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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Avvento

I Domenica

(2 dicembre 2018)

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Ger 33,14-16;  Sal 24;  1 Ts 3,12-4,2;  Lc 21,25-36

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È caratteristico che il tempo liturgico si chiuda e si apra con il riferimento allo stesso brano evangelico. L’attesa del Signore che viene è considerata nella sua valenza escatologica (il Cristo glorioso che verrà come giudice alla fine della storia), nella sua valenza profetica (Gesù che entra nella storia con la nascita a Betlemme), nella sua valenza mistica (il Signore che nasce e cresce nei cuori). Al centro dell’Avvento sta la figura di ‘Colui che viene’, espressione che è sempre stata riferita al Messia, a Colui che avrebbe fatto vedere presente il Regno di Dio. Dire ‘colui che viene’ è riferirsi a colui che salva, al Salvatore che realizza la salvezza.

Il tema della vigilanza, tipico dell’Avvento, si innesta nella corrispondenza tra l’antifona di ingresso: “Mio Dio in te confido” e il versetto 14 del salmo responsoriale: “Il Signore si confida con chi lo teme”, versetto che il testo ebraico proclama in modo ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Il segreto del Signore è quello rivelato dal profeta Geremia, mentre si trovava in prigione e riceve la rivelazione: “Invocami e io ti risponderò  … perdonerò tutte le iniquità … verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. E il salmo, come interpretando i bisogni del cuore dell’uomo e la difficoltà di incontrare il Signore che viene, continua a sottolineare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.

La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.

L’esortazione alla vigilanza allude all’attesa del cuore, mentre l’invito alla preghiera allude alla possibilità del compimento delle promesse di Dio. Attesa e promessa che sono ben espresse dalle parole di Gesù riportate in Giovanni: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Costituisce il godimento dell’ultima promessa di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E che il prefazio della liturgia di Avvento interpreta: “Ora che egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno”.

Il compimento di quelle promesse si sperimenta in ciò che Paolo esorta a vivere scrivendo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi, con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita, non può non riflettersi nell’attesa, avvertita imminente, del ritorno di Gesù. Ben presto però le comunità cristiane si sono rese conto che l’imminenza non riguarda i tempi, bensì la dimensione mistica, quella che corrisponde all’esperienza trasformante della rivelazione dell’amore di Dio che in Gesù si fa toccabile. È una esortazione alla speranza, che deriva dalla confidenza in Colui che è il testimone supremo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Con lo sguardo fisso su di lui, anche noi cresciamo nella disponibilità a rendere la nostra vita, con lui, segno dell’amore del Padre che ci chiama tutti alla stessa mensa.

E ritornando al brano evangelico di oggi, potremmo comprendere l’invito ad alzare il capo in questo modo: cercate di cogliere il segreto di Dio che vi viene incontro; cercate di bucare la cronaca con uno sguardo acuto per vedere il Signore che viene, vale a dire: lasciatevi attrarre dalla potenza dell’amore del Signore che vuole liberarvi dai vostri ripiegamenti su voi stessi. Guardare in alto e guardare dall’alto significa guardare nel profondo e dal profondo vedere le cose. Se il regno di Dio non è di questo mondo, è però per questo mondo. Così, aspettare il Signore che viene, significa essere attratti nella stessa dinamica di invio del Messia al mondo perché l’amore di Dio sia conosciuto.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Solennità e feste

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2018)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Benedetto Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione …” proclama Paolo nell’esordio della sua lettera agli Efesini. Come non riferirlo prima di tutto alla Vergine Maria? Lei è la benedizione dell’umanità in cui tutti siamo benedetti perché da lei nasce il Benedetto che ci ha consolati, come la liturgia di tutto l’avvento proclama. In lei la benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla da desiderare. E tutta la storia, pur nella sua drammaticità, non è mai abbandonata a se stessa perché da sempre, ‘prima della creazione del mondo’, quella benedizione la sovrasta, l’accompagna, la intride e la custodisce.

Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, innalza una lode sublime alla Regina del cielo:

“…. Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate”.

E conclude con quella mirabile espressione: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione, che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi, Gesù Signore

La benedizione di cui parla san Paolo ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. La liturgia esprime le cose al negativo: “l’hai preservata da ogni macchia di peccato”, ma il senso è eminentemente positivo: è piena di grazia, nella sua semplicità di creatura risplende tutta, in ogni sua parte, della luce di santità di Dio nella quale l’uomo era stato creato. Della sua umanità siamo fatti anche noi, condividiamo con il suo Figlio la stessa umanità perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità; con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione, con la rivendicazione e la pretesa, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio che portiamo incise nel profondo. Se rifacciamo a ritroso il tragitto delineato dal colloquio nel giardino tra Dio e Adamo e Eva dopo la trasgressione, ci ritroveremo nuovamente in una umanità condivisa e goduta insieme a Dio e a tutti i fratelli. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza. E l’inganno più tremendo è quello di rimuovere quella paura di Dio allontanando la vergogna ma per acconsentire semplicemente alla legge del più forte, fonte di illusione e di ingiustizia. Se però l’uomo sa ascoltare l’invito di Dio che continuamente bussa al suo cuore senza tener conto della sua paura: “dove sei?’, allora ritorna all’albero della vita, il Cristo Signore, per vivere nella sua umanità la dimora di Dio, fonte di beatitudine.

La Vergine è proprio Colei che di quella dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità perché l’esperienza di cui è stata gratificata ridiventi, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Quando di lei dice che è la serva del Signore allude proprio a quel desiderio della dimora di Dio che si compie nel mondo, di cui tutto il suo essere è espressione e testimonianza e intercessione per l’umanità intera.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Avvento

II Domenica

(9 dicembre 2018)

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Bar 5,1-9; Sal 125; Fil 1,4-6,8-11; Lc 3,1-6

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È essenziale in questa liturgia di avvento riuscire a cogliere il clima, il tono dei testi. Siamo abituati a tener conto dei testi rispetto al loro contenuto, ma incapaci di accordarci sul tono che invece è quello che permette di coglierne il senso vero. La figura di riferimento è Giovanni Battista che comincia a predicare: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Invito, ripreso dalla colletta: “O Dio grande nell’amore, che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo regno, raddrizza nei nostri cuori i tuoi sentieri, spiana le alture della superbia …”.

Sulla scia dell’eco che ancora risuona nel Battista per le parole del profeta Isaia, che le innesta nella decisione di Dio di radunare il suo popolo facendolo tornare dall’esilio: “Consolate, consolate il mio popolo …” (Is 40,1). Eco, che lambisce anche le parole del profeta Baruch, che si indirizza a Gerusalemme perché ammiri il ritorno dei suoi figli per l’iniziativa di salvezza di Dio, sull’assicurazione: “Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui” (Bar 5,9). Rispetto all’esortazione a preparare la via del Signore, va notato che l’invito del profeta Isaia, ripetuto dal Battista, rivolto a Israele, è in parallelo con la decisione di Dio di preparare la via a Israele riportata dal profeta Baruch: “Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio” (Bar 5,7). La versione del salterio di Bose del salmo 126 (125) lo fa risaltare fin dal primo versetto: “Al ritorno del Signore con Sion che ritornava”.

Così, l’invito del Battista non si riferisce primariamente alla decisione della conversione da parte dell’uomo, ma alla ragione che spinge l’uomo alla conversione: Dio ha deciso nella sua benevolenza di venire, di venire a consolare, di venire a salvare. Non ha richiesto alcuna condizione; lui ha deciso, lui nel suo amore, lui nel suo desiderio. Ed è proprio perché Giovanni Battista fa presagire quel desiderio di Dio nell’imminenza del suo compimento che suscita l’interesse dei fedeli e li muove a conversione. La decisione di Dio risalta nella descrizione della stessa vocazione del Battista: “la parola di Dio venne su Giovanni”, espressione che riprende il testo della LXX della vocazione di Geremia (Ger 1,4: “Mi fu rivolta questa parola del Signore”, espressione che nel greco della LXX suona: ‘la parola di Dio venne (fu) su Geremia’). È Dio che prende l’iniziativa e viene all’uomo. Il Battista predica perché l’uomo colga questo desiderio di Dio, si prepari a fargli posto. Tanto che, come riportavo sopra, nell’invito a preparare le vie del Signore e raddrizzare i suoi sentieri, ancora si può percepire la consolazione di Dio per il suo popolo in quanto è lui che prepara la via nel deserto perché il popolo possa camminare e tornare senza inciampi, festoso, nella gioia.

Ne possiamo comprendere la valenza affettiva ed emotiva se abbiniamo l’invito del Battista all’esortazione di Paolo ai Filippesi. Raddrizzare le vie significa: “che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio …” (Fil 1,9-10). Il testo greco è però emotivamente assai più intenso e si dovrebbe rendere: ‘più e più ancora sovrabbondi il vostro amore in pienezza di esperienza e di sensibilità, per distinguere al meglio ciò che è bene in tutte le cose …’. Corrisponde all’esperienza di quanto riferisce Baruch: “Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui” (Bar 5,9).

Il vangelo di Luca sa collocare l’iniziativa di Dio così dentro la storia da fermentarla tutta, da farne esplodere il senso e il fine ultimo. Il suo testo, in questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e misteriose allusioni. La persona di Gesù è compresa in rapporto a Giovanni Battista e Giovanni Battista è compreso in rapporto al popolo di Israele che attende la manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa. Le coordinate storiche degli avvenimenti, però, poiché di un intervento di Dio nella storia si tratta, sono situate entro la cornice della storia pagana, a indicare la centralità dell’evento per la storia umana. Siamo nell’anno 28/29 d.C. Vengono nominate le autorità che derivano il loro potere dal beneplacito di Roma: anzitutto Tiberio, poi Ponzio Pilato (governatore/prefetto della Giudea tra il 26 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che governa tra il 4 a.C. e il 39 d.C.), Filippo (al potere tra il 4 a.C. e il 34 d.C.) e Caifa, sommo sacerdote, che svolge il suo incarico tra il 18 e il 36, dopo che Anna, suo suocero, era stato deposto nell’anno 15.

All’azione di Dio corrisponde l’azione dell’uomo. Al suo desiderio di stare con gli uomini e di renderli partecipi finalmente dell’amore suo con l’invio del Figlio, corrisponde l’azione dell’uomo che consiste proprio nell’aprirgli le porte, nell’accoglierlo, nel cogliere il segno che lui rappresenta. Sarà il Figlio, accolto, ricevuto in casa (pensiamo agli incontri avuti da Gesù con i vari discepoli e personaggi nei vangeli!), che ‘raddrizza i sentieri di Dio in noi’, nel senso che nel Signore Gesù e con il Signore Gesù l’uomo ritrova la sua vocazione divina e la possibilità di compierla in pienezza, per cui torna ad essere capace di compiere i comandamenti, che costituiscono i sentieri di Dio per noi.

E quando il Battista applica all’uomo l’esortazione di raddrizzare i sentieri di Dio non fa che scuoterlo dai suoi miraggi e dalle sue illusioni perché apra il suo cuore a quel Figlio che sta per venire, che è venuto a portare e a far vivere la vita di Dio. E aggiungendo: “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, non fa che sottolineare l’estensione del progetto di Dio per l’umanità. È la via di Dio per l’uomo, che diventa la via dell’uomo per Dio: lasciare libero il sentiero tra uomo e uomo è il segno più inequivocabile della rimozione di ostacoli nel sentiero tra uomo e Dio. Amare il prossimo torna a gloria di Dio perché è segno dell’esperienza dell’incontro con Dio, segno dell’accoglienza gioiosa e solidale con l’umanità di quel Figlio, mandato a riunire i figli di Dio dispersi.

L’invito alla conversione è dunque l’invito a vedere la venuta di Dio che viene incontro al suo popolo, è l’apertura di cuore a riconoscerlo nella sua offerta di alleanza, nella sua proclamazione di amore. Il Battista chiama la gente alla conversione nel deserto per imparare a percepire la nuova opportunità di salvezza che viene da Dio, mentre Gesù, che di quella salvezza è l’attore e il portatore, andrà lui dalla gente per farla gustare e rinnovare così i cuori tanto che ‘ogni creatura potrà vedere la salvezza’, cioè vedere in Lui quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini (= vedere la gloria) e disporre tutti a vivere lo stesso mistero di amore perché Dio sia celebrato ovunque. Sarà uno degli esiti della gioia del Natale.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Avvento

III Domenica

(16 dicembre 2018)

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Sof 3,14-18a;  Is 12,2-6;  Fil 4,4-7;  Lc 3,10-18

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Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele; esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico”; “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Per quale ragione?

Quando il Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce come riflesso della gioia che quell’incontro gli procura. Fin dal grembo materno Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29). Così, quando Luca vuol descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia.

La liturgia mostra il motivo della gioia nella proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della sua gioia per noi’, come proclama il profeta Sofonia, capaci finalmente di condividerla. Giovanni chiama Gesù ‘colui che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti (11,22), definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie, ciò che esattamente fa Gesù.

Insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice la gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità. Nell’indicare le varie opere come segno dell’incipiente conversione, Giovanni Battista si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini. Essere solidali in umanità significa ricreare quell’ambiente umano che fa concludere a s. Benedetto la sua famosa Regola con queste parole che si applicano alla vita comune di tutti i credenti in Cristo: “… c’è anche uno zelo buono, che allontana dai vizi e avvicina a Dio e all’eterna vita. Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore. Essi dunque, si prevengano nello stimarsi a vicenda (Rom 12,10); sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna”.

Proprio come la colletta, declinando con lucidità i temi tipici della liturgia di oggi, l’invito alla gioia e all’agire secondo Dio, fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”. La chiesa fa pregare perché corriamo, non solo camminiamo sulla via dei comandamenti. Si corre perché la letizia ci mette le ali, come dice anche il salmo: “corro sulla via dei tuoi comandamenti perché hai dilatato il mio cuore” (Sal 118,32), che il prologo della Regola di s. Benedetto parafrasa: “… avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti”.

Il brano del vangelo odierno termina con l’annotazione: “Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo”. Evangelizzare comporta l’aprire il cuore alla gioia di una presenza, sempre per la ragione che Paolo dice ai Filippesi: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”. È una gioia che si traduce in un tratto di dolcezza verso tutti e tutto, tanto da gustare una pace che sovrasta ogni afflizione e ogni contrasto. Il Battista esorta a fare frutti degni della conversione e i frutti degni della conversione sono quelli accompagnati dalla gioia di una Presenza amica. Ogni bene non custodito dalla gioia risulta troppo precario. La conversione non vuol semplicemente dire tornare a fare azioni buone a differenza di prima che si facevano azioni cattive; comporta l’accedere al fuoco del cuore che dà ragione di quel fare ‘diverso’, che dà senso all’impegno del bene e che abilita a godere il dono di Dio, del suo essere con noi, in mezzo a noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(23 dicembre 2018)

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Mic 5,1-4a;  Sal 79;  Eb 10,5-10;  Lc 1,39-45

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Siamo ormai prossimi alla festa del Natale e la liturgia oggi è tutto un invocare il compimento del ‘volere’ la nostra salvezza da parte di Dio. Non è l’uomo a muovere Dio, ma è il volere salvatore di Dio che investe l’uomo. Il salmo 79 riassume bene gli aneliti dei cuori: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci … Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna”. Quel ‘volere’ si rivela in un volto di cui godremo finalmente la vista. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un determinato momento sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto.

Con il cantare nel salmo responsoriale: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (Sal 79,3), invochiamo di essere toccati dalla compassione di Dio per noi, la cui potenza si esprime nella capacità di dare letizia al nostro cuore, conquistandolo alla sua pace. E se per cogliere la portata della salvezza operata da Gesù, la lettera agli Ebrei gli mette in bocca le parole del salmo 40: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”, vuol dire che la volontà del Padre è che il Figlio mostri la grandezza del suo amore per i suoi figli e li riunisca dalla dispersione in cui erano piombati. In quella volontà noi siamo santificati, vale a dire siamo abilitati a vivere nella comunione con il Padre nel suo stesso volere di bene per tutti, perché tutti sono invitati alla mensa del suo amore.

Si invoca la sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e tutto l’uomo per Dio.

A quel ‘volere’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), come proclama il canto al vangelo. Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio. E non per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Coglie molto bene la purezza della fede di Maria: lei è beata perché non solo ha creduto alle parole dell’angelo, ma ne ha accettata la dinamica di compimento. Il che significa che comunque l’opera di Dio si manifesterà, lei è disponibile. Significa ancora che accettando di restare coinvolta nell’adempimento delle parole dell’angelo, ha messo da parte, se mai ne aveva avute, tutte le sue preferenze, tutte le sue immaginazioni. A differenza degli apostoli, i quali, hanno accettato la fede nel Messia, ma secondo la loro immaginazione e trovando sempre difficile arrendersi alla rivelazione di Gesù. Parafrasando le parole di Elisabetta potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, su di lei come sul mondo. È da tale consapevolezza che sgorgano le parole del magnificat e il canto di esultanza della creatura che vede lo spazio di vita ormai totalmente occupato da quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, per prima cosa chiediamo di fare esperienza di quell’amore di benevolenza da parte di Dio, amore nel quale siamo stati concepiti e voluti e che costituisce tutto il nostro splendore, sebbene l’esperienza non sia mai scontata.

Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ “avvenga per me secondo la tua parola” c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del magnificat alludono anche alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di quell’amore Lui è il rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in verità sa che è amore per noi. Proprio questo è venuto a ‘far vedere’! E in questo sta la nostra salvezza e la nostra pace.

Nel salmo 79 il versetto che fa da ritornello responsoriale “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”, viene ripetuto tre volte. Quel volto che risplende su di noi è il Messia cantato come ‘figlio dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore, amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte nostra.

È interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40, ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

Mi piace riportare le solenni antifone dei vespri della novena di Natale, riprese nel canto al vangelo delle Messe, perché costituiscono un’invocazione ardente e una preghiera intensissima al Signore che viene. Sono sette invocazioni strettamente congiunte che danno il tono alla nostra attesa della nascita del Salvatore:

O Sapienza, di te parlano tutte le cose, tutte a te anelano: di te splenda lo sguardo e il gesto ti ripeta;

O Adonai, Signore e guida della storia, che vai alla ricerca del tuo popolo e fai risplendere il tuo volto su di lui: affascina e acquieta i nostri cuori;

O Germoglio della radice di Jesse, segno per i popoli: alla tua ombra trovino ristoro e riposo le genti;

O Chiave di Davide, che con la tua morte e risurrezione hai aperto le porte del Regno: lascia trapelare il suo splendore nel nostro agire;

O Astro che sorgi, sole di giustizia: la bellezza del tuo volto e la verità della tua bontà rapiscano i cuori;

O Re delle genti, l’atteso delle nazioni, pietra angolare dell’umanità nuova: cedano gli odi e le divisioni perché in te gli uomini si ritrovino tutti figli di Dio, operatori di pace;

O Emmanuele, Dio con noi, speranza dei popoli: la tua pace custodisca i nostri cuori ed i nostri pensieri, come in cielo così in terra.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2018)

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Messa della notte:                             Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                            Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                              Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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Se consideriamo lo sviluppo della liturgia natalizia nei vari formulari delle Messe, il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi dio. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva. Come canta s. Efrem: “Benedetto colui che si è fatto piccolo senza misura, per farci diventare grandi senza misura… Beato chi ha fatto dimorare le tue gioie nel suo cuore e che ha smarrito in te le sue pene! … Benedetto colui che è venuto in ciò che è nostro e ci ha uniti a ciò che è suo!… Il nostro corpo è diventato il tuo vestito, il tuo Spirito è diventato il nostro abito. Benedetto colui che si è adornato e ci ha adornato”.

La vigilanza, che la liturgia dell’avvento ci aveva insegnato ad assumere davanti al mistero del Signore che viene, ci ha affinato gli sguardi. Ora siamo pronti a vedere ciò che in realtà non è proprio visibile. Quale potenza mostra mai un Dio che si fa fragile e inerme bambino? Quali luci in un evento di cui nessuno sembra accorgersi, in una situazione di povertà e di totale discrezione?

Forse noi non ci rendiamo conto dell’immensa sproporzione tra la povertà del segno (un bambino nella mangiatoia) e lo splendore della visione con la letizia incontenibile che riempie i cuori. Compaiono gli angeli, il Bambino è riconosciuto e adorato, echeggiano canti celesti, ma la povertà è totale, il rifiuto incombente, la persecuzione nell’aria, nessuno si appressa se non i pastori, gli ultimi della società. I pittori di icone della Natività lo hanno mostrato assai bene: la greppia assomiglia alla tomba, le fasce del bambino assomigliano alle fasce mortuarie. E poi, non ci sono luci e angeli attorno alla greppia o alla grotta; questi appaiono ai pastori che vegliano le loro greggi, annunciano il loro messaggio e spariscono. Alla grotta, davanti al Bambino, vale solo il racconto dei pastori, e come loro hanno creduto all’annuncio celeste, così gli altri credono alla loro testimonianza.

Come racconta una bella poesia di Chesterton sul Natale:

Un bambino in una misera stalla,

con le bestie a scaldarlo ruminando;

solo là, dove Lui fu senza un tetto,

tu ed io siamo a casa.

Abbiamo mani all’opera e teste capaci,

ma i nostri cuori si sono persi – molto tempo fa!

In un luogo che nessuna carta o nave può indicarci

sotto la volta del cielo.

Questo mondo è selvaggio come raccontano le favole antiche,

e anche le cose ovvie sono strane,

basta la terra e basta l’aria

per suscitare la nostra meraviglia e le nostre guerre;

Ma il nostro riposo è lontano quanto il soffio di un drago

e troviamo pace solo in quelle cose impossibili,

in quei battiti d’ala fragorosi e fantastici

che volarono attorno a quella stella incredibile.

Di notte presso una capanna all’aperto

giungeranno infine tutti gli uomini,

in un luogo che è più antico dell’Eden

e che alto si leva oltre la grandezza di Roma.

Giungeranno fino alla fine del viaggio di una stella cometa,

fino a scorgere cose impossibili che tuttavia ci sono,

fino al luogo dove Dio fu senza un tetto

e dove tutti gli uomini sono a casa.

La luce, che rifulge nella notte di Natale, è la luce della gioia e dell’amore eterno di Dio per l’uomo, di cui il mondo è intessuto e da cui è attraversato, la luce della Presenza e della Dimora di Dio in mezzo agli uomini, che tutta la Rivelazione testimonia e che ora trova come il suo svelamento e il suo compimento. La luce non è semplicemente per gli occhi, ma per il cuore. È la luce che si irradia dagli occhi quando il cuore è capace di commuoversi alla percezione della Presenza di Dio che si fa toccabile in quel bambino. È interessante osservare che i salmi responsoriali delle tre messe natalizie fanno parte del gruppo di salmi che la tradizione ebraica proclama in ricevimento del sabato, sacramento della Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Non si tratta solo di acutezza di sguardo, ma anche di commozione del cuore davanti all’amore del Signore che si accompagna a noi secondo le modalità della nostra umanità. A sottolineare la fecondità del realismo dell’amore di Dio che ci viene incontro nella nostra stessa umanità, la liturgia prega con la colletta della messa dell’aurora: “Signore, Dio onnipotente, che ci avvolgi della nuova luce del tuo Verbo fatto uomo, fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito”, come chiedessimo di vivere la nostra umanità secondo la luce di cui è costituita, essendo fatta a immagine del Figlio di Dio. Il tutto è ripreso ancora nella colletta della messa del giorno: “O Dio … fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.

Se si rilegge l’episodio del presepe di Greccio nella vita di s. Francesco di Assisi ci rendiamo conto della logica di quella visione. “Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio di far memoria di Gesù, il desiderio di condividere con lui quello che lui vive, sente e opera, perché il cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di vedere, all’anima di gustare. Allora, la semplicità del segno parla, si spalanca su spazi immensi perché la storia umana si apre sulla storia di Dio con l’umanità e la letizia non può non spuntare.

Concludo con le parole di un poema natalizio, sempre di s. Efrem: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!… Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci cari, che ha sete di amarci e che chiede a noi di dare perché Lui possa darci ancora di più”. E ancora: “Quanto sei audace, o bimbo, che a tutti ti concedi. A chiunque ti viene incontro tu sorridi e di chiunque ti guarda tu hai desiderio. È come se il tuo amore avesse fame degli uomini. Non fai distinzione tra i tuoi parenti e gli estranei, tra tua madre e le serve, tra colei che ti ha allattato e le donne impure. È questa la tua audacia o il tuo amore, o tu che tutti ami?”.

Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutta l’umanità. Buon Natale a tutti e a ciascuno, a tutte le famiglie.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Natale

Santa Famiglia

(30 dicembre 2018)

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1 Sam 1,20-22.24-28;  Sal 83;  1 Gv 3,1-2.21-24;  Lc 2,41-52

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È significativo che la Chiesa non celebri l’incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare sia questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero. Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente.

Per porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse divine ma intessuta anche di peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia, con il suo carico di drammi e di violenze. Anche per Gesù, che è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto assumere la realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua realtà umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta, per i figli e per i genitori, nella gamma delle situazioni drammatiche in cui si vive la vita, con la storia degli abbandoni, dei conflitti e delle riconciliazioni sperate e cercate.

Nel racconto del ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. Al padre e alla madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’, di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni affetto anela.

Gli orizzonti sono mantenuti larghi, è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che si pensava ovvio. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere o comunque senza che siano necessariamente resi partecipi. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19).

Non comprendere subito il piano di Dio non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriosi, che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti familiari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e non invece con Colui che di quel legame è la Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto superiore rischia di soffocare.

Forse non è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49); sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù.

Lo dice assai bene la seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato” (1Gv 3,24). In altri termini, osservare i comandamenti risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio che li apre ad aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così larga di orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Solennità e feste

Maria SS. Madre di Dio

(1° gennaio 2019)

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:

– che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

– che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore

– possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile dal male, per il legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace.

E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

Così porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatto, dentro un’intimità, alle radici del cuore.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo.  Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose’ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Solennità e feste

Epifania del Signore

(6 gennaio 2019)

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti; l’inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando Giovanni Battista lo rivela al popolo d’Israele; il miracolo delle nozze di Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture perché di lui le Scritture parlano viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento secondo il canone cristiano: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio!

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita.  Potremmo chiederci: quando siamo acqua e quando siamo vino? Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo.

Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Solennità e feste

Battesimo del Signore

(13 gennaio 2019)

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 103;  Tt 2,11-14; 3,4-7;  Lc 3,15-16.21-22

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Con la festa del battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con l’invocazione del profeta: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come oggi la scena del Battesimo di Gesù fa intravedere: “il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” (Lc 3,21-22). I cieli che si aprono non preludono ad una visione del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei beni divini, beni che dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era messianica, dei quali il principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su tutti, attraverso quel Figlio che lo possiede in pienezza.

“Benedetto colui che ha moltiplicato la vostra bellezza con le acque del battesimo!”, canta s. Efrem. E continua “Dalla porta del battesimo sono tolti cherubino e spada e vi sta il figlio di Dio, per introdurre gli uomini nella casa del padre suo, affinché siano eredi insieme a lui, senza gelosia … Grazie a queste sante acque muore l’iniquità che tutti uccide, e vive l’anima che era stata uccisa in principio con il peccato: essa ha ritrovato la sua bellezza originaria …. O battezzati che avete trovato il Regno nel ventre del battesimo scendete, rivestitevi dell’unigenito, poiché è lui il Signore del Regno”. Così, dal battesimo di Gesù la chiesa passa a celebrare il mistero del battesimo nel quale ottiene nuovi figli.

La narrazione dell’evento del battesimo di Gesù al Giordano nasconde tanti misteri. Il primo gesto di Gesù, nel dare inizio alla sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Non ha bisogno del battesimo, eppure viene a farsi battezzare. Perché? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. E Gregorio di Nazianzo commenta: “Cristo è illuminato: illuminiamoci anche noi insieme con Lui; Cristo viene battezzato: scendiamo anche noi nell’acqua insieme a Lui, per risalire con Lui” (Orazione 39,14). Parafrasando: Lui si fa luce, entriamo anche noi nel suo splendore; Cristo riceve il battesimo, inabissiamoci con lui per poter con lui salire alla gloria.

Nessuno, però, può ancora vedere lo Spirito; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che, con quel battesimo dato a Gesù, finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo nello Spirito. Al momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”. È la funzione della parola di Dio che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: “Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna; sono proprio esse che danno testimonianza di me” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in quel ‘Figlio, l’amato’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture, oltre alla testimonianza sul Tabor alla trasfigurazione, dove si parla di ‘figlio amato’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora, nella parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘amato’ rivela la radicalità della fede di Abramo, che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità, essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri…

L’aggiunta: “in te ho posto il mio compiacimento”, rivela tutta la profondità del mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’. In te, però, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma nella sua umanità: l’amore di Dio e dell’uomo si corrispondono ormai perfettamente. Oppure, si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo e nella vita e nella persona di Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. Se noi stiamo in lui, allora anche in noi la volontà del Padre si compirà perché anche in noi il suo amore risplenderà. È ciò che comporta l’essere nati dallo Spirito, il vivere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso con la sua morte e risurrezione. Proprio come s. Francesco di Assisi proclamerà della nostra vita in Cristo: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

La chiesa prega che il Signore, come ha squarciato i cieli, si degni squarciare i nostri cuori perché anche a noi appaia, finalmente, in tutta la sua bellezza, il volto del Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini. E come dice Paolo a Tito “… nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,13), noi aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine della vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio; fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla sua bellezza; apri il nostro cuore alle sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il tuo amore e possiamo venire risanati; facci fare l’esperienza viva del tuo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai popolo nuovo”.

La figura di Gesù, nel racconto del battesimo, è definita da tre termini: figlio/servo/agnello, che in aramaico sono espressi da un’unica parola. Il compiacimento del Padre si risolve nel fatto che Gesù viene a fare la sua volontà, vale a dire fa riferimento all’obbedienza del servo che accetta fino in fondo il compito affidatogli, ma allude anche all’intimità ed alla libertà del figlio che condivide intensamente con il Padre la sua passione d’amore per gli uomini. Per noi accogliere i due riferimenti contemporaneamente è proprio difficile! Per noi la volontà di Dio non suona subito come una volontà di Bene, come un Bene che vuole condividere con noi, come una gioia di Bene che riposa i cuori e di Dio e degli uomini. Ma se riconosciamo lo splendore dell’amore di Dio che rifulge dal volto di quel figlio/servo/agnello, potremo anche noi, come lui e in lui, cogliere e compiere il volere di bene di Dio in favore degli uomini e godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i figli di Dio dispersi’. Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra ragione nel suo agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo desiderio di Dio e il luogo di manifestazione del suo splendore. Così si compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e del nostro desiderare.

Avviene ciò che poeticamente canta s. Efrem mettendo le parole in bocca alla madre di Gesù: “Colei che è nata libera, figlio mio, è tua ancella, se ti serve. E la schiava in te è libera, in te è consolata poiché è stata affrancata. Un’emancipazione invisibile è posta nel suo grembo, se è te che ama”. E in un altro passo: “Nelle acque ha trovato il modo di scendere e dimorare in noi, come il modo della misericordia quando scese e dimorò nell’utero. Oh, misericordia di Dio, che si cerca tutti i modi per prendere dimora in noi!”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

II Domenica

(20 gennaio 2019)

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Is 62,1-5;  Sal 95;  1Cor 12,4-11;  Gv 2,1-12

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Il brano evangelico di oggi si conclude con l’annotazione: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). Il vangelo di Giovanni termina con l’affermazione: “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31). Giovanni usa il termine ‘segno’ e non ‘miracolo’ in riferimento ai gesti simbolici di Gesù per indicare che in lui ha luogo l’evento escatologico, il compimento delle promesse di Dio. Il lettore del vangelo sa che verrà introdotto all’esperienza degli apostoli: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

Ora, la manifestazione della gloria di Gesù ha sempre a che fare con il suo amore salvatore, tanto che la manifestazione suprema della sua gloria avverrà sulla croce, quando la sua ora sarà venuta e tutto sarà compiuto. I segni, che Gesù compie nel suo cammino verso quell’ora, hanno lo scopo di orientare gli sguardi a ciò che avverrà in quell’ora, l’ora della sua glorificazione, allorquando il re crocifisso apparirà come il re della gloria, per aver mostrato la grandezza e lo splendore dell’amore del Padre per noi, sigillando nel sangue la nuova alleanza ed effondendo su tutti il suo Spirito di vita.

Nel racconto di Giovanni gli eventi, che intercorrono dal riconoscimento di Gesù al Giordano da parte di Giovanni Battista fino alle nozze di Cana, sono racchiusi nello spazio di una settimana, in riferimento alla settimana della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono dunque e videro’ (Gv 1,39) di Andrea e Giovanni, i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro scoperta in questi termini: ‘abbiamo trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose più grandi di queste!’ (Gv 1,50). Tutti i segni che Gesù compie sono collocati nella scia di questo ‘vedere cose più grandi’ fino alla rivelazione suprema, con la sua morte e risurrezione, allorquando le cose più grandi sono ormai le cose ultime, definitive, supreme, a partire dalle quali tutto prende senso e splendore.

L’annotazione temporale ‘il terzo giorno’ allude anche al legamento di Isacco da parte di Abramo nel suo viaggio verso il monte Moria dove avrebbe sacrificato il figlio (“Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo…”, Gen 22,4); allude alla teofania del Sinai (“Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”, Es 19,16); allude alla risurrezione di Gesù (“Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere»”, Gv 2,19). Tutte allusioni che rendono particolarmente denso il racconto giovanneo delle nozze di Cana.

Il racconto, simbolo dell’antica alleanza in cui Dio appariva come lo Sposo del popolo, non ruota attorno alla figura degli sposi novelli, di cui non sappiamo nulla, ma attorno all’intervento di Gesù. Gesù interviene da invitato: è lui il nuovo Sposo, come aveva ben visto il Battista (cfr. Gv 1,15.27.30). E manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino simbolo dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Il vino è collegato al Messia secondo la profezia messianica di Gen 49,11. È simbolo dell’amore come appare nel Cantico dei cantici 1,2;7,10; 8,2. Se ne accorge sua madre, che appartiene all’antica alleanza, ma la cui fedeltà a Dio la rende capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.

Gesù, che fa riempire d’acqua le anfore di pietra e fa attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova alleanza con il dono del vino, che simboleggia l’esperienza diretta e personale, nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Quello che la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a cui anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile. E questo si vedrà proprio nella sua ora quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che, con il dono dello Spirito Santo, diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e segno di Dio per il mondo intero.

La trasformazione dell’acqua in vino si ritrova nella storia delle religioni come espressione di un sogno degli uomini, ma il contesto in cui avviene non è mai un matrimonio. La cerimonia nuziale come contesto di questo segno è tipica dell’immagine messianica del vangelo, che dà un sapore tutto nuovo al vivere insieme da discepoli di Gesù secondo la dinamica dell’acqua, divenuta vino, che si offre nella Parola, divenuta carne e attraverso di essa. Tutto il vangelo resta immerso in questa atmosfera nuziale. Le nozze, che illustrano il mistero della comunione di Dio con l’uomo, alludono al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati al suo splendore.

Il miracolo di Cana, mentre allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche al mistero dell’intelligenza delle Scritture. Tutte le Scritture parlano di lui (‘Voi scrutate le Scritture pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me’, Gv 5,39): tutte le parole alludono alla Parola fatta carne. E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che percorre tutta la Scrittura, allora si passa dal bere l’acqua al gustare il vino (che sulla bocca del maestro di tavola è chiamato ‘vino bello’). Così come nel compiere i comandamenti di Dio: un conto è praticarli materialmente, un conto è praticarli cogliendo l’ispirazione e la rivelazione di vita che comportano.

Quest’ultimo aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo perché sposata (forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’, come segnala l’antica versione greca della LXX). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. ‘Acqua’ e ‘vino’ diventano così le due modalità con cui è possibile agire nella vita: tutto si può fare essendo acqua e tutto si può fare essendo vino. Per questo è detto che il vino rallegra il cuore dell’uomo (cfr. Sal 104,15) e che il regno di Dio è definito con l’immagine della gioia delle nozze.

Possiamo allora pregare con la chiesa: “… la santa chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne”, allorquando tutti ci relazioneremo come figli di Dio nell’esperienza assoluta e sovrana dell’amore di Dio per noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

III Domenica

(27 gennaio 2019)

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Ne 8,2-4.5-6.8-10;  Sal 18;  1Cor 12,12-30;  Lc 1,1-4; 4,14-21

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Se consideriamo l’episodio della predicazione a Nazaret da parte di Gesù nella narrazione di Luca in sinossi con quella di Matteo cogliamo meglio il suo mistero. Luca colloca l’episodio all’inizio del ministero di Gesù, senza tener conto delle contraddizioni del racconto nel senso che fa riferimento a eventi narrati solo in seguito. Secondo Luca, l’episodio prefigura il rifiuto che incontrerà Gesù da parte delle autorità religiose del suo popolo e la predicazione della salvezza ai pagani. Fin dall’inizio è come se volesse anticipare quello che avverrà alla fine. Mentre in Matteo l’episodio fa da contrasto tra i familiari di Gesù e i suoi discepoli. Lo colloca a conclusione delle sette parabole del regno, introdotte a loro volta dall’accoglienza dei discepoli come i nuovi familiari di Gesù: “Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50). L’episodio di Nazaret sancisce la ‘nuova famiglia’ di Gesù, la comunità di vita con i suoi discepoli, definiti con la beatitudine di non trovare in lui motivo di scandalo (cfr. Mt 13,57).

Nel racconto di Luca Gesù, dopo il battesimo al Giordano, pieno di Spirito Santo, viene sospinto nel deserto per esservi tentato e ritorna in Galilea con la potenza dello Spirito. Gesù si presenta come colui cui, avendo vinto il maligno, avendo cioè accettato di condursi come Messia secondo i segreti di Dio, può applicarsi la profezia di Isaia che esprimeva tutta la benevolenza di Dio per il popolo. Gesù si presenta come l’Inviato, capace di dare compimento alle promesse di Dio. Quello che forse non cogliamo più della manifestazione di questa autocoscienza di Gesù è il suo carattere dinamico. L’invio non rimanda semplicemente all’opera per la quale è mandato, ma all’intimità che vive con il Padre nel mostrare, con le parole e l’agire, il suo grande amore agli uomini. In effetti, l’aspetto più suggestivo del racconto di Luca sta nel fatto di collegare questo annuncio all’esito finale, al rifiuto che il Messia subirà ma perché venga esaltata la benevolenza di Dio per gli uomini. In quel rifiuto si potrà scoprire tutta la ‘potenza’ dello Spirito che lo abita nel senso di tenere unita la sua intimità con il Padre e l’amore verso i suoi figli, ai quali si presenta come il Testimone del suo amore per loro.

La profezia messianica di Isaia 61, che parla di poveri, di prigionieri/oppressi, di ciechi, allude alle deficienze del nostro vivere che Gesù è venuto a redimere: a) la nostra vita è mancante, soffre di limiti; b) viviamo sotto l’oppressione di una schiavitù imposta o procurata, subita o provocata; c) camminiamo all’oscuro, non distinguiamo bene nulla. Gesù si presenta, dalla parte di Dio, capace di rinnovare la letizia, di offrire la libertà e di suggerire un senso. Sono le coordinate di un vivere felicemente la propria vocazione umana, in comunione con Dio. La felicità, come la vita stessa di Gesù mostrerà, è dire bene Dio con la premura della cura dell’uomo fino a dare la nostra vita perché la vita dell’altro cresca. Ma come vivere questa felicità paradossale senza la rivelazione del volto di Dio che si fa conoscere come cura per l’uomo? Per questo Origene annota come sia da invidiarsi l’assemblea che tutta intera, alla lettura della parola di Dio, tiene gli sguardi fissi su Gesù!

La prima lettura, tratta dal libro di Neemia, sottolinea un aspetto assolutamente caratterizzante dell’assemblea liturgica. Gli ebrei erano appena ritornati dall’esilio di Babilonia, avevano ricominciato a costruire il tempio e le mura di Gerusalemme, ma la vita si prospettava piena di insidie sia sociali che religiose. Il popolo viene ricompattato con la proclamazione del libro della legge, la lettura del quale suscita un’emozione grandissima. Il popolo piange, si rattrista, si accorge di quanto sia stato infedele al suo Dio. Come era successo al re Giosia: “Udite le parole del libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2Re 22,11); come succederà alla gente che aveva ascoltato il discorso di Pietro a Pentecoste: “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37); come ripeterà la beatitudine: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati” (Mt 5,4). La traduzione di Chouraqui, sul calco ebraico, fa cogliere più direttamente l’evento dell’ascolto della parola nell’assemblea liturgica. “I leviti leggevano il libro della legge di Dio” (Ne 8,8) e Chouraqui traduce: ‘gridano l’atto della tora’, dove il termine ‘libro’ è reso con ‘atto’, ad indicare l’attualità, la realtà, la contemporaneità di quella parola che da sempre è pronunciata e da sempre porta salvezza.

Corrisponde all’“Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). L’oggi è l’ora, qui, adesso, mentre ascoltiamo. Potessimo dire anche noi, in ogni circostanza, in ogni luogo, e non solo nell’assemblea liturgica, come discepoli di Gesù, quello che lui ha proclamato nella sinagoga di Nazaret: “Oggi si è compiuta questa Scrittura” (Lc 4,21). Intendendo: accogliendo lui, con la sua parola di verità e di vita, ogni circostanza si apre al compimento della sua volontà di benevolenza e in qualche maniera, per noi e tramite noi, possa compiersi nella nostra vita la profezia di Isaia: essere segno di speranza per i nostri fratelli. Per questo Esdra e Neemia invitano alla gioia perché la parola di Dio proclamata, spiegata, vissuta e condivisa nella sua potenza di letizia, pur nel dramma della vita, rende solidali gli uomini, non avendo più nulla da rivendicare in senso egoistico.

La gioia, dono messianico per eccellenza, nella sua drammaticità perché è gioia nel pianto, cela un’energia potente, diventa la forza che il salmo 18 (19) descrive se leggiamo le espressioni in significato intensivo: la legge del Signore è perfetta, cioè rende integri e perciò rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, cioè rende veritieri e ti fa partecipe della sapienza dall’alto; i precetti del Signore sono retti, cioè rendono integri e gioiosi; il comando del Signore è limpido, cioè rende l’uomo luminoso, dallo sguardo pulito e bello. Potremmo anche interpretare sinteticamente: la giustizia del Signore, il contenuto cioè della parola di Dio, è quella di portare gioia al cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di vivere secondo la sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il prenderci cura di ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che consisteva in questo la manifestazione del Signore e che in questo risiedeva e il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità di Dio, quello che san Paolo descrive come la realtà dell’essere un corpo solo in Cristo. Non c’è nulla di più affascinante di tale mistero e nello stesso tempo nulla di più salutarmente rischioso nella vita degli uomini.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(3 febbraio 2019)

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Ger 1,4-5.17-19;  Sal 70;  1 Cor 12,31-13,3;  Lc 4,21-30

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Quando si proclama il vangelo nella liturgia siamo resi contemporanei alla vicenda di Gesù. La parola che ascoltiamo è per noi, è pronunciata ora, custodisce tutta la sua potenza di salvezza nell’attualità del tempo in cui viviamo, se l’accogliamo. È esattamente quello che ha voluto dire Gesù ai suoi concittadini a Nazaret: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). Faccio memoria di due altri passi del vangelo per sottolineare la valenza di quell’ ‘oggi.’ Quando Gesù vuole incontrare Zaccheo dice: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” E a incontro avvenuto conferma: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza” (Lc 19,5.9). Sulla croce, davanti alla supplica del buon ladrone, Gesù gli promette: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). È il senso della proclamazione della parola di Dio che risuona nei nostri orecchi: oggi porta a te la salvezza!

Vale la pena di sottolineare un’altra sfumatura a proposito della Parola proclamata. Traducendo letteralmente, Gesù dice: “Oggi si è compiuta questa scrittura nei vostri orecchi”. Sottinteso: la potenza di salvezza che questa parola custodisce, adesso si manifesta e agisce in voi se l’accogliete. Accogliere la potenza di salvezza è farsi toccare dall’amore di Dio, come dirà s. Giovanni nella sua prima lettera: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). Senza essere mossi a questo amore e da questo amore, la parola proclamata, che di quel mistero è cifra, resta impenetrabile, anzi, suscita fastidio quando non indifferenza. È esattamente il caso degli ascoltatori di Nazaret.

In effetti, l’interesse dell’evangelista per questo episodio emblematico risiede nell’esito finale: Gesù è respinto. E se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore profetico di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico, che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà in verità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).

La richiesta dei miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’ Israele, scenda ora dalla croce e crederemo in lui” (Mt 27,42). Si supplica se si apre il proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si provoca. Può compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire. Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si potrà vedere? Non per nulla, il brano parallelo di Matteo si conclude: “E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt 13,58) e quello di Marco: “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).

Gesù non si era limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto profetico invitandoli a guardare più nel profondo e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori si rendano conto di cosa sia in gioco. Quando cita il proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea: il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. È accogliendo il profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio della prima lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia. Il profeta è scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione nell’umanità. Il profeta sarà come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano, cioè sarà pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i cuori. Così la buona novella che Gesù annuncia come profeta non consiste semplicemente in buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella passione/morte/risurrezione in cui risplende l’amore di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da dentro quello stesso amore.

Tutta la scena è racchiusa da due identici sentimenti dal valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire. Una meraviglia, quella di Gesù, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività in tutto il paese.

L’agire di Gesù tende a ristabilire in tutti, vicini e lontani, ebrei e pagani, la possibilità di tornare a dar credito alla promessa di Dio. Voler mantenere la distanza delle differenze tra ebrei e pagani, tra giusti e empi, tra puri e impuri, ecc. (gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani – la vedova di Zarepta di Sidone e Naaman il siro – come se questa preferenza comportasse l’accusa ai suoi figli) significa stravolgere il piano divino della creazione e restare impassibili davanti all’amore di Dio che tutti ingloba nel suo amore salvatore, che non si piega al ricatto del figlio maggiore come non si ritrae dalla vergogna del figlio minore per riunirli entrambi nella gioia del Regno. La terribile lotta che l’uomo è chiamato a sostenere è quella contro il sospetto che la differenza non contenga la ricchezza della promessa di Dio, ma sia un attentato alla sua identità. La ragione di tale sospetto, che insidia ogni relazione, deriva non dalla paura dell’uomo, ma dalla paura di Dio al cui amore e alla cui promessa di vita non si dà più credito. Questa mi sembra la ragione profonda della difficoltà a credere, a prestare fede alla testimonianza di Gesù come a Colui che davvero ci rivela il volto del Padre. Purtroppo troppe cose nella vita quotidiana e dentro noi stessi non fanno che confermare quel sospetto, che preferiamo rimuovere piuttosto che curare. Ci appare più pio difendere il nome di Dio, nascondendoci nella giustizia di qualche pratica religiosa che ci dà il senso di vantare dei meriti piuttosto che fidarsi dell’amore di Dio che si traduce in prossimità per tutti gli uomini a gloria del suo nome, seguendo Gesù nella sua rivelazione del Padre.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret. In ultima analisi, l’annuncio di Gesù si risolve nell’eliminare ogni tipo di separazione tra gli uomini perché tutti possano godere dell’amore sovrano di Dio.

Mi permetto di segnalare un libricino prezioso del pastore protestante, missionario in Africa, Henry Drummond, The greatest thing in the world, uscito nel 1890 e pubblicato da Bompiani a cura di Paulo Coelho, che l’ha scoperto nel 2007, con il titolo Il dono supremo, dove viene commentato l’inno alla carità di Paolo.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

V Domenica

(10 febbraio 2019)

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Is 6,1-2,3-8;  Sal 137;  1 Cor 15,1-11;  Lc 5,1-11

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Dal racconto degli altri vangeli sembra che Gesù chiami i suoi apostoli come all’improvviso, semplicemente invitandoli a seguirlo. Luca invece si premura di indicare la circostanza in cui tale chiamata avviene. Pietro e i suoi compagni già conoscevano Gesù, lo ritenevano ‘il Maestro’, ma continuavano a fare la loro vita di sempre. In questa occasione succede qualcosa di assolutamente straordinario. Non mi riferisco solo al miracolo della pesca, ma a quello che avviene nel cuore dei futuri apostoli, tanto da indurli a: “lasciarono tutto e lo seguirono”.

In tre occasioni l’evangelista annota che delle persone seguono Gesù. In questo passo, in occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani a Betsaida (il paese di Andrea e di Pietro e di Filippo e di Giacomo e Giovanni) e, alla fine, quando i discepoli seguono Gesù al Monte degli ulivi. E in tre occasioni Gesù invita a seguirlo: quando chiama Levi il pubblicano (l’apostolo Matteo), quando parla a un discepolo sconosciuto e al giovane ricco, che però rifiutano. Solo nel passo di oggi e in quello della chiamata di Levi Luca mostra cosa comporta il seguire Gesù: “lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11); “lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (Lc 5,28). Ecco la prima sottolineatura: lasciare tutto per seguire Gesù. Quel ‘lasciare tutto’ comporta non semplicemente la rinuncia alla propria vita quotidiana con i suoi affari e le sue preoccupazioni, ma la condivisione di un altro stile di vita quotidiana, un partecipare a un segreto di vita di cui si subisce il fascino senza ancora sapere dove porterà. La narrazione del vangelo, dal punto di vista degli apostoli, non sarà che la scoperta graduale di quel segreto, la scoperta del fino a che punto quel segreto agirà nel loro cuore imparando a conoscere e ad incollarsi al loro Maestro. Mi sembra che il punto culminante, almeno per Pietro, di questo ‘lasciare tutto’ per seguire il Maestro, sia descritto da Giovanni alla fine del suo vangelo quando, dopo che Gesù ha fatto confessare a Pietro il suo amore per lui per tre volte, Gesù gli comanda: “Seguimi” (Gv 21,19.22). Non sarà però più un invito, per quanto esigente, ma una realtà: sarà come il suo Maestro, che ha dato la vita per i suoi amici. Allora Pietro capirà che il ‘lasciare tutto’ significa lasciare anche ogni forma di presunzione, ogni prestigio di potere, ogni tipo di sgabello, sarà un affidarsi generoso all’amore del Signore che lo attira a sé nell’annunciare a tutti la compassione di Dio.

In questa prospettiva, la descrizione della reazione di Pietro davanti all’esito della pesca, dopo che aveva faticato vanamente tutta la notte, è particolarmente significativa: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). Coglie la straordinarietà della situazione; in particolare, coglie la manifestazione della potenza di Gesù rivolta al suo cuore. Gesù ha agito nei termini che un pescatore poteva comprendere e Pietro riconosce l’azione di Dio nella sua vita. Nemmeno sa cosa significa diventare pescatore di uomini, ma sa fin da ora che seguirà il suo Maestro che gli ha parlato così. La verità dei suoi sentimenti è espressa proprio dalla profonda indegnità da cui è travolto. Le sue parole suonano ancora più potenti se ci si immagina la scena. Lui cade ai piedi di Gesù, sulla barca e, mentre gli stringe le gambe, gli dice: allontànati da me! Proprio quando l’uomo si sente totalmente indegno vuol dire che è stato toccato dalla potenza di salvezza di Dio.

È anche il senso della prima lettura. Isaia vede il Signore. Resta sconvolto: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono…”. Ma dopo la purificazione del carbone ardente può dire: “Eccomi, manda me!”. E se si continua la lettura del brano, si scopre che l’azione del profeta, inviato, non sarà esaltante. Tutt’altro! Eppure, la fedeltà del profeta a quella Parola costringerà anche i suoi concittadini a crederci e a ottenere salvezza.

Ecco delineato il terzo elemento del brano. La vocazione comporta la missione. E siccome la missione riguarderà la chiamata di tutti gli uomini all’amore di Dio, occorre che l’annuncio missionario provenga da cuori purificati, cioè dove l’amore di Dio ha tolto ogni sapore di contesa e prevaricazione e superiorità.

La coscienza della propria miseria, della propria fragilità, dei propri peccati, non solo non insidia la verità della chiamata, ma la esalta perché solo così se ne può conoscere la gratuità e la potenza in quanto viene esaltato l’amore del Signore. Anzi, è l’esperienza della propria indegnità davanti a Dio che garantisce la verità e la gratuità dell’incontro con Lui. Il profeta Isaia vede il Signore e trema, come Pietro, come Paolo. Non è possibile continuare a vivere la vita di prima, rimanere nell’ingiustizia, mantenere un cuore impuro e menzognero, quando ti appare il Signore della gloria e risplende davanti a te la sua santità. Il Signore non convive con la nostra iniquità ma cerca i nostri cuori, cerca di mostrarsi ai nostri cuori. Vedere Lui comporta così vedere la nostra iniquità nell’attimo stesso che viene bruciata dal suo amore. E se davanti a Lui vale l’esperienza della gratuità del suo amore, davanti al prossimo vale la memoria della nostra iniquità per non rinnegare di nuovo la potenza della sua misericordia che vale per me come per tutti.

La tensione interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale all’intensità della visione di Dio, che comporta la confessione del proprio peccato. Questo, perché l’azione dell’uomo risulti pulita e non si appropri la gloria di Dio. È per questo che il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la condivisione di un compito di intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti.

La tradizione ha applicato al mistero dell’eucarestia l’esperienza del carbone ardente poggiato sulle labbra del profeta. Perché, ricevendo il corpo del Signore, non ne veniamo bruciati? Non è forse la stessa immagine che vale per l’amore? L’amore brucia; brucia tutto ciò che lo ostacola, tutto ciò che lo impedisce. Se non brucia, è perché si tratta di un amore pallido, più sognato che vissuto, più immaginato che reale. Se l’eucaristia non brucia è perché non abbiamo incontrato nessuno, non abbiamo sentito, non abbiamo corrisposto all’amore di nessuno. Ma se è così, quale potenza ravvisare nella nostra missione, nella nostra testimonianza in mezzo ai nostri fratelli, testimonianza che di quell’amore solo è espressione?

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(17 febbraio 2019)

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Ger 17,5-8,  Sal 1;  1Cor 15,12.16-20;  Lc 6,17.20-26

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Oggi la liturgia proclama le beatitudini secondo il testo di Luca che, a differenza delle nove proposte da Matteo, ne elenca quattro. Con questa annotazione specifica: Gesù si rivolge ai discepoli direttamente. Come a dire: ciò che vi sto annunciando vale in ragione del fatto che avete accolto in me l’Inviato di Dio, colui che dalla parte di Dio non solo vi richiama al mistero del Regno ma vi concede di gustarlo e di condividerlo. Nei termini delle beatitudini, la parola di Gesù si può intendere: chi cerca la sua felicità senza che la Mia gioia lambisca il suo cuore resterà nella fame e nel pianto; chi vuole a tutti i costi la sua felicità, solo calcolando come una eventuale aggiunta il dono della Mia gioia, finirà per trovarla traditrice e si troverà ingannato dai suoi fratelli e perderà la sua integrità. Perché la felicità di cui parla Gesù, quella alla quale anela profondamente, sebbene con mille contraddizioni, il nostro cuore, ha a che fare con la scoperta della prossimità di Dio che in Gesù rivela tutto il suo mistero di amore e accondiscendenza per noi e che sana i nostri cuori.

In effetti, le beatitudini sono costruite in un contrasto tra prospettiva mondana e prospettiva spirituale. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio che Gesù rivela e a cui i nostri cuori anelano nella sete di felicità che li tormenta? Il contrasto è tra una logica mondana e una logica divina, secondo l’espressione di Paolo ai Galati: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Rispetto all’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo.

Altra caratteristica specifica del testo di Luca è la figura di riferimento di cui si serve per far comprendere quello che sta dicendo. Dopo l’elenco delle quattro beatitudini Gesù aggiunge: “Allo stesso modo agivano i loro padri con i profeti”. E dopo i quattro guai: “Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti”. Beatitudine = verità, la verità dell’essere discepoli, dell’aver accolto la parola di Dio come parola di vita per il cuore. Come c’è un profeta vero e uno falso, così c’è un discepolo vero e uno falso. Il discrimine è sul riferimento mondano o carnale: chi cerca ricchezza, sazietà, consolazione e gloria da questo mondo testifica per ciò stesso che il suo riferimento al Signore è fasullo. Vale a dire: non ha incontrato nessuno! Per noi, seguaci di Gesù, la domanda suona: ha forza per il nostro cuore la gioia che viene dall’incontro con Gesù? Ciò che in realtà Gesù proclama per i discepoli non è che la condivisione di quello che lui vive. Così, l’essere beati comporta l’essere in lui, l’essere a lui solidali, l’essere come il Figlio dell’uomo che è venuto per testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini.

La chiave di lettura la possiamo dedurre dall’apostrofe del profeta Geremia ai suoi concittadini: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo … Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia”. Nel linguaggio di Gesù l’apostrofe diventa la proclamazione della felicità accessibile all’uomo. É come se Gesù dicesse: so che il vostro cuore anela alla felicità, ma per quanto vi angosciate per trovarla o per imporvela è assai facile rimanere nell’amarezza invincibile dell’illusione. Quando Gesù parla della ricompensa grande nei cieli allude alla natura della felicità che partecipa dell’eterno e che si esprime nella nostra storia con uno splendore che ha a che fare con l’eterno. Ma il nostro cuore è ancora toccato dalla speranza dell’eterno? Come dice s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1Cor 15,19). Non si tratta, a dire il vero, di guardare all’al di là, ma di guardare alla radice eterna, alla dimensione eterna dell’essere, a ciò che fonda la sua dignità essenziale e il suo splendore di creatura, che non può che provenire da Dio e portare a Dio.

In effetti, in cosa consiste la felicità che Gesù promette ai suoi discepoli? Quale beatitudine nella povertà, nella fame, nel pianto e nella vessazione, se tutta la fatica degli uomini, nella loro ricerca di giustizia e di dirittura morale, consiste proprio nel combattere quelle situazioni che prostrano la dignità delle persone? C’è qualcosa di assolutamente affascinante, ma paradossale, nelle parole di Gesù, come del resto gli stessi discepoli noteranno sempre rispetto alla vita e al comportamento del loro Maestro. Come dice s. Gregorio di Nissa: “Siccome tutti gli uomini sono abitati dalla superbia, il Signore comincia le beatitudini, eliminando il male iniziale dell’orgoglio e invitando a imitare il vero Povero volontario che è beato in verità, in modo da rassomigliargli, secondo quanto sta nelle nostre possibilità, attraverso una povertà volontaria per aver parte alla sua beatitudine”. E dopo aver descritto l’ascesa di tutte le beatitudini dice: “Qual è lo scopo che perseguiamo? Quale la ricompensa? Quale la corona? Mi sembra che ogni oggetto della nostra speranza non è nient’altro che il Signore stesso … è lui l’eredità ed è lui che ti dona la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti mostra il tesoro e che è il tuo tesoro …”. La beatitudine allora è vivere quella comunione con colui che è l’Amato del tuo cuore. E tale amore risalterà in tutto il suo splendore proprio quando tutto e tutti cercheranno di rapirtelo e tu non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai che non te lo farai rapire quando lo custodirai per tutti, senza separarti da nessuno proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa succedere a un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore dell’uomo.

La prima beatitudine comporta il verbo al presente, le altre al futuro: “perché vostro è il regno di Dio”, “perché sarete saziati”. Il presente sottolinea che il dono è reale, ci appartiene; il futuro sottolinea che siamo chiamati a viverne la dinamica in tutta la sua estensione, a realizzarne i frutti, con la pazienza di chi sa di non essere lasciato solo e confuso ma felicemente accompagnato. Così voler essere felici per poi vivere bene è un’assurdità, come voler prima vedere il Signore per poi seguirlo. L’unica possibilità è quella della promessa: accetto di vivere per essere felice perché la felicità è la promessa della vita. E questa suona veritiera nella parola di Gesù perché è venuto a dare la vita e a darla in abbondanza. È l’abbondanza di un amore non più soggetto a oppressioni, invincibile davanti ad ogni tormento o afflizione o ingiustizia perché il nome del Signore sia rivelato ad ogni cuore, al mondo intero. È lo spazio di tensione della promessa che riempie la nostra vita di discepoli di Cristo.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

VII Domenica

(24 febbraio 2019)

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1 Sam 26,2.7-9.12-13.22-23;  Sal 102;  1Cor 15,45-49;  Lc 6,27-38

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Gesù continua a parlare ai suoi discepoli illustrando la potenza e l’estensione della dinamica che l’incontro con lui ha messo in moto. Fa vedere la qualità di vita per coloro che possono godere della beatitudine loro promessa perché ‘ascoltano’, non semplicemente odono, ma lasciano entrare in cuore le parole ascoltate aderendovi. S. Paolo, nella lettera ai Romani, ripresenta le parole di Gesù come il sigillo di autenticità dei discepoli (cfr. Rm 12,14-21). “Amate i vostri nemici … fate del bene a coloro che vi odiano …”. Le parole sono chiare, anche se in questo brano c’è un problema di traduzione. Così come lo leggiamo nel testo italiano qualcosa ci sfugge e qualcosa di essenziale. Rilevo alcuni particolari.

L’espressione ‘fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’ non è complemento oggetto ma avverbio.

Benedite coloro che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di quanti vi maledicono’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti, non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato.

E ancora: ‘pregate per coloro che vi maltrattano’ andrebbe reso: ‘pregate per coloro che vi calunniano’ (come l’antica versione latina riportava: orate pro calumniantibus vos) ad indicare la risposta al male più subdolo che produce tristezza. È l’ultima tentazione contro la carità: si può sopportare l’attacco diretto del nemico, si può tacere di fronte a chi ti insulta, ma resistere alla tristezza che ti invade quando sei calunniato per malevolenza e invidia (questo è infatti il significato del verbo greco usato da Luca) sembra sovrumano; allora, solo la preghiera sincera può salvare il tuo cuore.

L’espressione però caratteristica dell’intero brano è un’altra: ‘Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta?’ (La versione precedente portava: che merito ne avrete?) La rivelazione che comporta la frase sulle labbra di Gesù allude alla radice dell’agire di un cuore. Potremmo rendere: ‘se amate quelli che vi amano, quale grazia avete?’ oppure ‘…qual è la vostra grazia?’ (come sottolinea l’antica versione latina, fedele al testo greco: ‘quae vobis est gratia?’). L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce la discriminante tra il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di che cosa? Questo è il punto. Ed è l’interrogativo di fondo di tutto il brano: quale grazia risplende nel vostro agire? Grazia rivela un tipo di esperienza, quella che procede dalla beatitudine promessa da Gesù e che il discepolo condivide con Lui. Quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in lui la prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà Giovanni: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo” (1 Gv 1,1-4). È l’esperienza, in Gesù Salvatore, della benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono ricevuto, della dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti da dentro. Esperienza che ha segnato così alla radice il nostro cuore da non poter più vivere se non nella sua dinamica. Ma così vivendo non si fa che condividere la stessa vita del Figlio di Dio, rivelatore del Padre ricco in misericordia. È da dentro quell’esperienza che scaturisce l’energia di un amore che non si lascia limitare o soffocare da niente e da nessuno. E quando quell’amore risplende non si può non domandare: “quale grazia rivela? Di quale grazia è l’espressione?”. Le situazioni limite addotte da Gesù (amare i nemici, benedire chi ti maledice, pregare per chi ti maltratta…) rivelano la ‘normalità’ di un cuore ormai conquistato alla dinamica divina e per questo significative del discepolo di Cristo.

La firma solenne del brano è l’affermazione che suona assoluta come criterio di discernimento del bene: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Siate figli dell’Altissimo: è l’esortazione di Gesù! Perché questo siete! È l’invito a non barattare in nessuna maniera e per niente al mondo la dignità del proprio essere figli di Dio. Gli esempi che riporta sul non giudicare, non condannare, sul perdonare, è a quella dignità che Gesù li collega. E per dare il senso della estensione di questo invito conclude: “con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”. Gli aggettivi ‘pigiata, colma e traboccante’ alludono alla misura di capacità quando il recipiente, riempito fino all’orlo, è schiacciato e scosso per farcene stare ancora un po’ e aggiungerne fino a ottenere un piccolo colmo in superficie. Il bene non sia misurato da nulla se non dall’infinità di Dio che dà gratuitamente senza condizioni previe.

Interessante la giustificazione spirituale che Davide porta davanti a Saul per non averlo ucciso pur avendo Dio messolo nelle sue mani: “Ed ecco, come è stata preziosa oggi la tua vita ai miei occhi, così sia preziosa la mia vita agli occhi del Signore ed egli mi liberi da ogni angustia” (1Sam 26,24). È sempre la stessa dinamica: nessuna cosa, oggetto o affetto, sia motivo di divisione e di tristezza con i nostri fratelli perché su tutto prevalga l’amore che il Signore ci ha fatto conoscere in Cristo Gesù. La misura è quella di non avere misura nell’abbondanza del bene. Allora la richiesta insistente a Dio, nella preghiera della chiesa, non è tanto quella di avere un cuore generoso, di avere un amore per tutti, ma piuttosto quella che il Suo Volto si riveli al nostro cuore per essere attratti a vivere nello splendore di quell’amore che ci ha toccati e che non ha misura.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

VIII Domenica

(3 marzo 2019)

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Sir 27,4-7;  Sal 91;  1Cor 15,54-58;  Lc 6,39-45

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Il brano di oggi segue l’illustrazione del criterio di discernimento del bene che Gesù ha appena spiegato: quale grazia devono mostrare i discepoli nel loro agire? Il loro agire dove deve pescare? Cosa deve far splendere? Gesù racconta la parabola dei due ciechi che cadono nel fosso se non saranno guidati. E formula il principio: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro” (Lc 7,40). Poi aggiunge l’invito a non guardare al difetto, piccolo, del fratello senza aver prima considerato il difetto, grande, di noi stessi, se non si vuole essere ipocriti. Sul principio: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 7,45).

Quello che forse stentiamo a riconoscere è il collegamento tra il primo e il secondo principio. Secondo le parole di Gesù in cosa consiste l’ipocrisia? L’ipocrisia è l’atteggiamento di chi giudica in proprio senza rifarsi al suo maestro, senza voler seguire il suo maestro. Se ci riferiamo al passo di Giovanni in cui si narra, dopo la lavanda dei piedi nell’ultima cena, dell’esortazione che rivolge ai suoi apostoli, possiamo intuire la profondità di senso delle parole di Gesù. Ritornando sul gesto dell’aver lavato i piedi ai suoi apostoli, Gesù spiega: “Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,15-17).

La bontà di cui parla Gesù è quella che deriva dall’imitazione di Dio: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Lc 18,19). E se Gesù è il testimone per eccellenza della bontà di Dio per l’uomo, allora chi si muove come lui otterrà un cuore buono. Ma per muoversi come lui, occorre prima accoglierlo, riconoscerlo, dimorare in lui, riconoscersi in lui. Il buon tesoro del cuore è proprio lui. Da quel buon tesoro non possono che derivare frutti di bene. Quando però il nostro cuore fa resistenza, ha paura, si nasconde, non vuol riconoscersi in colui che è il suo salvatore e il suo riposo, allora avviene che dal cattivo tesoro derivano frutti di male. Il primo segnale di questo è l’ipocrisia, vale a dire pretendere di giudicare il fratello senza patire prima il giudizio su noi stessi, con la presunzione di ammantare di vesti splendide ciò che è intrinsecamente sgradito a Dio: voler correggere il fratello per il suo bene senza sincerarsi che quel bene faccia conoscere il Signore nella sua bontà.

È poi caratteristico che l’esemplificazione del frutto buono o cattivo sia applicato alla parola. Lo diceva già il libro del Siracide: “Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti. I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore” (Sir 27,4-6). E il salmo responsoriale commenta questa costatazione con l’invito al rendimento di grazie, l’atteggiamento che segnala la sincerità del cuore nei confronti di Dio e la libertà del cuore nei confronti dei fratelli: “È bello rendere grazie al Signore … annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità” (Sal 91,2.16). Prima ancora che una certa parola, a rivelare i pensieri del cuore è il tono con cui questa parola è rivolta ai fratelli, è la disposizione interiore profonda nella quale quella parola pesca. E se la disposizione interiore è quella che Gesù fa sentire con il lavare i piedi ai discepoli, allora vuol dire che il cuore ha accolto la misericordia di Dio per noi e tutte le parole che formulerà porteranno il profumo di quella misericordia. L’ipocrisia sarà vinta.

Nella tradizione ebraica il salmo 91/92 è l’unico salmo in cui si annota che deve essere cantato in un certo giorno, cioè di sabato. Il Targum interpreta questo salmo come il canto del primo Adamo. E noi possiamo interpretarlo come il canto dell’ultimo Adamo, del nuovo Adamo, di Gesù, lui che è il vero albero buono che produce frutti buoni. Come un’antica preghiera salmica fa pregare: “Accordaci, Signore, che, trapiantati nella tua dimora, fioriamo sempre nei tuoi atri. Fa’ che non periamo, insieme ai peccatori, come l’erba dei campi, ingannati dalle vanità passeggere, ma, portando un frutto di conversione, godiamo di te solo, che rimani in eterno, in una felicità senza fine”.

Così, l’immagine dell’albero buono che produce frutti buoni e di quello cattivo che produce frutti cattivi, non è semplicemente una massima, un proverbio. È l’indicazione di un percorso, è rivelazione di una verità: se starete saldi in colui che ha avuto misericordia per voi, anche voi potrete usare misericordia ai vostri fratelli. E in questo, essere come il vostro Maestro, nulla più. Esiste però titolo maggiore di gloria per il discepolo di Gesù? Avviene finalmente quello che il canto al vangelo proclama citando un passo della lettera ai Filippesi: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Fil 2,15d-16a). La luce di cui si parla non è luce propria, ma la luce della vita del Signore nostro Gesù Cristo, capace di dare libertà, pace e gioia al cuore, generando nel nostro cuore parole di vita che a lui rimandano e che di lui fanno sognare.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

Mercoledì delle Ceneri

(6 marzo 2019)

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Gl 2,12-18;  Sal 50;  2Cor 5,20-6,2;  Mt 6,1-6.16-18

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Inizia la Quaresima, ecco il rito delle ceneri: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai“. Certamente ognuno di noi tende a sentirsi e a comportarsi come immortale e non è male che in qualche occasione ci si ricordi che la realtà non segue i nostri sogni. Ma il senso del rito celebrato in chiesa ha tutta un’altra portata.

Ritorniamo al racconto della creazione di Adamo, quando Dio prese della polvere della terra, la plasmò e con il suo soffio la rese essere vivente. Nel salmo 50 si dice che Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino conterere, allude proprio a questo rendere polvere il cuore. Quando ci sentiamo afflitti, quando subiamo un’offesa o un’ingiustizia, quando subiamo una prova, senza ribellarci o adirarci, è come se il nostro cuore venisse pestato fino ad essere ridotto in polvere. È reso polvere quando non ha più diritti da avanzare, da rivendicare. Allora, come polvere della terra, Dio lo può plasmare di nuovo e il nostro cuore rinasce come essere nuovo, capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo.

È il senso appunto della penitenza quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perché possa essere di nuovo modellato da Lui. Come ci avverte il profeta Gioele: sarà possibile convertirsi al Signore senza spogliarsi delle vanità e illusioni del vivere quotidiano? Cercheremmo il Signore se potessimo soddisfarci con le nostre vanità e con i nostri soprusi? Ricordarci allora della nostra finitudine significa intravedere la possibile dignità della vita che scaturisce dall’incontro con il Dio vivente. In effetti, se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo, il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente quella gioia che cerca, nonostante non manchino i tormenti.

La prima parola della liturgia quaresimale suona: “Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (cfr Sap 11,23-26, antifona d’ingresso). In questa professione di fede e di amore si innesta l’invito alla penitenza, tipica del tempo quaresimale. Salta agli occhi il contrasto tra l’austerità del cammino penitenziale quaresimale e la levità a cui la Chiesa esorta sulla base delle parole di Gesù ai suoi discepoli: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta … Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto” (Mt 6,16.17). È il contrasto tra penitenza secondo gli uomini e conversione secondo Dio. Quale la ragione? La conversione è il ritorno a un’intimità, a un percepire sempre più intensamente la presenza di quel Dio che ci ha amati e che ci chiama al Suo amore; è un imparare a vedere le cose a partire da questa intimità con Dio. Scompare la scena sia esteriore che interiore. C’è scena dove non c’è intimità, dove non si riesce mai ad entrare nella camera segreta, a stare in compagnia di Dio senza servirci di tale presunta compagnia per altri scopi. La penitenza ha lo scopo appunto di toglierci da questa scena. E se non produce intimità vuol dire che non raggiunge lo scopo.

Il brano evangelico descrive l’atteggiamento penitenziale in tre ambiti: elemosina, preghiera e digiuno. La dimensione negativa è stigmatizzata nell’ipocrisia, mentre la dimensione positiva risulta sottolineata dalla capacità di relazionarsi al prossimo (l’elemosina, oltre che una sorta di restituzione, è un atto fraterno, una condivisione, un riconoscimento del prossimo come nostro fratello) e a Dio (la preghiera è abolizione del teatro, cioè del fare le cose per essere visti sia dagli altri che da se stessi; il digiuno serve come sostegno alla preghiera, all’agire interiore pulito e retto, contrassegnato dalla gioia del cuore che va incontro al proprio Dio e di conseguenza è libero di incontrare i suoi fratelli).

L’ipocrisia è la deviazione dello scopo di un’azione (la faccio per me piuttosto che per Dio) con l’aggravante del bisogno di fare teatro (faccio un’azione davanti agli uomini piuttosto che al cospetto di Dio). L’ipocrisia può essere soggettiva, vale a dire che perseguo scopi meschini e interessati nel compiere un’azione buona oppure semplicemente oggettiva, nel senso che io sono in buona fede, ma mi limito all’azione esteriore senza coinvolgere la conversione del cuore. Una penitenza di questo tipo non solo non porta frutti secondo lo Spirito, ma macchia il cuore nel senso che lo rende insensibile al mistero di Dio e dell’uomo. L’elemento che suggerisce meglio la corrispondenza dell’azione esteriore con la conversione interiore del cuore è appunto la gioia, quel senso di levità, di non seriosità con cui si compiono le buone opere lontani da quel dannato senso di importanza che ci diamo o da quell’ottuso bisogno di affermazione presso gli altri che ci divora. È significativo che la chiesa, all’inizio del cammino quaresimale, ricordi proprio questa condizione di levità con cui occorre compiere tutte le opere di penitenza. È il modo più autentico per far rimarcare come le opere di penitenza non riguardino che la conversione del cuore e la conversione del cuore non consista in altro che in una capacità di fare incontro con Dio, con il prossimo, con noi stessi. La ricompensa promessa non ha nulla a che fare con la paga dovuta al lavoro fatto; riguarda solo la rivelazione e la pienezza che gusta il cuore quando viene incontrato da Qualcuno di cui porta il desiderio, quando si apre alla vita di una relazione che trasforma totalmente il suo modo di vedere e di sentire.

C’è ancora un aspetto della penitenza sottolineato dall’esortazione di Paolo ad essere collaboratori di Dio, collaboratori al mistero della riconciliazione perché gli uomini possano fare esperienza dell’amore di Dio. Fare le opere davanti agli uomini significa privare gli uomini dell’occasione di porsi davanti a Dio. Fare le opere davanti a Dio significa porsi dentro questo mistero di riconciliazione con tutto il bisogno dei nostri cuori di essere perdonati e di scambiarsi il perdono vicendevolmente, come segno dell’amore di Dio arrivato fino a noi. Ogni tipo di penitenza gradita a Dio ci ottiene l’inserimento in questo mistero di riconciliazione, dove, per la verità dell’amore provato, non c’è più spazio per la scena, nemmeno in noi stessi.

N.B. Riporto la preghiera di s. Efrem, che nella tradizione bizantina si ripete nove volte al giorno in quaresima. Da sottolineare la finale: la preghiera non finisce con la richiesta della carità, ma della coscienza del proprio peccato e con l’impegno a non ferire il prossimo, condizioni essenziali per non perdere la carità mai.

Signore e Sovrano della mia vita,

non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità.

Dona invece al tuo servo

uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità.

Sì, Re e Signore,

fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi mio fratello,

poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(10 marzo 2019)

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Dt 26,4-10;  Sal 90;  Rm 10.8-13;  Lc 4,1-13

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Il tema portante del periodo quaresimale nel ciclo C di quest’anno è la conversione, mentre nel ciclo A era il cammino catecumenale e nel ciclo B era l’alleanza ricostituita. La questione essenziale della liturgia di oggi potrebbe essere così espressa: essere figli di Dio comporta qualche titolo di pretesa? La drammaticità di tale questione risalta in tutta la sua intensità proprio nel brano delle tentazioni di Gesù. Il vangelo di Luca introduce questo evento con l’annotazione: “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo” (Lc 4,1-2). Ai nostri occhi pare assurdo il collegamento tra la pienezza dello Spirito Santo e l’essere tentato. Come se lo zelo per il Signore che muove Gesù nel suo compito messianico potesse risultare equivoco.

Il diavolo fa la sua offerta. E si tratta dell’offerta di potere: conquistare gli uomini, ma assoggettandoli; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio; conquistarli facendoli strabiliare. Il diavolo riconosce in qualche modo che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei Figlio di Dio” significa: dato che tu sei Figlio di Dio, allora puoi … hai il potere di …. Quando gli offre la gloria del mondo, è consapevole che Gesù è inviato al mondo, ma il diavolo non conosce i segreti di Dio né desidera averne parte, per cui tratta Gesù da par suo ed è disposto a passare in sordina davanti al mondo, per bearsi del fatto che chi conquista il mondo riconosca che lo deve alla sua nefasta liberalità.

L’estrema pericolosità dell’offerta del diavolo sta nel fatto che ciò che persegue è nascosto, mentre in primo piano fa apparire ciò che è allettante e per giunta con apparenti nobili motivazioni. L’insidia sta in quel ‘se tu ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo’. Solo che quell’invito non è espresso, non appare, lavora solo nel segreto. Semplicemente, noi nemmeno ci accorgiamo che accettando la gloria entriamo nella sua orbita. Anche la gloria a fin di bene! Anche mossa dalle più nobili intenzioni! Gesù, che è pieno di Spirito Santo e conosce i segreti di Dio, vede l’insidia, la smonta e ne resta indenne. Perché essere figli non comporta titolo alcuno di pretesa; significa solo condividere con Dio il suo amore per gli uomini. Quando con l’antica colletta preghiamo: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”, è come domandassimo: concedici di entrare in quella intimità di sentire e volere del tuo Figlio, pieno del tuo amore per noi, da trovarvi le radici del nostro vivere, senza illusioni.

Se l’equivoco si fonda sul preferire il potere all’amore, allora capiamo perché nella vita la dinamica essenziale in gioco sia questa: se tu vuoi assoggettare qualcuno a te, vuol dire che tu sei assoggettato a qualcun altro. Se hai bisogno di dominare, è perché già sei dominato da qualcosa. Se vuoi esercitare un potere, è perché tu sei schiacciato da un altro potere. Vale a dire: non è buono il potere, ma l’obbedienza; non vale il potere, ma l’amore. Nell’obbedienza  (Gesù non aveva altro nutrimento che quello di fare la volontà del Padre; non aveva altra libertà se non quella di godere dell’intimità col Padre al punto da preferire sempre il suo amore per noi) e nell’amore (Gesù non aveva altro potere sull’uomo se non quello dell’amore assoluto e non si illude mai di sostituirlo con qualcosa che soltanto gli possa assomigliare ma non lo è) si trova la libertà di non aver bisogno di dimostrare mai nulla né di esercitare dominio mai su nessuno. Per Gesù, il suo essere Figlio di Dio ed il suo compito di Messia inviato da Dio, sono un tutt’uno. Nel compimento umano del compito ricevuto mantiene la modalità divina, rifiutando ogni illusione del potere.

La cosa risalta maggiormente, se leggiamo le tentazioni nell’insieme della rivelazione evangelica. Possiamo accostare la prima risposta di Gesù all’altra sua affermazione: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua [= di Dio] giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33). Ogni bisogno, nobile o ignobile che sia, che non attinga la sua verità da dentro quella misura suprema del regno di Dio e della misericordia salvatrice di Dio, risulterà distruttivo. Non esiste idolo liberatore o salvatore. La seconda tentazione può essere accostata alla dichiarazione di Gesù: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Le azioni che non procedono dall’adorazione di Dio sono vincolate alla gloria del mondo, di cui il detentore è il maligno. Con azioni del genere non si svilupperà nel cuore né la gratitudine né la libertà. E l’uomo resterà irretito nell’illusione.

Le parole di satana nella terza tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non essere liberato dalla morte, non voler dimostrare nulla, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi. La cosa strana è che noi, pur rifiutando l’azione del male, non riusciamo a vincere la sua seduzione perché non rinunciamo alla visione mondana sottostante, alla visione del maligno, vale a dire: immaginiamo che Dio debba servire ai nostri scopi o interessi. La vittoria di Gesù sul maligno dice altro, dice che stare dalla parte di Dio significa servire l’uomo nella verità del suo amore per lui.

La penitenza quaresimale è diretta contro l’illusione del potere esercitato in tutte le sue forme perverse, che derivano dall’illusione di scegliere Dio senza stare dalla parte degli uomini o di scegliere l’uomo senza stare dalla parte di Dio. E lo scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel commentare il Padre Nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l’illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo in cui agire da figli di Dio.

Un’ultima annotazione. Il diavolo si serve del salmo 90 (91) per convincere Gesù. Nella tradizione ebraica il salmo 90 è proclamato come chiusura del sabato allorquando, ritornando alla vita quotidiana settimanale, si teme di perdere la santità di Dio goduta. Quel salmo è proclamato proprio per essere difesi dalla santità di Dio contro gli assalti del maligno.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(17 marzo 2019)

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Gn 15,5-12.17-18;  Sal 26;  Fil 3,17-4,1;  Lc 9,28b-36

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La liturgia inizia con la rivelazione del desiderio più profondo dei cuori: “Di te dice il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco”, cantato dal salmo 26 e ora reso nella nuova versione: “Il mio cuore ripete il tuo invito: Cercate il mio volto!”. È il versetto che orienta la comprensione dell’evento della trasfigurazione alla quale tutto il salmo 26, il salmo responsoriale, rimanda, perché, come dice Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “La nostra cittadinanza è nei cieli”. È la cittadinanza alla quale rimanda la gloria della trasfigurazione, intravista dai discepoli, impauriti e rapiti nello stesso tempo, per la quale la chiesa con la colletta fa supplicare per diventarne partecipi: “purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria”. Gloria che splende sul volto di colui sul quale è proclamato: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, come ripete il canto al vangelo. Viene delineato l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo con desiderio, conoscerne il mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo.

A quale condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te dice il mio cuore: Cercate il suo volto” potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza. Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto: “ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà l’ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell’espressione: “il mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l’evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.

Il racconto della trasfigurazione segue la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione da parte di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca però annota che Gesù aveva preso i discepoli con sé per passare la notte in preghiera sul monte, descrivendoli in preda all’oppressione del sonno e soltanto lui svela il contenuto del colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella gloria con lui, Mosè ed Elia. Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura del giardino degli ulivi nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli sembrano accorgersi dell’evento della trasfigurazione all’ultimo momento, allorquando, svegliandosi, vedono Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si stanno congedando. Quasi nello stesso tempo li sorprende la nube e sentono la voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, voce che costituisce il punto di fuga della visione.

La proclamazione della voce misteriosa, già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è costruita sul salmo 2,7: “Egli mi ha detto: Tu sei mio figlio” e su Isaia 42,1: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui”. Lo conferma il redattore della seconda lettera di Pietro: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).

L’annotazione della preghiera sul monte allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per sé, però, la rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso misterioso di quella gloria. In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì, la gloria di Gesù, ma senza rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha a che fare invece con il segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il colloquio tra Gesù e i due personaggi: “e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che Pietro e i suoi compagni non sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto accettare una settimana prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro, ora davanti al Signore trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della Pasqua del Signore sta al centro del mondo, del senso del mondo, come possono i discepoli comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è l’allusione misteriosa? Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio, custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.

Eppure, nel riconoscere Mosè ed Elia in colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le Scritture, di cui Mosè ed Elia costituiscono l’espressione riconosciuta, tendono a quella rivelazione, che tutte le Scritture si compiranno in quell’evento. Non solo, ma presentare il colloquio che avviene nella gloria significa collocare quell’evento nella dimensione divina, nella quale si radica la storia degli uomini.

L’esperienza misteriosa dei discepoli è la stessa che vive Abramo, con una fede così radicale nella promessa di Dio che si compie, nonostante l’evidenza umana contraria, da permettere anche a noi di fidarci dell’alleanza di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua profondità ed estensione. Così, se domandiamo, come nella colletta, di vedere la sua gloria, in realtà non facciamo che domandare a Dio di credere alla sua promessa, di fare esperienza del suo amore a tal punto da esserne tutti riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che risplende dal trono della croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello splendore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(24 marzo 2019)

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Es 3,1-8a.13-15;  Sal 102;  1Cor 10,1-6.10-12;  Lc 13,1-9

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Nel brano evangelico odierno risuona forte il grido di Gesù: convertitevi! Tra l’altro, a parte i capitoli sull’infanzia di Gesù e il capitolo sui racconti della risurrezione, il vangelo di Luca comincia con il grido di Giovanni Battista per la conversione e termina con il racconto di due conversioni, quella del buon ladrone (“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”, Lc 23,42) e del centurione (“Veramente quest’uomo era giusto”), alla quale si unisce la folla che se ne torna a casa ‘battendosi il petto’ (cfr. Lc 23,47-48).

Agli occhi di Gesù non c’è situazione che possa giustificare il ritardo alla conversione, neanche davanti alle crudeltà della storia (vedi l’esempio dei Galilei uccisi da Pilato e degli altri periti in un incidente di vita quotidiana), per cui la sua risposta suona paradossale. È assurdo pensare che, se io sono risparmiato dal dolore, significa che ho Dio dalla mia parte! L’uomo non ha alcun potere su Dio e quindi è perfettamente inutile che cerchi di avere Dio dalla sua parte. Dio è già dalla sua parte, ma in un modo che non è scontato vedere e vivere. Lui è lì a ricordarlo, la conversione ha a che fare con il segreto che è venuto a svelare, il segreto di Dio per noi.

Nel capitolo precedente, il cap. 12, Gesù aveva adombrato questo segreto invitando i discepoli a fuggire l’ipocrisia, a confidare in Dio, a cercare il suo regno e a stare vigilanti indicandone, con un’immagine potente, la ragione di fondo. Nel v. 37 Gesù rivela che sarà lui stesso che si metterà a servire i suoi discepoli quando li trovasse vigilanti. La domanda per la conversione è la seguente: perché il nostro cuore non coglie quasi mai questo servizio suo, questo suo accudire a noi, questa sua premura nei nostri confronti? L’urgenza e l’impegno della conversione derivano dalla percezione di questo suo servirci.

La stessa parabola del fico sterile allude a questo servizio. Gesù è il contadino che convince il padrone, il Padre, ad attendere ancora. I suoi tre anni di predicazione sono passati, gli uomini non si sono ancora convertiti, ma viene concesso un altro anno, il tempo della nostra storia, quella dopo la sua morte in croce e la sua risurrezione, perché possiamo finalmente portare frutti di conversione. Per noi, sarà possibile convertirci sulla base del buon volere del contadino (=Gesù) che lavora la terra del nostro cuore perché la pianta (=discepoli) fruttifichi per il Padre.

Il buon volere corrisponde ai sentimenti di compassione e di amore che Dio svela a Mosè dal roveto ardente, come la prima lettura annuncia. È interessante osservare che il brano dell’Esodo è introdotto dalla risposta di Dio al grido di lamento del suo popolo sotto la schiavitù riassunta nell’espressione: “Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero”, espressione che nella versione della LXX suona: “Dio si fece conoscere da loro” e nel testo ebraico: “Dio guardò e conobbe”. Gli antichi commentatori ebraici spiegano la compassione del loro Dio in questi termini: Dio aveva previsto che il suo popolo l’avrebbe rigettato, ma lo volle liberare lo stesso per amore del suo nome; Dio aveva previsto la ribellione del suo popolo, ma anche visto che il suo popolo avrebbe proclamato: “Dio è il mio Dio” (Es 15,2) e “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7) commuovendosi davanti al popolo che avrebbe professato l’impegno incondizionato di obbedienza al proprio Dio prima ancora di udire i comandamenti che avrebbe ricevuto.

Il grido di Gesù: convertitevi! sale dalla profondità del mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale, il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio confessa a Mosé: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo …”. In quel conosco le sue sofferenze si rivela tutta la partecipazione dell’amore di Dio per le sue creature, tutta l’accondiscendenza che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli antichi commentatori spiegano così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro come soffrono loro … le loro pene mi riguardano; vedo anche le pene che non dicono, ma che opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi dovrà presentarsi, Dio risponde: “Io sono colui che sono! … il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime ciò che l’uomo di Lui può sperimentare quando lo invoca; quando, avendolo invocato, ne coglie la vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore. L’espressione, misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che sono’ può voler dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io sono là con voi come voi vedrete’; ‘io sono colui che tu vedrai quando invocandomi io ci sarò’; ‘chi io sia voi lo saprete da quello che farò per voi’. Il nome di Dio non rinvia semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre Dio di: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, Dio di ciascuno di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come Dio fa parte del nome del popolo.

Se il salmo 102 lo mettiamo in bocca allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero cogliere! Lui può comprendere quello che Gesù dice di sé nelle parole di benedizione dei credenti che lo riconoscono come l’Inviato: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di quella benedizione: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome”. Quando proclamiamo: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie… Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome di Dio rivelato a Mosè sul Sinai. E ancora: quello che proclamiamo con il salmo 102 corrisponde alla preghiera dopo la comunione: “O Dio, che ci nutri in questa vita con il pane del cielo, pegno della tua gloria”, vale a dire: quando ci attrai alla comunione con te e con i fratelli e noi gustiamo il tuo perdono nella capacità di condividerlo con tutti, allora scopriamo la dolcezza del tuo Nome, allora portiamo frutti degni di conversione e tutta la nostra vita risplende di un’altra luce. Proprio alla scoperta del Nome di Dio che si rivela in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(31 marzo 2019)

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Gs 5,9-12;  Sal 33;  2Cor 5,17-21;  Lc 15,1-3.11-32

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L’antifona di ingresso della liturgia, parafrasando un passo del profeta Isaia, esprime a meraviglia l’esito della parabola per il cuore dell’uomo: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria” (Is 66,10-11). L’immagine è di un bambino ingordo che succhia al seno della mamma e se ne sazia beato. È l’immagine dell’uomo peccatore che, pentito, torna al suo Dio e ne scopre la tenerezza, quella che la parabola vuole proprio mettere in evidenza. Non è però un’immagine usuale per la fantasia religiosa dell’uomo. L’uomo preferisce distinguersi dai suoi simili, peccatori come lui, esibendo una parvenza di giustizia, senza tener conto dei sentimenti di Dio. Ed è proprio questo che rende la sua ‘giustizia’ non gradita perché non solidale con i sentimenti di Dio.

La parabola raccontata da Gesù va accolta nel contesto che l’ha generata (“I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro”, Lc 15,2): l’uomo preferisce nascondersi nella sua pretesa di giustizia. Ciò che la parabola smaschera è l’immagine gretta di Dio e la mortificazione della vita sottesa alla pretesa devozione.

È chiaro che la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli. Il punto è esattamente questo: riuscire a stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia. Ed è lo stesso Gesù a rivelare a quale livello di intimità si situa il segreto della felicità nella comunione con il Padre: “Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie” (Gv 17,10), come esattamente il padre della parabola dice al figlio maggiore.

La gioia traboccherà quando il cuore potrà dire di Dio: “Chi avrò per me in cielo? Con te non desidero nulla sulla terra” (Sal 72/73,25-26). Allora i due figli saranno nella pace e godranno la fraternità. Nel testo ebraico del salmo: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. Se vengono meno la mia carne e il mio cuore, rupe del mio cuore e mia porzione è Dio per sempre”. Come dice un’antica orazione salmica: “Per noi il bene è aderire a te, Signore, ma tu accresci in noi il desiderio del bene, così che la speranza che ci unisce a te non vacilli per nessuna indecisione della fede ma perseveri nella saldezza della carità”.

A tutto questo si riferisce il pentimento del figlio minore, che si risolve nel tornare dal padre, senza affogare in sentimenti di indegnità e disperazione: “ritornò in sé e disse …. Si alzò e tornò da suo padre”. Tornare non significa riprendere la situazione prima del peccato, come se si trattasse di una questione tra me e me, ridando forza eventualmente agli ideali abbandonati. In termini psicologici, il nostro super-io non alimenta mai la vita del cuore. Significa tornare all’amore benevolente di Dio, che ha temuto per la nostra incolumità e ha premura che noi stiamo bene. Tutti i segni di premura del padre verso il figlio che è tornato (il vestito, l’anello, i sandali) alludono alla benevolenza del suo amore che non aspetta altro se non di riversarsi. Il pentimento ha a che fare con il ritrovare le energie del cuore per vivere la vita nella gioia. È ciò a cui allude la prima lettura con la circoncisione dei figli di Israele nati dopo l’uscita dall’Egitto, nella lunga traversata del deserto prima di arrivare alla terra promessa, spiegata da Giosuè: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto” (Gs 5,9).

Se s. Paolo proclama che il ministero della chiesa è la riconciliazione, come riporta la seconda lettura, vuol dire che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del perdono di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della nuova umanità a noi donata in Cristo, che tutta la vita umana assume la tensione di estendere a tutto e a tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. E se, come si legge nella stessa lettera: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”, 2Cor 5,18), Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. “Siamo infatti collaboratori di Dio” (1Cor 3,9). Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature, come la stessa parabola di Gesù rivela. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14). Noi tutti siamo chiamati a concorrere alla realizzazione di questa ‘opera’. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Così si fa esperienza di essere solidali con i sentimenti di Dio, perché in questo consiste la letizia dell’uomo, la cui porta di accesso è il pentimento, come per il figlio che rientra in se stesso e pensa a suo padre decidendo di ritornare a casa, nonostante la sua vergogna.

Nel particolare della festa che il padre allestisce si scorge un’allusione misteriosa. È la festa della grande cena per gli invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di nozze che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato, inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’ perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone per eccellenza.

Ho notato che nella parabola il padre non parla mai direttamente ai figli, come questi non parlano mai direttamente tra loro. Sono i figli a parlare direttamente al padre. Del padre la parabola descrive il suo agire benevolo e pieno di premure e tenerezze, soprattutto con il figlio ritornato a casa. Solo alla fine il padre si rivolge al figlio maggiore ricordandogli che è necessario far festa, in ciò rivelando tutto il suo intimo sentire. Se i due figli sono l’immagine del popolo d’Israele e del popolo dei pagani, allora il rivolgersi al figlio maggiore allude alla rivelazione di Dio a Israele, che Gesù richiama e che mostra compiuta nella sua premura per i pubblicani e i peccatori. Tutti e due sono chiamati alla mensa dell’amore di Dio, che fonda la loro fraternità, nell’unico Padre di tutti.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(7 aprile 2019)

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Is 43,16-21;  Sal 125;  Fil 3,8-14;  Gv 8,1-11

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La liturgia incastona la figura della donna adultera, perdonata, dentro una rete di allusioni della Scrittura che aiutano a comprendere cosa è avvenuto nel suo cuore. S. Agostino, commentando la finale di questo passo, che non viene riportato dalla maggioranza degli antichi codici e che non sembra conosciuto dalla tradizione patristica greca, riassume plasticamente la scena: “rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia”. Nello spazio di una ritrovata dignità, percepita più dal tono con cui Gesù le si rivolge che dalle parole che le rivolge: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? … Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”, può ormai avvertire quello che il profeta Isaia proclama: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia. Non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,19). Il cap. 43 di Isaia è ricco di espressioni tenerissime dell’amore eterno di Dio per il suo popolo.  Ed è da dentro l’intimità di benevolenza con cui si è accolti che si viene guariti dentro. E sicuramente lei avrà sentito arrivare al suo cuore quello che Gesù aveva detto alla samaritana al pozzo di Giacobbe: “L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Si realizzava la profezia di Zaccaria: “In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità” (Zc 13,1).

Quando Gesù si rivolge a lei chiamandola ‘donna’, dobbiamo ricordare che il vangelo di Giovanni riporta questa espressione altre quattro volte, due rivolte a sua madre (a Cana e sotto la croce), una alla samaritana e una alla Maddalena (nel giardino, da risorto). Quel termine pesca, quanto a tenerezza, proprio nel cap. 43 di Isaia, che la liturgia richiama.

C’è un altro particolare interessante che si trova in un codice del IX secolo quanto alla descrizione di Gesù, chino a scrivere per terra: “scriveva per terra i peccati di ciascuno di loro”. Già s. Girolamo aveva commentato: “Naturalmente parla dei peccati degli accusatori e di tutti i mortali, secondo quanto sta scritto nel profeta: ‘Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere’ (Ger 17,13)”. Gesù attende che gli accusatori si rendano conto della impossibile posizione in cui si sono arroccati. Di fronte all’insistenza nella loro durezza di cuore, dovrà alzarsi e rivolgersi loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”.

Sembra che il particolare dello scrivere per terra tenda a suggerire: tutto ciò che di male abbiamo commesso, se lo mettiamo davanti al Signore Gesù, resta scritto nella polvere. Soltanto però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta scritto nella polvere! Quello che non è riconosciuto, che si mantiene nascosto, che si annida nelle rivendicazioni irose o latenti, resta in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di essere senza peccato. Ma essi non hanno potuto fare esperienza della benevolenza di Dio.

Gesù ridà senso al dramma del peccato. Il peccato non è una semplice trasgressione della legge né una questione personale di inclinazioni o scelte. La posta in gioco è assai più alta, ma senza l’esperienza della benevolenza perdonante del Signore non si esce dal tranello che i farisei avevano preparato a Gesù: se si pronuncia per l’assoluzione, va contro la legge; se approva la condanna, va contro l’immagine di Dio che va predicando, con la conseguenza che allora è un falso nuovo profeta, non è degno di credito. Con il peccato non è in gioco semplicemente la nostra vera o supposta rettitudine, bensì la nostra fiducia nella promessa di Dio per noi. Se l’uomo viene condannato per il suo peccato, gli si impedisce di credere alla promessa di Dio per lui; e lo stesso avviene se il peccato è banalizzato. Il peccato, riconosciuto da dentro una relazione col proprio Dio, diventa la porta della grazia, la scoperta del suo amore perdonante.

Nel rivolgersi in quel modo all’adultera, Gesù realizza la profezia di Isaia: “Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,1). Gesù si presenta come il Signore che con il suo amore perdonante plasma il suo popolo, salva e attira a sé il suo popolo, lo fa vivere nella comunione con il suo Dio. Quello che generalmente non riusciamo più a percepire in questo ‘comportamento’ è l’aspetto nuziale dell’amore di Dio. Dio si presenta come lo Sposo che ama la sua sposa, che cerca la sua sposa, adultera, di cui non ricorda più i tradimenti, per ricrearla come una vergine sposa. La frase di Isaia va interpretata: il popolo al quale Dio ha perdonato le colpe (=plasmato) gioirà come la sposa, amata dal suo sposo (=celebra le lodi). Così è l’anima perdonata, che torna alla dignità dell’amore come una vergine sposata dal suo amato. Tale è la potenza, toccante, dell’amore di Dio.

Lo mostra la colletta: “… perdona ogni nostra colpa e fa’ che rifiorisca nel nostro cuore il canto della gratitudine e della gioia”. Il segno dell’esperienza della benevolenza di Dio è dato dalla gratitudine e dalla gioia che costituiscono l’humus interiore del cuore che si conosce peccatore perdonato, perdonato davanti a Dio, peccatore davanti al prossimo. Non può esserci alcun titolo di pretesa nei confronti dei fratelli; anzi, come l’antica colletta domandava: “possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”.

Il canto al vangelo “Ritornate a me con tutto il cuore, perché io sono misericordioso e pietoso” parla splendidamente dell’adultera perdonata. L’espressione è del profeta Gioiele 2,12-13, ma riprende la rivelazione del nome di Dio a Mosè sul Sinai raccontata in Es 34. Mosè aveva chiesto di vedere la gloria di Dio dopo il peccato del vitello d’oro. La rivelazione del nome di Dio ‘misericordioso e pietoso’ avviene nella tempesta di sentimenti scatenata dal peccato del popolo che Dio avrebbe voluto distruggere, ma per il quale Mosè intercede trovando grazia agli occhi di Dio. Dio è Dio perché è misericordioso e pietoso, ricco nell’amore, esperienza che l’uomo realizza a fronte del suo peccato drammaticamente riconosciuto.

La logica interiore di questa esperienza è ben descritta da Paolo, nella lettera ai Filippesi: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. … So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro …”.  Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te nella condivisione del suo desiderio di bene e di salvezza.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

(14 aprile 2019)

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Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Lc 19,28-40

Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Lc 22,14-23.56

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La liturgia di oggi è dominata da un’acclamazione che la percorre tutta: viene il re della gloria!

Se la celebrazione è suddivisa in due momenti, la commemorazione dell’entrata festosa di Gesù a Gerusalemme e subito dopo della passione di Gesù, ciò che unisce i due tempi è appunto questo grido, prima esultante, festoso, poi sommesso, drammatico: Gesù accetta la proclamazione della sua regalità proprio sapendo che finirà sulla croce. Da lì si mostrerà in verità quale re di gloria sia e di quale gloria si tratti.

I salmi che scandiscono la processione solenne di accompagnamento alla sua entrata nella città santa sono i salmi 23 (24) e 46 (47). Sono percorsi dall’acclamazione: chi è questo re della gloria? È il re di tutta la terra. La prima acclamazione è voce degli angeli, la seconda voce delle genti. Il significato di fondo, nell’attribuire a Gesù la profezia dei salmi, è dato dal fatto di equiparare l’ingresso del Messia di pace in Gerusalemme alla sua entrata in cielo con l’ascensione dopo la risurrezione. I due eventi si sovrappongono per illustrare il mistero di quel Messia che entra trionfante in Gerusalemme per subire la passione e svelare la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini, ma per suggerire che oramai il cielo è aperto e non ci sono più barriere (le porte nel linguaggio del salmo) che impediscono la comunione con il Dio della pace e della misericordia. Un’antica interpretazione di s. Ambrogio che spiegava la morte ignominiosa di Gesù nell’ottica della redenzione degli uomini: “non ha perso nulla annientandosi!”. Ha guadagnato tutti al cielo.

È caratteristico che nel vangelo di Luca il canto degli angeli all’entrata nel mondo del Salvatore (Lc 2,14) e il canto dei discepoli all’entrata del Salvatore in Gerusalemme (Lc 19,38) si ripetano: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”. È il canto della pace messianica, che viene dal cielo e conquista al cielo e Gesù mostrerà in cosa consista quella pace proprio con la sua passione e morte e risurrezione. La stessa antifona di ingresso della messa, che viene anticipata nella processione con i rami di ulivo, lo sottolinea: “Gloria a te che vieni, pieno di bontà e di misericordia”.

Con la colletta della messa: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce …” non c’è più ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori … non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Si canta il salmo 21 (22): “hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi… Si dividono le mie vesti”, salmo che inizia con il grido del crocifisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Potrebbe però essere letto con questa sfumatura: Dio mio, in vista di che cosa, per quale scopo mi hai abbandonato? Il crocifisso esprime la sua angoscia con le parole di fede del salmo, che poi assicura: “Tu mi hai risposto” (Sal 21,22). Il dramma è che l’uomo rinuncia radicalmente alla volontà di salvare se stesso, ma proprio per questa rinuncia si affida totalmente al suo Dio. Le stesse beffarde espressioni di coloro che sfidano Gesù sulla croce si riferiscono a questo intimo dramma: ha salvato altri, salvi ora se stesso, se è figlio di Dio! Ma Gesù, rinunciando a salvare se stesso, diventa appunto il testimone più assoluto dell’amore del Padre per i suoi figli svelando la grandezza e la potenza del suo amore. Amore che s. Paolo canta come passione d’amore per gli uomini: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. E viene proclamato solennemente il racconto della passione di Gesù.

Proprio su questo Gesù la chiesa invita a fissare gli sguardi, in tutta la potenza della sua rivelazione quanto all’amore di Dio per gli uomini. Quanto sono preziosi gli uomini per lui! Quanto può essere rivoluzionata la vita se vissuta dentro e a partire dal suo amore! Come stupendamente ci ricorda la lettera agli Ebrei: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Eb 12,2-3). E quando la colletta ci propone l’immagine di Gesù umiliato non è per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché, per realizzare la nostra vocazione all’umanità, non possiamo non rifarci a lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.

Come dice una bella orazione salmica a conclusione del salmo 23 (24): “Eleva, Signore le porte del tempio che è in noi, affinché siano porte eterne. Il Cristo, Re della gloria, entri attraverso di esse come nel cielo e plachi le battaglie contro gli spiriti malvagi, affinché tutta la nostra terra ti appartenga, insieme a tutti coloro che la abitano”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Risurrezione del Signore

(21 aprile 2019)

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At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

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Aveva introdotto le celebrazioni del triduo sacro la messa del crisma, che sottolinea l’unità della chiesa attorno al suo vescovo che consacra il sacro crisma con cui i candidati al battesimo e alla cresima verranno unti, per essere testimoni nel mondo dello splendore del nome di Cristo. La cena del Signore del Giovedì Santo, incastonando l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio con il sacramento del servizio attraverso il rito della lavanda dei piedi, aveva celebrato il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini, scopo supremo dell’agire del cuore, profumo della conoscenza del Cristo. La proclamazione della passione del Signore e l’adorazione della croce il Venerdì Santo aveva rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini, colte nel mistero della sua obbedienza fino alla morte di croce. Con la conseguenza per noi: se il Figlio di Dio non ha preferito nulla a noi, come possiamo noi preferire qualcosa a Lui?

Il Venerdì e Sabato Santo, come risposta all’annuncio della passione e morte di Gesù proclamato nella liturgia delle ore, la chiesa rispondeva sempre con questa antifona: “Cristo per noi si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha innalzato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome”. Eco dell’annuncio di Paolo ai Filippesi: “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte…” (Fil 2,7-8) e la straordinaria proclamazione dell’autore della lettera agli Ebrei: “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

Nel racconto evangelico la morte di croce ha questo di particolare: era la morte più ignominiosa, non semplicemente la più crudele. Così il sacrificio di Cristo non consistette tanto nella morte, ma nella trasformazione della morte in una sorgente di vita nuova, proprio perché Gesù ha accettato l’ignominia di quella morte. È stato reso perfetto nella sua obbedienza perché ha accettato di stare dalla parte di Dio, nel suo amore per gli uomini, proprio dentro gli affetti di una umanità calpestata e vilipesa senza cedere ad alcuna rivendicazione di sorta, nemmeno ricercando la giustizia presso il Padre contro i suoi accusatori e uccisori e ha accettato di stare dalla parte degli uomini senza minimamente accusarli e richiedere la sua difesa presso Dio. Per questo, come ripete l’antifona, “Dio lo ha innalzato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome”.

E la gioia della chiesa prorompe, prima sommessa e poi esultante, alla notizia della risurrezione del Signore. La notizia è certa, ma non evidente. La notizia è vera, ma non apodittica. Quella notizia ha bisogno di tempo per apparire in tutta la sua potenza, per convincere i nostri cuori e scoprir loro la sorgente di gioia inesauribile che costituisce. Ha bisogno di spazi per espandersi, ha bisogno di condivisione per rafforzarsi, ha bisogno di testimonianze per risplendere. Sono i tempi della chiesa, gli spazi dell’umanità, la condivisione e le testimonianze dei credenti, perché i nostri cuori finalmente si convincano a vedere e a riconoscere il Signore Gesù in tutta la sua bellezza, morto e risorto per noi.

Gioia, che per noi si risolve nell’esperienza del dolce perdono che Gesù ci riversa e il cui calore ci accompagna nelle vicende della vita, come questa preghiera fa intuire: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro. Viene tolto l’ultimo impedimento alla vista, alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato nel sepolcro. L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione del racconto punta qui.

Comunque sia spiegato l’evento, è chiaro che la risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i suoi discepoli. L’esperienza della tomba vuota situa ormai l’intelligenza del mistero di Dio in una luce assolutamente particolare e apre all’uomo l’accesso di un tempo ‘eterno’ in cui situare la storia e gli eventi, attraversati così dallo splendore del corpo glorioso di Cristo, in attesa che quello splendore riempia gli occhi e investa il cuore.

L’augurio della gioia pasquale allude proprio al dono di quella luce amica che inonda gli occhi e il cuore per farci vivere nella presenza del Signore, che ci trascina al regno del Padre suo, custoditi e accompagnati dalla tenacia dell’amore del Signore per noi, che ha promesso: “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Il Signore è risorto! È davvero risorto!

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

II Domenica di Pasqua

(28 aprile 2019)

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At 5, 12-16;  Sal 117;  Ap 1, 9-11.12-13.17.19;  Gv 20, 19-31

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A differenza del proverbio popolare che, di Tommaso, ha ritenuto la sua incredulità e testardaggine, la liturgia ne coglie invece tutta l’audacia e l’ardore. Come proclama un’antifona della liturgia bizantina: “Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci alla manifestazione del mistero di Gesù, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione”.

Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso così sul serio la vicenda di Gesù che non vuole illudersi. Quando Gesù gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: si trova tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero: ‘mio Signore e mio Dio’, la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel mio, c’è tutto l’anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c’è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture. È l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio.

Se, da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore’.

La pace che Gesù risorto dona è appunto la pace che scaturisce dal vedere il suo Volto, dal vederLo con tutti i segni di quell’amore che fa riposare il nostro cuore, gli fa trovare casa finalmente. Non è un dono particolare, un dono in più: è la conseguenza del vederLo, del suo stare con noi in atto di mostrarsi a noi, dello schiudersi del nostro cuore alla visione di Lui. È quanto ogni amore desidera e da qui, da questa profonda intimità che ne deriva, proviene tutta la nostra forza. I discepoli sono arrivati gradualmente alla conoscenza di questa verità. All’inizio li hanno aiutati dei ‘segni’: la tomba vuota, il racconto delle donne, degli altri discepoli; poi hanno potuto vedere loro stessi Gesù il quale si è fermato con loro, ha mangiato con loro, li ha istruiti, ma senza ancora poter avere la forza di testimoniare con la loro vita questa sconvolgente verità. Per ultimo, con l’invio dello Spirito Santo, hanno sentito che la verità di tutta la loro vita e la verità della vita degli uomini fosse tutta in quel Figlio di Dio, morto e risorto, ‘nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza’ (Col 2,3) per il quale solo valeva la pena di buttare la propria vita, nel desiderio che tutti finalmente potessero godere di quei tesori di sapienza e di scienza, fino alla fine del mondo.

Se abbiniamo la confessione di fede di Tommaso alla proclamazione di fede di Giovanni nell’Apocalisse, come abbiamo ascoltato nella seconda lettura, tutto si carica di risonanze straordinarie. Il Figlio d’uomo che compare in visione a Giovanni si presenta con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”. Parole che la colletta riprende: “O Padre, che nel giorno del Signore raduni il tuo popolo per celebrare colui che è il Primo e l’Ultimo, il Vivente che ha sconfitto la morte, donaci la forza del tuo Spirito, perché, spezzati i vincoli del male, ti rendiamo il libero servizio della nostra obbedienza e del nostro amore, per regnare con Cristo nella gloria”.

Quelle parole non attestano semplicemente la verità personale del Risorto, ma la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio ai suoi figli che Gesù ha mostrato in tutto il suo splendore. Da intendere: io, che sono il primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene. Chiedere la forza del suo Spirito è chiedere di essere innestati nella potenza di questa rivelazione. Quando il Risorto afferma che lui ha le chiavi della morte significa che con lui la morte non agisce più, morte intesa nel senso di mortificazione dell’amore che è vita di Dio per noi.

Tommaso, con la sua confessione di fede, allude alla percezione di questa verità, ormai pronto a compiere quello che sempre ha desiderato nella sua generosità: seguire il suo Maestro fino alla morte. Come per tutti i discepoli, perché qui si innesta la missione di cui ci fa portatori il Signore: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. La pace che dà il Signore è quella per la quale gli apostoli sono inviati nel mondo, per la quale viene loro dato lo Spirito Santo in modo che l’innocenza ottenuta da Dio e con Dio confermi la fraternità degli uomini, segno dello splendore della presenza di Dio ormai riconosciuto. Spiega Gregorio Magno: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè: come il Padre Dio ha inviato me Dio, così io uomo mando voi uomini. Il Padre inviò il Figlio, avendo stabilito che questi si incarnasse per la redenzione del genere umano: volle che entrasse nel mondo per subire la passione, e tuttavia amò il Figlio, che pure era stato inviato per affrontare la morte. E anche gli Apostoli non furono destinati dal Signore ai piaceri del mondo, ma vi furono inviati per subire dolori come era avvenuto per Lui. Così il Figlio è amato dal Padre, e tuttavia è mandato alla passione; come i discepoli sono amati dal Signore, ma inviati nel mondo per affrontare le sofferenze. Per questo Egli dice: Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè, quando vi espongo alle ingiustizie dei persecutori vi amo con lo stesso amore che ha verso di me il Padre, che pure mi ha inviato a subire tanti dolori”.

Se la liturgia pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Anche questo è racchiuso nella sussurrata e potentissima confessione di fede di Tommaso: mio Signore e mio Dio!

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

III Domenica di Pasqua

(5 maggio 2019)

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 At 5, 27b-32. 40b-41;  Sal 29;  Ap 5, 11-14;  Gv 21, 1-19

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La proclamazione del vangelo oggi comprende due scene: la pesca miracolosa con l’invito di Gesù a mangiare con lui e la triplice confessione di Pietro. È la terza volta che Gesù compare ai discepoli, se escludiamo la manifestazione del Risorto a Maria Maddalena, la prima a cui Gesù appare. Sembra di intuire che, a fronte della titubanza dei discepoli, pur inviati in missione nel mondo, il modello del rapporto del discepolo con Gesù Risorto sia offerto proprio dalla Maddalena, a indicare che la dimensione profonda dell’incontro con Gesù si compie solo nell’amore.

La prima scena, con i discepoli che non prendono nulla tutta la notte e che obbedendo all’invito del Risorto pescano una gran quantità di pesci che poi tirano a riva, dove Gesù li attende per consumare con loro un pasto, si rapporta alla missione degli apostoli nel mondo che continuano la stessa missione di Gesù, realizzando quello che Gesù aveva detto in precedenza: “Vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19). L’esito di questa missione è di riunire tutti i figli di Dio dispersi attorno alla mensa dell’Agnello perché l’amore di Dio conquisti tutti. Nella tradizione la scena del pesce sulla brace con il pane è stata spiegata in riferimento alla umanità di Gesù che si cuoce al fuoco della carità e la presenza del pane in riferimento alla sua divinità. Ma quello che è singolare è l’invito che percorre la nostra storia e che risuona potente e sommesso, come del resto è stata la confessione di Tommaso: “Venite e prendete! Il cibo che vi attende è lo stesso Signore Gesù Cristo, Dio e uomo; uomo per amor nostro, divorato dal fuoco della carità, Dio eterno, pane degli angeli. Venite tutti e saziatevi: venite e prendete” (Ludolfo di Sassonia). S. Agostino spiega: Piscis assus, Christus passus, vale a dire: il pesce arrostito rappresenta Cristo nella sua passione, e proprio in quanto rinnegato e ucciso, è cibo per tutti, a tutti porta vita. Il particolare, misterioso, del numero dei pesci tirati a riva, 153, è variamente interpretato. Riporto solo l’interpretazione di Girolamo (si pensava che esistessero 153 tipi di pesci e quindi il numero significa la totalità dell’umanità) e di Agostino (153 è un cosiddetto numero triangolare, ottenuto con la somma dei numeri da 1 a 17. Dato che 17 è formato da 10 e 7, si interpreta come i dieci comandamenti e i sette doni dello Spirito, sempre a sottolineare l’idea di totalità). Il pasto comune però comporta due ‘offertori’ di sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il pesce portato dai discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il dono degli uni agli altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.

In questo senso, se mettiamo in relazione il brano con la prima lettura degli Atti degli apostoli, dove viene segnalato la ‘gioia’ dei discepoli che sono giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù (cfr. At 5,41), comprendiamo l’orizzonte in cui situare la missione dei credenti nel mondo. Il fuoco di carità che ha cotto l’umanità di Gesù per farsi cibo è lo stesso fuoco che cuoce l’umanità dei discepoli perché a tutti appaia l’amore del Signore per noi. Quel fuoco è descritto nei primi capitoli degli Atti come la forza e la franchezza con cui gli apostoli danno testimonianza della risurrezione di Gesù. Non si tratta però semplicemente di una testimonianza di convalida (sì, è proprio vero che Gesù, il crocifisso, è risorto!) ma di una testimonianza di dinamismo (se Gesù è risorto, allora l’amore suo ci ha conquistati al punto che ha trasformato la nostra vita tanto da farci vivere in e di quell’amore. Il segno? La gioia nelle persecuzioni. La gioia non è più pescata negli eventi, ma nella libertà dell’amore).

La seconda scena riguarda l’apostolo Pietro. Si ripete alla fine la stessa scena degli inizi. Gesù chiama Pietro e lo invita a seguirlo. Ma se il primo incontro era l’ingresso in una specie di apprendistato, ora, l’ultimo incontro, è l’entrata nella sequela compiuta di Gesù, crocifisso e risorto. Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro di Gesù con Pietro viene narrato in 1,42 quando Gesù gli dice: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa – che significa Pietro”. Nel corso della narrazione evangelica viene sempre denominato Simon Pietro o Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni …” per tre volte. Perché lo chiama con il suo vecchio nome?  Sembra che Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro, abbia ancora bisogno di qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare quello che il nome, Pietro, impostogli da Gesù, significa per lui e per la comunità dei suoi fratelli.

Nell’intimità che si era creata, dopo aver mangiato, Gesù si rivolge a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”, ripetendogli la domanda altre due volte senza più aggiungere ‘più di costoro’. Nell’ultima cena Pietro aveva protestato: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte, l’aveva rinnegato tre volte. Era chiaro a tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per la sua impetuosità, ma ora Pietro non lo può più riconoscere perché era stato l’unico a rinnegarlo. E quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”  Pietro non può che restare addolorato perché evidentemente si rendeva conto della sua posizione e, finalmente conquistato alla nuova modalità di sequela che Gesù esigeva, risponde affidandosi: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. La sua confessione equivale a quella di Tommaso: sommessa e potente, confuso e grato. Come gli dicesse: Signore, tu sai tutto, tu sai che io non pongo in me alcuna fiducia e nemmeno intendo pormi al di sopra degli altri, tu sai che il mio cuore è tutto per te.

E quando Gesù, dopo avergli affidato le sue pecorelle, invitandolo a pascerle e a guidarle, gli rivela che lo seguirà fino alla morte, è come se gli dicesse: ora comprendi quello che ti dicevo: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (Gv 13,7). Dai per le mie pecorelle quella vita che volevi mettere a rischio per me, quando nell’audacia dell’amor tuo dicevi: morirò per te! Non sapevi che per dare a te la forza del sacrificio dovevo precederti e patirlo prima io; non sapevi che era necessaria la mia morte in croce affinché tu potessi sopportare il martirio.

Solo ora la sua sequela diventa quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva di Pietro. In effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la vita per Gesù – cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose mondana o ideologica! – ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo sentire, la sua modalità di azione nel mondo perché tutti abbiano la vita. Potremmo anche interpretare: “Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole bene”. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa e sarà immune dal tarlo del predominio, sotto qualsiasi forma si cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecore”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti, perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non sarà più insidiata, così come è avvenuto per Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

IV Domenica di Pasqua

(12 maggio 2019)

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At 13, 14. 43-52;  Sal 99;  Ap 7, 9. 14-17;  Gv 10, 27-30

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Il brano evangelico di oggi riporta le parole di Gesù proferite durante la festa della Dedicazione, che cadeva in dicembre, nell’anniversario della purificazione del Tempio avvenuta nell’anno 164 a.C. sotto Giuda Maccabeo (cfr 1Mac 4,36-59). Non sono la semplice ripresa della parabola del buon pastore, ma una ulteriore specificazione della sua identità, del mistero della sua persona messa ripetutamente sotto accusa nelle discussioni riportate dai cap. 8-10 di Giovanni. Il punto centrale sembra questo: voi non mi potete capire perché pensate già di conoscere Dio e pretendete di comprendere la sua parola senza nemmeno ascoltare la sua voce. In effetti, la cosa straordinaria del parlare di Gesù risalta dal fatto che per comprendere la parola bisogna ascoltare la voce. Gesù non dice: “Le mie pecore ascoltano la mia parola”, ma “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Si ascolta la voce, prima ancora della parola che questa voce proferisce. Come a dire: se non si accoglie la parola da dentro un’intimità di rapporto (non ci si emoziona per la parola ascoltata, ma per la voce che parla al cuore con quella parola!), a partire dal dono di quell’intimità, non ci si può disporre ad accogliere anche quello che la voce dice (=mi seguono).

La prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, individua l’impedimento ad ascoltare la voce nel fatto di giudicarsi non degni della vita eterna, come dicono Paolo e Barnaba ai convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna …” (At 13,46). Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene degni dei misteri di Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa dignità si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà preda del tormento della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento. Al contrario, invece, i discepoli sono “pieni di gioia e di Spirito Santo”, gioia che permetterà di attraversare tutte le afflizioni e le contrarietà della vita.  Nel racconto degli Atti la gioia è sempre abbinata allo Spirito Santo e riguarda quasi sempre la gioia nelle afflizioni per il nome di Gesù. Non vogliamo riconoscere che la partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo.

Il salmo responsoriale, il salmo 99 (100), lo proclama apertamente: “Servite il Signore nella gioia, venite davanti a lui con esultanza” (v. 2). Un antico midrash spiega: «‘Servire il Signore nella gioia’ (Sal 100,2). Ma un altro passo dice: ‘Servite il Signore con timore’ (Sal 2,11). Se è con gioia non è con timore, e se è con timore non è con gioia. Spiegava Rabbi Aibu: ‘Quando sei nel mondo sii gioioso, ma quando sei in preghiera abbi timore davanti al Santo – sia benedetto-‘». Servire il Signore, nel linguaggio biblico, significa appartenere a lui, significa vivere secondo la sua volontà, tanto che comportarsi secondo i suoi comandi equivale a trovare gioia nei suoi comandi (cfr. Sal 119,47.143). Di conseguenza significa dare gioia agli altri. Questa, infatti, è la gioia del Signore: che quanti aderiscono a lui diano gioia ai loro fratelli e sorelle in umanità!

E se riprendiamo l’altra espressione del salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”, non si vuole dire che siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori.  Riconoscere, con il salmo: “egli ci ha fatti” significa proclamare tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi siamo, ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua bellezza. Dignità, che è riservata a tutti e che tutti condivideranno nel regno dei cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del Signore custodiscono per sé e difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è basata sull’uomo, ma chi ne ha conosciuto per esperienza di fede il segreto, in Gesù, è chiamato a custodirla per tutti finché a tutti venga svelata.

Con il dire: ‘le mie pecore ascoltano la mia voce’, possiamo anche intendere che non semplicemente ascoltano quello che dice, ma sentono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero.

Come nessuno ha potuto rapire Gesù dalle mani del Padre, nonostante tutto congiurasse contro questa fedeltà del Figlio al Padre suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in croce, così nessuno potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto si scateni la violenza degli avversari. Così Tertulliano spiega l’invocazione del Padre nostro: ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’: itaque petendo panem quotidianum perpetuitatem postulamus in Christo et individuitatem a corpore eius”, che potremmo tradurre: quando chiediamo il pane quotidiano, che è Cristo, noi domandiamo di rimanere costantemente e per sempre in Cristo e di non essere mai separati dal suo corpo, cioè di vivere in modo da non stare mai lontani dalla mensa eucaristica e di godere della piena intimità con Lui, in modo da sperimentare compiutamente il mistero della fraternità che da Lui prende origine. Perché è in Cristo che si svela il principio stesso di quella fraternità che nulla può distruggere. Se siamo suoi, di Lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da Lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

V Domenica di Pasqua

(19 maggio 2019)

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At 14, 21-27;  Sal 144;  Ap 21, 1-5;  Gv 13, 31-33. 34-35

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Tutta la liturgia di oggi ruota attorno all’aggettivo nuovo. L’ingresso segnala il canto nuovo, la colletta il fatto che Dio, nel suo Figlio, rinnova gli uomini e le cose, l’Apocalisse rivela: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, il canto al vangelo e il vangelo: “Vi do un comandamento nuovo”, l’antifona dopo la comunione parla di vita nuova.

È strano come il brano evangelico di oggi non riporti nella sua interezza il versetto 33, che suona: “Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire”. Quel ‘dove vado io’ è essenziale per la comprensione del comandamento nuovo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 14,34).

Sottolineo subito che il ‘come’ dell’amore non indica uguaglianza, ma intimità. Sarebbe oltremodo presuntuoso aspirare ad amare con la stessa radicalità e intensità del Figlio di Dio. Invece – e questa è la promessa di Gesù e non solo il comandamento! – amarci come lui ci ha amati indica da dove pescare questo amore, da dove prende vigore; indica il dinamismo che lo sottende, lo scopo che lo caratterizza, la modalità di compimento che lo esprime. Per questo è importante comprendere a cosa allude Gesù quando dice che dove va lui i discepoli non possono ancora venire. Subito dopo, infatti, interviene Pietro che, protestandogli il suo amore, pronto a morire per lui, si chiede perché non possa subito seguire Gesù.

Gesù allude alla sua morte e risurrezione come rivelazione dell’amore del Padre tanto che, commentando l’uscita di Giuda dal cenacolo, Gesù parla della glorificazione sua e di quella del Padre. Ora, la gloria ha a che fare con lo splendore dell’amore che su tutto sovrasta e tutto ingloba. Gesù, quando dice che dove è lui vuole che anche i suoi discepoli siano, intende: Io sono nell’amore del Padre per voi e se voi restate in me, anche voi partecipate all’intimità e al dinamismo di quello stesso amore. Quell’amore è l’energia dello Spirito che conduce Gesù alla croce nella piena intimità con il Padre e nella piena solidarietà con l’umanità, tanto da trasfigurare la sua morte in radice di vita e di vita eterna, come apparirà nella sua evidenza agli apostoli con il vedere il crocifisso risorto.

Se Pietro non può seguire subito Gesù non è perché, invece che morire per lui, finisce per tradirlo, ma perché Gesù non ha ancora compiuto la sua ‘traversata’ e Pietro non sa ancora dove prendere le energie per vivere di quell’amore che pur gli protesta sinceramente. Solo dopo che Gesù ha mostrato, nella sua umanità, qual è l’intero tragitto della vita, allora anche i discepoli, stando in lui, il Vivente, potranno vivere di quello stesso amore. In questo senso, il ‘come io vi ho amati’ non si riferisce alla vita di Gesù che gli apostoli avevano in precedenza conosciuto, ma alla vita di Gesù che scaturisce dalla sua morte e risurrezione e di cui i discepoli saranno messi a parte. E se Gesù dà il suo comandamento nuovo dopo che Giuda è uscito e dopo aver lavato i piedi anche a lui, è perché l’amore dei discepoli, come quello di Gesù, deve essere volto a tutti, indistintamente, perché il Padre sia glorificato.

In effetti, la novità del comandamento dell’amore è posta tra la gloria che rifulge in Gesù nel suo farsi dono agli uomini da parte di Dio e il segno che rivela al mondo l’appartenenza dei discepoli al loro Signore. Proprio perché il crocifisso è il re della gloria, non si può non cogliere quella gloria come lo splendore dell’amore che si è riversato sugli uomini e che farà dire agli apostoli: “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (At 14,22). Sono le tribolazioni come fatica di fedeltà all’amore, come pazienza dell’amore che non viene meno nelle avversità e nelle afflizioni, come vestito di umiltà che segnala la forza dell’intimità con quel Signore che si è conosciuto e che ci ha conquistati. Di fronte al mondo, invece, quella gloria diventa segno di appartenenza, segno rivelatore e segno attirante: rivelazione di un’esperienza forte di fede nel Cristo, capace di farci vivere e di far desiderare ad altri di vivere secondo quella novità di amore che rinnova alle radici la nostra umanità. Accogliere Gesù significa anche accogliere che in noi si esprima la dinamica di rivelazione che lo caratterizza: mostrare quanto è grande l’amore del Padre per i suoi figli e riunire i figli di Dio dispersi.

È singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli di amare lui, mentre il comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto. Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché? Qui si può comprendere il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei suoi confronti.

Nella visione dell’Apocalisse della Gerusalemme celeste, come il luogo dove l’amore di Dio è gustato e condiviso, risuonano le parole: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio” (Ap 21,3). Se all’inizio della creazione l’immagine del paradiso è un giardino dove l’uomo viene collocato, alla fine della storia l’immagine è una città che l’uomo ha contribuito a costruire. L’immagine della città suggerisce che la felicità sta nelle relazioni, sta nella fraternità goduta nell’intimità dell’unico Padre, che ci ha attirati nell’umanità del suo Figlio, perché avessimo la sua vita e la vita in abbondanza. Il paradiso è il compimento del nome di Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi!

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

VI Domenica di Pasqua

(26 maggio 2019)

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At 15, 1-2. 22-29;  Sal 66;  Ap 21, 10-14. 22-23;  Gv 14, 23-29

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La liturgia di oggi delinea già lo scenario di Pentecoste. Gesù annuncia l’invio dello Spirito Santo che si farà nei cuori intelligenza del suo mistero e movimento di rivelazione dell’amore del Padre per il mondo. Il brano evangelico di oggi è la risposta alla domanda di Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. E la domanda segue la dichiarazione di Gesù: “Chi accoglie [letteralmente: chi ha] i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Ciò che aveva colpito l’apostolo Giuda era l’accenno alla manifestazione. Pensava che la manifestazione del regno si dovesse imporre al mondo nel senso che la potenza di Dio avrebbe stabilito il suo regno con forza, vincendo tutti i nemici che fino a quel momento l’avevano avversato. Capisce però che Gesù dice altra cosa e per questo fa la domanda, che è la domanda messianica per eccellenza: come si rivelerà il regno di Dio? Come lo vedremo?

Se il regno di Dio è il regno dell’amore del Padre per noi, allora la manifestazione è dovuta all’amore e non all’evidenza. Sarà l’amore che saprà leggere la storia e non la storia a rivelare l’amore. La storia resta con i suoi drammi e le sue ferite, con le sue tragedie, personali e comunitarie, eppure con Gesù qualcosa di radicalmente nuovo è intervenuto. È caratteristico che Gesù parli della sua pace, della pace che dà lui, diversamente dal mondo, dopo aver promesso l’invio dello Spirito Santo. La pace è il segnale dell’amore goduto, e l’amore è il dinamismo suscitato nei cuori dallo Spirito Santo che Gesù effonde dalla croce e conferma con la risurrezione. Solo in quell’amore l’uomo ha la possibilità di ‘vedere’ il regno di Dio, di vederlo compiersi, di toccarlo e viverne lo splendore. Tanto che la pace che Gesù dà non significa: faccio pace con te o faccio sì che tu sia in pace con me, ma: ti assicuro la pace sempre, nelle tribolazioni e nelle prove, patite per il mio nome. È il dono tipicamente pasquale, il dono messianico per eccellenza, quello che ci permette di gustare la compagnia di Dio, la presenza del Vivente in noi, realizzando nel mondo il senso del nome Emmanuele: Dio con noi! Lo si vedrà bene nel racconto degli Atti degli apostoli, dove lo Spirito è sempre abbinato alla gioia nel contesto delle tribolazioni della vita.

La condizione di possibilità perché ciò avvenga è svelata alla fine del brano, che nella versione CEI suona: “Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). L’espressione ‘contro di me non può nulla’, tradotta più letteralmente sarebbe: ‘in me non ha nulla’. Siccome in Gesù c’è solo l’amore del Padre, il demonio non ha alcun diritto su di lui nel senso che può rovesciargli addosso tutto il male che vuole [la passione di Gesù, con tutta la violenza e l’ingiustizia che comporta, è vista come l’azione del demonio che tenta di prevalere], ma senza poterlo deviare dal suo scopo, senza potergli sottrarre quell’amore; al contrario, suo malgrado, farà risplendere davanti a tutti quell’amore affascinando i cuori. Questa espressione è costruita allo stesso modo dell’altra che la richiama: ‘chi ha i miei comandamenti’ (v. 21), che la versione CEI traduce: ‘chi accoglie i miei comandamenti’. Quando un cuore è conquistato all’amore di Gesù, non facendo valere altro che i suoi ‘comandamenti’, le sue parole, la verità vissuta delle sue parole, perché in essi ha scoperto le radici del vivere beato, ne conoscerà la potenza di vita e il demonio nulla potrà contro quell’amore, non potrà cioè mortificarlo.

Quando al battesimo e alla trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato”, il significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche a tutti noi in lui. Vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, l’Inviato del Padre e accogliendo la sua parola accordandole il credito di verità per la vita, entreremo nella benedizione di quell’amore di predilezione, nel quale il Padre vuole inglobare tutti. La rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione che non parli dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, non chiediamo prima di tutto di poter stare fedeli alla sua volontà, ma più direttamente di poter sperimentare la sua volontà di amore per noi nella nostra vita, tanto da godere della comunione con lui al di sopra di tutto. Questo ci otterrà l’azione dello Spirito Santo, che ci farà fare memoria viva del Signore Gesù in questo mondo. Cosa che potrei commentare così: se cerco l’amore avrò la felicità, ma se perseguo la felicità finirò per perdere l’amore.

La letizia pasquale, che è per la comunione, si radica appunto nell’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori per renderci, con Gesù, testimoni dell’amore del Padre per tutti. Lo proclama il salmo responsoriale: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti. Ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra” (Sal 66/67,6.8). L’ansia di comunione non si placa finché tutti i confini della terra avranno veduto la salvezza del nostro Dio: così è la chiesa, che vive della dinamica pasquale. Ma così è anche il nostro cuore, che attende di essere conquistato in tutte le pieghe dall’amore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

Ascensione del Signore

(2 giugno 2019)

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At 1,1-11;  Sal 46;  Eb 9,24-28; 10,19-23;  Lc 24,46-53

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Con l’ascensione al cielo di Gesù viene spiegato il senso profondo della risurrezione: Gesù non è più nell’orizzonte terreno nel quale era entrato con la sua incarnazione, ma è nella gloria della divinità. L’affermazione della nostra fede è chiara: in cielo è entrato l’uomo, nella sua corporeità; non solo, ma ci è entrato con i segni indelebili della sua passione, non più visti come richiamo alla cattiveria degli uomini, ma come prova dell’immensità dell’amore di Dio per gli uomini. Tanto che gli angeli, se vogliono conoscere il loro Signore nella sua immensità, hanno dovuto aspettare il suo ingresso nei cieli con i segni della passione nella sua carne. Commentando il salmo 46 (47), letto in rapporto al mistero dell’ascensione, i Padri spiegano che agli angeli viene rivelata la sapienza di Dio che si è compiuta nel Cristo, in favore degli uomini. Gregorio di Nazianzo invita il fedele così: “Se salirà in cielo, tu sali con lui: diventa uno degli angeli che lo accompagnano e lo accolgono… poni innanzi a te la bellezza della stola del suo corpo che ha sofferto, che è stato reso ancor più bello dalla Passione, e che splendeva della sua natura divina, della quale niente è più amabile e più bello” (Or. 45,12).

E s. Ambrogio, immaginando le porte del cielo che accolgono il Cristo che vi ascende, come sono descritte nel salmo 23 (24), ha queste stupende parole: “… era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi! Le porte eterne rimangono, ma si alzano: non è un uomo che entra, è il mondo intero, nella persona del Redentore di tutti” (De vera fide, 4,1).

Il racconto dei vangeli e degli Atti degli apostoli colloca l’evento dell’ascensione nella percezione diretta dei discepoli: vedono con i loro occhi Gesù sparire in alto, ma con la sensazione potente che Gesù è ormai presente nei loro cuori, è con loro sempre. Il segnale di questo ‘vedere’ con il cuore e non solo con gli occhi fisici è dato dalla gioia. Il loro Maestro non lo vedranno più e sono contenti! Dal punto di vista psicologico, è assurdo; dal punto di vista del cuore, è la vera consolazione. Si compie in verità, proprio a livello di sensazione del cuore, quello che Gesù dice alla fine del vangelo di Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E la cosa diventa possibile, realissima, per quello che dice Luca nell’ultimo incontro con i discepoli, prima che sparisse dalla loro vista: Gesù, risorto, apre la mente all’intelligenza delle Scritture (Lc 24,45). Sono le Scritture ad illuminare il mistero di Gesù e sono i sacramenti, compreso il sacramento della fraternità, ad aprire gli occhi ai discepoli per scorgere la presenza del Signore con loro. I due discepoli di Emmaus, confidandosi le sensazioni segrete dei loro cuori mentre ascoltavano le spiegazioni del misterioso pellegrino e dopo averlo riconosciuto nello spezzare il pane, riportano: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [letteralmente: ‘ci apriva’, stesso verbo usato nel brano odierno] le Scritture?” (Lc 24,32). Ecco il rimando generatore di intelligenza per la chiesa: le Scritture parlano di Gesù e i cuori lo riconoscono presente nella celebrazione dell’eucaristia e del sacramento della fraternità, presenza che si rivela nella sua potenza di rivelazione con l’intelligenza delle Scritture assimilate.

L’annotazione dell’ultimo gesto visivo di Gesù, il suo benedire i discepoli (“Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”, Lc 24,51) rivela appunto la messa in moto di questo circuito virtuoso: apre l’intelligenza alle Scritture e apre le Scritture all’intelligenza, nel fuoco della sua presenza nei cuori, testimoniata dalla fraternità condivisa. Il movimento che scatena è incontenibile perché quel movimento non riguarda semplicemente la chiesa, ma il mondo: quel movimento è per il mondo. Difatti i discepoli, con l’ascensione di Gesù, sono consacrati come ‘apostoli’, inviati al mondo. Il contesto dell’evento dell’ascensione è missionario, perché risponde alla perenne domanda messianica: quando verrà il regno di Dio? Gesù ha spiegato ai suoi discepoli che la domanda sui tempi è fasulla perché non riguarda gli uomini, ma soltanto Dio. Quello che riguarda gli uomini è che quel regno, di cui portano sensazione nei cuori per la presenza del Vivente in loro, sia testimoniato nel suo splendore, nella sua dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, dovunque, sempre, in ogni tempo.

Dopo l’ascensione, è appunto il tempo della testimonianza. Gesù invita i suoi apostoli a non indagare sul tempo, ma a stare nel tempo, a starci con la forza dello Spirito per essere testimoni di lui in questo mondo (cfr. At 1). Ora è il tempo della conoscenza del Figlio dell’uomo, il tempo della fraternità ricostituita nella potenza dall’alto, nella potenza dello Spirito Santo. Perché essere testimoni del Signore Gesù nel mondo vuol dire partecipare alla testimonianza dello stesso Signore, che ha fatto risplendere nel mondo il volto di Dio nel suo amore per gli uomini; vuol dire godere di quella gioia, pace e libertà che il mondo desidera ma non conosce e di cui invece il Risorto fa dono ai suoi senza che nessuno possa rapirle dai loro cuori.

La testimonianza è caratterizzata dall’esperienza di una gioia speciale, abbinata alla promessa dello Spirito Santo che di lì a poco gli apostoli avrebbero ricevuto: “Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,52). La forza dello Spirito, che è uno spirito di letizia, agisce nei cuori rispetto a tre contesti ben precisi e interdipendenti: il riconoscimento della realtà e dell’identità del Risorto, lo stesso che ha patito per noi; l’intelligenza delle Scritture di cui il Risorto mostra il compimento (cfr. Lc 24,46-48); la missione nel mondo. Così l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù acquista tutto il suo senso. Il cielo non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove può essere percepita la santità se non nel vivere fraterno? Così, la predicazione alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per gli uomini, ma comprende anche il mostrare da parte dei discepoli che tale annuncio si è tradotto per loro in splendore di vita.

Se, come dicevo, il vangelo di Luca termina con l’immagine di Gesù benedicente, ciò significa che quella benedizione costituisce il sigillo perenne della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte al mondo. Per questo, l’autore della lettera agli Ebrei, richiamando i fedeli alla fede in Gesù, asceso al cielo, esorta: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso” (Eb 10,23), colui che ora porta nella gloria i segni della sua passione perché ognuno di noi si possa avvicinare con fiducia al suo trono di grazia, che è per noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Pasqua

Pentecoste

(9 giugno 2019)

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At 2, 1-11;  Sal 103;  Rm 8, 8-17;  Gv 14, 15-16. 23-26

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Con la Pentecoste si chiude il ciclo pasquale. Non nel senso di delimitare un tempo, ma di aprire tutti i tempi al mistero della Pasqua. Quel mistero si tradurrà nella verità: Cristo vive in me (Gal 2,20).  Sarà lo Spirito che ci accompagnerà a vivere quella verità. Possiamo allora domandarci: perché il parlare in lingue è così espressivo del dono dello Spirito Santo? E perché la Scrittura usa l’immagine della ‘lingua come di fuoco’ per caratterizzare la discesa dello Spirito Santo?

Quando Paolo proclama che “l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito” (Rm 5,5) si deve intendere: è lo Spirito che ci dà la conoscenza del Signore Gesù, testimone dell’amore del Padre per i suoi figli e ci attira, insieme a Gesù, in quella stessa testimonianza di fronte al mondo. Si tratta di rivelazione per il cuore, non di semplice conoscenza. È un dono accolto, una scoperta inaspettata, una gioia immeritata.

Lo Spirito, ottenutoci dalla passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto evidente, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Delle due immagini caratteristiche della Pentecoste, le lingue che compaiono sul capo degli apostoli e il fuoco di cui si prega “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Collegare l’invio dello Spirito alla memoria di Gesù, che compie la volontà di bene per noi di Dio, significa ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità del fuoco dell’amore di Dio che a lui arriva tramite Gesù. Se tale è la percezione del cuore, allora il cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e estenderlo a tutti, fino ai confini della terra. Qui si collega la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

La comparsa delle lingue a Pentecoste proclama: l’opera di Dio unisce tutti gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (= ogni lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo.

L’aspetto singolare per i credenti è dato dal fatto che l’impegno della testimonianza, di cui è fatto loro comando, consiste proprio in questa lingua di comunione. La verità che lo Spirito fa conoscere è prima di tutto la verità dello splendore dell’amore di Dio per gli uomini che in Gesù rifulge, ragione per la quale l’unione dei discepoli con il Cristo precede e fonda la carità che sono chiamati a usarsi vicendevolmente. Anzi, quella carità sarà segnale per il mondo perché testimonia la potenza della presenza del Signore nel mondo.

È caratteristico che la settima beatitudine suoni: ‘beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9), da comprendere insieme all’altra espressione: ‘tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio’ (Rm 8,14). Lo Spirito agisce nei discepoli di Gesù nel senso di renderli come lui, il Figlio di Dio, la cui testimonianza si risolve nel mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini. E come per il Figlio la fonte della sua testimonianza sta nella comunione di vita con il Padre, così nei discepoli la potenza della loro azione deriva dalla intimità di comunione con il Figlio che non si stanca di trascinarli a cercare gli uomini perché godano anch’essi dell’amore del Padre. In questo i discepoli imparano a parlare la lingua della comunione, la lingua dello Spirito.

Ancora una parola sull’azione dello Spirito Santo nei cuori. In Gv 16,13 Gesù promette: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito”. Ora, lo Spirito guida non tanto alla verità (moto a luogo) ma nella verità (stato in luogo), come il testo greco proclama. Il che significa che la guida dello Spirito non è tesa a farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che nulla può mortificare. È la dimensione spirituale compiuta della nostra vita, il superamento dell’illusione mondana sempre serpeggiante nei nostri cuori.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Solennità e feste

Santissima Trinità

(16 giugno 2019)

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Pro 8, 22-31;  Sal 8;  Rm 5, 1-5;  Gv 16, 12-15

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Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al Padre, come la preghiera stessa della Chiesa sottolinea: “Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che nella pazienza e nella speranza possiamo giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita”, dove amore fa riferimento al Padre, verità al Figlio, vita allo Spirito Santo. Del resto, il saluto iniziale della liturgia eucaristica proclama: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi”.

Se la preghiera definisce Dio come ‘amore, verità e vita’, riferendosi al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, vuol dire che siamo invitati a pregare perché possiamo averne piena conoscenza, nella pazienza e nella speranza. Tutto procede dalla verità del Figlio che, dandoci il Suo Spirito, che è vita (cioè ci comunica quell’amore che non è più rapibile da niente e da nessuno), ci fa conoscere l’amore del Padre. Da parte nostra tutto procede dall’accoglienza del Figlio, perché il Padre che desideriamo conoscere è il Suo Padre, e lo possiamo conoscere nel Suo Spirito. In tal senso ‘tutta la verità’, di cui parla Gesù riferendosi allo Spirito, non riguarda tanto la verità nei suoi vari enunciati, ma la verità come comunione con Cristo. Di quanta ‘pazienza’ e di quale ‘speranza’ necessita allora l’uomo per realizzare radicalmente e totalmente nella sua vita quella comunione con Cristo! Ma è a partire da quella comunione che la rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito costituirà la delizia del nostro cuore.

Se è Gesù che rivela compiutamente il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio e compie il desiderio di comunione con Dio da parte degli uomini, allora ne deriva che la fonte della nostra dignità procede proprio dal fatto che Dio ha reso l’uomo degno dei suoi misteri. Il salmo 8 proclama: “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?”. In cosa consiste la cura di Dio per l’uomo? Nel passo parallelo del salmo 144, v. 3, le antiche versioni greca e latina riportano: ‘Signore, che cos’è l’uomo, perché ti sia a lui fatto conoscere?’ (Domine, quid est homo, quoniam innotuisti ei?).

Gesù annuncia che lo Spirito ci guiderà a tutta la verità. La frase ha valore di rivelazione nel sottolineare che la guida dello Spirito non è tesa tanto a farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che nulla può mortificare.

Il testo rivela anche la ragione per la quale lo Spirito è in grado di guidarci nella verità: “non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito”. Per cogliere la profondità di questa frase suggerisco di mettersi davanti all’icona della Trinità di Rublev, guardando i tre angeli che attorno a una mensa, con una patena al centro che contiene l’agnello, stanno in dolce colloquio. Quel colloquio, il colloquio eterno di Dio in se stesso, riguarda l’uomo per il quale tutte le cose sono create, riguarda il suo destino di comunione nella gioia dell’amore con il suo Dio, destino che si gioca sull’immolazione dell’Agnello prima della fondazione del mondo (Ap 13,8). Lo Spirito ha udito quello che il Padre e il Figlio si dicono dall’eternità a proposito della creazione e della salvezza dell’uomo.

Lo Spirito, che parla al nostro cuore, è quello Spirito che Gesù emise dalla croce rivelando quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e abilitando l’uomo a vivere del suo stesso Spirito. Lo splendore di quell’amore manifestato da Gesù diventa così, per la potenza del suo Spirito, radice di vita in coloro che ne accolgono la testimonianza. Come dice Giovanni nel prologo del suo vangelo: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). È l’azione dello Spirito a far sì che la verità di rivelazione del vero volto di Dio, di cui Gesù è il Testimone, risplenda in tutto il suo splendore; a far sì che quella verità conquisti i cuori interamente e che l’esperienza di quell’amore ci sveli i suoi segreti.

Segreti, che attingono all’origine stessa della creazione, di cui costituiscono il fondamento e lo scopo, come la lettura del capitolo 8 del libro dei Proverbi suggerisce. Un’espressione è particolarmente suggestiva: “… io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Il Padre trovava delizia nel Figlio, la Sapienza (possiamo rammentare le espressioni evangeliche al battesimo e alla trasfigurazione di Gesù: ‘questi è il Figlio mio, l’amato’) e il Figlio trovava delizia nei figli dell’uomo. Come a dire che il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio verte sulla salvezza dell’uomo, per il quale il mondo è creato, colloquio che lo Spirito svelerà al nostro cuore rendendocene partecipi. E la partecipazione avverrà stando sottomessi a tutti nel nome di Cristo, che rivela l’amore di Dio, perché la sottomissione ha a che fare con la delizia della Sapienza che presiede alla creazione per amore dell’uomo.

L’immagine più suggestiva dell’amore del Padre, che Gesù testimonia e che lo Spirito ci riversa in seno, la ravviso in un dipinto di Nicoletto Semitecolo, un autore greco attivo in Italia nella seconda metà XIV secolo. Si tratta della Trinità che si trova nella Cattedrale di Padova, che mostra il Cristo crocifisso, senza la croce lignea, inchiodato alle mani del Padre. Cristo, ‘una cosa sola’ con il Padre (Gv 10,30), si lascia crocifiggere alla volontà di Dio di offrire un segno materiale e inequivocabile del suo amore per gli uomini. La sua sottomissione viene espressa come crocifissa sintonia di voleri personali e lo Spirito è proprio questa sintonia d’amore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Corpus Domini

(23 giugno 2019)

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Gn 14, 18-20;  Sal 109;  1Cor 11, 23-26;  Lc 9, 11-17

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Nei tre formulari delle messe del Corpus Domini nei cicli A, B e C, permane invariato il canto al vangelo, tratto da Gv 6,51: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. La liturgia collega il mistero dell’eucaristia all’affermazione di Gesù che è ‘pane disceso dal cielo’. Ora, quando Gesù si definisce pane vivo disceso dal cielo, non allude solo alla sua provenienza, ma alla dinamica di rivelazione che ha inaugurato. Il suo discendere rivela l’abbassamento di Dio per convincere l’uomo del suo amore, abbassamento che lo porterà alla morte e alla morte di croce. L’uomo però non ama abbassarsi, per quanto aspiri all’amore. E quando si sente dire, senza mezzi termini, che quell’abbassamento è l’unica via di Dio, allora non solo non comprende, ma non accetta e si separa dalla via della vita, come mostra la conclusione del cap. 6 del vangelo di Giovanni. Invece è proprio quel mistero di abbassamento di Dio, proprio quel morire in croce per risorgere nella potenza di Dio, di cui l’Eucaristia è il memoriale, che ci ottiene la vita con il dono del suo Spirito. Tanto che, quando i credenti celebrano il memoriale della morte del Signore finché egli venga, non intendono solo ricordare, sia pure nell’attualizzazione specifica della liturgia, ma si dispongono a diventare essi stessi memoria vivente di Gesù. Si ritrovano inseriti nella sua stessa dinamica di rivelazione per cui ‘discendono’ nell’umanità lasciando ogni forma di gloria mondana, sociale e personale, per non compromettere mai la grandezza dell’amore, per non venir meno all’amore; in altre parole, per vivere di vita eterna, quella che Gesù ci condivide.

Assai significativa la testimonianza sull’eucarestia di Annalena Tonelli, uccisa qualche anno fa in Somalia: “Questo è il mio corpo fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna”. Se non entriamo nella dinamica di quel corpo dato per, è come se mangiassimo la nostra condanna perché blocchiamo il significato stesso del Suo donarsi a noi. E la Tonelli cita Silesio in un testo molto espressivo: “Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa”. Se non amo, Dio resta senza epifania perché siamo noi il segno visibile della Sua presenza e lo rendiamo visibile in questo inferno di mondo dove sembra che lui non ci sia. Abbinare la responsabilità della conoscenza di Dio all’amore del prossimo ci impegna davvero come seguaci di Cristo. Quando non amiamo vincoliamo la conoscenza di Dio e impediamo ai cuori di gustarla: questa è la portata del comandamento dell’amore, di cui l’eucaristia celebra il mistero.

Nel Corpo e nel Sangue del Cristo, dato per noi, tutte le cose acquistano il sapore di segni di un’alleanza con Dio, di cui non esiste una migliore, per cui è inutile sognarne altre di nuove: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue…”. All’uomo non resta che far memoria, nel senso di entrarne a far parte, di condividerne la potenza, di celebrarla nella vita, così come recita la colletta: “Dio, Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea per celebrare il sacramento pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci il tuo Spirito, perché nella partecipazione al sommo bene di tutta la Chiesa, la nostra vita diventi un continuo rendimento di grazie, espressione perfetta della lode che sale a te da tutto il creato”.

Due aspetti mi sembrano importanti: 1) Se l’alleanza nuova ci è offerta, vuol dire che dipende dall’iniziativa di Dio e non dal merito nostro. Questo acquieta l’ansia del cuore che teme sempre di non essere raggiunto, per la sua indegnità, dall’amore al quale anela e di cui avverte acutamente il bisogno; 2) L’alleanza nel Corpo e nel Sangue di Cristo, è un ‘memoriale perenne’: non c’è altro evento così significativo nella storia delle persone e del mondo da desiderarne il compimento, in cui far risiedere tutte le tensioni del cuore per aver riposo e pienezza. Il problema, caso mai, è portare la nostra coscienza a percepire questa realtà, a sentirla, a viverne la potenza: è tutto il cammino di crescita nella fede sia come singoli che come comunità.

Nel racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, segno dei tempi messianici (siamo nel deserto, luogo di incontro con Dio; è imbandita la mensa del Signore, dove il cibo offerto da Dio assume il sapore più gradito al palato di ciascuno; la sovrabbondanza è tale da avanzarne dodici ceste, perché a tutte le nazioni è destinato quel pane), possiamo cogliere il ruolo della chiesa: “Voi stessi date loro da mangiare … e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”. La Tradizione ha visto in questa distribuzione ad opera dei discepoli il ruolo dei ministri nella chiesa, invitati a spiegare le Scritture come pane spezzato per nutrire l’intelligenza dei fedeli. Ma la cosa può essere allargata. Ci può essere intelligenza della Parola di vita solo in questo vicendevole servirsi comandato dal Signore Gesù. È la dimensione della fraternità che diventa il luogo dell’intelligenza della fede. E ciò che si partecipa nella condivisione, come ciò che si impara del mistero, è sempre la stessa cosa: un entrare nella comunione con il Figlio di Dio dato per noi, un renderci con il Cristo espressione di lode di tutto il creato senza più divisioni. In realtà è proprio questo l’aspetto più significativo del mistero dell’Eucaristia: l’Eucaristia fa l’unità, rende corpo unico, rende un cuor solo e un’anima sola. L’Amen che il fedele risponde al ‘Corpo di Cristo’ detto dal sacerdote al momento della comunione ha proprio questo significato: sì, credo di far parte di quel Corpo e mi impegno a vivere in modo che quel Corpo non sia mai diviso, in modo da non separarmi mai da quel Corpo, in modo da non impedire a nessuno di vedere la bellezza di quel Corpo, in modo da favorire in ogni modo la fraternità in Cristo, perché a Dio sia riconosciuta la sua gloria. La celebrazione dell’Eucaristia allude esattamente a questo.

Una piccola notizia storica. La festa del Corpus Domini si celebra per la prima volta nella diocesi di Liegi nel 1247, dove viveva la monaca agostiniana Giuliana di Cornillon che, con le sue visioni, ha influito a determinarne la celebrazione. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264. Quanto al simbolo eucaristico più comune che vediamo sui paramenti sacri, tovaglie d’altare, ostie, il cosiddetto trigramma del nome di Gesù, IHS, esso si impone con la predicazione di s. Bernardino da Siena (1380-1444). Il trigramma sta per ‘Iesus Hominum Salvator’ (Gesù Salvatore degli uomini), ma anche per le prime tre lettere del nome di Gesù in greco.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(30 giugno 2019)

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1 Re 19, 16.19-21;  Sal 15;  Gal 5,1.13-18;  Lc 9,51-62

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La necessità di rendere in un buon italiano il testo del vangelo a volte fa perdere le sfumature di riferimento per comprenderne a fondo il senso. È il caso del brano di oggi. Inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme dove si compirà la sua passione (9,51-19,28). Nella descrizione di Luca la narrazione assume toni solenni e del tutto speciali anche nel linguaggio. Leggiamo: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. … non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme”. Letteralmente invece suonerebbe: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (termine che può indicare sia la morte che l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli angeli […] non vollero riceverlo, perché il suo volto stava seguendo il cammino verso Gerusalemme”.

Gesù aveva già preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. Il racconto di Luca fa risuonare le parole del profeta Isaia: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso” (Is 50,7) e quelle del profeta Malachia: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,1).

È singolare che, nel cammino di Gesù verso Gerusalemme, il primo rifiuto venga dai samaritani, proprio loro che avevano accolto e creduto a quel profeta (cfr. Gv 4,39-42), proprio loro che, nelle parabole di Gesù, sono sempre considerati con un occhio di riguardo. Evidentemente i discepoli, che avevano preso la decisione di Gesù di andare a Gerusalemme come l’inizio di una marcia di ‘conquista’ per l’instaurazione del regno di Dio, mal sopportano che il loro Maestro venga trattato in quel modo e vorrebbero dar loro una lezione. La risposta di Gesù a Giovanni e Giacomo è la medesima che a Pietro (cfr. Mt 16,23), netta e tagliente: non capite nulla, venitemi dietro e basta, altrimenti non vi troverete dalla parte di Dio. Chi cerca di cambiare la via di Dio assomiglia a Satana, fa il gioco di Satana. Il rimprovero che Gesù rivolge ai discepoli è dello stesso tono del rimprovero che indirizza ai demoni (cfr. Lc 9,42). Quello che Luca più avanti dirà del Figlio dell’Uomo che è venuto per salvare (cfr. 19,10) equivale a quello che Matteo dice di Gesù definendolo mite e umile di cuore (Mt 11,29). Se questa è la via di Dio, allora scegliere altre vie significa allontanarsi da Dio.

La fedeltà di Gesù, sottolineata con l’espressione profetica del rendere la faccia dura come pietra, è la fedeltà a un amore che non si lascia mai distogliere dal suo obiettivo perché è il segreto di Dio che deve essere rivelato agli uomini: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Gesù porta a compimento la fedeltà dei profeti, che non potevano ancora conoscere in tutta la sua consistenza quel segreto e rimprovera i discepoli che volevano imitare il profeta Elia (cfr. 2Re 1,10-12). E quando esige dai discepoli certe condizioni per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della sua stessa fedeltà, che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo consiste la missione degli apostoli!). Di fronte alla scoperta di tale segreto, non c’è bene o valore umano che possa prevalere.

La condizione prima è accettare il modello di Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. E s. Chiara di Assisi commenta: “Cristo non ha dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo altrove, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima, non segue Cristo; solo chi cerca il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del segreto di Dio è beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù. L’unico luogo di riposo del capo di Cristo è il volere del Padre e il volere del Padre è l’amore sconfinato agli uomini. Dello splendore che deriva da quell’amore, manifestato da Gesù, parla l’urgenza che attraversa il brano di oggi.

Così, l’espressione del salmo: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene” (Sal 15/16,2) va letta come dichiarazione d’amore: posso avere tante cose, ma se non ho te, che vale la vita? L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’. Nessun presunto bene è bene per me senza di te! Nessun bene è tale se non contribuisce a manifestare quel segreto di Dio, il suo amore agli uomini. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano e finalmente ci si possa riposare.

Quando Gesù, in un crescendo di espressioni perentorie che illustrano le condizioni per seguirlo, afferma: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” rivela una grande verità per il cuore dell’uomo. L’uomo, è vero, non è degno del Regno, ma adatto, sì. Il che significa che la misura del cuore dell’uomo è proprio il Regno. Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene adatti ai misteri di Dio (si veda At 13,46)! E quando l’uomo non accoglie umilmente questa verità si fa violenza e la eserciterà su tutti; sarà in preda del tormento della morte e il mondo è prostrato dagli effetti di tale tormento.

Per questo Paolo nella seconda lettura parla di ‘libertà liberata’. È la libertà frutto dell’amore, che non teme di sottomettersi ai fratelli pur di non essere distolti dalla partecipazione al segreto di Dio. La colletta ci fa pregare: “O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli”, dove ‘servizio’ non sta semplicemente per azioni buone ma per atteggiamento del cuore, del cuore di un uomo che ‘ha indurito il suo volto’ per non mancare lo scopo della sua vita. E giustamente la preghiera chiede di sperimentare la forza e la dolcezza del suo amore: la forza senza la dolcezza opprimerebbe, la dolcezza senza la forza snerverebbe. L’esercizio della libertà ha bisogno di forza e dolcezza insieme.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(7 luglio 2019)

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Is 66, 10-14;  Sal 65;  Gal 6, 14-18;  Lc 10, 1-12. 17-20

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La consolazione, che il profeta Isaia annunciava sovrabbondante per Gerusalemme, il canto al vangelo la descrive nel suo compiersi nei cuori: “La pace di Cristo regni nei vostri cuori; la parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza” (Col 3,15.16). E la missione dei 72 discepoli la preannuncia essere eredità di tutte le genti. Il numero di 70 o 72 si riferisce appunto al numero delle nazioni secondo la tradizione ebraica di Gn 10 (70 per il testo ebraico, 72 per il testo greco).

Il salmo responsoriale riprende l’esultanza per un Dio che interviene a salvare e si rivolge a tutte le genti con il ritornello: “Terribili sono le sue opere … terribile nel suo agire sugli uomini” (Sal 65/66, 3.5). Terribile come sconvolgente. Sconvolgente, per l’inenarrabile profondità del suo amore per noi. Commentando questo salmo i Padri hanno delle intuizioni potenti. Atanasio collega l’aspetto terribile dell’agire di Dio nei confronti degli uomini: “come è ineffabile la tua incarnazione!”. Agostino si fa interprete dell’invito ‘Venite’ suggerendo: “Non insultate quanti sono fuori dalla Chiesa: Dio può farli entrare”. Origene insiste sull’insondabilità dei pensieri di Dio a favore degli uomini: “Tutto ciò che l’uomo potrà dire, non assomiglia ai pensieri di Dio: questi lo riempiono di stupore”. Il salmo parla della traversata del Giordano per entrare nella terra promessa e i Padri commentano: “Verrà un tempo in cui gioiremo, nel fiume che sarà quello della rigenerazione: è il Giordano ove Giovanni predicherà la remissione dei peccati e ove il Signore stesso verrà, per farne il lavacro della nuova nascita”.

Rispetto al vangelo, tre sono i passaggi significativi del brano: Gesù istruisce i discepoli, accoglie la loro gioia e con la sua preghiera di lode al Padre (questo terzo passaggio però manca nella proclamazione liturgica di oggi) svela la ragione profonda della loro missione e gioia.

Gesù li invia due a due. Come possono annunciare la pace del Regno se non la fanno vedere come compiuta nella loro relazione fraterna? Come possono invitare a condividere insieme a loro la pace del Signore, che si fa nostro prossimo, se quella pace non è diventata radice di benevolenza tra loro, segno dello splendore di Dio in mezzo a loro?

Gesù li invita a pregare perché Dio non si stanchi di far grazia di sé attraverso coloro che hanno trovato nella pace del vangelo il riposo del loro cuore. Il fatto di far pregare allude ad una rivelazione. Vuol dire che nell’annuncio del vangelo è Dio stesso che si approssima all’uomo e questo è il mistero che, se ha conquistato il cuore degli annunciatori, conquisterà anche quello degli ascoltatori. Se questo è vero, vuol dire che Dio ritiene l’uomo suo compagno (“Siamo infatti collaboratori di Dio“, 1Cor 3,9). È una cosa straordinaria! Con la rivelazione di Gesù, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di annuncio evangelico, di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14). I discepoli di Gesù sono chiamati a concorrere alla realizzazione di questa opera. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Tra l’altro, imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio.

A missione compiuta, i discepoli tornano pieni di gioia. La letizia è il segnale della partecipazione all’opera di Dio di cui Gesù ci fa corresponsabili. Una prima ragione di gioia sta nella caduta di satana dal cielo. Il che significa: il demonio non ha più un potere superiore all’uomo. Cessa la sudditanza, anche se inizia la lotta, che si può vincere nel nome di colui che l’ha ormai detronizzato con l’annuncio evangelico: “è vicino a voi il regno di Dio”. La forza del nemico sta nell’intimorire, ma a chi non gli presta orecchio non fa alcun danno. Gesù però conferma la loro gioia sulla base del fatto che “i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto fare cose straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi di godere del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire di benevolenza verso gli uomini. L’annuncio si gioca infatti sulla potenza del contagio della letizia di cui fanno esperienza i discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione: i vostri nomi sono scritti nei cieli, avete parte al ‘far grazia di sé all’uomo da parte di Dio’, partecipate al suo amore per gli uomini.

I discepoli impareranno l’estensione e la natura di quella letizia nel seguire il loro Maestro che sta andando a Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s. Paolo nella seconda lettura di oggi quando proclama: “Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La letizia evangelica è una letizia esigente.

Ma la vera radice di quella letizia è rivelata da Gesù quando firma la gioia dei discepoli con la sua esultanza: “Ti rendo lode, o Padre … perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Lc 10,21). È all’intimità di quella rivelazione che il discepolo attinge per fondare le ragioni di un vivere che si strutturano come radici di umanità nuova. E la sua forza sta tutta nella fiducia delle parole di Gesù: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32)! Non è conquista nostra, non attiva meccanismi di rivendicazioni o esibizioni, non comporta grandezze umane che dividono; solo una gratitudine immensa, uno stare solidali con i sentimenti di benevolenza di Dio per tutta l’umanità.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(14 luglio 2019)

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Dt 30, 10-14;  Sal 18;  Col 1, 15-20;  Lc 10, 25-37

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È interessante osservare la collocazione di questo brano nel racconto evangelico. Matteo e Marco lo collocano negli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme e lo introducono secondo una formulazione propria all’ambiente ebraico a proposito della questione di quale sia il comandamento più grande. Luca invece, scrivendo per lettori di ambiente greco, colloca il brano all’inizio del viaggio di Gesù a Gerusalemme e pone la questione in rapporto allo scopo della vita. Ed è caratteristico che tale questione si ponga dopo che Gesù si era rallegrato del successo della predicazione dei 72 e aveva commentato: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Lc 10,23-24). Partendo da questa prospettiva, cioè della straordinarietà del tempo messianico oramai squadernato, la parabola di Gesù, che rintuzza lo scriba nel suo tentativo di giustificazione, acquista una valenza nuova.

Gesù e lo scriba sono d’accordo nella solenne affermazione biblica che amare Dio con tutto il cuore e amare il prossimo fa accedere alla vita eterna. Non pensano però allo stesso modo. Affermano la stessa cosa, ma non pensano allo stesso modo. La cosa si vede dalla domanda dello scriba e dalla risposta di Gesù. Sull’evidenza del comandamento più grande, lo scriba puntualizza: ma chi è il mio prossimo? Per la mentalità comune di allora, per un ebreo il prossimo è chi appartiene alla sua gente. Gesù la pensa diversamente e, rovesciando l’impostazione dello scriba, dirà alla fine della parabola: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti? Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc 10,36-37).

Non si tratta di sapere chi sia il mio prossimo (il che equivarrebbe a fissare dei confini per l’esercizio del comandamento, come nel caso, ad esempio, del perdono: ‘quante volte devo perdonare…?). Si tratta di fare da prossimo e questo non tiene conto di alcun confine.

Non solo, ma in questa risposta di Gesù si vede come il raccordo del secondo comandamento al primo non sia scontato. Gesù pone il primo comandamento in assoluto, ma il secondo allo stesso livello del primo. Gesù vuole eliminare ogni idea di confine, limitazione, condizione, nell’esercizio dell’amore di Dio, che è Padre di tutti. Così la parabola è definita sulla sua rivelazione di Figlio dell’uomo che si appressa all’uomo per svelargli la grandezza dell’amore del Padre e non si ritrae di fronte a nessuno perché tutti sono chiamati a godere di questo amore. In effetti, Gesù, con la sua parabola, restituisce al dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: si tratta di agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari, come il buon samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada. Ogni parabola è un’illustrazione dell’agire di Dio, una raffigurazione dei sentimenti e dell’agire di Gesù, venuto a rivelare l’amore di Dio agli uomini. Il buon samaritano è Lui stesso, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore la bellezza. L’esito del comandamento dell’amore al prossimo non è semplicemente di far star bene il prossimo, se possibile, ma di ottenerci la rivelazione del volto di Dio, compimento dei desideri del nostro cuore.

A questo rimando fa riferimento l’espressione messa in bocca allo scriba e che noi traduciamo: “Chi ha avuto compassione di lui”. La stessa espressione ricorre nel cantico di Zaccaria, in Lc 1,72, resa con “così egli ha concesso misericordia ai nostri padri”. Commentando la parabola, lo scriba non può che riconoscere che il farsi prossimo comporta il far prova di bontà verso chi è nel bisogno, imitando in questo Dio stesso. Ci si accorge subito che l’accento non è sul sapere, ma sul fare e che l’orizzonte è largo, senza sorta di restrizioni. Non si tratta di un semplice fare atti di bontà, ma di radicare gli atti di bontà in un cuore che si muove a compassione, in un cuore che solidarizza e vive l’umanità dell’altro come la propria. Questo è l’intendimento evangelico e Gesù lo illustra all’inizio del suo salire a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli perché possano intuire il suo segreto di intimità con Dio e con gli uomini.

Il brano di vangelo è confermato dall’affermazione del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te…Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. L’insegnamento di Gesù, specificamente spiegato con la parabola del buon samaritano, è ‘vicino’ a noi. Vuol dire due cose: è accessibile a noi, non è qualcosa di complicato o assurdo o inarrivabile; nello stesso tempo, è adatto a noi, corrisponde al nostro cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. E il libro del Deuteronomio sottolinea: la parola del Signore ti è vicina, “perché tu la metta in pratica”. Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita.

Del resto, qui sta anche racchiusa la legge dell’intelligenza spirituale delle Scritture. La parola di Dio non è pronunciata perché la si capisca, ma perché la si metta in pratica. Sarà la pratica a portare quella conoscenza che il cuore desidera. La parola suggerisce una possibilità di pratica che porterà alla comprensione, la quale poi farà ritornare con più desiderio alla parola per vedervi nuove possibilità di pratica e così via. Così, davanti alla parola, al comandamento, è mal posta la domanda: cosa vuol dire? Dovremmo dire: qual è il mistero che nasconde di cui diventare partecipi mettendola in pratica?

Lo rivela anche il salmo 18 con il proclamare: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. Come dicessimo: ho scoperto che la legge del Signore è perfetta perché rende noi perfetti rendendoci pieni di vigore; che è salda perché rende noi veri e saggi; che è retta perché ci fa giusti in letizia; che è limpida perché rende puro il cuore e gli occhi luminosi, ecc. La parola del Signore ristora l’anima, dà gusto all’intelligenza, gioia al cuore e luminosità agli occhi. Come a dire: è la parola del Signore, cioè la vita che deriva da lui, a costituire la fonte del ristoro (pace), del gusto (sapienza, senso), della gioia e della luminosità per i nostri cuori. E tutto questo si sperimenta accettando di condividere l’agire di Dio per gli uomini: farsi prossimo a tutti.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(21 luglio 2019)

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Gn 18, 1-10;  Sal 14;  Col 1, 24-28; Lc 10, 38-42

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Che cosa rende bella la sollecitudine di Abramo? E che cosa rende bella l’ospitalità delle due sorelle Marta e Maria? Lo capiamo dalla preghiera sulle offerte: “…e ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. Il che significa: ciò che è gradito a Dio è solo ciò che porta alla salvezza di tutti. Il che equivale a dire: quando sono rapito nell’ascolto, incontro il Dio che vuole la salvezza di tutti, non solo mia; quando sono indaffarato nel servizio, incontro il Dio che si fa accondiscendente a tutti, perché da tutti Lui sia conosciuto e benedetto. Marta e Maria costituiscono così i due atteggiamenti necessari della stessa sollecitudine per la conoscenza del Signore, supremo Bene del cuore dell’uomo.

È lo stesso mistero dell’ospitalità di Abramo come lo troviamo descritto nelle antiche leggende ebraiche. Abramo è visitato da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna ospitalità. Dio stesso decide allora di fargli visita e non vuole che nemmeno si alzi per venirgli incontro perché era sofferente, dicendogli, anzi, che i suoi discendenti, già all’età di quattro o cinque anni, staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà. Ma quando arrivano gli angeli in veste di uomini, Abramo supplica il Signore di permettergli di andare loro incontro per offrire ospitalità, preferendola alla compagnia stessa della Sua Presenza. Tutti particolari che rivelano l’estrema accondiscendenza di Dio, percepita come la benedizione perenne sul popolo.

Il particolare poi della quantità di farina usata da Sara per preparare da mangiare ai tre uomini è ricco di mistero. Il testo parla di tre sea di farina (una misura antica di capacità che corrisponderebbe a circa 15 litri). Si tratterebbe di quasi mezzo quintale di farina, una misura sproporzionata per tre persone. Con quella quantità si sarebbe sfamato un centinaio di persone! Così i Padri hanno collegato Sara all’altra donna del vangelo, nella parabola di Gesù sulla somiglianza del regno dei cieli all’agire di una donna che pone il lievito in un impasto di tre sea di farina (cfr. Lc 13,21; Mt 13,33). La fede di Abramo ha fatto regnare Dio in questo mondo; l’annuncio del vangelo trasfigura il mondo intero.

È in questa prospettiva che va letto l’episodio dell’ospitalità di Gesù in casa di Marta. Se Abramo corre per onorare i suoi ospiti; Marta, presa dalla stessa sollecitudine, è tutta indaffarata nei molti servizi per un’ospitalità degna dell’illustre Ospite, mentre Maria, con lo stesso atteggiamento di sollecitudine, anche se in modalità differente dalla sorella, è tutta presa dall’Ospite dal quale non stacca occhi e orecchi. S. Agostino annota di Maria: ‘mangiava Gesù ascoltandolo’!

Ora, Gesù elogia forse Maria per rimproverare Marta? Leggiamo: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore [nella lingua di Gesù non si usano i comparativi, quindi il testo dice semplicemente: la parte buona], che non le sarà tolta” (Lc 10,42). Il tono che usa Gesù raggiunge sicuramente il cuore di Marta illuminandolo. Il fulcro dell’episodio sta appunto in quel non le sarà tolta. L’allusione è al desiderio profondo del cuore dell’uomo che è fatto per Dio. L’elogio di Gesù si riferisce ad un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò che non verrà mai meno e di cui si potrà godere in assoluto, quello è la parte buona, l’unica cosa necessaria, quello di cui c’è bisogno. In primo piano c’è Dio che viene incontro all’uomo, Dio che ristora l’uomo. La figura di Abramo, nella tradizione ebraica, allude alla medesima verità. Abramo si era lamentato con Dio perché, appena circonciso, dolorante, non avrebbe potuto soddisfare il comandamento dell’ospitalità e allora Dio stesso decide di fargli visita. La figura di Maria ai piedi di Gesù apre alla stessa visione. Ma quella visione è percepibile se il cuore avverte la natura del suo ascoltare, tutto teso a godere la verità dell’amore del suo Dio che la nutre e la ristora. Così, la sua figura è figura di ogni discepolo, la figura di ogni lettore/ascoltatore della Parola di Dio. Corrisponde all’invito di Gesù: “cercate invece, anzitutto, il regno di Dio” (Mt 6,33); “cercate piuttosto il suo regno”, Lc 12,31). Quell’anzitutto, per prima cosa, piuttosto corrisponde al “di una cosa sola c’è bisogno”, una cosa sola è necessaria.

Quando Gesù fa l’elogio di Maria, rivela la natura vera del servizio di Marta. In effetti, due sono gli aspetti dell’ospitalità: la sollecitudine nel servizio e l’intimità con l’ospite. Dei due, la parte buona è l’intimità, nel senso che è l’intimità la forza e la finalità della sollecitudine, la quale serve a dare concretezza all’intimità. Tutto converge verso l’intimità. Ma la domanda vera per noi può suonare così: posso godere l’intimità senza esser preso dalla sollecitudine? Nel rapporto tra le due sorelle, che simboleggiano tutta la chiesa considerata unitariamente nelle sue molteplici manifestazioni di doni e carismi, Maria deve ringraziare Marta: può stare con il Signore senza che il Signore sia privato del dovuto onore; e Marta può ringraziare Maria: può onorare il suo Signore senza che il Signore sia lasciato solo.

Se rispetto alle cose di cui abbiamo bisogno per vivere, va cercato prima di tutto il regno di Dio [è vinto così l’affanno del possesso o la paura della privazione], rispetto al servizio la cosa necessaria è la devozione all’Ospite che si vuole onorare [è vinta la paura di perdersi nell’affanno]. Marta comprende così la ragione del suo muoversi, tanto che S. Efrem dice che l’amore di Marta era più fervente di quello di Maria. Se stiamo alle parole della colletta: “Padre sapiente e misericordioso, donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che risuona ancora nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli”, possiamo interpretare: avere un cuore umile e mite significa poter partecipare all’umanità di quel Figlio nella sua intimità con il Padre e poter esprimere nel proprio agire tutta l’accondiscendenza di Dio per l’uomo, radice della nostra sollecitudine per i fratelli.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(28 luglio 2019)

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Gn 18, 20-21. 23-32;  Sal 137;  Col 2, 12-14;  Lc 11, 1-13

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Oggi la liturgia ci introduce al mistero della preghiera. Ascoltando il brano evangelico viene da domandare: cosa hanno visto i discepoli mentre Gesù pregava? Cosa li ha affascinati tanto da indurli a chiedere a Gesù di insegnare loro a pregare? Nella sua risposta Gesù apre come una finestra sul suo mondo interiore. Se Gesù insegna il Padre nostro, vuol dire che ciò che rendeva singolare la sua preghiera era l’intensità di intimità con quel Padre di cui custodiva i comandamenti, di cui annunciava la prossimità, di cui svelava il volto, di cui mostrava la verità nell’amore all’uomo e di cui suscitava la nostalgia in questo mondo.

È lo stesso Padre, a cui si era rivolto Abramo nella sua preghiera di intercessione, preghiera che era scaturita dalla rivelazione che il Signore si apprestava a fargli : “Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?”, secondo la proclamazione del salmo: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 25,14), che nel testo ebraico suona: “Il segreto (o l’intimità) del Signore è per quanti lo temono”. Abramo, che si sente polvere e cenere, può parlare al suo Signore da dentro l’alleanza che gli è stata offerta e alla quale ha aperto il suo cuore in tutta fiducia.

Quando intercede per Sodoma è come osasse richiamare il Signore alla sua dignità di giustizia e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che non erano bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (nell’arca si salvano Noè e quelli della sua famiglia, otto in tutto). Nella sua intercessione si ferma dunque a dieci: se ci fossero dieci giusti nella città, come potrà il Signore distruggerla, proprio per riguardo a quei dieci? Ma l’umanità non ha dieci giusti, ne ha uno solo: quel Figlio di Dio fatto uomo, l’unico Giusto. Sarà per riguardo a lui che Dio abbandona la sua giustizia per mostrare la sua misericordia. Ogni preghiera si fa forte presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe Dio alla misericordia. Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del Padre.

La tradizione ebraica è unanime nel riconoscere ad Abramo la condivisione dei sentimenti di Dio tanto da sembrare che il servo custodisca il senso dell’alleanza in favore di tutti i popoli in modo più sollecito dello stesso Altissimo. E proprio in questo Abramo piace all’Altissimo. Negli antichi racconti su Abramo si fa notare che quando un uomo prega con devozione può star sicuro che la sua preghiera sarà esaudita, perché è detto: “Il desiderio degli umili tu sempre ascolti, Signore, disponi il loro cuore, fai attento il tuo orecchio” (Sal 10,17). Nessuno ha pregato con tale fervore come Abramo: “Lontano da te agire in questo modo, il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te!”. Quando l’Altissimo vide come intercedeva perché non distruggesse il mondo, lo lodò: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è stata versata la grazia” (Sal 45,3).

Nella tradizione cristiana si sottolinea costantemente che ogni nostra richiesta a Dio, se non può essere ricondotta ad una delle domande del Padre Nostro, non sarà esaudita. La preghiera è innalzata a partire dalla percezione dell’alleanza che è già stata offerta, alleanza che è come descritta con la serie delle domande che compongono la preghiera. Alla fine, tutte le richieste confluiscono in una sola, come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente: “…quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”. Raramente abbiamo coscienza nella nostra preghiera che questa sia la domanda essenziale, da presentare a Dio con l’invadenza dell’amico importuno, con la mancanza di ritegno della donna cananea (cfr. Mt 15, 28), con l’insistenza della vedova presso il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8). Quale preghiera sarà esaudita? Sarà esaudito l’anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, la confidenza con lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento: abbiamo fiducia che Dio dispone ogni cosa per il nostro bene.  Non possiamo pregare se non da dentro quell’alleanza di benevolenza di cui ci ha fatto dono. Fare la volontà di Dio significa prima di tutto fidarsi del proprio Dio, dare credito al suo amore e cercare di stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non c’è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici, non semplicemente ‘consumatori’, ‘utenti’, ‘fruitori’, ‘clienti’, termini che ben si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose.

L’insistenza di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” allude alla fatica della preghiera che si muove su due direttrici, quella della profondità e quella dell’intimità. In funzione della profondità lavora la pazienza. Pregare costa fatica.  Diversamente da quanto ci si immagina, la preghiera, per diventare spontanea e forte, deve prima essere tenace. Non è così facile pazientare con il proprio cuore, accettare i suoi tempi, accettare i tempi di Dio, in tutta pace. Non è così agevole entrare nel proprio cuore per poterlo offrire, tutto, a Dio. In funzione dell’intimità invece lavora la sincerità. Non siamo mai sinceri davanti a Dio (ancor meno davanti agli altri e spesso nemmeno davanti a noi stessi), probabilmente per paura. Dove non c’è sincerità, però, non c’è intimità e dove manca intimità l’incontro è freddo e banale. La sincerità dà ali alla preghiera. Imparare ad essere sinceri, fino in fondo, senza barare, è la credenziale migliore alla porta del cielo. E la sincerità migliore è data da un’intercessione del genere: “O Signore del mondo. So che non ho virtù o meriti che ti autorizzino a mandarmi in paradiso dopo la mia morte. Ma se è tua volontà mandarmi all’inferno in mezzo agli empi, sai che non sono fatto per intendermela con loro. Quindi, ti prego di portare fuori dall’inferno tutti i malvagi prima di spedirmi laggiù”.

La drammaticità della logica della preghiera (ottieni se chiedi, non necessariamente ciò che chiedi) è la drammaticità di una relazione d’amore, espressa proprio dalla preghiera di quel Giusto di cui viene detto: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,7-8). Quell’ esaudito non ha comportato il fatto di essere salvato dalla morte, ma il fatto di non essere vincolato dalla morte, per cui ha trovato vita nella morte e ha potuto farci dono della vita che non è più mortificabile.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XVIII Domenica

(4 agosto 2019)

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Qo 1, 2; 2, 21-23;  Sal 94;  Col 3,1-5. 9-11;  Lc 12,13-21

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Il brano evangelico di oggi assomma la precarietà dei beni e la fugacità del tempo, a sottolineare la condizione dell’uomo su questa terra. Come comportarsi? Sembra questa la domanda di fondo rispetto a quelle evidenze. Ma il cap. 12 di Luca incastona la domanda su un’altra evidenza, non però così evidente: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Quell’evidenza è racchiusa, all’inizio e alla fine del capitolo, da due messe in guardia contro l’ipocrisia: “Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia” (v. 1) e “Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?” (v.56).

L’ipocrisia, che insidia segretamente il nostro sentire e agire, viene svelata dalla risposta di Gesù all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia in una questione di eredità. L’ipocrisia nasce dall’avidità che corrode i cuori impedendo di cogliere proprio il dono del Regno. Si vorrebbe aderire all’insegnamento di Gesù perseguendo il proprio interesse, pur lecito, ma senza distogliere il cuore da quella ricerca dei beni che alla fine distoglie da una vera adesione. Così la richiesta di giustizia è ambigua se è intaccata da quella che il vangelo chiama ‘avidità, cupidigia, bramosia’, senza che nemmeno il cuore se ne accorga. Il ragionamento di Gesù, con la sua parabola, è affidato, non all’idea della precarietà dei beni, che oggi ci sono e domani si perdono, ma alla inesorabilità del tempo che ti sorprende men che te l’aspetti.

Il salmo responsoriale fa ben intendere che l’illusione non deriva tanto dalla inconsistenza dei beni ma dalla fugacità del tempo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 89/90, 11). Potremmo spiegare: chi confida nelle cose si percepisce come eterno e l’ansietà rispetto ai beni della vita, con l’affanno per il cuore che porta, deriva dalla illusione per questa supposta eternità. Gesù lo rimarca chiaramente e la risposta a quell’ansietà che divora e prostra il mondo si trova nelle parole riportate poco dopo il brano di oggi: “Cercate piuttosto il suo regno e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,31). Gesù l’aveva apertamente dichiarato: “quanto più degli uccelli valete voi” (v. 24), che pure Dio nutre; “quanto più farà per voi, gente di poca fede” (v. 28), se Dio si premura di vestire così splendidamente l’erba nel campo! L’illusione deriva dallo spostare la confidenza da Dio alle cose, con l’aggravante che l’affanno per le cose impedisce la solidarietà con i fratelli.

Non viene chiesto all’uomo di contentarsi della povertà, ma di arricchire davanti a Dio: i beni, così necessari al nostro vivere e al vivere bene, non ingolfano se vissuti in solidarietà. L’eterno non è la dimensione dell’al di là, ma il valore permanente del tempo, la qualità permanente del tempo.

In sostanza, qual è il giudizio che Gesù formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo, come illustra anche la seconda lettura. L’uomo cerca i beni di questo mondo per vivere bene, ma – ricorda Gesù – il vivere bene non dipende dai beni di questo mondo. La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Non si tratta però di scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra l’avidità e la solidarietà: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire davanti a Dio? I beni di questo mondo, di cui abbiamo assoluto bisogno per vivere, portano vita se ci fanno arricchire presso Dio, ci rimandano cioè alla confidenza in Lui e alla solidarietà in umanità perché Lui sia benedetto come Padre di tutti.

Sembra che l’uomo non possa evitare questa contraddizione: i beni affascinano, ma non soddisfano; il regno di Dio è proclamato soddisfarci, ma non ci affascina più di tanto, almeno come noi ci immaginiamo o vorremmo! Contrapposto ai beni sta il Regno; dentro i beni, è il Regno che va cercato. Ma noi – ecco la domanda angosciante – siamo ancora nella condizione di percepire la natura dell’offerta di Gesù con il suo parlare della benevolenza del Padre che in lui ci fa gustare il suo Regno? Riusciamo ancora a sognare cosa possa comportare l’invito: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34)?

La rivelazione di Gesù procede per due passaggi: prima risponde alla folla, poi ai discepoli. Rispondendo alla folla indica come la discriminante per la giustizia in questo mondo risulti dal fatto di stare solidali con l’umanità. Alla domanda: come ci si arricchisce davanti a Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero (Pr 3,27; Is 58,7). La solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita degna di essere vissuta. Allora chi è il ricco? È colui che assomiglia a Gesù: “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo…” (Fil 2,6-7). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde anche questa rivelazione.

Gesù continua poi a spiegarsi con i discepoli e risponde alla domanda: qual è la radice della confidenza nella vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta nell’alleanza con Dio, la cui fruizione permette quel vivere bene che il nostro cuore cerca, a volte troppo affannosamente, solo nei beni di questo mondo. Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene vero è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta: al Padre è piaciuto dare a voi il regno. Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione. Qui si radica quella confidenza capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita, attraversando l’usura del tempo e l’inconsistenza dei beni. Qui si radica l’opposto di quella avidità che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la felicità. Il segreto? La possibilità di imparare a percepire, nelle parole della voce che dice: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”, la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella voce quelle ragioni trovano quiete.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(11 agosto 2019)

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Sap 18,3.6-9;  Sal 32;  Eb 11,1-2.8-19;  Lc 12,32-48

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Il brano evangelico di oggi illustra il mistero della grandezza divina del servizio, rivelazione tipicamente evangelica: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe potuto inventarsi e che riassume invece il senso della persona e dell’agire di Gesù: Dio si mette a servizio e in servizio degli uomini!

L’esortazione alla vigilanza, con le parabole che la illustrano, dice assai più di quello che saremmo portati a credere. I beni sono precari, e anche la vita è precaria. Stare vigili significa allora non perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa aspettare con timore l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà ricompensare o castigare i suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non c’è nulla di evangelico in questo tipo di vigilanza.

La vigilanza evangelica è in rapporto ad altro. Se al Padre è piaciuto darci il suo regno nel Figlio che lo rivela, allora tutto va giudicato in funzione di quella verità. E tanto più quella verità parla al cuore, tanto più il cuore vivrà di quella verità. Come a dire: tanto più il cuore vedrà la bellezza del Figlio di Dio, tanto più la vedrà nei figli degli uomini per cui si metterà a servirli. Le parabole alludono più direttamente al mistero della rivelazione del Figlio di Dio che si compie nella storia, alludono al Signore che viene a preparare tavola ai suoi, a condividere i suoi segreti quanto all’amore di Dio per l’uomo, motivo di beatitudine per il cuore dell’uomo.

Si tratta di un’esperienza di fede che equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa, non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.

Il senso della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in quel tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il Regno”. E corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.

La fede, che diventa ‘una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come potremo liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui abbiamo bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita assolutamente precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il vuoto della precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella volontà di benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e della Tradizione quanto al non dimenticate, state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.

In questa ottica anche un altro particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, allorquando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A questo tende il servizio del padrone riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra vita.

A ricordarci che non si tratta, però, di una beatitudine beata, ma angosciosa, lavorata, paziente, sta l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai la qualità dell’agire.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2019)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1 Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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In un inno anonimo del VII secolo, la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave, nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del Signore, della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra il parto verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai conservato la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.

La festa di oggi modula la devozione alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell’assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”. In lei possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa ‘maternità’ spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo amore  finché la terra diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XX Domenica

(18 agosto 2019)

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Ger 38,4-6.8-10;  Sal 39(40);  Eb 12,1-4;  Lc 12,49-53

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Il punto focale della liturgia di oggi è costituito dalla rivelazione di Gesù: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!” (Lc 12,49-50). Nei vangeli sono rari i momenti in cui Gesù apre il suo cuore mostrando il suo vissuto interiore. Con queste parole fa vedere cosa lui vive dentro. È come consumato da un fuoco interiore, dal fuoco di quello Spirito di cui era stato mostrato ricolmo al momento del battesimo nel Giordano e in forza del quale si era avviato risoluto a compiere fino in fondo la missione di rivelatore e testimone supremo dell’amore del Padre agli uomini. Lui sa che quel fuoco lo porterà ad un altro battesimo, quello della sua passione-morte-risurrezione, battesimo che otterrà a tutti noi il dono del suo stesso Spirito.

Un bellissimo commento di s. Ambrogio spiega la natura del fuoco che Gesù vuol gettare sul mondo: “… l’amore possiede la morte e l’amore possiede la gelosia e ali di fuoco possiede l’amore. Tanto è vero che Cristo, che amava Mosè, gli apparve nel fuoco, e Geremia, che aveva dentro di sé il dono dell’amore di Dio, diceva: ‘E c’era un fuoco ardente nelle mie ossa …’ (Ger 20,9). Buono è dunque l’amore che ha ali di fuoco ardente che vola per il petto e il cuore dei santi e brucia tutto quello che c’è di materiale e di terreno, mentre mette alla prova tutto quello che è puro e migliora con il suo fuoco tutto quello che tocca. Questo fuoco ha mandato in terra il Signore Gesù …  Con questo fuoco ha infiammato il cuore dei suoi apostoli come attesta Cleopa, che dice: ‘Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?’ (Lc 24,32). Ali di fuoco sono dunque le fiamme della Scrittura divina. Tanto è vero che Egli svelava il significato recondito delle Scritture e ne usciva il fuoco che penetrava nel cuore di coloro che lo ascoltavano …”.

Nel vangelo apocrifo di Tommaso si riporta una frase suggestiva che antichi Padri ed esegeti moderni pensano essere propria di Gesù: “Chi è vicino a me, è vicino al fuoco e chi è lontano da me, è lontano dal regno”. La spiegazione è data da Origene. L’uomo che, dopo il battesimo, torna a peccare, per essere purificato, deve avvicinarsi a Gesù, il cui amore tormenta il cuore dell’uomo fino a sciogliere con l’ardore del suo fuoco tutto ciò che lo oppone a Lui e ai suoi fratelli. Ma se l’uomo, con il suo peccato, chiuso nella sua vergogna o, per meglio dire, nella sua presunzione, sta lontano da Gesù, allora per lui il Regno risulta inaccessibile e non troverà né libertà né vita.

E a modo di preghiera Ambrogio ancora commenta: “Risplenda la sua immagine nella nostra professione di fede, risplenda nel nostro amore, risplenda nelle opere e nei fatti, in modo che, se possibile, tutto l’aspetto di Cristo si esprima in noi. Sia lui la nostra testa … lui il nostro occhio … sia lui la nostra voce, perché per mezzo di lui possiamo parlare al Padre; sia lui la nostra mano destra perché per mezzo suo possiamo portare al Padre il nostro sacrificio …” [Isacco o l’anima, 8,75.77]. Come proclama l’orazione dopo la comunione: “[…] trasformaci a immagine del tuo Figlio […]”.

Del fuoco di Dio si dice che è ‘divorante’ o ‘divoratore’ (Dt 4,24; Eb 12,29). Il fuoco di Dio è divoratore delle divisioni del nostro cuore, divisioni che causano dispersione, duplicità, menzogna, chiusure e quant’altro c’è di cattivo nel cuore che gli impediscono di essere tutto unito e compatto, teso ad un unico desiderio, capace di essere solidale con il suo Dio e con i suoi fratelli, con ogni energia libera per essere impiegata a tale scopo. Il cuore si unifica col fuoco: questa è la verità. E soprattutto questa è la verità del nostro Dio. Lo sperimentiamo anche nella vita psicologica e affettiva: quanto più una passione è forte, più tende a compattare tutto il nostro cuore. Con la differenza che se il cuore si compatta per un desiderio che non sia rappresentativo della totalità e profondità delle nostre aspirazioni più vere, cadrà vittima di quel desiderio e risulterà coartato. Alla fine, si sentirà disperso e vuoto.

In riferimento all’azione del ‘fuoco divorante’ Gesù mette in guardia contro una visione irenica della vita del discepolo: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione” (v. 51). Se il fuoco di Dio distrugge le divisioni nel nostro cuore, allora vuol dire che il cuore non deve più temere le altre divisioni, sebbene dolorose e non volute. Non è possibile tenere insieme tutto. E il cuore deve sentire che, per restare compatto in ciò che ha di più essenziale, non può disperdere tale compattezza in ciò che risulta meno essenziale o addirittura occasionale. È un discorso duro e non per nulla Gesù parla anche di essere venuto a portare la spada, simbolo appunto delle divisioni. Ma è inevitabile. È la legge dell’amore, del fuoco che arde dentro. L’esperienza ci farà capire fino in fondo che solo così viene salvaguardata la libertà e la gratuità dell’amore. Come a dire: la carità non equivale ad una buona intesa; è disposizione al martirio. Lo è stato per Gesù, lo sarà di noi. Ed è una legge di vita. Anzi, la divisione che sembrerà opporti agli altri non è che l’esplicitazione della disponibilità al sacrificio, per amore degli altri, ormai partecipi del mistero della carità divina, del fuoco divino. E anche ogni amore umano degno di questo nome resta attizzato da una scintilla di questo fuoco divino.

La stessa cosa vale per il riconoscimento dei segni dei tempi. Non si tratta tanto di discernere dove va la nostra storia, del resto imprevedibile, ma di scoprire la parte di storia sacra nella nostra storia personale. Discernere i segni dei tempi significa scoprire l’azione di Dio nella nostra storia. E se siamo lambiti da quel fuoco divino, come non discernere che ogni evento può essere vissuto come introduzione al Regno, come apertura del Regno? Ecco perché subito dopo queste parole Gesù invita alla conversione. E la chiesa, consapevole della fragilità e dei timori del cuore dell’uomo, fa pregare con l’antica colletta: “infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio”. Intendendo: quando il nostro desiderio potrà attingere a quella dolcezza, tutti i nostri desideri lì prenderanno vigore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(25 agosto 2019)

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Is 66, 18-21;  Sal 116;  Eb 12, 5-7.11-13;  Lc 13, 22-30

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Sembra ci sia una contraddizione tra la visione del profeta Isaia e l’avvertimento di Gesù. La salvezza è estesa a tutti, ma non tutti ci entrano; anzi, pochi l’afferrano. Il profeta lascia ai credenti la visione finale del pellegrinaggio escatologico di tutti i popoli a Gerusalemme. Con loro torna anche il popolo di Dio disperso nella diaspora. E – cosa straordinaria! – Dio sceglierà i sacerdoti per il culto non solo tra gli ebrei senza il requisito della discendenza levitica o sadocita, ma anche tra gli stranieri convertiti. Gesù, invece, nel brano che è stato proclamato, all’inutile domanda se siano pochi o tanti quelli che si salvano, risponde indicando la condizione che permette la salvezza: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Lc 13,24).  Se la salvezza è estesa a tutti, perché Gesù mette in guardia?

A dire il vero, Gesù mette in guardia coloro che in qualche modo si ritengono a posto, che se ne sentono in diritto, che non sanno più leggere la vita in termini di gratuità e misericordia. Lo ‘sforzatevi’ è contro ciò che ci impedisce di vedere la salvezza del Signore in termini di gratuità e misericordia. ‘Sforzatevi’ non significa semplicemente: costringetevi a volere fortemente, impegnatevi seriamente. Non allude a una specie di compressione interiore. Allude invece alla scoperta del tesoro del regno di Dio, allude al buon combattimento della fede, come dice Paolo nelle sue lettere a Timoteo: “Ho combattuto la buona battaglia” (2Tm 4,7); “combatti la buona battaglia della fede” (1Tm 6,12). Sforzarsi e combattere, in greco, sono espressi dallo stesso verbo. Allude all’orizzonte della fede che fa schiudere il cuore alla grandezza dell’amore di Dio che ci viene incontro. E ci viene incontro proprio in Gesù, l’Inviato nel mondo per farci conoscere l’amore del Padre e riunirci tutti alla stessa mensa. Ora, è nell’ottica di questo ‘sforzatevi’ che la salvezza è estesa a tutti, senza distinzione.

Il Regno non si impone, non è evidente, non è scontato (cfr. Lc 17,21; Gv 14,22), soltanto i violenti se ne impadroniscono (cfr Mt 11,12), soltanto cioè coloro che alle preferenze di Dio non sostituiscono le proprie, ai pensieri di Dio non sostituiscono i propri, alla misericordia di Dio non oppongono la loro giustizia. E per questo Gesù dice: “Sforzatevi”. Acconsentite, cioè, alla forza dello Spirito, come fa pregare la colletta: “… concedi a noi la forza del tuo Spirito, perché unendoci al sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della vera libertà (da noi stessi, dalla curvatura su noi stessi) e la gioia del tuo regno (nel cuore, che vede così compiersi i desideri profondi che cela)”. Nel vangelo di Matteo l’invito a entrare per la porta stretta segue il Discorso della montagna con le beatitudini promesse a chi accoglie Gesù e il suo Regno che è venuto a manifestare (cfr. Mt 7,13-14).

Fondamentalmente, però, la tensione interiore che ci è richiesta si appunta sullo stesso Signore Gesù, lui che dice di sé: “Io sono la porta” (Gv 10,9). Lui è la porta stretta attraverso la quale dobbiamo passare. É detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto, che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati; rivela il sentire di Dio, che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza, come riporta anche il passo della lettera agli Ebrei: “È per la vostra correzione che soffrite” (Eb 12,7), che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì scopriamo il nostro essere, secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo sconfinatamente. La nascita al Regno è descritta qui da Gesù come un banchetto, per sottolineare il mistero della pienezza e dell’intimità dell’amore che hanno conquistato il cuore. L’immagine ha una valenza escatologica, non tanto però per indicare quello che avverrà alla fine dei tempi, ma per mostrare che quella ‘fine’ dei tempi è venuta a visitare il cuore e a far assaporare la densità dei misteri di Dio nella nostra storia.

La situazione di quelli che si accalcheranno alla porta, ormai chiusa, della sala del banchetto, corrisponde a quella di coloro che cercheranno di difendersi davanti al giudice nel giudizio finale: «Anch’essi allora risponderanno: ‘Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?’» (Mt 25,44). Se rileggiamo l’avvertimento della lettera agli Ebrei: è per la vostra correzione che soffrite, con il parallelo del giudizio universale, la deduzione non può che essere di questo tipo: la correzione riguarda l’opportunità di imparare ad amare. Rispetto all’amore, non conta la provenienza, ma la fedeltà; non contano titoli di nobiltà di nessun genere, ma solo lo ‘sforzarsi’, l’accompagnare il cuore, volente o nolente, al dinamismo dell’amore.

Come ci fa pregare l’orazione dopo la comunione: “… perché possiamo conformarci in tutto alla tua volontà, rendici forti e generosi nel tuo amore”, la volontà del Padre è misericordia per i suoi figli e Gesù mostra nella sua persona e nel suo agire la bellezza di questa misericordia che si fa salvezza dei peccatori. Chi si oppone a tale misericordia in nome di qualche altro pur nobile ideale si oppone alla volontà del Padre e non verrà riconosciuto. Il fare la volontà del Padre comporta l’accogliere questa sua misericordia che, estendendosi a tutti, esige che sia condivisa con tutti, pena l’esclusione dalla comunione con il Padre, che è Padre di tutti. Quando Gesù dice che lui è via, verità e vita (cfr. Gv 14,6), come proclama il canto al vangelo, possiamo intendere: non solo il suo insegnamento costituisce la via per arrivare al Padre, ma proprio Lui, la sua persona, è la via che mostra il Padre nella sua benevolenza per noi. Proprio perché lui mostra il volto del Padre in verità e ci introduce nella comunione con la vita sua, che è amore per noi. E se lui costituisce la porta stretta è perché l’illusione della carne la fa da padrona sul nostro cuore, che resta irretito in quello spirito mondano che è il contrario dello spirito evangelico.

Il luogo di passaggio è indicato anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente, là dove dice: “con le loro opere e i loro propositi. Io verrò a radunare tutti le genti e tutte le lingue” (Is 66,18). Secondo un’altra traduzione si dovrebbe leggere: “(Sarò) io, i loro atti e i loro pensieri …”, “Sono io che motiverò i loro atti e i loro pensieri quando verrò a radunare tutte le genti”. Da intendere: quando Dio diventa la fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66,2). Ma scegliere l’umiltà e il cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-29).

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(1° settembre 2019)

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Sir 3, 19-21.30-31;  Sal 67;  Eb 12, 18-19.22-24;  Lc 14, 1. 7-14

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Gesù è invitato a pranzo dopo la preghiera in sinagoga nel giorno di sabato da una persona altolocata. Era consuetudine invitare a casa a pranzo dopo il servizio in sinagoga i rabbi famosi. Gli invitati sono tutte persone ragguardevoli, farisei e dottori della legge, che stanno ad osservare cosa dice e cosa fa quel rabbi. Non necessariamente in modo ostile. Lo osservano perché parla e agisce in un modo singolare e vogliono capire chi sia, dove vuole arrivare. L’intervento di uno di loro indica l’interesse con cui Gesù veniva ascoltato: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio” (Lc 14,15). Quello che Gesù diceva aveva indotto quel commensale a sognare il banchetto messianico. E Gesù, rispondendo con la parabola del banchetto disertato dagli invitati e offerto invece ai poveri raccolti dentro e fuori la città, ad indicare Israele e le nazioni pagane, svela il mistero dell’agire di Dio, che costituisce il criterio di riferimento per comprendere le parole dette prima. Così, per cogliere il senso vero del brano proclamato oggi dalla liturgia, cioè Lc 14,7-14, bisognerebbe leggerlo fino al v. 24.

La questione potrebbe essere così posta: perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza sogna? S. Ambrogio, nel commento a questo brano, annota subito che Gesù insegna con dolcezza perché “la gentilezza della persuasione escluda l’asprezza della coercizione, la ragione conduca all’effetto della persuasione e la correzione guarisca l’affetto del cuore”. Due sono i passaggi da notare: primo, in rapporto all’agire dell’uomo e secondo, in rapporto all’agire di Dio. Consideriamo l’agire dell’uomo. In rapporto a chi si pone colui che, invitato, cerca i primi posti? In rapporto all’ospite che l’ha invitato o agli altri commensali? Evidentemente, cerca i primi posti per distinguersi dagli altri, per far valere la sua importanza. Ma così facendo non cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi amici, ai suoi pari, non va oltre l’interesse di ricevere altrettanto e sempre nell’ordine di un riconoscimento, esibito e ricercato, di una qualche grandezza condivisa. Il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da non sentirsene neppure degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. È questo l’atteggiamento che apre le porte dei cieli, che attira all’anima i doni celesti, i doni della vita in abbondanza, di cui il banchetto è l’immagine. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri e sugli altri, allora vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo, tanto piccolo. A quella ‘piccolezza’ è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio. Come ben descrive un autore antico: “chi ascende ad un pensare umile, si abbassa al di sotto del suo pensiero. Ma chi non ha umiltà si pone più in alto del suo pensiero. Non sopporta di essere paragonato ai più piccoli. Per questo si intristisce per non occupare i primi posti a tavola… l’asceta che non abbia un pensare umile non entra nelle dolcezze della virtù… Senza umiltà non si può essere virtuosi” (Elia di Ekdicos).

La cosa è vera perché corrisponde all’agire di Dio. Dio è tanto grande (nella sua misericordia) che non ha bisogno di elevarsi al di sopra di nessuno, ma la sua grandezza si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi è perché Dio fa lo stesso. La ragione risiede nella coscienza che davanti a Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti. La beatitudine deriva proprio dal fatto di godere della sua offerta senza averne titolo e dal fatto di solidarizzare con tutti perché tutti raggiunti dalla stessa offerta.

E la beatitudine è compresa nei termini che annuncia il brano del Siracide: “Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti” (Sir 3,19).  È il segreto di quella compiacenza di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. E se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di Dio.

Lo stesso invito del Siracide: “Figlio, compi le tue opere con mitezza” va letto nello stesso senso. Agire con mitezza significa agire senza interessi o bisogni di confronti, senza esibire o dimostrare nulla, senza prevalere su nessuno, solidali e rispettosi. Ma ciò suppone un’intimità abitata, una piccolezza acquietata e dolce sul modello di Gesù proclamato dal canto al vangelo: “Prendete il mio giogo sopra di voi, dice il Signore, e imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Si allude ad una umanità toccata dalla grazia, accesa nelle sue prerogative di fondo dall’esperienza della grandezza dell’invito, che Dio in Gesù ci fa, di stare alla mensa del suo amore senza averne alcun titolo.

Così la preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, come fosse una tra altre, ma quella di imparare a percepire così intensamente la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra cosa, specie ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore. Come fa pregare la colletta: “… fa’ che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(8 settembre 2019)

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Sap 9, 13-18;  Sal 89;  Fm 9b-10. 12-17;  Lc 14, 25-33

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Le parole di Gesù suonano così perentorie da incutere timore: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo … Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Non sono parole dette in astratto, ma rivolte proprio a chi era rimasto affascinato da Gesù e lo seguiva. È come se Gesù volesse ribadire: non crediate di ottenere vantaggi venendomi dietro. La posta in gioco è assai più alta.

Per tre volte nel brano viene sottolineato: “… non può essere mio discepolo”. Si tratta appunto di cogliere in cosa consista essere discepolo di Gesù, cosa comporti per il cuore essere discepolo di Gesù. Intanto, vale subito la distinzione: un conto è diventare discepolo di Gesù; un conto è esserlo, continuare ad esserlo nel cammino della vita. L’entusiasmo dell’inizio si deve trasformare nello zelo della vita quotidiana lungo tutto l’arco della vita. Ma il punto vero credo stia altrove. Si tratta di intuire/sperimentare quale segreto celi l’essere discepolo di Gesù.

Nel suo lungo colloquio con i discepoli, nell’ultima cena, prima di essere arrestato e processato, Gesù svela il segreto dell’essere suo discepolo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,12-15). E queste parole sono precedute dalla similitudine della vite e dei tralci a sottolineare l’intimità di vita dei discepoli con il loro Maestro. Ora, se questo è il contenuto dell’essere discepoli, sperimentato nel cuore e tradotto in radice di vita per essere trovati nello stesso amore che ha mosso Gesù nel testimoniare al mondo la grandezza dell’amore del Padre, allora non esistono altri valori che possono attrarre il cuore al di là di questo. Non ci sono altri affetti né doveri, pur sacrosanti, che possono costituire la radice di vita dei cuori. Neanche la propria stessa vita può essere preferita a questo, perché è proprio questo che dà senso e valore alla nostra vita.

L’evangelista Luca sintetizza la rinuncia ai propri affetti e alla propria stessa vita con l’espressione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Io commenterei così. Non si tratta tanto di non avere beni, ma di non averne più. La sottolineatura non riguarda i beni, ma il cuore. Se il cuore trova la vita in Gesù, non la cerca più in altro, non trattiene più nulla per se stesso ed è pronto a condividere tutto con i propri fratelli, accettando le afflizioni del vivere o le possibili ingiustizie come luogo ove far splendere l’amore comunque. In questo senso l’espressione: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me” indica chiaramente dove sta il nesso di valore. Non si tratta semplicemente di portare la croce, ma di portarla nello stesso cammino di Gesù; non si tratta di resistere alle afflizioni di ogni genere, ma di viverle nell’ottica della testimonianza di Gesù per far risplendere l’amore di Dio. Non è il dolore ad essere redentivo, ma l’apertura all’amore di Dio che rende redentivo lo stesso dolore.

La liturgia di oggi si domanda: sarà mai possibile seguire Gesù senza accedere alla sapienza che viene dall’alto? Ripetendo con il salmo 89: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”. Ora, la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto risulterà sbarrato. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?

Qui si cela il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio, che fa da criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri. Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(15 settembre 2019)

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Es 32, 7-11. 13-14;  Sal 50;  1 Tm 1, 12-17;  Lc 15, 1-32

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Il capitolo 15 del vangelo di Luca è un inno alla misericordia di Dio che in Gesù viene manifestata in tutto il suo splendore. Ciò che le parabole sottolineano, ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la gioia di Dio nel suo essere misericordioso. Il segreto è così celato nella Legge che Gesù si industria in mille modi per svelarlo ai farisei, che della Legge avevano fatto la scoperta del senso della vita e la regola di condotta.

Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro, secondo l’interpretazione dei Padri) ma va in cerca dell’uomo peccatore e la sua gioia sta proprio nel farsi carico dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Gesù non può disinteressarsi della sua immagine che struttura il cuore dell’uomo (la moneta che porta l’effigie del re) tanto da darsi pena per ciascuno di noi finché quell’immagine possa tornare al suo splendore. Il padre della parabola esprime la sua gioia nel vedere il figlio perduto ritornare tanto da fargli festa, nel desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui alludono le parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo. La Legge, quando di quell’amore non si fa più eco, non svela più il volto di Dio e non rende onore a Dio che vuole essere conosciuto nella sua misericordia. Ricordo per inciso che la parabola della pecora perduta e ritrovata è l’annuncio evangelico della festa del SS. Cuore di Gesù.

Il mistero e il dramma di quella gioia sono espressi splendidamente da s. Pietro Crisologo: “Ascolta l’Apostolo: ‘Egli non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi’ (Rm 8,32). Questo è il vitello che ogni giorno e perennemente viene immolato per il nostro banchetto”. È su questa percezione che la chiesa prega dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”. Non prevalga in noi il nostro sentire, ma lo splendore della misericordia del Signore che abbiamo conosciuto quando abbiamo creduto nel Signore Gesù, quando abbiamo ascoltato la sua parola, quando l’abbiamo visto trafitto e quando abbiamo accolto il suo Spirito.

Per noi è difficile cogliere l’intensità drammatica che comporta la rivelazione del Signore come misericordia per noi. Meditare sulla prima lettura è il modo migliore per aprirci allo splendore della rivelazione evangelica. Si dovrebbero leggere d’un fiato i capitoli 32-34 del libro dell’Esodo che narrano del peccato del vitello d’oro e degli eventi drammatici connessi. Mosè si pone come intercessore per il popolo, al colmo dell’angoscia e tremendamente consapevole delle conseguenze della stoltezza del popolo che ha rotto l’alleanza col suo Dio. Prima ricorda a Dio le sue promesse, poi si identifica con il popolo peccatore al punto da essere condannato o salvato insieme a lui, poi esige non solo il perdono di Dio ma che Dio continui a guidare il popolo personalmente stando in mezzo a loro, per finire con la richiesta, suprema, di vedere la gloria di Dio. E come Dio si manifesterà? Ecco, il nome nuovo di Dio che sentirà proclamare nella visione sul Sinai sarà: ‘Dio misericordioso e pietoso …’ (Es 34,6; Sal 86,15). Qui vale la verità proclamata in tutte le Scritture: Dio è Dio, e non un uomo! Dio è Misericordia senza limiti perché fedele al suo amore. Il peccato non resta impunito, ma sarà lui stesso che se ne assumerà il peso nelle sue conseguenze inchiodandolo alla croce e sacrificando se stesso. Il pastore, che va in cerca della pecora perduta e se la mette sulle spalle tornando a casa, allude al dramma della passione di quel Figlio dell’uomo che è angosciato finché il fuoco che è venuto a portare non si accenda e possa essere noto a tutti il segreto dell’amore di Dio per i suoi figli. Il salmo 50 collega la supplica del perdono (‘cancella il mio peccato’) proprio con la capacità di Dio di rinnovare (‘crea in me un cuore puro’), con la conseguenza che la misericordia di Dio verso di noi è una misericordia ‘giustificante’: non semplicemente ci viene perdonato il peccato, ma ci è attivata una nuova modalità di accesso alla vita, come partecipazione ai sentimenti di Dio per i suoi figli (‘siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso’, Lc 6,36). Sarà ormai la misericordia la rivelazione dell’umanità restituita al suo splendore.

In effetti, qual è la giustizia gradita davanti a Dio? Qual è il criterio della rettitudine? Il principio di rettitudine è la condivisione dei sentimenti di Dio, è la condivisione della sua letizia nell’amore agli uomini. Lo esprime anche la preghiera sulle offerte: “… ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”, vale a dire: quello che di noi offriamo al Signore, se non si risolve nella manifestazione della misericordia di Dio che raggiunge il cuore dei nostri fratelli, non riuscirà gradito. Il nostro cuore, invece, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordargli che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell’amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero.

È evidente che Gesù, con queste parabole, vuole rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta perché accoglie pubblicani e peccatori. Vuole come rispondere alle mormorazioni del cuore dell’uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio nel suo amore ai suoi figli. Con il racconto delle tre parabole, Gesù non cerca semplicemente di giustificare la condotta di Dio verso gli uomini, ma svela il mistero della sua Persona, lui che si definisce ‘mite e umile di cuore’ (Mt 11,29), via-verità-vita che mostra il Padre nella grandezza del suo amore per i suoi figli.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(22 settembre 2019)

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Am 8, 4-7;  Sal 112;  1 Tm 2, 1-8;  Lc 16, 1-13

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Ai farisei Gesù aveva raccontato le tre parabole della misericordia (Lc 15), ora racconta la parabola dell’amministratore disonesto e scaltro ai discepoli, che già hanno fatto esperienza della misericordia di Dio. È come se Gesù mostrasse in cosa consiste in pratica la fedeltà dei discepoli spesso paragonati ad amministratori nella casa di Dio. Il punto nevralgico è costituito dalla lode del padrone: il padrone è defraudato, ma loda il suo amministratore disonesto. La lode su cosa si appunta? L’avverbio greco abbinato all’agire dell’amministratore, avverbio che noi traduciamo ‘con scaltrezza’, in questa accezione non rende ragione dell’intenzione del padrone. Il termine è lo stesso che viene riferito alle cinque vergini sagge o prudenti che si distinguono dalle loro compagne stolte o stupide. Si distinguono per la premura di conservare l’olio in piccoli vasi. Ciò significa che l’attesa del loro cuore è volta all’incontro con lo sposo, mentre per le altre si tratta solo di aspettare. Anche nella parabola odierna, il padrone loda la ‘saggezza’ dell’amministratore perché dispone il suo agire in funzione del futuro senza perdersi nel presente: non si abbatte per essere scoperto nella sua disonestà, sa cosa fare per non restare escluso dalla vita. La differenza che Gesù sottolinea tra i figli di questo mondo e i figli della luce sta proprio nel fatto di saper cosa fare in rapporto alla dimensione in cui ci si colloca. Se i figli della luce si percepiscono in rapporto al Regno, il loro agire resta vincolato alla grazia del regno e tutto quello che vivono in questo mondo è aperto appunto alla grazia del regno che li ha sorpresi e conquistati. Questo è il senso della parabola.

Gesù esemplifica l’agire in rapporto ai beni, a come essere fedeli nei beni. Ci sono beni di poco conto e beni importanti; beni iniqui, fasulli e beni veri; beni altrui e beni propri. La diversità potrebbe essere indicata anche con: beni terreni e beni celesti, beni materiali e beni spirituali, beni passeggeri e beni eterni. La straordinarietà della parola di vita di Gesù sta nell’indicare che non c’è altra via per procurarsi i secondi che nella fedeltà ai primi. Per questo l’affermazione “fatevi degli amici con la ricchezza disonesta” suona come: l’agire nella vita non comporta meriti, ma comunione; il valore dei beni sta nell’usarli senza essere usati, nel possederli senza essere posseduti, nell’avere per condividere, perché ciò che è nostro è l’essere figli dell’Altissimo, ciò che vale è il crescere nella misericordia verso tutti al punto da non fare alcuna distinzione tra buoni e cattivi quanto all’amore loro dovuto.

Si tratta di ottenere ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere le cose importanti con le cose di poco conto. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato come cosa di poco conto. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria definisce nostro “la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in origine”. Questa è la cosa importante, quella che ci definisce, quella che ci struttura. È nostro l’essere figli dell’Altissimo, è nostra quella somiglianza con il Signore Gesù, che lui è venuto a ristabilire.

I beni propri, grandi, veri, sono quelli che corrispondono ai desideri più profondi del cuore, sono quelli che riguardano l’essere, la pienezza di quella vita che ardentemente cerchiamo e che vediamo costantemente sfuggirci perché non ci fidiamo della promessa di Dio; i beni altrui, piccoli, iniqui, sono le cose materiali di cui abbiamo bisogno per vivere ma senza che costituiscano lo scopo stesso del vivere; sono quelli che riguardano i desideri nell’immediato, che spesso sono così in contrasto con quelli profondi del cuore e che, se hanno il sopravvento, sono intaccati dall’ingiustizia; sono quelli che preferiamo contro le promesse di Dio.

Il padrone della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Dato però che l’uomo vuole la felicità, l’accortezza consisterà nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà nella disponibilità a condividerli. In particolare, la scaltrezza si giocherà sul fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché l’ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il condonare i debiti ai compagni. La parabola può essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. La scaltrezza della santità sta non nel fatto di rispondere davanti alle proprie mancanze con il tentativo, impossibile, data l’ampiezza dell’ammanco, di saldare i propri debiti, bensì nel fatto di condonare i debiti altrui per trovare ancora il favore del padrone.

In particolare, l’apostolo è colui che froda il padrone nel suo diritto di giustizia invitando tutti ad entrare nel Regno. L’abilità dell’amministrare sta proprio nel favorire in ogni modo l’entrata nel Regno da parte del maggior numero. La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi e per gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando tuo fratello, qualora tu dovessi mancare in qualcosa rispetto al tuo Signore, l’onore dato al tuo fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il tuo fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l’onore che tu gli avrai portato funzionerà da intercessore per lui perché quell’onore è computato a merito. I meriti davanti a Dio sono energie di intercessione, pungoli all’amore di Dio a riversarsi su di noi.

S. Agostino, poi, ha un commento singolare per questo brano. Dice che il padrone loda il servo disonesto perché pensa al futuro e questo lo interpreta nel senso dell’elemosina, della ospitalità, dell’accoglienza dei fratelli specificando che il principio del discepolo è il seguente: sia ammesso all’ospitalità anche chi non è degno perché non sia escluso chi ne è degno.

Condividere i beni con i poveri, stare solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini, perché gli uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro vero Bene. Ed è caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(29 settembre 2019)

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Am 6, 1.4-7;  Sal 145;  1 Tm 6, 11-16;  Lc 16, 19-31

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La parabola di oggi illustra in negativo quello che la parabola dell’amministratore disonesto illustrava in positivo: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’ essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”. La costatazione di fondo può essere riassunta così: il povero ha bisogno del ricco in vita, il ricco ha bisogno del povero in morte. Guai a non accorgersi di questo bisogno!

Possiamo leggere la parabola in tre tempi:

1) la storia è narrata in chiave speculare a suggerire il ribaltamento delle situazioni, tipico del messaggio biblico. La sottolineatura che ne consegue è la seguente: Dio non giudica come giudica l’uomo! Qui il ricco gode e il povero soffre, lassù il povero godrà e il ricco soffrirà. Come qui il povero chiede pietà al ricco ma non la trova, lassù il ricco chiederà pietà ma non la troverà. L’abisso che si era stabilito in vita tra il ricco e il povero, ricomparirà, ormai definitivo, tra il povero e il ricco. Il ribaltamento delle situazioni allude al giudizio di Dio che toglierà ogni illusione. Si tratta dell’illusione della ricchezza come garanzia della vita. La parabola suggerisce uno dei criteri di discernimento più sicuri per agire bene: porsi dal punto di vista della fine, porsi dal punto di vista dell’eterno.

In gioco non è affatto la condanna delle ricchezze e l’esaltazione della povertà. In gioco è la solidarietà nella vita. S. Agostino dice del ricco: ‘possegga pure, ma non si lasci possedere’. L’uomo ricco, che gode di beni materiali, si arricchirà presso Dio se li condividerà con il povero, in modo che il rendimento di grazie sia solidale. È come dire che la vita si gioca nell’amore e l’amore risulterà dalla dignità di tutti, custodita e favorita con ogni mezzo. Non viene chiesto al ricco di disfarsi della sua ‘ricchezza disonesta’, ma di usarla per provvedere al povero.

La parabola non è raccontata per dare consolazione al povero, per invitarlo alla pazienza; è raccontata per svegliare il ricco. La forza del racconto poi non sta nel deterrente di paura (i toni sono pacati e familiari) ma nello svelamento del segreto della vita. In gioco è la fede nel Salvatore che ‘convince’ alla fraternità nella comunione col proprio Dio.

2) I particolari della parabola illustrano bene la posta in gioco nella vita e il modo di giocarla bene. Ci sono come dei punti nevralgici con cui il narratore chiede di misurarsi per averne intelligenza.

 Anzitutto i nomi dei personaggi. Il ricco non ha nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa ‘Dio aiuta’. Senza Dio l’uomo si confonde con ciò di cui si serve e che finisce per servire. Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il fratello.

Il ricco non è condannato per la sua cattiveria e nemmeno per il suo disprezzo del povero; è condannato perché non vede, non si premura di vedere, nemmeno s’accorge del povero tanto vive nella sua illusione. Solo negli inferi è detto che il ricco ‘alzò gli occhi e vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua vita. Ma oramai, non essendo più tempo di agire, il suo vedere lo condanna. Questo particolare esprime il movimento del cuore che prelude al riconoscimento della verità della vita. Quello che viene indicato avvenire là nell’inferno, nel giudizio della parabola, è proprio quello che ci si esorta ad assumere adesso nella nostra vita. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l’intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell’illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del bene del popolo verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.

Lazzaro, nel paradiso, è descritto con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo. La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo fianco che può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine dell’affermazione: gli ultimi sono i primi. Qui si vede cosa significa l’espressione più volta ripetuta nei salmi: Dio conosce l’umile.

3) La conclusione della parabola lascia intravedere allusioni misteriose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. Quando Lazzaro, fratello di Marta e Maria, è stato risuscitato da Gesù, il miracolo non convincerà coloro che erano ostili verso Gesù. Gesù stesso risusciterà, ma di per sé nemmeno questo convincerà. Occorre prima dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola. Declinerei in due tempi la portata di questa affermazione:

  1. a) Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.
  2. b) non si può cogliere la portata del mistero di Gesù, compimento della promessa di Dio per l’umanità, se non riferendosi a tutte le parole della Scrittura, perché tutte di Lui parlano. Da interpretare nel senso dell’espressione di Paolo a Timoteo: “ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo…”. Ogni parola va custodita e accolta, integra e viva, perché praticandola ci sveli il volto del Signore che si è fatto nostro prossimo, vicino a noi e raggiungibile nel nostro vicino. La condizione? La trovo ben espressa in una colletta della messa nel rito ambrosiano: “… conferma in noi la grazia della tua libertà”. Vedere nei comandamenti la possibilità di sperimentare l’amore di Dio per noi e la fraternità con gli uomini comporta il dono di una grande libertà, quella che ci deriva dal Signore Gesù Cristo che, rivelandoci il suo Volto dà anche a noi un volto in cui specchiarsi, riconoscersi e ritrovarsi. È la libertà che il cuore respira quando i suoi pensieri si accostano ai pensieri di Dio, quando i suoi pensieri si intessono con i pensieri di Dio e cade l’illusione di potenza, di sufficienza, di dominio per aprirci orizzonti nuovi e lucidità di visione e calore di rapporti.

In tal senso è particolarmente illuminante il salmo 146, l’inizio dell’Hallel, che gli ebrei recitano nella preghiera quotidiana del mattino. Insieme i salmi 146-150 comportano dieci alleluia, che richiamano le dieci parole della creazione e le dieci parole dei comandamenti. Il tutto nel segno della lode per la verità rivelata: Dio regna per sempre. Il salmo 146 elenca dieci azioni in cui consiste la fedeltà del Signore al suo amore ricco di misericordia, modello per il credente per il suo amore al prossimo.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(6 ottobre 2019)

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Ab 1,2-3; 2, 2-4;  Sal 94;  2 Tm 1,6-8.13-14;  Lc 17, 5-10

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Tutta la liturgia di oggi mira a svelare la struttura del cuore dell’uomo che si gioca nella fede. Il profeta Abacuc proclama: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”, nel contesto della prova che il giusto subisce e del ritardo di Dio a rispondere, ma fiducioso nella promessa del suo Dio. Il salmo responsoriale (che andrebbe letto per intero) sottolinea la drammaticità del credente; può benissimo incorrere in quella che suona come la minaccia più terribile per il cuore: «Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”. Perciò ho giurato nella mia ira: “Non entreranno nel luogo del mio riposo”». Per questo il profeta contrappone la mancanza di fede all’animo non retto. Il salmo invece descrive questa ‘non rettitudine’ come ‘durezza’ di cuore. È la lezione che hanno imparato per esperienza i nostri padri. Isacco Siro contrappone la mancanza di fede che genera orgoglio, alla fede a cui segue l’umiltà, da Dio viene la misericordia mentre dalla mancanza di fede la paura, tutto ciò che si muove in noi proviene da una di queste due ragioni: o dalla durezza di cuore o dalla fede in Dio.

Il vangelo, a sua volta, colloca la domanda di fede degli apostoli in un contesto preciso (che però manca nel brano proclamato oggi). Se la fede è il contrario della durezza di cuore, in quale contesto specifico l’uomo fa esperienza di durezza di cuore? Nelle relazioni fraterne, nella difficoltà a perdonare al proprio fratello: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai». Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,3-6). Da notare che nel testo di Luca il comando di Gesù di perdonare al fratello anche se pecca sette volte al giorno, vale a dire continuamente, la difficoltà del perdonare non è vincolata alla poca generosità, ma alla causa che la produce, vale a dire: il fatto che il fratello venga sette volte a chiedermi scusa suona alle mie orecchie come una presa in giro e perciò il senso della mia importanza pregiudica la mia generosità. La durezza di cuore che impedisce il perdono deriva quindi dalla mancanza di fede, dal fatto cioè di non avere più fiducia nella promessa di Dio, di non restare umile davanti a Dio, di esigere qualcosa per me o di me, il che contrasta esattamente con quello che il profeta aveva chiamato ‘animo retto’.

Il perdono non parla semplicemente della generosità dell’uomo, ma della conoscenza di Dio che abita i cuori, vale a dire della fede in Gesù professata e vissuta. La fede è domandata proprio per vivere il compito divino del perdono, che è il modo umano di vivere l’amore, assecondando quel mistero di riconciliazione in atto nella storia secondo l’espressione della lettera agli Efesini: “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato [= ha fatto grazia di sé] a voi in Cristo”.

Così tanto, in modo così nuovo, Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: “tu gli perdonerai”! Il cuore dell’uomo sa e sente che non può riacquistare l’innocenza perduta se non nel perdono ricevuto e offerto, costantemente. Qui si radica l’esperienza di Dio: ognuno sente che non riuscirà credibile nell’offerta del suo amore se l’Amore del Signore non l’avrà raggiunto, se il Signore non gli riverserà in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Nel perdonare si gioca la sincerità dell’aver incontrato Dio e dell’esserci percepiti solidali con i nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio. Si tratta sempre appunto della fede.

Ritorna in gioco la proclamazione del salmo responsoriale, il salmo 94 (95), che la chiesa indica come la prima preghiera da fare alzandoci al mattino: “Se ascoltaste oggi la sua voce!”. Come si accede alla fede? Ascoltando. Perché è dalla mancanza di quell’ascolto che deriva all’uomo l’indurimento del cuore: “Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto”. Tutto sta in quel ‘se…’. Un gustosissimo midrash lo illustra a meraviglia. Rabbi Jehoshua ben Levi interrogò il profeta Elia: “Quando verrà il Messia?”. “Va a chiederlo a lui”, rispose. “Dove lo posso trovare?”. “Alle porte di Roma”. “E come lo riconoscerò?”. “Egli siede tra i lebbrosi mendicanti. Ma mentre questi si tolgono e si rimettono le bende tutte in una volta, egli si toglie le bende a una a una e se le rimette una alla volta dicendo: ‘Forse sarò chiamato a manifestarmi, e in tal modo non ritarderò’ “. Rabbi Jehoshua andò da lui e lo salutò: “Pace a te Maestro!”. “Pace a te, figli di Levi”, rispose. “Quando verrai, Maestro?”. Gli disse: “Oggi”. Poi venne da Elia, che gli chiese: “Cosa ti ha detto?” “Mi ha mentito. Ha detto che sarebbe venuto oggi, e invece non è venuto”. Ma Elia disse: “No, egli ti ha detto questo: ‘Oggi, se ascoltate la sua voce!’”.

Se non ascolto oggi la parola, resto più indurito e domani farò più fatica ad ascoltare. L’aspetto caratteristico della proclamazione del salmo è il fatto che l’ogni giorno suppone un qui, un essere totalmente là dove siamo. L’ogni e il qui suppongono a loro volta che ciò che è trascorso non ipotechi ciò che inizia. In pratica, possiamo ascoltare Dio solo stando dove ci troviamo e adesso. Questa è la fede, questo è avere l’animo retto, questo è l’uscire dalla durezza di cuore. E dove questo si vede? Nel perdono.

Con l’esempio poi del granello di senape Gesù non allude alla ’quantità’ della fede, poca o tanta. Allude alla ‘natura’ della fede, che è, sì, piccola come un granello di senape, ma ha la potenza del seme di senape, è capace di dispiegare la sua potenza vitale una volta seminato in terra, tanto da crescere e diventare l’arbusto più grande fra i vari ortaggi o addirittura un albero (cfr. Lc 13,19). Il paragone usa la stessa immagine riferita al regno di Dio, insignificante all’inizio, ma che col tempo cresce e diventa pianta dove vanno a nidificare gli uccelli, simbolo di tutti i pensieri e i desideri del cuore dell’uomo che vengono attratti dalla vita di Dio gustata nel cuore.

Il brano evangelico comporta anche l’aggiunta della parabola del servo inutile. A dire il vero non è che il servo sia inutile, perché il suo compito lo esegue e serve al padrone. Piuttosto si dovrebbe intendere: non ho titoli di preferenza o di diritti presso il mio Signore! Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene! La vita non si allea con chi avanza titoli di pretesa. Il Signore nemmeno, per quanto aspetti alle porte del nostro cuore in attesa che impariamo semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente a dare e non a pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci venga fatto. E questo sarà possibile quando ci accorgeremo che essere servi, nell’esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla. Il vero servo è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza.

Essere servi inutili significa essere semplicemente servi e nulla di più. Ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro che quello che l’amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. È l’altra faccia dell’espressione: “il giusto vivrà per la sua fede” del profeta Abacuc e vuol dire: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(13 ottobre 2019)

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2 Re 5, 14-17;  Sal 97;  2 Tm 2, 8-13;  Lc 17, 11-19

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Potremmo definire il tema specifico della liturgia in questi termini: la fede che trabocca in gratitudine rende invincibili. Così mi suonano le parole di Gesù: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19). Se ci chiedessimo: qual è il criterio della vera devozione gradita a Dio? Non avremmo che da riferirci al versetto di 1Ts 5,18 del canto all’alleluia: “In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi”. Vale a dire: se rendete grazie in ogni cosa, allora siete attenti all’appello di Dio, all’invito del suo cuore, che è quello di farci fare esperienza della sua volontà di benevolenza nei nostri riguardi attraverso gli eventi della nostra vita, che così diventa storia sacra, storia dell’incontro dei nostri affetti, di noi e di Dio; benevolenza, che si è manifestata in Gesù, di cui siamo chiamati a vedere il Volto e nella cui compagnia siamo invitati a camminare. A dire il vero, al rendere grazie Paolo unisce l’essere sempre lieti e il pregare ininterrottamente. Le tre cose insieme segnalano che il cuore ha presagito la presenza del suo Salvatore, che l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il suo desiderio. A sottolineare la fecondità dell’atteggiamento del saper rendere grazie, i padri del deserto ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva da ogni altro obbligo. Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento, eviteremmo ogni intrusione del male nel nostro cuore.

È a questa conclusione che il brano della guarigione dei dieci lebbrosi guida. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e l’annotazione di Luca mette in risalto il fatto che ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei farisei sul regno di Dio: “Quando verrà il regno di Dio?”. In ottemperanza alla legge di Lev 13,46, i dieci lebbrosi si fermano a distanza e gridano al Signore il loro tormento, chiedendo di essere guariti. Il loro dramma non deriva solo dalla malattia che lacera le loro carni, ma anche dal fatto che venivano esclusi dalla comunità, non potevano accedere al tempio per il culto. La lebbra evoca direttamente il destino orribile del peccato che insidia la fraternità, irrigidisce i rapporti, contamina a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separa e opprime, impedisce al volto di Dio di risplendere. La guarigione di un lebbroso da parte di Gesù allude sempre alla purificazione del cuore che torna così a far risplendere i rapporti di comunione e ridà accesso al mistero di Dio. Nel linguaggio del narratore e in quello di Gesù la guarigione è sempre chiamata ‘purificazione’; nel sentimento dell’uomo guarito il termine è appunto: sono stato guarito. Alla fine, purificazione e guarigione suonano come salvezza.

In dieci chiedono di essere guariti. Tutti sono sinceri e tutti e hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. I nove che proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito in loro la parola del profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97 (98), non hanno compreso che “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”.

Tutto ciò che riceviamo e abbiamo, tutti i doni di Dio comportano un’intenzione segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello. L’uomo si confonde con il dono che ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo e cieco, non ha visto di cosa si trattava realmente.

Gesù, accogliendo il samaritano che torna a ringraziarlo, dice: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo, mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per la conversione del samaritano.

L’aspetto straordinario di questa situazione risalta dalla proclamazione del salmo 97 (98), al v. 1, che nel testo ebraico suona: “La sua destra lo ha salvato”.  Il Signore, non salva semplicemente i suoi figli, ma salva se stesso. Si può rivelare Re e Signore solo salvando i suoi amati, solo agendo per amore. Ma se questa intenzione segreta di Dio non è percepita, impediamo a Dio di rivelarsi al nostro cuore e quindi non può avvenire la conversione, come Gesù dice del samaritano che è tornato indietro a ringraziare: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. La conversione è appunto ritornare a gustare l’alleanza con Dio vivendo ormai la propria vita nella logica e nel calore di quell’alleanza. Se il rendere grazie è espressione dell’incontro avvenuto, allora tutta la nostra vita ne sarà irradiata perché sono state toccate le radici del cuore.

Con molta sagacia s. Bernardo, commentando il salmo 97 (98), vi vede descritte tre venute del Cristo che definiscono la salvezza di Dio per l’uomo: la prima, con l’incarnazione, Cristo si fa nostra redenzione (cfr. Lc 2,30-31: si è manifestata la sua salvezza); la seconda, con la risurrezione e la venuta gloriosa alla fine dei tempi, quando Cristo si rivelerà come nostra vita; la terza, intermedia alle prime due, con la venuta in Spirito e potenza, diventando il Cristo nostro riposo e consolazione. La conversione ha a che fare con questa terza venuta che dalla prima ci guida alla seconda e si rivela al nostro cuore come riposo e consolazione, come Gesù dice di sé: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,28-29).

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(20 ottobre 2019)

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Es 17, 8-13a;  Sal 120;  2 Tm 3, 14 – 4, 2;  Lc 18, 1-8

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Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. Evidentemente Gesù teme che noi ci stufiamo nel pregare. E da dove ci deriva lo scoraggiamento (questo significa propriamente stancarsi, venir meno, lasciar perdere)?

La vita spirituale può essere colta come la fatica di vedere l’Invisibile e di guardare al mondo e all’uomo attraverso i Suoi occhi. La visione del mondo e della vita risulta così strettamente legata alla purificazione spirituale e all’ascesi dell’uomo ed è la visione di Dio che cambia l’intelligenza umana del mondo.

Gesù aveva appena risposto alla domanda dei farisei: “Quando verrà il regno di Dio?” (Lc 17,20) con il ricordare che il regno di Dio non può essere visto come un fatto osservabile, ma solo nella fede in lui. Fede, che però è messa alla prova dalla fatica del vivere e dello stare nella storia, con le sue assurdità e con i suoi dolori. Aveva ricordato i tempi escatologici, vale a dire aveva cercato di orientare gli sguardi dei suoi ascoltatori verso il punto finale della storia, la venuta del Figlio dell’Uomo, venuta che però si manifesta già nel giudizio della croce, dove prevale la manifestazione dell’amore del Padre per noi. L’invito a pregare senza interruzione, che Luca esprime con gli stessi termini che usa san Paolo nelle sue lettere (si veda in particolare il passo di 1Ts 5,17), mira a sostenere lo sguardo dell’uomo oltre la cronaca, oltre il visibile, oltre le apparenze, per cogliere il mistero dell’amore di Dio, mai scontato per il cuore dell’uomo. Al ‘sempre’ dell’invito alla preghiera è per forza di cose abbinato il timore dello scoraggiamento, che si esprime con la domanda/lamentela/grido: ma perché Dio non interviene, non si fa sentire?

Come dice il salmo: “Svégliati! Perché dormi, Signore? Déstati, non respingerci per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?” (Sal 44,24-25). È lo scandalo dell’inazione apparente di Dio di fronte all’imperversare dell’ingiustizia e dell’oppressione. Tutti i testi salmici della liturgia di oggi alludono alla situazione drammatica dell’uomo. La vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite ci può restare preclusa la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di un amore mancato. In effetti, la parabola termina con l’esternazione accorata di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. D’altro canto, dire che Dio esaudisce ‘prontamente’ (sia pure interpretato ‘inaspettatamente’) quando il grido della preghiera si impasta con il timore che non sia ascoltata perché dura da un tempo interminabile, non sembra suonare come una presa in giro?

Il canto di ingresso (Sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio). Ecco perché Gesù non teme di paragonare Dio al giudice disonesto della sua parabola. Con un ragionamento a fortiori, Gesù ci dice: se anche un giudice disonesto alla fine si decide a togliersi dai piedi una vedova importuna facendole giustizia, cosa non farà Dio per i suoi fedeli? Ma il suggerimento suona: guardate a quel Figlio dell’uomo che è stato messo nelle vostre mani, che ha patito ed è morto sulla croce per voi, e riconoscete quanto è grande l’amore di Dio per voi! Non temete, Dio sta alla vostra destra, come dice il salmo 120.

Anche il racconto della preghiera di intercessione di Mosè sul monte va inteso nel suo contesto altamente drammatico. Il popolo di Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). Noi potremmo dire: ma dov’è il Signore! Era poi seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè aveva percossa con il bastone di Dio. La memoria dell’episodio è fissata nel popolo non con il miracolo ottenuto ma con la contestazione e la protesta che l’aveva provocato: il luogo è chiamato Massa (prova) e Meriba (contestazione). Subito dopo il popolo corre un altro tremendo pericolo: l’attacco degli Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che trovano un nemico sulla loro strada. È la prima battaglia di Israele dopo l’uscita dall’Egitto. L’angoscia del popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Mosè non alza semplicemente le mani, ma alza il bastone, quello con il quale aveva percosso le acque del mare e si erano ritirate, aveva percosso la roccia e questa aveva lasciato scaturire l’acqua, ora contro il nemico per ricordare che la vittoria è del Signore e non dell’uomo (cfr. Gs 8,18.26).

Ma perché dobbiamo pregare sempre? Perché il regno di Dio non è osservabile, non si vede. E perché non dobbiamo scoraggiarci? Perché il Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. Ma il Figlio ci è stato dato, ha patito ed è morto per noi, mostrandoci la grandezza dell’amore di Dio per noi. La perseveranza costante nella preghiera, senza stancarsi, è allora l’unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Mi piace ricordare un’antica tradizione ebraica che rileva nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che misticamente fa sussistere il mondo. Di quella benedizione Gesù è il compimento.

Se è così, allora il salmo 120 può essere compreso in tutta la sua profondità. Parla di ombra e di custodia: “Il Signore è la tua ombra” (v. 5); “Il Signore ti custodirà da ogni male” (v. 7). Da interpretare con la rivelazione delle Scritture. Il libro dell’Esodo parla dell’ombra luminosa che camminava con il popolo nel deserto; il vangelo di Luca parla dell’ombra che ha ricoperto la Vergine; il vangelo di Marco della nube sul Tabor quando Gesù si trasfigurava. Se Dio custodisce il suo popolo, è per la preghiera sacerdotale di Gesù: prego che li custodisca dal maligno (Gv 17); l’assicura Pietro: custoditi dalla potenza di Dio, mediante la fede, in vista della nostra salvezza (1Pt 1,5). Senza dimenticare che la custodia di Dio si esprime anche con la custodia uno dell’altro, come proditoriamente Caino confessa dopo l’assassinio del fratello Abele: ‘sono forse io il custode di mio fratello?’ (Gn 4). Sì, essere custoditi da Dio comporta che ci si custodisca a vicenda. Si prega per non venir meno all’esperienza di tale custodia.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(27 ottobre 2019)

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Sir 35, 15-17.20-22;  Sal 33;  2 Tm 4,6-8.16-18;  Lc 18, 9-14

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Se la parabola di domenica scorsa verteva sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi mai, quella di oggi, invece, svela la condizione e il frutto della preghiera. Luca introduce la parabola con queste parole: “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9). Di per sé il testo dice più semplicemente: ‘per alcuni che erano persuasi, che erano convinti di essere giusti’, tanto che il latino rende con ‘qui in se confidebant tanquam iusti’. Ciò significa che chi prega con questi sentimenti non ha coscienza di essere presuntuoso; sarà il giudizio della parabola a svelarne l’intima presunzione in modo da far venire alla luce il peccato nascosto, quello che rende la preghiera irricevibile da parte di Dio. Non solo, ma la parabola metterà in evidenza la stretta connessione che esiste tra il percepirsi giusti e il fatto di disprezzare gli altri. Anche questo collegamento non è evidente per la coscienza dell’orante, ma la parabola ne mostrerà l’esito perverso.

La parabola termina con il giudizio di Gesù: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Giustificare, giustificazione, sono termini che alludono al dono della salvezza da parte di Dio, salvezza che è intesa come ‘riconciliazione’, esattamente come proclama il canto al vangelo: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (2Cor 5,19). La riconciliazione, che fa accedere alla comunione con Dio, comporta il ritornare a essere luminosi in umanità perché Dio è il Padre delle misericordie, è il Padre misericordioso.

La preghiera del fariseo fa presagire questo ritorno alla luminosità in umanità? Non pare proprio. Primo, perché la sua preghiera non esalta la figura del Padre; secondo, perché non torna a stare solidale con i suoi fratelli, tutti figli dell’unico Padre. In lui, la persuasione del suo praticare la Legge, sicuramente suo merito, lavora nel senso della separazione, della distanza, con il suo fratello perché il suo agire non è teso ad esaltare la figura del Padre, ma più semplicemente e più perversamente ad esibire la sua propria giustizia. Ma l’uomo può esibire una sua giustizia davanti a Dio, per il quale, come dice il profeta: “Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (Is 64,5)?

Oppure, come dice la sapienza del Siracide: “il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone (letteralmente: la gloria della persona non è nulla davanti a lui)” (Sir 35,15). Se l’uomo si gloria della sua giustizia, automaticamente dichiara che non cerca quella di Dio, nonostante creda il contrario. In effetti, il passo del Siracide tratta delle offerte al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al Signore vittime ingiuste, sottolineando che uno può offrire vittime ingiuste in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da nessuna gloria esteriore. Quando il fariseo proclama la sua giustizia, non dice cose false, ma non è retto il suo cuore perché interpreta la sua giustizia come una gloria da esibire e Dio, per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può accogliere la sua offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.

Non si tratta evidentemente di disprezzare le pratiche buone, tanto più quelle inerenti al culto, che del resto procedono dai comandamenti di Dio, ma di svelare la condizione che rende quelle pratiche, gradite a Dio e portatrici di frutto per il cuore dell’uomo. L’insegnamento della parabola emerge in tutta la sua portata se mettiamo a confronto la preghiera del fariseo con quella che Gesù innalza al Padre al ritorno dei discepoli da una missione di predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze vistose: la preghiera di Gesù prorompe da un’intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e non l’uomo. Quella del fariseo è appiattita sull’esteriorità esibita, fa rimarcare la separazione, celebra l’uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca, è proprio la proclamazione della sua paternità.

Possiamo trarre per noi due conseguenze. Ecco la prima. Se Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, non c’è alcun bisogno di esibire alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Più un uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si distingue e si separa dagli altri, meno conosce la dolcezza che viene dalla salvezza di Dio.

La seconda. Come possiamo lodare il Padre svelando la sua presenza nel mondo? Come collaboratori della sua opera di riconciliazione. Con la sottolineatura: ‘tornò a casa sua giustificato’, siamo rimandati a questa suprema verità: Dio offre la sua pace a noi, non noi che dobbiamo fare di tutto per rabbonirlo. È questa la ‘buona notizia’, la radice di una gioia nuova, capace di cercare la comunione con Dio vivendo la comunione con noi stessi e con i fratelli, in Cristo, nostro Salvatore, nel quale “non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 4,28).

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1° novembre 2019)

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Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1 Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

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Quando la Chiesa contempla il paradiso dei santi, il suo sguardo non è attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Lo splendore della santità come manifestazione dell’amore di Dio per noi costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgersene più. Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana.

Il salmo responsoriale descrive la santità come una integrità: un uomo che ha mani (azioni), cuore (pensieri), bocca (parole), in perfetta sintonia è un uomo diventato capace di vedere la luce del primo giorno della creazione, la luce della santità di Dio che regge tutte le cose. Lo splendore di amore con cui Dio ha creato il mondo e nel quale lo mantiene si fa visibile all’uomo e la sua umanità lo riverbera.

Il vangelo mostra le finestre attraverso le quali quella luminosità si fa visibile con la proclamazione delle beatitudini. Vanno intese come le vie che lo Spirito di Dio ci fa percorrere per essere trovati in quel Figlio, che è l’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8), capace di attirare gli sguardi degli uomini che così possono contemplare la santità di Dio, che è splendore di amore immolato:

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità;

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini;

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere e agire come figli di Dio, fino a che la terra del loro cuore splenda della presenza del loro Signore;

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono;

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce;

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo se non di perseguire la pace con tutti ottenutaci dal Figlio di Dio;

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che promette.

Con l’invito di una santa nostra contemporanea a purificarci: “Non rimproveriamo il mondo, non rimproveriamo la vita, di velare per noi il volto di Dio. Troviamolo questo volto, ed esso velerà, assorbirà ogni cosa” (Madeleine Delbrêl).

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

(3 novembre 2019)

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Sap 11,22-12,2;  Sal 144;  2 Ts 1,11-2,2;  Lc 19, 1-10

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Nella narrazione di Luca, l’ultimo incontro di Gesù, prima di arrivare a Gerusalemme, è quello con Zaccheo, l’esattore delle tasse di Gerico, piccolo di statura. La gente, che fa ala al passaggio di Gesù, non gli lascia nemmeno un varco per sbirciare tanto che, se vorrà vedere che faccia abbia quel famoso maestro, dovrà correre avanti e salire su un sicomoro, un albero che può diventare molto grande ma i cui primi rami sono poco elevati.  Non poteva certo prevedere l’esito dell’incontro, ma sicuramente il suo cuore era già mosso da un’aspettativa misteriosa, che l’antifona di ingresso interpreta: “Non abbandonarmi, Signore mio Dio, da me non stare lontano; vieni presto in mio aiuto, Signore, mia salvezza” (Sal 37,22-23). Un uomo della sua importanza non poteva certo esporsi al ridicolo per un motivo futile. Gesù, che guarda ai cuori, sente il suo desiderio e gli si fa incontro.

Il racconto gioca appunto sulle attese dei cuori. Tutti, per motivi diversi, non riescono ancora a cogliere Gesù nella sua realtà di Salvatore. Zaccheo però vuole vedere Gesù (motivo, questo, che ricompare diverse volte nei vangeli).  Anche la folla, curiosi e simpatizzanti, vogliono vedere il Maestro ma – i loro pensieri lo rivelano! – non sanno capacitarsi del mistero di Dio che incontra l’uomo.

Quando diciamo nella colletta: “… porta a compimento ogni nostra volontà di bene…” è come se domandassimo: fa’ che il bene che operiamo si risolva nella visione di te. Desiderare il bene non comporta solo il fatto di muoversi a farlo, ma di farlo in modo tale che si riveli al nostro cuore il Volto di Dio. Fare il bene comporta sempre un incontrare il nostro Dio, che vuole la salvezza di tutti. Così, quando Gesù arriva sotto l’albero dove è salito Zaccheo e lo invita a riceverlo nella sua casa, in realtà non è Gesù che va nella casa di Zaccheo, ma Zaccheo che viene nella casa di Gesù. Avviene come per l’Eucaristia: ci avviciniamo all’altare per mangiare il Corpo del Signore, ma in realtà è lui che mangia noi, che ci assimila a sé. La decisione di Zaccheo di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto il maltolto, esprime la gioia di trovarsi ormai nella casa di Gesù, nel mistero cioè di quella fraternità che svela il Volto di Dio agli uomini. Zaccheo si comporta secondo il giudizio di Davide che commenta l’apologo del profeta Natan dopo il suo peccato con Betsabea (cfr. 2Sam 12,6: “Pagherà quattro volte il valore della pecora…”). Secondo la legge bastava restituire il doppio. Con la venuta di Gesù scatta un principio di sovrabbondanza. Si realizza per Zaccheo la preghiera dell’apostolo per i Tessalonicesi: “preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede”. Il bene che così si compie non ha più nulla di esibito, di rivendicatorio, ma procede e si risolve interamente in quella intimità ritrovata con il proprio Dio. La folla invece non è ancora entrata nella casa di Gesù, anche se lo accompagna. Zaccheo, come dice il salmo responsoriale, lascia ormai regnare Dio sulla propria vita.

Se suona vera l’espressione del libro della Sapienza: “tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia”, allora possiamo pregare: di fronte alla visione di Te, tutto è come polvere. Se davvero “Hai compassione di tutti … chiudi gli occhi sui peccati degli uomini”, allora i nostri cuori siano così desiderosi di Te da poterci riferire a tutti in modo da non separarci dal tuo amore, da non guardare al peccato di nessuno per non essere separati dai nostri fratelli, da amare chiunque perché tutti facciano esperienza di quanto sia buono il tuo amore.

Ancora un’annotazione. Gesù dice a Zaccheo: “oggi devo fermarmi a casa tua”. Vuol dire che ogni momento della nostra storia è il momento adatto per farla diventare storia sacra, e lo diventa appena si fa strada nel cuore il desiderio di vedere Gesù. Ma vedere Gesù significa disporsi a scoprirlo come il Salvatore, come Colui che ci porta a vivere nella sua casa, nella comunione con il Padre che vuole i suoi figli con lui. Vuol dire anche che in ogni situazione, in ogni circostanza, in ogni peccato, possiamo percepire nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “scendi subito, perché devo fermarmi a casa tua”. Nulla impedisce al Signore di invitarci nella sua casa e di sciogliere i nostri lacci per vivere finalmente una fraternità che riveli il gusto di aver incontrato il Signore. Scendere allude all’abbandonare le nostre posizioni per recarsi dove ci vuole Gesù e Gesù vuole portarci in casa nostra.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(10 novembre 2019)

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2 Mac 7, 1-2. 9-14;  Sal 16;  2Ts 2,16-3,5;  Lc 20, 27-38

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Gesù è entrato trionfalmente in Gerusalemme, ha mostrato tutta la sua autorità messianica nello scacciare i venditori dal tempio, si è inimicato la leadership religiosa e politica del tempo con la parabola dei vignaioli omicidi. Con la decisione di mettergli le mani addosso, senza però ancora riuscirci, si cercano pretesti e si tendono trappole al Maestro per coglierlo in fallo. Con la discussione sulla risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei capi con Gesù. Non si faranno più domande al Maestro; l’incomprensione è totale e ci sarà posto solo per la cattura ormai prossima. Con la differenza che, mentre i capi si chiudono nell’accusa, la gente resta stupita dalla forza dell’insegnamento di Gesù.

Nella risposta ai Sadducei, nei passi paralleli di Matteo e Marco, Gesù li apostrofa come coloro che non conoscono le Scritture né conoscono la potenza di Dio. Cita l’evento del roveto ardente, narrato in Esodo 3, dove Dio rivela il suo nome, nome che rimanda alla compassione per il suo popolo di cui conosce le sofferenze e che vuole scendere a liberare. Il nome di Dio non rinvia mai semplicemente all’essere di Dio, ma al suo ‘essere per noi’. Tanto che Dio è sempre ‘Dio di’: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe.

La tradizione ebraica ha commentato in mille modi la singolarità di questa rivelazione. Dicendo che Dio è Dio di Abramo non si vuole sottolineare che è il Dio che Abramo ha adorato e servito, ma il Dio che ha chiamato, custodito e salvato Abramo. L’alleanza con i Patriarchi non sarà mai dimenticata e quando in ogni generazione i figli di Israele ricordano e gridano a Dio come al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, Dio risponderà loro. Dio si definisce come Colui la cui esistenza è al loro servizio tutte le volte che lo cercano. Esperienza così fondante per il cuore dell’uomo che Origene così illustra nel suo commento al libro di Giosuè: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro” (Omelia XVIII,3). In quel mio possiamo ravvisare tutto il coinvolgimento emotivo della professione di fede di Tommaso davanti al Signore Gesù Risorto. Possiamo ravvisare tutta l’intimità di Gesù con il Padre di cui svela l’immenso amore per noi. In effetti, con la venuta di Gesù e con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella confessione di fede il Vivente, ma ha reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione.

Il canto al vangelo lo sottolinea molto bene: “Gesù Cristo è il primogenito dei morti: a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli” ripreso da Ap 1,5.6: “…Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti...”. Dio è Dio dei vivi e Gesù, il Vivente, ne dà la certificazione più assoluta. Chiamare Gesù testimone significa alludere al fatto che lui conosce e svela il disegno di Dio nella sua grandezza di amore per l’uomo e chiamarlo fedele significa fondare l’esistenza su quell’amore/compassione che ha presieduto alla creazione, che regge il mondo e accompagna la storia perché tenda alla partecipazione della sua gloria, che è splendore di amore per noi, tutte verità che in Gesù si fanno toccabili e vivibili per il nostro cuore. In questo senso è potente la dichiarazione di Paolo ai Tessalonicesi: “Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno” (2Ts 3,3). Ci mantiene nella fiducia dell’amore del Padre che ci ha fatto conoscere nel suo amore per noi facendoci vivere, uniti a lui, nella vita che scaturisce da quell’amore. Essere custoditi dal Maligno significa non essere sottratti alla fiducia in e di quell’amore.

La risposta di Gesù ai Sadducei non riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno. Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che lo accolgono figli della risurrezione. D’altra parte, chi non accetterà il patire del Figlio dell’uomo, nemmeno accetterà la realtà della risurrezione. In gioco è la potenza della fede che non tollera la prospettiva mondana nel mistero di Dio. Il caso prospettato dai sadducei dei vari mariti e dell’unica moglie nel regno di Dio nasconde l’incapacità di comprensione del dono di Dio. Ogni proiezione mondana impedisce l’accoglienza del dono di Dio. Vale per la risurrezione come per ogni altra verità del mistero di Dio che in Gesù si rivela.

Per declinare in modo a noi accessibile la realtà della definizione di Gesù dei beati come figli della risurrezione, potremmo collegarla alla beatitudine: “beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli di Dio. Allora i figli della risurrezione sono gli operatori di pace: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo: ‘Dio ha perdonato a voi in Cristo’, espressione che secondo il verbo greco dovrebbe essere resa con ‘Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo’. Un’esperienza profonda del suo perdono, di questo suo far grazia di sé a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo amore, in fraternità. Questa è proprio l’opera del suo Spirito, quello che sulla croce Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. Lo stesso Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l’azione dello Spirito e l’unica perfezione desiderabile per l’uomo è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(17 novembre 2019)

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Ml 3, 19-20;  Sal 97;  2Ts 3, 7-12;  Lc 21, 5-19

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La passione di Gesù è imminente, passione che Luca inizia a raccontare con il capitolo 22. Le parole del brano di oggi fanno parte dell’ultimo discorso di Gesù, quello sulla fine. In una visione volutamente complessa, secondo lo stile apocalittico della tradizione ebraica, si intersecano annunci di eventi storici drammatici, come la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme (probabilmente Luca ha conosciuto la tragedia del 70 d.C. con l’assedio e la presa di Gerusalemme da parte dei romani) insieme ad allusioni catastrofiche riguardo alla fine della storia e del mondo, inserite però in un contesto di senso preciso: il dramma della storia fino alla sua fine si gioca per la testimonianza (“Avrete allora occasione di dare testimonianza”). Comprendere di che testimonianza si tratta significa trovare il senso della nostra vita di discepoli di Gesù.

L’aspetto singolare del brano deriva dal contrasto tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura” (Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.

Gesù mette in guardia contro il pericolo di seduzione sempre in agguato: “Badate di non lasciarvi ingannare”. Il riferimento è ai drammi e ai rivolgimenti che segneranno la storia. In che cosa si può essere ingannati? In almeno due cose. La prima, è di interpretare la situazione come il segnale della venuta imminente del regno di Dio che ristabilirà la giustizia premiando i buoni e castigando i cattivi. La seconda, è di cedere allo sconforto e alla disperazione per l’abbandono di Dio.

Il senso del brano evangelico è un’introduzione al mistero della fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da una sapienza ricercata e che si gioca in una vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia. La storia è piena di tormenti, i tormenti però non sono per la morte, ma perché si svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima lettura, tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da cerniera con i vangeli. L’invio del profeta Elia, con il quale si chiude il libro di Malachia, apre sulla comparsa di Giovanni Battista come il precursore del Messia.

Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria della parola del Signore, tanto che si realizza la promessa di Dio: ‘Essi diverranno la mia proprietà’ (Mal 3,17). È un’espressione tipica per definire l’elezione del popolo di Israele, da intendersi: finalmente potranno gustare l’alleanza di Dio in tutta intimità e riposo. Tale profezia i vangeli mostrano realizzata in Gesù, per cui la conversione a lui introduce negli eventi della fine, intendendo: in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo. E stando in lui (“Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” Gv 15,9-11) ci si accorgerà di quello che significa essere ‘proprietà’ di Dio, secondo la definizione del profeta Malachia.

Allora il segreto da condividere non è che quell’immenso amore svelato nel Cristo che nulla e nessuno potrà rapire. Lo scenario delineato, l’unico possibile rispetto alla potenza dell’amore che dal Cristo deriva e che diventa la nostra ragione di vita finché tutto e tutti possano goderlo, non resta che quello del martirio, cioè della testimonianza. Fatto, che anche le cronache quotidiane di questi ultimi anni ci rammentano con evidenza a proposito dei nostri fratelli di fede in certe parti del mondo. D’altra parte, il dire ‘finché tutto e tutti possano goderlo’ significa accettare ogni forma di avversità e tormento nell’ottica di vivere la potenza di quell’amore comunque. Significa vivere quell’amore fino alla fine, vale a dire fino a che il segreto che comporta si sveli in tutta la sua potenza, per me come per tutti.

È chiaro allora che la perseveranza a cui Gesù ci invita (“Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”) non allude a uno sforzo di tenacia ma a una verità di esperienza: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), le parole conclusive del vangelo. Perseveranza, che in greco comporta la sfumatura della pazienza nel tempo, va coniugata con Presenza. In effetti, ciò che colpisce nel brano odierno non sono le predizioni dei tormenti, ma la fiducia che ci deriva dall’attraversarli in compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio, il Figlio di Dio, nato-morto-risorto per noi, come sottolinea all’evidenza l’espressione paradossale: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

In gioco, nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. La perseveranza ha a che fare con questa tensione dell’amore, che non è semplicemente la durata nel tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove. Così, perseveranza o pazienza hanno sempre a che vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto a noi, nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci impedisce di intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione all’umanità. Se nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto, non è per invitarci alla speranza, vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di noi, nella sua passione e morte.

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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo Ordinario

XXXIV Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

(24 novembre 2019)

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2 Sam 5, 1-3;  Sal 121;  Col 1, 12-20;  Lc 23, 35-43

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L’immagine di Cristo re a partire dalla croce non può che essere un’immagine di rivelazione. L’uomo non avrebbe mai potuto escogitare un’immagine del genere! E questo testimonia quanto i pensieri degli uomini siano distanti da quelli di Dio. A ben guardare, molti particolari del racconto della crocifissione richiamano il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero messianico. Quella che allora veniva letta come tensione drammatica, qui diventa concretezza drammatica. Se là emergeva la verità del cuore di Gesù rispetto alle insinuazioni del diavolo, qui viene proclamata la verità della sua vita rispetto all’amore del Padre per i suoi figli. Le parole del diavolo sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Gli uomini scherniscono, ma veramente Gesù non può salvare se stesso, non può dimostrare nulla e non viene liberato dalla morte. Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporta la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi rispetto alle insinuazioni del maligno.

Nel prefazio di questa festa la Chiesa canta: “Egli, sacrificando se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”. La cosa singolare è che l’assoggettamento di tutte le cose da parte di Gesù avviene proprio nel suo stare sottomesso alla potenza del male senza venir meno alla confidenza nel Padre e all’amore per i suoi figli, per i quali è stato inviato. Così la scritta sulla croce “costui è il re dei Giudei” è interpretata dalle generazioni cristiane: ‘Costui è il re della gloria’, la gloria dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo. Gloria che l’apostolo Paolo descrive nella sua lettera ai Colossesi: “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Col 1,19-20).

Nel brano di oggi, al centro, ci sono i due malfattori, l’empio e il pio, che riassumono le due possibili visioni: l’empio si accoda, rivendicando, alla visione di scherno dei capi e dei soldati; il pio invece sa scorgere il mistero e si abbandona fiducioso. Cosa ha visto quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come colui che in paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, da indurlo a pregare quel condannato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”? Segnalo intanto che questa è l’unica volta in tutto il Nuovo Testamento che uno si rivolge a Gesù con il suo solo nome, a indicare la comunanza di destino e la confidenza totale. Il fatto è che, di fronte a quell’uomo ingiustamente condannato, eppur così mite, vede la propria storia rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino, accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Parla senza alcuna pretesa, non chiede di essere liberato dalla sua condanna, semplicemente si affida: ricordati! Leggo il grido dell’umanità sofferente, che parla da dentro la coscienza della propria colpevolezza, ma capace ancora di affidarsi e di invocare: ricordati di me! La voce di quest’uomo che si rivolge a Gesù corrisponde alla voce di Gesù che si rivolge al Padre: nelle tue mani consegno il mio spirito. E tutti e due sono accumunati dalla stessa verità: oggi con me sarai nel paradiso. Oggi, a partire da questa croce, senza recriminazioni di sorta, possiamo godere la gioia, misteriosa, di essere con il Signore della gloria. È la scoperta di tutta una vita, l’essenza della fede, la possibilità di salvezza a portata di mano, al di là di ogni pretesa e rivendicazione.

Con la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore, proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne faccia la radice della sua vita e del suo tormento.

L’immagine del buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero di Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente quella che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto da farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo. Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo, ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella prospettiva alta della felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia dell’amore.

Secondo le letture della liturgia della festa odierna, il regno che il Signore ci acquista e che costituisce la nostra eredità (si veda la parabola del giudizio finale di Mt 25, dove il re proclamerà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo...”) è presentato in tre immagini:

  1. a) come un’alleanza, che il popolo riconosce nella decisione di Dio di pascere il suo popolo (2Sam 5,2) e che si realizzerà nella carità svelata dal Figlio morto e risorto;
  2. b) come splendore di riconciliazione che Gesù ci ottiene sulla croce, quando ci mette nella condizione di partecipare alla santità di Dio che è amore per gli uomini. È la carità di Dio, per noi, che si traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia e che parla della pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro cuore diventa cielo dove Dio è adorato, goduto, condiviso in fraternità;
  3. c) come comunione con lui, oltre ogni rivendicazione, sopraffatti dalla sua compassione: “In verità ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Nella nostra umanità, tribolata e pacificata, il Signore ci permette di godere della comunione con lui. È l’unico passo nei vangeli dove compare il termine paradiso.

Ogni proclamazione di regalità che non partisse dalla croce non potrebbe convincere i cuori perché non renderebbe ragione dell’immensità dell’amore di Dio per l’uomo. Non per nulla il tono con il quale i capi, i soldati e il malfattore empio, si rivolgono a Gesù sa di scherno, è crudele: non possono concepire altra regalità se non nel registro della potenza. Il tono invece del malfattore pio è mite, esprime tenerezza e sa riconoscere il mistero di quella regalità così mal compresa. Ma è appunto un re del genere che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e che serve.