesa non è un principio di autorità. L’autorità è solo quella di accogliere, di perdonare, di sostenere la conversione dei cuori. E quando tutto risultasse inutile rispetto alla pervicacia dei cuori, vale sempre il ricorso alla preghiera, vale a dire al mistero della benevolenza dei cuori che affidano a Dio altri cuori che solo Lui conosce.

Il richiamo al fatto che dove due o tre sono riuniti nel nome di Gesù, lì c’è lui, assume un valore molto più estensivo. Come a dire: la preghiera pura può scaturire da un cuore solo quando è pienamente riconciliato con i suoi fratelli. E la preghiera pura sempre ottiene. La frase non è tanto un invito alla preghiera, ma un invito a cercare sempre e comunque la riconciliazione, a dare sempre e comunque il perdono, realizzando in questo l’angolo di paradiso sulla terra: dove c’è comunione, Dio è glorificato come Padre di tutti. Come aveva potentemente intuito san Francesco chiamando ‘Porziuncola’, particella di paradiso, il primitivo luogo di abitazione con i suoi fratelli perché l’unica regola era il perdonarsi scambievolmente in tutto e in ogni cosa.

Solo così la preghiera che la chiesa innalza a Dio con la colletta risulta efficace: “ … guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione, perché a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l’eredità eterna”. Dove si respira vera libertà? Là dove il perdono vicendevole è il principio supremo del movimento interiore. La libertà è correlata alla eredità eterna nel senso che solo nella condivisione totale ai fratelli del perdono che si riceve da Dio è dato di gustare la dolcezza del regno. Quello che la sentenza del re esprimerà a coloro che si sono chinati sui loro fratelli: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”. Perché coloro che si chinano sui loro fratelli realizzano quello che Paolo dice ai credenti di Corinto: “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro [‘altro’ non si riferisce solo al fratello credente, ma anche al pagano e al peccatore] ha adempiuto la legge” (Rm 13,8).

Il canto al vangelo: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (2Cor 5,19) rimanda alla radice per cui si può vivere senza debiti con nessuno se non dell’amore. Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione. È la parola come forza d’attrazione, come rivelazione del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità condiviso. Paolo riferisce di sé: “l’amore di Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti”. Se quell’amore ci possiede, allora non si può non essere inglobati nel movimento di riconciliazione che Gesù vive nel suo essere inviato al mondo perché il mondo si apra allo splendore dell’amore del Padre. Se la chiesa, nel suo insieme, come comunità di credenti stretta attorno al suo Signore, ha un mistero da esprimere, un compito da vivere, una responsabilità da onorare, non può che essere quello della riconciliazione. Questo perché ciò che fa splendere la presenza di Dio nel mondo è la misericordia, la compassione, la solidarietà nei sentimenti di umanità, solidarietà che nella fatica quotidiana del vivere e del vivere le relazioni è testimoniata dal perdono vicendevole. Più è sincero, più è profondo, più è radicale, più si vive il comandamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Vale a dire: fài esperienza che l’umanità dell’altro vale precisamente come la tua, allo stesso titolo; che la tua umanità non ha nulla da essere preferita all’umanità dell’altro. Solo così si testimonia la presenza del regno di Dio che è splendore di comunione.

Una delle espressioni più belle che definiscono la comunità dei credenti la ravviso nell’ultima strofa dell’inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, inno che così canta: “L’annuncio che udiste nell’ombra gridatelo alto nel sole: è questa l’estrema consegna del Dio crocifisso e risorto. E voi dite, ridite sui tetti la voce che parla nel cuore: apostoli siate alle genti di Cristo, salvezza e vittoria. Il nuovo messaggio di vita vi ha spinti ai confini del mondo, su lunghi sentieri di croce, araldi del giorno che viene. Su voi, resi saldi in eterno, s’edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: “che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”? Chi ci avvicina, chi vive con noi, sente anzitutto questo? Perché questo è il segno dell’apertura di credito al vangelo nella nostra vita.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(13 settembre 2020)

___________________________________________________

Sir 27,30-28,9;  Sal 102;  Rm 14,7-9;  Mt 18,21-35

___________________________________________________

Per cogliere la portata di rivelazione dell’insegnamento di Gesù sul comandamento del perdono vicendevole possiamo farci la domanda: perché Gesù insiste così tanto sul perdono vicendevole? Quando insegna la preghiera del Padre nostro, l’unica invocazione che riprende nella sua spiegazione è quella sul rimettere i debiti. Perché?

Il capitolo 18 del vangelo di Matteo, dove il comandamento del perdono vicendevole è illustrato con tanta enfasi, inizia con la domanda: chi è più grande nel regno dei cieli? Risposta: chi perdona sempre! La domanda potrebbe essere espressa anche in questo modo: cosa è più gradito a Dio? Cosa attira maggiormente la grazia di Dio? La risposta è sempre la stessa: il perdonarsi vicendevole. Due sono i perni sui quali il vangelo fonda la grazia del perdono. Per rispondere alla domanda su chi sia più grande nel regno dei cieli, Gesù prende un bambino e dice: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4). Il testo greco però è assai più puntuale. Non dice ‘chi si farà piccolo’, ma ‘chi si umilia’ come questo bambino. In pratica dice: chi rinuncia a ogni suo diritto pur di onorare il fratello, questi è il più grande nel regno dei cieli. Chi rinuncia alla propria difesa, può onorare sempre il fratello e testimoniare la grandezza dell’amore di Dio per i suoi figli. Il più piccolo, in questa ottica, è proprio Gesù che svuotò se stesso per farsi servo e mostrare a tutti lo splendore dell’amore misericordioso del Padre. Per questo è il più grande. Chi si fa come lui partecipa della sua grandezza.

Quando, più avanti, Pietro chiede quante volte debba perdonare al fratello, Gesù risponde nella stessa logica. Pietro, oltrepassando le tre volte di perdonare al fratello che la legge rabbinica ingiungeva al credente, avanza il numero di sette volte, già abbondantemente oltre le norme consuete. Ma non c’è alcun confine o limite da rispettare perché Dio non rispetta nessun limite per mostrare il suo amore. E la risposta di Gesù mira a rovesciare completamente la logica della vendetta che si era impadronita dei figli degli uomini con Caino, che uccide suo fratello ma sarà vendicato sette volte se qualcuno lo ucciderà e con Lamech che, uccidendo per una scalfittura, sarà vendicato settantasette volte (Gn 4,24). Con Gesù viene superato ogni limite restrittivo. Non c’è condizione al perdono, perché il perdono ha a che vedere con lo svelamento del segreto di Dio. Dire settanta volte sette significa dire sempre.

La ragione viene illustrata con la parabola del re che vuole regolare i conti con i suoi servi. La parabola è tipica di Matteo e quindi si riferisce al contesto rivelativo del comandamento del perdono vicendevole.  L’ammontare del debito del primo servo è astronomico. Il fatto che debba al re diecimila talenti significa che è così alto da essere insolubile. Basta pensare che il prodotto annuale delle imposte di Erode in Galilea ammontava a duecento talenti. E se facciamo il confronto tra i diecimila talenti (un talento equivaleva a diecimila denari) e i cento denari del secondo servo, la proporzione è di cento a cento milioni. Le cifre però sono iperboliche proprio per sottolineare tutta la compassione del re che, dietro la supplica del primo servo, non dilaziona il pagamento, ma glielo condona, glielo cancella. Soltanto che l’esperienza del condono non si tramuta, nel cuore di quel servo, in gratitudine ma solo nella soddisfazione di scampato pericolo. Così, quando incontra il suo compagno, che gli deve una certa somma (corrisponderebbe a tre mesi di paga di un salariato), non vuole sentire ragioni e lo fa mettere in prigione fino alla restituzione del debito.

È chiaro che il lettore si sente interpellato a giudicare il primo servo: ma che cattivo! Poteva ben dilazionare, se non proprio condonare il debito. Nemmeno questo! Così è indotto a sottoscrivere la condanna del re che, sdegnato, ritira il suo condono e fa punire il servo dal cuore malvagio. La parabola è chiara. Ma non ci si accorge che la condanna del lettore è contro se stesso perché ognuno di noi è impersonato nel primo servo. Nessuno è innocente davanti a Dio. Il debito contratto con lui è insolvibile comunque. L’unica possibilità di salvezza è che il re sia misericordioso con noi nella sua generosità e benevolenza. E il re lo è. Ma è come se questa sua benevolenza debba far scaturire in noi benevolenza. Se non scaturisce, vuol dire che noi l’abbiamo semplicemente fatta franca o, meglio, crediamo di farla franca. Appena però ci imbattiamo a nostra volta in un fratello che ci deve qualcosa, allora emerge la verità del cuore: se ha vissuto un’esperienza di benevolenza o di astuzia, se ha riconosciuto i sentimenti del re o se solo se ne è servito per i suoi comodi.

Quando si dice che Dio condiziona il suo perdono al nostro, non si vuol dire che Dio viene dietro a noi. Al contrario, noi perdoneremo se davvero facciamo esperienza del suo perdono. Noi non potremo non perdonare se abbiamo coscienza del fatto che siamo stati perdonati. Il condividere il perdono con i fratelli segnala la verità della conoscenza della benevolenza di Dio nei nostri confronti. Così si trova la grandezza dell’amore nella rinuncia ad ogni rivendicazione da parte nostra. Come sottolinea la preghiera sulle offerte: “Accogli con bontà, o Signore, i doni e le preghiere del tuo popolo e ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. L’offerta a Dio sarà accolta a patto che si risolva in splendore di fraternità, di cui il perdono vicendevole è il segno più eloquente. E allora varrà per il nostro cuore la bellissima preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento [perdono di Dio], o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(20 settembre 2020)

___________________________________________________

Is 55,6-9;  Sal 144;  Fil 1,20c-27a;  Mt 20,1-16a

___________________________________________________

Con il salmo responsoriale confessiamo: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere” (Sal 144/145,17). Di per sé, non abbiamo obiezioni da opporre, ma in pratica quanto sono incomprensibili le vie di Dio! Il brano evangelico odierno, con la parabola degli operai che vengono pagati tutti allo stesso modo pur essendosi affaticati diversamente nel lavoro, né è la prova più inconfutabile. Davanti a un simile brano non riusciamo a toglierci di dosso la perplessità di fronte al comportamento del padrone: non è giusto però! Sappiamo di non poter sostenere che il padrone agisce ingiustamente (tutto nella parabola mira a che sia osservata la giustizia: non abbiamo pattuito un denaro? …) eppure non riusciamo a non condividere la presa di posizione dei primi operai che si vedono trattati come gli ultimi. Perché questo?

Il brano va letto come una ripresa di due passaggi precedenti. Alla domanda dello scriba di cosa debba fare di buono per avere la vita eterna, Gesù risponde: perché mi interroghi su ciò che è buono? Il Buono è uno solo. Ciò significa che l’uomo non ha la possibilità di determinare in sé cosa sia buono. È buono ciò che corrisponde al Buono, all’agire di Colui che è Buono. Di fronte poi alla perplessità degli apostoli rispetto al giudizio di Gesù sull’impossibilità per gli uomini di salvarsi, Pietro rileva: ma noi abbiamo lasciato tutto per seguirti. Che cosa ne avremo? La domanda non è maliziosa nel senso che non nasce come condizione per seguire Gesù, ma dopo averlo seguito. È la perenne domanda dell’uomo a proposito della ricompensa. Cosa me ne verrà a seguire i comandamenti? E Gesù risponde con la promessa del centuplo e della vita eterna. Dopo di che Gesù aggiunge la parabola degli operai nella vigna.

Il punto nevralgico risiede nella formulazione della promessa da parte di Gesù: “Alla rigenerazione del mondo siederete anche voi su dodici troni…”. Non si tratta del mondo futuro che sarà, ma del mondo futuro che viene, che è già venuto; si tratta del ‘mondo rinnovato’ che Gesù svela con il suo comportamento e con il suo agire. Se non si diventa partecipi di questo mondo rinnovato non sarà possibile comprendere le vie di Dio. La parabola, che presenta l’immagine di un padrone generoso con i suoi beni, vorrebbe conquistare i cuori all’esperienza di questa generosità, sottintendendo che non pagherà semplicemente il dovuto, ma che ricompenserà largamente oltre il dovuto. Se i primi operai non si accorgono di questa generosità è perché restano irretiti nel confronto tra compagni. Non tollerano di essere trattati come gli ultimi, mostrando così che il loro rapporto con il padrone non esce dallo schema del merito: io ho fatto, tu mi devi! È la condizione che vive il figlio maggiore nella parabola del padre misericordioso, del fariseo che prega nel tempio, del fastidio dei farisei nel vedere Gesù a tavola con i peccatori, di colui che millanta giustizia ma ha il cuore chiuso e duro.

La parabola, oltre a rimarcare la generosità del padrone, vorrebbe come istradare i cuori in una nuova solidarietà tra compagni. Perché non godere del bene toccato al mio compagno anche se immeritato? Più si gode del bene altrui, più si è intimi di Dio, perché nel bene viene esaltato colui che solo è il Buono. Il fatto del rovesciamento delle posizioni, ‘gli ultimi saranno primi e i primi ultimi’, allude semplicemente a quel ‘mondo rinnovato’ che Gesù svela e compie perché lui è il testimone per eccellenza della bontà di Dio. Il padrone della parabola è descritto nei panni di Gesù che cerca i peccatori, che va a cercare la pecorella perduta e se la mette in spalla, che offre il regno al ladrone sulla croce. Perché in questo modo di agire splende colui che è il Buono. Ma per noi, che siamo sempre nel timore di non essere preferiti, comunque di rivendicare invece che di essere grati, quanto è difficile accedere alla luminosità del mondo rinnovato! La perplessità rispetto all’agire del padrone, nonostante non si possa accusare che sia ingiusto, ci resta incollata addosso. Proprio contro quella perplessità, che spesso si traduce in mormorazione e in cattiveria verso i nostri compagni, la parabola è diretta.

La perplessità rivela l’incapacità per il nostro cuore di condividere la gioia, la gioia dei fratelli che possono avere quanto e più di noi, ma soprattutto la gioia del Padre che può dare a tanti quello che di per sé sarebbe riservato a pochi. Noi sicuramente non siamo nel numero di quei pochi e chi, come l’apostolo Paolo, si trova tra quei pochi, lo si riconosce dal fatto che gode più per la partecipazione del bene a tutti che non a se stesso. Non per nulla ritiene la sua vita di nessun conto, e la concepisce solo ‘per il progresso e la gioia della fede’ (Fil 1,25) di tutti. Non semplicemente per il progresso e la gioia dei fratelli, ma per il progresso e la gioia che i fratelli potranno godere nella loro relazione di intimità con il Padre che è venuto in loro soccorso, che ha inviato loro il suo Salvatore, che hanno conosciuto la misericordia del Signore. L’occhio allora non potrà più essere geloso o invidioso ed il cuore non avrà più pensieri propri, ma solo quelli di Dio e potrà godere con Dio del fatto che la Sua bontà è celebrata sopra ogni giustizia.

Un antico testo giudaico può riassumere bene la parabola di Gesù. Dio mostrò a rabbi Jose ben Halafta i tesori delle ricompense per i giusti custoditi in cielo. Ma lì c’era anche un grande tesoro per i ‘nullatenenti’ e Dio lo spiegò così: “A chi possiede, io do attingendo alla sua ricompensa; ma a chi non possiede, do gratuitamente attingendo a questo tesoro”.

Potremmo anche domandarci: quando i primi restano i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(27 settembre 2020)

___________________________________________________

Ez 18,25-28;  Sal 24;  Fil 2,1-11;  Mt 21,28-32

___________________________________________________

Gesù è appena entrato trionfalmente in Gerusalemme e cacciato venditori e cambiavalute dal tempio. Nessuno aveva osato fermarlo, tanto che il giorno seguente ritorna nel tempio a insegnare. È qui che lo avvicinano i capi della nazione. Vogliono sapere con quale autorità Gesù si muove. Evidentemente sono colpiti dal suo fare, dal suo insegnare, ma temono anche le sue ‘picconate’. Gesù li sfida sul loro stesso terreno e li inchioda alle loro responsabilità: perché, come guide della nazione, non vi siete dati premura di raccogliere l’invito alla conversione di Giovanni Battista? E racconta loro tre parabole, tutte rivolte contro di loro stigmatizzando il rifiuto che opponevano all’opera di Dio che si era rivelata nel Battista prima che in lui.

La parabola dei due figli è molto semplice e lineare, tanto che la risposta giusta viene messa in bocca agli stessi farisei. Fa la volontà del padre certamente quello che va a lavorare nella vigna, non quello che dice di voler andare. Ma l’applicazione che ne fa Gesù rivela aspetti che erano sfuggiti agli ascoltatori. Anzitutto il fatto che nessuno dei due figli obbedisce perfettamente: il primo rifiuta, ma poi va; il secondo acconsente, ma poi non va. Gesù parte dalla costatazione che l’uomo non risponde subito all’invito di Dio. La risposta dell’uomo avviene nel tempo, quando sopraggiunge il pentimento, cioè la percezione di essere dentro un rapporto di cui si disattende la premura e per questo ci si pente di non averlo preso in considerazione. In greco ci sono due verbi per esprimere il pentimento: ‘metamelomai’ e ‘metanoeo’. Il primo significa semplicemente ricredersi, cambiare avviso, tornare sui propri passi riflettendo che si è mancato; il secondo indica invece il cambiamento di mentalità, la decisione di vivere secondo un orizzonte e una direzione diversa da prima. Nella parabola è usato il primo verbo, l’accezione più soft dell’azione del pentirsi, proprio quella che Gesù rimprovera ai capi della nazione. Quando Gesù li rimprovera dicendo che pubblicani e prostitute li precedono nel regno di Dio, vuol dire che pubblicani e prostitute hanno creduto alla predicazione del Battista e si sono pentiti, mentre loro nemmeno si sono dati la pena, vedendo come il popolo reagiva all’esortazione del Battista, di ripensare alla loro posizione, di ricredersi e di mettersi in discussione. Nemmeno dopo, cioè dopo che avevano visto i frutti della predicazione del Battista, si sono premurati di domandarsi: ma cosa sta avvenendo? Sono rimasti alla finestra, chiusi nella loro torre, guardando tutti dall’alto in basso.

Ma c’è un altro particolare interessante da notare. Gesù dice loro: se non avete creduto a Giovanni Battista, nemmeno credete nelle Scritture e se non credete alle Scritture non potete credere in me, che di quelle Scritture sono il compimento.  Gesù aveva detto: come potete credere voi che cercate gloria gli uni dagli altri? Non credere alle Scritture vuol dire costruirsi sul proprio sgabello, vantarsi del proprio prestigio, pur nascondendosi dietro nobili ideali di salvaguardia della nazione, come risalterà alla fine nel ragionamento del sommo sacerdote Caifa, quando si trattava di decidere se mettere a morte Gesù o meno.

È qui, nell’ascolto della parola di Dio che porta salvezza, che affonda le radici l’obbedienza dell’uomo. Obbedienza, che gli deriva solo dal pentimento e il pentimento, che gli viene dal fatto di scoprire che Dio lo ama e lo cerca. È s. Paolo che, nella sua lettera ai Filippesi, ci fa fissare lo sguardo su colui che è il modello dell’obbedienza, su colui che mostra in verità le vie di Dio dicendo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso …” (Fil 2,5-7). E giustifica il riferimento a Gesù in rapporto alla vita fraterna dove si giocano le relazioni e quindi la propria umanità: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). Forse che i capi della nazione, che affrontano Gesù, hanno mai avuto pensieri del genere in cuor loro? E se non hanno questi pensieri, si può dire che temono il Signore? E se non temono il Signore, come possono conoscere i suoi segreti? Ecco perché il salmo responsoriale ripete con insistenza: “Fammi conoscere le tue vie” (Sal 24/25,4). Non si conoscono facilmente, è facile illudersi, è facile voler tirare Dio nella nostra testa piuttosto che aprire la nostra testa a Dio! Il salmo allora ci istruisce: “Chi è l’uomo che teme il Signore? Gli indicherà la via che deve scegliere” (v.12). E più avanti: “Il segreto del Signore è per quanti lo temono e la sua alleanza per farla loro conoscere” (v.14, testo ebraico).

Avverrà per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per tutti. Quello che i capi del popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e che Dio vive in se stesso.

Se Gesù ha fatto conoscere le vie di Dio fino a diventare lui stesso “la via” (Gv 14,16), lo diventa per coloro che lo accolgono. E il movimento dell’accoglierlo si può spiegare in questo modo. Gesù è venuto per insegnare agli uomini a conoscere e riconoscere i propri peccati senza disperare, ma aprendosi al cammino di ritorno a Dio che comincia con il sapersi amati e perdonati in anticipo, in modo totalmente immeritato. Se è vero, come dice Origene, che l’uomo pecca per ignoranza fino a che Dio non gli dona una certa percezione del suo peccato, Gesù allora ha cercato di farsi mediatore di questa conoscenza, della quale si nutre la vita di alleanza con Dio. Questo, i capi della nazione non hanno compreso; questo, gli uomini che cercano gloria gli uni dagli altri non possono comprendere. E senza comprendere questo non possono pentirsi. E senza pentirsi non possono gustare la dolcezza del perdono di Dio.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(4 ottobre 2020)

___________________________________________________

Is 5,1-7;  Sal 79;  Fil 4,6-9;  Mt 21,33-43

___________________________________________________

La parabola di oggi è la seconda delle tre rivolte da Gesù direttamente alle autorità del tempio e della nazione. Essa ha un sapore profetico preciso: allude alla imminente passione di Gesù che incontra l’ostilità ormai dichiarata dei capi religiosi. Il contesto narrativo è altamente drammatico, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, allorquando si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro però non deriva dall’ira, ma da una passione d’amore.

Per cogliere tutta l’intensità di quella passione d’amore basta leggere il brano di Matteo con il corrispondente di Luca 20,9-19. Nel testo di Luca, i contadini percuotono, insultano, feriscono i servi (= i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che, dopo averlo cacciato fuori della vigna, lo uccidono. Il figlio è presentato come l’amato. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio amato, come viene testimoniato dalla voce del Padre al battesimo e alla trasfigurazione?

Se la liturgia di oggi fa proclamare nel canto d’ingresso: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, parole pronunciate dalla regina Ester nel momento più drammatico della sua vita (cfr Est 13,9), lo fa riferendosi alla fedeltà di Dio nel suo amore per il popolo, amore che viene descritto dal passo del profeta Isaia della prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature coniugali ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

Non per nulla, il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo. Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo. In effetti, nel racconto della parabola, non si dice che i contadini non hanno consegnato il raccolto, ma che non hanno il raccolto da consegnare. Non hanno lavorato la vigna come avrebbero dovuto e quindi i frutti non ci sono. La scelta di Dio è in rapporto al frutto, nel senso che, se Dio stabilisce un’alleanza, vive un’intimità con qualcuno, è perché questo qualcuno risponda a quell’alleanza nella sua vita concreta, nelle relazioni che vive, in modo che tutti possano conoscere quanto è grande il suo amore.

Così, quando Gesù, applicandosi il Sal 118,22 (“La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo”), esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, non intende certo escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma intende far prevalere la logica della rivelazione di tutte le Scritture: l’elezione è in vista del portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti godano dello stesso amore. Gesù è colui che questa elezione vive nella sua carne al massimo grado possibile e perciò costituisce, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo splendore di amore che l’ha originata e di cui ne sostiene la dinamica.

Dinamica che Paolo, scrivendo ai Filippesi, dichiara rivelarsi nel fatto di essere lieti nel Signore, lui che ci ha manifestato così grande amore. Letizia, che si trasforma in amabilità nei rapporti con tutti, in speranza del regno che viene e nel fatto di non angustiarsi per nulla, poiché, come dice Pietro nella sua lettera: “… riversando su di lui tutte le vostre preoccupazioni, poiché gli state a cuore” (1Pt 5,7).  Per questo l’apostolo invita a elevare preghiere, suppliche e ringraziamenti, interessandosi di ogni cosa buona per esprimere nella vita quello splendore che ha illuminato il cuore. Nel suo testo però Paolo dice una cosa misteriosa, non immediatamente accessibile alla nostra psicologia interiore. Invita a stare nella supplica della preghiera con rendimento di grazie. Se non si fa riferimento alla rivelazione di Gesù come pietra d’angolo, non solo in rapporto a ebrei e gentili, ma rispetto a tutte le tensioni che accompagnano la nostra vita e che in lui trovano modo di saldarsi in ricchezza di umanità, come poter rendere grazie nella supplica originata dalla ferita della prova? A questo si ricollega anche la parola di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,25).

Nella parabola poi si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato dal padrone (‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’) ne è un esempio. Se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al Figlio non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo, senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di uomini peccatori!

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(11 ottobre 2020)

___________________________________________________

Is 25,6-10a;  Sal 22;  Fil 4,12-14.19-20;  Mt 22,1-14

___________________________________________________

Ascoltando la parabola di oggi insieme alle altre due delle domeniche precedenti, ci accorgiamo che Gesù, nel contrasto che si sta consumando tra lui e i capi del popolo, nel suo tentativo di svegliare le coscienze, aggiunge due particolari nuovi. Se prima aveva parlato del padrone di una vigna e dell’invio del figlio che sarà ucciso, ora parla del padrone che ha preparato le nozze per il figlio e degli invitati che non ne vogliono sapere di intervenire. L’accento ora è solo sugli invitati. È a loro che dobbiamo guardare per cogliere il senso della parabola. I primi invitati rifiutano. Il padrone manda i suoi servi a raccogliere sulle strade quanta più gente possono perché la sala del banchetto sia piena. Ecco il primo particolare nuovo: “andate ora ai crocicchi delle strade”. Non si tratta dei crocicchi all’interno della città, ma dei punti di confluenza delle strade fuori della città. Il significato evidente risulta: non solo gli israeliti sono invitati, ma tutti i popoli.

Il passo del profeta Isaia della prima lettura lo proclama apertamente: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli …”. Si tratta del sontuoso banchetto che inaugura il Regno messianico. Il profeta descrive il lauto banchetto imbandito sul monte Sion per tutte le genti. Nella visione del profeta tre sono gli aspetti che caratterizzeranno la gioia della vita: la conoscenza del Signore invaderà i cuori (‘il velo strappato’), la morte non avrà più potere, ognuno godrà personalmente (‘lacrime asciugate’). Allora si dirà: “Ecco il nostro Dio”, sottolineando nostro come espressione di una esperienza goduta. Allorquando le nozze del Figlio saranno celebrate, guardando a Colui che è stato trafitto, allora si potrà dire: “Ecco il nostro Dio”, ecco dove l’amore ha condotto il nostro Dio, ecco l’amore che fa vivere il nostro cuore. La visione di quell’amore non vale semplicemente per me, ma per me se vale contemporaneamente per tutti. Così, non si tratta di credere semplicemente al Figlio di Dio, ma di vedere il suo amore per noi che diventa in noi radice di vita per tutti. Così custodiamo per tutti l’invito alla tavola del re.

Come il profeta, così il salmo responsoriale. L’immagine del pastore che ci procura ristoro allude alla rivelazione di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30). L’invito alle nozze corrisponde al ‘venite’ di Gesù e per noi si traduce nell’andarci in compagnia di tutti i nostri fratelli, senza distinzione, perché il suo desiderio di comunione con noi si compia nel suo splendore.

C’è però anche un secondo particolare nuovo nella parabola di Gesù. Alla fine il re entra nella sala e scorge uno che non ha la veste nuziale. I primi invitati non erano degni, ma nemmeno è scontato che tutti gli altri invitati possano entrare comunque alla festa nuziale. La parabola cioè allude sia al possibile rifiuto in Israele come al possibile rifiuto nella Chiesa: gli invitati rinunciano e non partecipano alla festa; anche il commensale, che non porta la veste nuziale, verrà estromesso dalla sala di nozze. Sono chiamati tutti, buoni e cattivi; non c’è alcuna distinzione rispetto all’invito. Anzi, come prega la colletta: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio …”, la dignità dell’uomo si misura sul fatto di non impedire a nessuno l’accesso all’invito: siamo chiamati tutti alla stessa tavola del re. Quando però disprezziamo il nostro fratello, quando portiamo rancore, quando creiamo distanza con i nostri fratelli, è come se impedissimo a qualcuno di ricevere l’invito del re ad andare alla stessa tavola della vita. Disprezziamo la volontà del padrone e noi non possiamo più goderla. E questo avviene perché qualche ragione ‘nobile’ ci ha impedito di accogliere l’invito del re, perché non abbiamo conosciuto la premura dell’amore di Dio per noi.

Le nozze dell’Agnello (“sono giunte le nozze dell’Agnello”, Ap 19,7) sono l’immolazione del Figlio nella sua dimensione di compimento e vivibilità della comunione tra Dio e gli uomini dentro lo splendore di un amore goduto. Perché il re proclama che gli invitati non erano degni? Non ci sono condizioni previe da osservare; c’è semplicemente il fatto di non aver accolto l’invito. L’indegnità corrisponde dunque al rifiuto dell’invito del proprio Signore. L’uomo non è mai indegno rispetto all’amore del Signore perché è il Signore che prende l’iniziativa di rivolgergli il suo amore, senza condizioni. Ma l’uomo può sempre opporre le sue ragioni, può ripararsi dietro la nobiltà ostentata delle sue ragioni e non aderire.

Se ancora ci perseguita l’idea di indegnità rispetto alla chiamata all’amore, allora valgono le parole del canto di ingresso: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). Il perdono di Dio corrisponde all’invito alla sua stessa tavola in compagnia di tutti. Così sono custodite la preziosità dell’invito e l’umiltà per l’invitato. Come suggeriva il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi …” (Ef 1,17-18). Possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi!

Alle nozze del Figlio fa riscontro la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’. Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la veste appropriata! Solo per ricordare che la fiducia nell’amore di Dio non deve giocare come un pretesto, ma come un’attrazione.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(18 ottobre 2020)

___________________________________________________

Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21

___________________________________________________

Le ultime tre parabole scatenano la decisione da parte dei capi e degli anziani di far fuori Gesù. Occorre però un pretesto. Non potendo accusare Gesù nei suoi comportamenti, cercano di coglierlo in fallo nelle sue parole. Cercano di incastrarlo con un pretesto politico per consegnarlo all’occupante romano. Dal loro punto di vista, la strategia è vincente, perché al processo contro Gesù sarà proprio un’accusa di tipo politico a farlo condannare. La questione, scottante allora, era il tributo che ogni cittadino ebreo doveva pagare all’occupante romano. Non era una questione di esosità di tasse, ma di umiliazione di un popolo. Gli zeloti, l’ala intransigente dei farisei, proibiva ai suoi simpatizzanti di versare il tributo e saranno proprio loro la miccia dell’insurrezione di Gerusalemme nell’anno 67 che causerà, tre anni dopo, la distruzione della città ad opera dei Romani.

Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Il tranello era ben orchestrato perché comunque Gesù rispondesse non poteva evitare di essere accusato. Se avesse acconsentito al versamento del tributo si sarebbe inimicata la gente, se avesse invitato a non versarlo si sarebbe contrapposto al potere romano. Gesù evita il tranello, ma non la questione e risponde: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, lasciando i suoi stessi avversari pieni di ammirazione.

Il senso della sua risposta è illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi 2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico, segnale di quella vita eterna che Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la vita che vivete nel mondo tenetela aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Il verbo greco, tradotto con ‘tenendo salda’, ha due significati: tenere fermamente e offrire. Il credente in Cristo porta la parola di vita nel senso che la fa risplendere nel mondo. Nella prima lettera ai Tessalonicesi Paolo elenca le tre condizioni caratteristiche della vita di un credente, facendo memoria dell’entusiasmo della comunità di Tessalonica nell’aderire a Gesù. Parla della fede, della carità e della speranza (questo è l’ordine che adotta) e a ciascuna virtù teologale abbina una caratteristica:

alla fede l’operosità. Una fede che non si traduca in opere è morta.

alla carità la fatica. Ma quale fatica? La fatica di portare il male con il bene, la fatica di cedere i propri diritti pur di non perdere l’amore, la fatica di venire offesi e restare gioiosi, la fatica di rivolgere a tutti, senza distinzione, il movimento dell’amore.

alla speranza la fermezza (letteralmente, la pazienza, la resistenza nel tempo). Resistenza, non come sopportazione, ma come resilienza, capacità cioè di reagire con fantasia ed elasticità al reale perché l’oggetto della speranza resti sempre a portata di mano. Non lasciatevi rubare la speranza, dice papa Francesco.

Se Gesù è l’Immagine del Padre, l’uomo, che è fatto a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che è modellato su Gesù, il Verbo fatto uomo. Così, quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio, allude al fatto di vivere la propria umanità come lui la vive, vale a dire in funzione della rivelazione al mondo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Costituisce il supremo compito dell’umanità, che in questo non resta soggetta a nessun’altro tipo di potere.

L’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente esalta, ma non si apre alla salvezza. Gesù dirà invece dei farisei: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).

L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli nell’ultima cena), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Con il dire di dare a Dio quello che è di Dio, Gesù allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e della cui comunione rende anche noi partecipi. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.

Rispetto invece al ‘rendere a Cesare quello che è di Cesare’, si possono notare tre cose.

Gesù riconosce la legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa. Gesù spezza l’alleanza tra religione e Stato, che il paganesimo e l’impero esigevano. Gesù non separa semplicemente Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del piano divino di salvezza per l’uomo. E infine, che l’uomo è sopra il cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la persona sopra la collettività. ‘Io sono il Signore e non c’è alcun altro’ non significa semplicemente che c’è un solo Dio, ma che tutto ciò che di vero, di bello, di buono, desideriamo, non può avere compimento se non in Lui. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo Regno nella responsabilità della storia.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(25 ottobre 2020)

___________________________________________________

Es 22,20-26;  Sal 17;  1Ts 1,5c-10;  Mt 22,34-40

___________________________________________________

Per cogliere la portata della risposta di Gesù alla domanda sul comandamento grande, la liturgia di oggi ci offre varie porte di accesso. Il brano evangelico risponde a due grosse domande che serpeggiano nel nostro cuore: 1) che tipo di amore Dio ci richiede se ci comanda di amare? 2) dato che il comandamento riguarda l’agire, interiore ed esteriore, allora cosa cerchiamo con il voler osservare il comandamento?

Sebbene fosse usuale tra gli scribi del tempo la domanda circa la determinazione del comandamento grande tra i tanti precetti, negativi e positivi, della Legge, mai nessuno prima di Gesù aveva mai collegato insieme i due passi scritturistici: Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” e Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). Gesù li cita stabilendoli come il primo e il secondo comandamento, capaci di riassumere e di fondare tutti gli altri. Ma in cosa risiede la novità della risposta di Gesù? La prima novità sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando che il secondo è simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini, al di là dell’appartenenza al popolo d’Israele. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture ponendo i Profeti sullo stesso piano della Legge e alludendo con ciò all’unità delle Scritture, che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

L’allusione a un nuovo modo di accostarsi alle Scritture, come il raccordo tra i due comandamenti, hanno a che fare con la rivelazione che da lui procede, che attraverso di lui si compie. C’è una tensione di compimento dietro le sue parole, tensione che la liturgia insegna a intravedere con il canto di ingresso, il salmo responsoriale e il canto al vangelo. Di quale Dio ci si fa comando di amare? È il Dio dell’alleanza, per la gioia che ci procura e per la forza che ci infonde, come canta l’antifona di ingresso: “Gioisca il cuore di quanti cercano il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, presa dal salmo 104, che può essere definito la celebrazione della fedeltà di Dio. Recita il ritornello del salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza”, dal salmo 17, con il quale si canta l’amore di Dio per noi che dall’alto ci tende la mano e che si abbassa a noi per farci grandi. I comandamenti hanno dunque a che fare con l’esperienza di una storia sacra, di una nostalgia vicendevole tra Dio e l’uomo; non sono imperativi categorici o religiosi, ma alludono alla possibilità per noi di vivere e gustare quell’alleanza che ci precede e ci accompagna. I comandamenti rimandano ad un’esperienza gioiosa, che la colletta interpreta facendoci pregare: “O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli …”.

La novità che Gesù fa intravedere ha una dimensione ancora più misteriosa e più potente. Il brano evangelico è introdotto dal canto al vangelo, tratto da Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”. Il comandamento allude a una possibile rivelazione, la rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ma la rivelazione è data dalla osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di Giovanni al brano di Matteo vuol significare che non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché? Nella risposta a questo interrogativo si cela anche la ragione dell’abbinamento dei due comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e il prossimo, dopo, sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.

La frase di Gv 14,23 costituisce la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del discorso di Gesù: “… viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre” (14,30). Purtroppo, la traduzione italiana non fa cogliere la contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha i miei comandamenti…’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi ha l’esperienza dell’amore del Padre, chi fa l’esperienza dell’essere amato dal Padre, non ha bisogno di nulla e nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che sono l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno gli può sottrarre questo amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma la promessa di Gesù è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui. Così i comandamenti hanno a che vedere con il fatto che ‘bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre’. Vale a dire: la pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità.

Così il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per loro. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. E in questo possiamo abbozzare la risposta anche alle prime due domande: il comando dell’amore procede da un’intimità e dalla ‘reazione’ a un’offerta al cui fascino non ci si può sottrarre; lo scopo della pratica del comandamento non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.

Si realizza quello che Gesù aveva promesso: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Gesù è nell’amore del Padre per noi e noi, in lui, veniamo assunti nello stesso movimento di manifestazione dell’amore del Padre a tutti. In questa prospettiva risulta illuminante proprio la lettura del brano dell’Esodo perché, delle norme del Codice dell’alleanza, viene accentuata la pratica del bene rispetto alla cura dei deboli. La vedova, l’orfano e il forestiero sono le categorie di persone essenzialmente ‘deboli’ perché senza protezione. Proclamare allora nel salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza” significa alludere alla forza tipica di Dio che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Chi calpesta il debole calpesta l’amore di Dio che sta con gli ultimi; impedisce a Dio di essere conosciuto in questo mondo. Chi calpesta il debole non conosce Dio.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1° novembre 2020)

___________________________________________________

Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

___________________________________________________

La Chiesa mostra la forza di speranza che l’abita nella visione dei beati attorno all’Agnello. È lui ad attirare gli sguardi degli uomini che possono ormai contemplare la santità di Dio, che è splendore di amore immolato. Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ce ne impediva la visione! Ora tutto è nella luce, tutto splende in verità.

È caratteristico che la visione dei santi descritta dall’Apocalisse sia commentata dal salmo 23 (24). La liturgia sfrutta solo la prima parte del salmo, quella in cui la santità è descritta come vittoria sulla menzogna, come innocenza di mani e di cuori. Ma il salmo continua con l’intronizzazione del re che entra glorioso per regnare. I Padri si servono di questo salmo per illustrare il mistero dell’ascensione di Gesù e s. Ambrogio, che ha un commento straordinario a questo salmo, conclude con l’osservazione: “Non aveva perso nulla ad annientarsi”. Il Figlio di Dio, che aveva lasciato la sua gloria divina per assumere la figura di servo, che si era consegnato alla morte di croce, ora, portando la croce come vessillo di gloria, rientra nel cielo in compagnia di tutti i salvati. Non si può immaginare altra acclamazione da parte degli angeli e dei beati se non quella riportata dall’Apocalisse: la salvezza appartiene a Dio e all’Agnello! Che, tradotta, significa: ora sappiamo, angeli e uomini, quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli che splende su tutto e tutto ingloba nel suo splendore e noi rendiamo lode a Lui che tanto ci ha amati!

Il passo della lettera di Giovanni illustra invece il processo che porta a godere della santità di Dio dicendo: “Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” perché finalmente lo possiamo vedere così come egli è (1Gv 3,2-3). E come è Dio in se stesso? Tutto Amore, totalmente Amore. Purificarsi significa permettere al nostro cuore di riscoprirsi come la dimora di Dio, in trasparenza di agire e sentire, quando tutto parla ed esprime quell’amore che ci ha fatti e ci ha riempiti. La vittoria sulla menzogna è essenzialmente la vittoria dell’amore che si fa radice di vita in assoluto. E se l’amore, che si descrive nel suo splendore, è dell’Agnello, vuol dire che non può che essere un amore immolato. Vale a dire, un amore capace di sacrificare tutto il resto purché esso risplenda.

Il brano di vangelo, a sua volta, collega la santità all’innocenza nel condividere la gioia di Dio di abitare con noi, in noi. Le beatitudini sono le vie perché torni a splendere l’innocenza dei cuori nella condivisione dell’amore di Dio con tutti. Con le beatitudini il cuore scopre di essere la dimora di Dio, il cielo dove Dio abita, dove l’uomo può lodarlo e cogliere il senso del mondo, perché Dio è scoperto come Padre e noi suoi figli.

Ora, chi sono i figli di Dio? Sono coloro che lo Spirito di Dio guida – risponde tutta la tradizione della chiesa. Le beatitudini evangeliche sono le vie che lo Spirito di Dio fa percorrere per essere trovati in quel Figlio, che è la rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. E potremmo commentare:

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità;

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini;

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fino a che la terra del loro cuore splenda della presenza del loro Signore;

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono;

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce;

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo se non di perseguire la pace con tutti ottenutaci dal Figlio di Dio;

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che promette.

È d’altronde assai significativo che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre nel mostrare la vittoria sulla menzogna: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(8 novembre 2020)

___________________________________________________

Sap 6,12-16;  Sal 62;  1Ts 4,13-18;  Mt 25,1-13

___________________________________________________

La parabola delle dieci vergini è riportata solo da Matteo, preoccupato di custodire la freschezza della fede nella comunità dei credenti, dove non valgono ruoli o meriti che garantiscano automaticamente la partecipazione al banchetto messianico. Le ultime tre domeniche dell’anno liturgico presentano tre immagini di Dio: quella dello sposo, del padrone e del giudice, a fronte della vita dell’uomo che si gioca nella profondità dei desideri, nell’esercizio di una responsabilità e nella maturità di un frutto che diventa criterio di discernimento dell’autenticità di una vita ben spesa.

La pressante esortazione con cui si chiude la parabola: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13) fa da eco al grido con cui ha inizio la proclamazione del vangelo sia sulla bocca di Giovanni Battista che di Gesù: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2; 4,17). Matteo si fa premura del fatto che, una volta accolto il movimento di conversione e aver incontrato Gesù, non è scontato viverne la dinamica di salvezza che si è prodotta. Ci si può perdere in questioni di prestigio personale, di lotte fraterne, di supremazie rivendicate e, comunque, in negligenza e perdita di entusiasmo.

Non per nulla la preghiera dopo la comunione della messa di oggi dice: “la forza dello Spirito Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi tutta la nostra vita”. Sì, perché non è scontato che lasciamo che quella forza trasformi la nostra vita. Prima dell’ascensione al cielo, Gesù promette ai suoi discepoli, di essere investiti proprio da quella forza perché possano vivere da testimoni suoi fino ai confini della terra: “riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8). Ecco, la parabola delle dieci vergini rivela, da una parte, che è in azione quella forza dello Spirito nella nostra vita di credenti per essere testimoni nel mondo di Gesù e, dall’altra, che si può restare impermeabili all’azione di quella forza, che si può spegnere in noi lo Spirito.

Non è però strano questo atteggiamento del cuore perché il Signore, che ha promesso la sua presenza, spesso non si sente; che ha promesso di venire presto, ritarda e si fa aspettare. Se la parabola invita alla vigilanza è perché l’anima può perdersi dietro illusioni fascinose ma inconsistenti. La Sapienza, nella prima lettura, proclama che facilmente è contemplata da chi l’ama. Il che significa che la sapienza è connaturale al cuore dell’uomo, creato per godere di Dio. E se l’uomo deve constatare che nel concreto non è per nulla facile trovare la sapienza, a dispetto di quanto dice il libro della Sapienza, ciò significa che il desiderio di lei, la vigilanza sul desiderio di lei è venuta meno. Questo la parabola vuole scongiurare.

Suona invece strano che nella parabola si parli di nozze senza parlare della sposa, perché sono nozze speciali, le nozze del Figlio dell’Uomo: con Lui l’umanità è ormai unita a Dio. È l’evento più gioioso della storia che sbocca nella condivisione della gioia di Dio stabilmente goduta nel suo regno, segno di quell’amore che ci ha raggiunti e lievitati dal di dentro. Per questo la vita non può essere che un uscire incontro a. Le vergini escono incontro allo sposo, come Abramo esce dalla sua terra, come Israele esce dall’Egitto. È la vocazione della vita da viversi come un continuo uscire da per andare incontro a. Ciò significa che la vita non la si possiede, ma la si riceve, continuamente. Ciò comporta la fatica di separarsi da qualcosa per poter godere l’avventura sacra della vita.

L’immagine dello sposo e delle vergini allude al mistero di intimità tra Dio e l’uomo, unico motivo di storia seria per l’anima alle prese con i suoi desideri. La divisione in due gruppi delle vergini allude alla doppia possibilità concessa all’anima: a tale incontro ci si può predisporre con intelligenza o con stoltezza, in modo conveniente o in modo sbadato. Matteo aveva già parlato di questa doppia possibilità a proposito di chi costruisce la sua casa sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27).

La parabola è raccontata come immagine di ciò che avverrà alla fine ma per mostrare ciò che avviene quotidianamente nella nostra storia terrena in rapporto al desiderio del cuore di godere pienezza, perché è nella storia terrena che noi giochiamo il desiderio del cielo. Non per nulla la punta della parabola è proprio la vigilanza, vale a dire quell’attenzione del cuore a far convergere sul vero obiettivo i desideri del cuore perché possano trovare pienezza. L’ammonizione finale invita a stare pronti, da intendersi secondo l’immagine di predisporre le lampade con l’olio, immagine che corrisponde all’altro invito di Gesù a far splendere le nostre opere buone. Non semplicemente però nel fare le opere buone, ma nel far sì che le nostre opere facciano splendere l’amore di Dio per il mondo, che in Gesù, Sposo, si svela in tutta la sua bellezza. L’olio corrisponde a quell’amore fraterno, frutto dell’agire dello Spirito e nello Spirito, che san Paolo descrive nell’inno alla carità in 1Cor 13. Potremmo fregiarci di altre grandezze o altri vanti rispetto agli uomini, ma davanti a Dio non conterebbero nulla e ci farebbero restare con le lampade spente, con il cuore vuoto.

Come molto significativamente spiega Gregorio di Nissa che paragona le vergini stolte alla pratica virtuosa che non porta i frutti dello Spirito enumerati dall’apostolo in Gal 5,22-23: « … nelle loro anime non c’era la luce, frutto della virtù, e nel loro pensiero non c’era il lume dello Spirito. Giustamente, quindi, la Scrittura le ha chiamate stolte: in loro la virtù si era spenta prima ancora che giungesse lo Sposo, e per questo lo Sposo tenne fuori le misere dalla camera nuziale celeste; fece bene a non prendere in considerazione il loro impegno nella verginità, giacché non si faceva sentire in loro l’attività dello Spirito».

In primo piano dunque non è l’impegno di una vita buona, ma il frutto di quell’impegno, che corrisponde ai desideri del cuore, vale a dire la solidarietà con lo Spirito del Signore, la possibilità di intimità con il Signore che per primo ci ha amati e nel cui Volto il cuore desidera fissare gli sguardi. Come dice s. Francesco di Assisi: “Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. Se l’attesa è questa, tutta la vita sarà giocata nella vigilanza a che nulla e nessuno possa impedire quello sguardo, a che nulla e nessuno possa separarci da quell’amore, nonostante i sonni e gli addormentamenti che inevitabilmente ci sorprenderanno.

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(15 novembre 2020)

___________________________________________________

Pr 31,10-13.19-20.30-31;  Sal 127;  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

___________________________________________________

La parabola di oggi è incastonata tra la parabola delle dieci vergini, che invita a stare vigilanti e la parabola del giudizio finale, che rivela su cosa saremo giudicati nel nostro fare. La vigilanza è fedeltà nelle piccole cose e la fedeltà è la premura per il prossimo. A sottolineare la preziosità di quel ‘poco’ che l’uomo può realizzare, la parabola parla di una somma cospicua affidata e soprattutto della ricompensa: ‘entra nella gioia del tuo padrone’ (traduzione più letterale del ‘prendi parte alla gioia’).

La parabola dei talenti invita all’operare. Il padrone distribuisce i suoi beni per mettere gli uomini nella opportunità di giocare la loro vita, concepita nei termini di un esercizio di responsabilità. La domanda di accesso al mistero della parabola può essere la seguente: cosa è in gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?

La parabola non allude semplicemente ai doni naturali, alle qualità umane di cui ciascuno, venendo al mondo, è dotato, pur chiamato a trafficarli per realizzare la sua vocazione all’umanità. La parabola risponde alla domanda: come la fede in Gesù ha trasformato la mia vita? La conoscenza di lui ha fatto lievitare la mia umanità in modo da viverla conforme a quella di Gesù? Si potrebbero citare i passi delle lettere apostoliche dove si parla della grazia affidata a ciascuno: “Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi” (Rm 12,6); “A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” (Ef 4,7); “Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio” (1Pt 4,10).

Ecco, l’uomo che parte per un viaggio rappresenta Gesù stesso, che con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli affidando loro i misteri del Regno. Il padrone è lo stesso personaggio del buon Samaritano che accudisce l’uomo colpito dai briganti, è il Maestro che serve, è il padrone che vuole far entrare a tutti i costi quanti più può nella sala del banchetto nuziale, ecc. Il Signore Gesù non solo lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’amore, nella luce di quell’amore, il discepolo gioca la sua vita. L’operosità dei servi è direttamente proporzionale alla fiducia che questi ripongono nel loro padrone.

L’operosità della fedeltà dei servi nel trafficare quello che avevano ricevuto si comprende dal colloquio tra il padrone e il terzo servo. Lui, che aveva scavato una buca nel terreno per nascondervi il denaro, dice il vero rispetto al padrone? La parabola sembra confermarlo. In realtà, però, le sue parole tradiscono l’indisponibilità verso il padrone. Il padrone lo chiama ‘servo malvagio e pusillanime (che per paura non si decide, non: ‘pigro’)’, mentre i primi due servi sono chiamati ‘servo buono e fedele’. Il terzo servo non crede alla potenza del vangelo, prende le distanze dalla fede in Gesù, sebbene l’abbia conosciuto e si impedisce di accoglierne la fecondità nella sua vita. Si richiude in se stesso, per paura che troppo gli venga richiesto e così manifesta la sua sfiducia. È l’opposto di quello che dirà Paolo: “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Un giudizio cattivo su Dio comporta sempre una doppia conseguenza: la vita non ha senso, non ho obblighi verso alcuno. La parabola tende a scongiurare proprio questo esito.

La liturgia sembra suggerire lo scenario per evitarci di entrare in quella ‘malvagità di cuore e pusillanimità di comportamento’ del terzo servo. L’antifona di ingresso riporta le parole del Signore al popolo esiliato a Babilonia: “Io ho progetti di pace e non di sventura …”. Quelle parole si trovano nella lettera che il profeta Geremia aveva scritto ai deportati per diffidarli dal credere che l’esilio sarebbe durato poco, come alcuni millantati profeti andavano dicendo sulla base di notizie di rivolte che erano scoppiate qua e là nell’impero babilonese. Li invita a pazientare e a sfruttare il tempo dell’esilio per tornare al Signore, fiduciosi che a suo tempo il Signore li avrebbe riportati a casa. Quando la liturgia invita alla fedeltà quanto alla nostra operosità sa che il contesto in cui esercitare tale operosità è l’esilio, un tempo difficile da non sprecare in recriminazioni e ribellioni. Così l’antica colletta prega: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”. E l’orazione sui doni proclama: “Quest’offerta che ti presentiamo, Dio onnipotente, ci ottenga la grazia di servirti fedelmente e ci prepari il frutto di un’eternità beata”.

Il ‘servizio fedele’ non può essere che il medesimo esercitato dal Maestro, quello di mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli, servizio che risalta in tutta la sua bellezza proprio nella lavanda dei piedi nell’ultima cena. E se l’opera di Gesù si risolve nella gloria del Padre perché ne fa risplendere lo splendore in mezzo agli uomini con la sua testimonianza di amore fino alla fine, così sarà l’opera dei suoi servi. Siamo servi di questo ‘splendore’ di Dio dovuto all’umanità perché ottenuto da Gesù per noi. Il servo, che ha nascosto il talento, è colui che vorrebbe avere ciò che invece è trovato donandolo, è il servo che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce il potere e chiude agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più ‘buono a nulla’ ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli! Non sa o non vuol sapere che la sua felicità dipende dal farsi dono a tutti perché l’amore del Signore splenda in questo mondo.

La parabola suggerisce anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo, che ha ricevuto i misteri del Regno dal Signore Gesù, li sperimenta nell’amore agli uomini suoi fratelli, diventa solidale con il Padre, il quale ci serve nel Figlio che ha inviato per noi. Servendo, nell’amore, l’umanità di tutti, non facciamo che esercitare quel servizio divino che ridà dignità all’uomo e rende la vita davvero desiderabile. L’insidia maggiore a questo sogno di Dio è la nostra paura, la paura che Dio sia così esigente con noi da toglierci ogni illusione di riuscire a compierlo. Non solo, ma la paura ci impedisce di condividere la gioia del Signore. Quando Gesù, nell’ultima cena, affida ai discepoli i suoi segreti e li invita a rimanere nel suo amore rivela che lo scopo del suo agire è la condivisione della sua gioia (cfr. Gv 15). E ci può essere gioia nel Signore senza l’amore per i fratelli per i quali sono svelati i suoi segreti?

***

Settimo ciclo

Anno liturgico A (2019-2020)

Tempo Ordinario

XXXIV Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

(22 novembre 2020)

___________________________________________________

Ez 34,11-12.15-17;  Sal 22;  1Cor 15,20-26a.28;  Mt 25,31-46

___________________________________________________

Il brano di oggi, che chiude l’anno liturgico, non è una semplice parabola, ma la visione di un giudizio profetico che ci fa contemplare nello stesso tempo, in uno sguardo d’insieme, la verità di questo mondo e quella del mondo futuro. Mette in scena la fondamentale chiamata comune alla premura vicendevole come senso del vivere. Tale chiamata risponde all’imprinting che sigilla la creazione: se il mondo è stato creato per amore, solo con l’amore trova il compimento, solo con l’amore se ne coglie il senso.

La collocazione stessa del brano nel racconto evangelico di Matteo fornisce le coordinate di comprensione. Al brano segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, di cui la passione svela tutta l’immensità e l’intensità dell’amore per noi che lo muove, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare tutte le genti. È la liturgia a suggerire il clima che caratterizza un giudizio che istintivamente genererebbe angoscia per la sua inesorabilità. Il Figlio dell’uomo, il Pastore, il Re, è anche l’Agnello immolato, Colui che per noi ha dato la sua vita, Colui che è il segno per eccellenza dell’amore di Dio per l’uomo. La liturgia ci fa cantare all’inizio: “L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza e sapienza e forza e onore: a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno” (Ap 5,12; 1,6). Celebra la figura del buon pastore con il salmo 22 (23) a commento del brano di Ez 34. Ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il compimento dell’attesa del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Ma prima di appuntare lo sguardo sul giudizio, è bene sottolineare la corrispondenza, segreta, di alcuni particolari. Il re dice a quelli di destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. Quel ‘venite’ corrisponde all’invito dello Sposo alla sposa nel Cantico dei cantici (c.4), ma è anche il grido della Chiesa, l’ultima parola del cuore dell’uomo al suo Signore ed insieme l’ultima parola di Dio all’uomo, quella sulla quale si chiudono le Scritture: “Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni! … Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,16.20). Eco dell’invito di Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28), esprime il riposo raggiunto dell’amore che tanta pena si è dato per convincere e conquistare.

Il ‘regno’ è preparato fin dalla fondazione del mondo. È la dimensione di comunione e intimità con il proprio Dio che attraversa la storia in quanto si svela nella solidarietà più radicale con i propri fratelli, tutti ugualmente invitati alla mensa del re. Con il ‘riceverlo’, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita. Quello che da sempre ha mosso il cuore di Dio, quello che ha costituito il suo primo pensiero per l’uomo, ora, finalmente, si vede realizzato, l’uomo lo può gustare pienamente. Se gli aggettivi sembrano comportare un registro di potenza e di gloria, la realtà di cui parlano è invece tutta di intimità, gioia, condivisione; è il ‘ristoro’ che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo. Come dicesse: ciò che è sempre stato vostro, ora lo potete godere pienamente. La pienezza è data dalla chiamata alla benedizione perché fa ricadere su ciascuno quello che era stato detto del Figlio dell’uomo al Giordano e sul Tabor: in lui ho posto tutto il mio compiacimento. Quel compiacimento ora è goduto da ciascuno, ora ciascuno sente di entrarvi e di esserne abitato.

Venendo ora al giudizio in se stesso, dal punto di vista dell’uomo, il vangelo di oggi rivela il senso insospettato delle nostre azioni. Nel bene e nel male, le nostre azioni hanno echi assai più misteriosi e infiniti di quanto siamo soliti considerare perché la storia umana non è mai stata semplicemente storia umana, bensì sempre storia sacra, storia di Dio e dell’uomo. È caratteristico che il giudizio non menzioni nessuna distinzione tra gli uomini e che nessuno abbia chiara coscienza delle conseguenze dell’agire. Non saremo giudicati sulla fede, ma sull’amore. E davanti a questo, ciò che conta è la sincerità dei cuori. E la sincerità dei cuori sembra giocarsi tutta nella solidarietà con l’umanità là dove non c’è alcun titolo speciale di gloria. Quando Gesù dice: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” allude proprio a coloro che non hanno alcun titolo a ricevere le nostre attenzioni oltre l’appartenenza all’umanità. È la visione più radicale dell’etica ed insieme la visione più divina dell’umanità. Se già non è scontato credere che la nostra storia personale sia comunque una storia sacra; se già è difficile credere che la nostra storia sacra costituisca l’unica forma possibile per noi per entrare in possesso della gioia del Regno che sempre sembra sfuggirci; è ancora più arduo credere che quella promessa di vita e di gioia che sempre ci accompagna dipenda dalla nostra solidarietà con l’umanità e non da altro. Ma qui si gioca appunto la nostra fede. La vigilanza delle vergini, l’operosità del servo fedele, si vedono qui, quando la fede ha toccato a tal punto il cuore da convertirlo interamente al desiderio di Dio, alla visione di Dio, cioè al modo di sentire e di vedere di Dio stesso riguardo agli uomini, suoi figli. Il riferire, da parte di Gesù, fatto a Lui quello che viene fatto agli uomini, comporta, da parte dei suoi discepoli, riferire fatto a Lui quello che fanno agli uomini. Non nel senso di voler amare Gesù in un uomo, ma nel senso di amare concretamente un uomo perché anche a lui si manifesti lo splendore dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù e così, solidali in umanità, ancora nel dramma della storia, ci si incammini verso ciò che costituisce il compimento della nostra storia: Dio tutto in tutti (1Cor 15,28).

Il racconto evangelico vuole introdurre al segreto di Dio per il mondo. Forse possiamo anche capirlo, ma come siamo lontani dal viverne la potenza e lo splendore!  Non esiste però altra norma del bene, altro segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altra prospettiva di azione, ogni altro interesse, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero.