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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Avvento

I Domenica

(3 dicembre 2017)

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Is 63,16b-17.19b; 64,2-7;  Sal 79;  1 Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

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L’anno liturgico comincia come finisce, inscrivendo il tempo della nostra storia nell’attesa della venuta del Signore: la venuta del Cristo alla fine dei tempi come giudice glorioso, la venuta nella carne del Figlio di Dio fatto uomo a Betlemme e la venuta mistica del Signore nel cuore di ciascuno che l’accoglie. L’invito costante è alla vigilanza.

Vigilanza per che cosa? Sia il capitolo di Mt 25 che ha concluso l’anno liturgico, con le tre parabole delle dieci vergini, dei talenti e del giudizio finale che l’odierno passo di Mc 13 introducono al racconto della passione del figlio dell’uomo. Come a dire: lo sguardo sia puntato su quel figlio, morto e risorto per noi, sul quale giocare il nostro desiderio, la nostra responsabilità e il segreto della vita.

Secondo il profeta Isaia, la vigilanza scongiura la situazione così descritta: “Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue viee lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? … Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è mai stato invocato … Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balia della nostra iniquità” (Is 63,17.19; 64,6). Per arrivare a stabilirsi nella situazione che descrive Paolo scrivendo alla comunità di Corinto: “voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,7). Il passaggio dall’una all’altra situazione è assicurato dalla sincerità del grido: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19).

La liturgia di avvento porta inscritto questo grido, perché sa che l’uomo può essere salvato solo dal suo Dio. L’invito alla vigilanza vuole indirizzare gli sguardi all’amore di Dio per i suoi figli che viene a salvare facendosi bambino, uno di noi, perché noi torniamo a essere di Dio. Scenda allora a noi come ha fatto con Mosè liberando il popolo dalla schiavitù dell’Egitto, come ha fatto con Ciro permettendo al popolo di tornare da Babilonia a Gerusalemme, come ha fatto con la Vergine nascendo come suo figlio, come ha fatto con gli apostoli aprendo il loro cuore al suo mistero! Il primo movimento della vigilanza è appunto la coscienza della lontananza. Il servo addormentato della parabola evangelica è colui che non si risveglia per stringersi al suo Signore, è colui che resta in balìa della sua iniquità e perciò non potrà più riconoscere la benevolenza del suo padrone che viene a lui. La vigilanza scongiura tale esito.

La preghiera della chiesa nell’avvento si fa insistente perché il Signore Gesù finalmente si manifesti ed è per questo che risuona l’invito alla vigilanza, che è l’attenzione del cuore al Suo mistero. Il ritornello, costante, della preghiera in questo periodo è dato da due versetti presi dal Salmo 79: “risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (v. 3); “o Dio, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (v. 4, 8, 20). Perché si arrivi a godere di quello che lo stesso salmo proclama: “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome” (v.19).

Ora, attendere la manifestazione del Signore non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. San Paolo, dicendo che una comunità credente ‘aspetta la manifestazione del Signore’, come lo stesso verbo greco indica, allude all’atteggiamento del cuore che vive ogni tempo e ogni circostanza in funzione dell’incontro con il Signore Gesù, percepito nella grazia della sua presenza. D’altra parte, chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nel concreto della nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.

Ma c’è ancora dell’altro. Se leggiamo il passo parallelo di Lc 12,37, veniamo a sapere come si manifesterà il Signore: “si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. L’accudire ai fratelli non è soltanto agire bene, ma partecipare al servizio divino dell’umanità. Come a dire: quando accogli il tuo fratello perché guardi al tuo Signore, il tuo cuore godrà dall’essere accudito dal suo Signore e non potrà non condividere con lui l’ansia di arrivare a tutti perché lo splendore della sua presenza prevalga comunque.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2017)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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È una delle tre solennità mariane nell’attuale calendario liturgico romano, insieme a quella di Maria santissima Madre di Dio il primo gennaio e dell’Assunta il 15 agosto. La solennità è fissata all’8 dicembre in riferimento alla Natività di Maria all’8 settembre. I testi liturgici sono in gran parte gli stessi del 1863, composti in seguito alla definizione dogmatica di Pio IX nel 1854.

Nell’ultimo canto del Paradiso di Dante, la Vergine Maria è presentata nello splendore del suo mistero che si riassume nel verso: “Li occhi da Dio diletti e venerati”. Sì, anche Dio è rapito dallo splendore della sua creatura, sulla quale non ha mai avuto presa neppure la più piccola ombra di peccato. Tanto che la benedizione, che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini, ha così ricoperto e intriso la Tutta Santa nella sua concretezza da prendere addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla di prezioso da desiderare. La tradizione venera la Vergine come “la madre del creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”. Se anche noi, come Dante, desideriamo vedere il volto del nostro Dio in verità, allora la sua preghiera è così preziosa: “perché tu ogne nube li dislieghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi”.

La lode che prorompe dalla Vergine e che l’antifona di ingresso riprende come compimento della profezia di Isaia: “Esulto e gioisco nel Signore; l’anima mia si allieta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come una sposa adornata di gioielli” (Is 61,10), è la lode compiuta e assoluta che l’umanità può sperare di coltivare. Lode e benedizione che i fedeli riprendono con la preghiera dell’Ave Maria, preghiera che è entrata nell’uso così come la conosciamo, con la sua adozione da parte dell’ordine dei Mercedari nel 1514. Lei è la ‘benedetta’ perché porta il ‘Benedetto’, salutato dalla folla degli ebrei nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme con la proclamazione: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Mc 11,9).

La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi; con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi. L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio la cui luce tutto attraversa e struttura. L’evento dell’incarnazione del Verbo, che costituisce il mistero per eccellenza della storia, ha le sue radici non solo nell’intimità più segreta della Trinità, ma anche nel cuore di questa nostra sorella, la Vergine Maria: “Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore”.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire. Così, il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Avvento

II Domenica

(10 dicembre 2017)

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 84;  2 Pt 3,8-14;  Mc 1,1-8

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La vigilanza, di cui ci era stato fatto comando domenica scorsa, oggi si fa intuito di speranza e di gioia prossima, con due testimoni singolari: il profeta Isaia e Giovanni Battista. Non lasciamoci impressionare dalla severità della predicazione del Battista, che annuncia un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, perché la sua parola ci riporta l’eco del grido del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo”. Tutte le letture profetiche della prima settimana di avvento ci riportano lì. Nella settimana abbiamo supplicato: “Vieni, Signore, a visitarci con la tua pace: la tua presenza ci riempirà di gioia”; “ridesta la tua potenza e vieni, Signore”. Lo stesso salmo responsoriale di oggi, il salmo 84, può essere definito come il canto della pace portata dal natale di Gesù. Ma occorre che la grazia di quel natale parli al nostro cuore; occorre che il nostro cuore si senta toccato dal mistero che quel natale costituisce per il mondo, proprio come l’antica versione greca proclama: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio, perché proclamerà la pace sul suo popolo e sui suoi santi e su quelli che convertono a lui il loro cuore” (LXX). Appunto perché il nostro cuore si apra a quella ‘grazia di pace’ il grido del Battista percuote i nostri orecchi: “Preparate la via del Signore …”.

Quella ‘grazia di pace’ costituisce l’annuncio gioioso che è il Vangelo di Gesù, come Marco proclama all’inizio del suo racconto. Ed è interessante osservare che la citazione profetica di Marco all’inizio del suo vangelo è una composizione di passi di Malachia e Isaia. Il libro di Malachia è il libro che chiude l’Antico Testamento per il canone cristiano. Riprendendo Malachia, Marco sottolinea come Gesù sia il compimento di tutte le Scritture che a lui conducono e, riprendendolo insieme a Isaia, manifesta come Gesù sia il supremo desiderio di Dio per l’uomo, desiderio che attraversa tutte le Scritture. Nelle parole di Malachia 3,1 (“Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via”) si allude a Giovanni Battista, mentre in quelle di Isaia 40,5 (“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno”) si allude al Messia, a Gesù, che il Battista proclama: “Viene dopo di me colui che è più forte di me…”.

Il desiderio di Dio, quando è percepito, accende il desiderio dell’uomo e l’uomo, dalla sua condizione di afflizione nella schiavitù e nell’oppressione, guarda a Dio come al suo liberatore, che già vede venire in suo soccorso: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio” (Is 40,10). Ma di quale ‘potenza’ si fa forte Dio per l’uomo? Noi contempleremo il nostro Dio farsi bambino, povero e indifeso; lo vedremo condannato alla morte di croce, come esautorato di tutta la sua potenza. Dov’è allora la ‘gloria del suo nome’ per cui la colletta ci fa pregare: “O Dio, Padre di ogni consolazione … parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in purezza di fede e santità di vita possa camminare verso il giorno in cui manifesterai pienamente la gloria del tuo nome”?

Con il salmo 84 la liturgia canta l’incontro del desiderio di Dio con il desiderio dell’uomo: “amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Tutto ciò che Dio ha voluto per l’uomo, nel suo amore di sempre per i suoi figli, l’uomo lo potrà ormai godere stabilmente perché “colei [Elisabetta] che portava il giusto, Giovanni Battista, ha baciato colei [Maria] che portava la pace, Gesù”. E la visione messianica del salmo si può interpretare come la manifestazione della gloria del nome di Dio al cuore dell’uomo che il Battista rivela essere il compito specifico del Messia. Come a dire: se l’uomo riconosce in verità il suo peccato, troverà la misericordia di Dio. Il riconoscimento del peccato porta all’esperienza della bontà di Dio. E se l’esperienza è autentica, allora, la riconciliazione ottenuta non potrà che essere condivisa con tutti, non potrà che diventare l’unica giustizia degna del cuore dell’uomo. Da un cuore riconciliato e fonte di riconciliazione risplenderà la grazia del Salvatore, che lì ha preso dimora. L’azione di Dio che si compie in me, non è destinata a me, ma al mondo; l’azione di Dio che si compie nel mondo, non è destinata al mondo in generale, ma a me. Perché, tutti insieme, possiamo vedere lo splendore dell’amore del Signore. E non esiste altra possibilità concreta per l’uomo di vedere risplendere l’amore del Signore se non nella tensione che quell’amore sia condiviso da tutti e da ciascuno.

Proprio in rapporto alla manifestazione di quello splendore di amore possiamo interpretare il paragone che il Battista stabilisce tra lui e Gesù: “E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali»”. Gesù è descritto dal Battista come il più forte perché, mentre il suo battesimo di acqua è solo un segno in previsione di qualcosa che verrà, il battesimo di Gesù sarà nel fuoco. Il segno allude al pentimento del cuore, la realtà allude al perdono ricevuto, perdono che Gesù è il solo a poter dare. La sua ‘forza’ allude alla sua potenza divina perché il perdono sarà un battesimo nello Spirito Santo, Spirito che riempie Gesù e che lo porterà a morire sulla croce perché gli uomini conoscano lo splendore dell’amore di Dio per loro. Interessante il paragone che il Battista fa: non sono degno di slacciare i suoi sandali. Non è una immagine di umiltà, ma l’affermazione di una verità dal sapore nuziale. Per capirci qualcosa basta leggere il cap. 4 del libro di Ruth, dove si fa riferimento all’antico diritto di riscatto con il togliersi il sandalo e darlo al pretendente. Nessuno poteva sposare una donna se qualcun altro aveva un diritto su di lei. Perché il pretendente potesse sposarla, il primo doveva rinunciare al suo diritto pubblicamente con il togliersi il sandalo e consegnarlo. Il Battista è come se dicesse: io non sono il Messia, io non posso occupare un posto che non è mio diritto occupare; voi credete che io sia il messia, ma non lo sono; un altro lo è e a costui va lasciato tutto il diritto. Questo diritto è un diritto nuziale, nel senso che il Messia è lo Sposo e solo lui può avere la Sposa, l’Israele di Dio. A tale realtà alludono le parole del Battista.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Avvento

III Domenica

(17 dicembre 2017)

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Is 61,1-2.10-11;  Salmo da Lc 1,46-54;  1 Ts 5,16-24;  Gv 1,6-8.19-28

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La stessa espressione di Giovanni Battista riportata nel vangelo di Marco, la ritroviamo anche in Giovanni: “Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo” (Gv 1,26-27). È singolare che l’evangelista Giovanni introduca la testimonianza del Battista a proposito di Gesù subito dopo aver scritto: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. Questa è la testimonianza di Giovanni …” (Gv 1,18-19). La testimonianza di Giovanni non riguarda solo l’indicazione della persona del Messia ma il fatto che il Messia sia colui che fa conoscere il Padre, sia colui che è lo Sposo di Israele. A tutti dice: io non ho diritto alla Sposa, la Sposa è sua! A questo allude l’immagine di sciogliere il laccio del sandalo.

E un’altra particolarità del vangelo di Giovanni è da notare. Giovanni nomina le persone unicamente in rapporto a Gesù: la madre di Gesù, il discepolo che Gesù amava … Così per il Battista: lui è la voce, che prepara gli uomini alla venuta del Cristo. Questo perché nel vangelo di Giovanni il Cristo è presentato come la Luce, Luce che illumina, che riscalda, che avvolge, che dilata, che fa vivere. Se nella colletta preghiamo: “donaci un cuore puro e generoso”, intendiamo: dacci un cuore che sappia accogliere in tutto il suo splendore la Luce che è il Cristo e che di lui viva.

Alla testimonianza del Battista fa riscontro quella del profeta Isaia: “Lo spirito del Signore Dio è su di me” (Is 61,1). È l’espressione che nel vangelo di Luca Gesù si applica all’inizio della sua predicazione. Proclamarla nel periodo dell’Avvento significa orientare gli sguardi a cogliere il senso della venuta del Messia. Perché il Messia è pieno dello Spirito del Signore? Perché toccherà a lui svelare il volto del Padre, che è compassione per noi. In effetti, il profeta specifica cosa lo Spirito faccia fare al Messia: portare l’annuncio di gioia ai miseri, fasciare le piaghe ai cuori spezzati, dare la libertà a coloro che vivono nella costrizione del dominio del più forte, liberare i prigionieri e farli uscire alla luce, aprire loro la grazia di un tempo nuovo. In questo l’umanità riconosce Colui che la sposa, Colui che la porta alle nozze di un’esistenza liberata e rinnovata nell’amore.

Possiamo vedere gli effetti di questa liberazione goduta in ciò che Paolo scrive ai Tessalonicesi: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,16-18). Da intendere: questo è ciò che opera il Signore Gesù nei vostri cuori, se voi l’accogliete. L’invito segue l’esortazione a vivere in pace e a perseguire sempre il bene senza mai cedere al male. In greco la frase fa cadere l’accento non sul contenuto, ma sul tempo: ‘sempre, siate lieti; ininterrottamente, pregate; in ogni cosa, rendete grazie’. Noi potremmo intendere in questo modo: come dobbiamo essere sempre? Lieti. Cosa dobbiamo fare senza interruzione? Pregare. Cosa non dobbiamo tralasciare mai? Rendere grazie. Sono le tre caratteristiche di un agire libero e generoso: gioiosi, oranti, grati. Non si tratta però di qualità da perseguire per se stesse perché desiderabili, ma di condizioni essenziali che permettono di vivere dello spirito del Messia, cioè quello, come dicevo sopra, di portare l’annuncio di gioia ai miseri, fasciare le piaghe ai cuori spezzati, ecc. Chi ha percepito l’amore di benevolenza di Dio sul mondo, di cui Gesù è il testimone e il rivelatore, può vivere nella letizia (non è più corroso dalla tristezza, nonostante le ragioni più che plausibili che la alimentano), diventa capace di accogliere il suo Dio nella preghiera (non resta più chiuso all’avventura con il suo Dio) e non ha più bisogno di rivendicare nulla perché rende grazie in ogni cosa. Il legame tra queste tre cose è tanto forte che ognuna, praticata in sincerità, fa ottenere anche le altre due: chi vuole rendere grazie in ogni cosa si ritroverà presto guarito e liberato da ogni forma di pretesa e potrà godere dell’intimità che sogna e della gioia a cui anela. Chi prega in sincerità ritroverà la libertà interiore per stare lieto e vivere la vita in eucaristia, in rendimento di grazie. Ma la letizia che fa vivere è quella che germoglia, come dice il profeta Isaia, dall’incontro con colui che scopro essere il mio Salvatore, col quale attraversare dolori e fatiche della vita.

Colui sul quale è lo Spirito del Signore, che sta in mezzo a noi, non è però conosciuto. Ha bisogno di testimoni che lo segnalino. Giovanni Battista è uno di questi, il più grande. La sua risposta alla domanda che gli viene rivolta: “Tu chi sei?” rivela come si percepisce: sono soltanto uno che addita qualcun altro e sono in quanto addito, perché questa è la volontà del Signore su di me. Tutta la mia vita sta racchiusa in questo riferirmi a Colui che deve venire, che è già qui e che vi addito come l’Inviato da seguire. Lui vi mostrerà quel regno che io ho solo intravisto e atteso.

Sul finire della vita, la stessa domanda è lui a rivolgerla a Colui che aveva additato: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. La domanda del Battista svela come non sia mai conclusa la rinuncia alle nostre immaginazioni sul Regno per aprirsi alla venuta di quel Regno in verità, come a Dio è piaciuto manifestarlo. Il regno mostrato da Gesù è davvero il compimento delle attese dei cuori e, proprio per la sua semplicità, inspiegabilmente diverso da come i cuori si immaginano che debba essere. Con Gesù finisce questo faticoso riferirsi a qualcosa come dovrebbe essere per aprirsi a quello che è: amore, pieno di compassione per noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(24 dicembre 2017)

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2 Sam 7,1-5.8b-12.14a.16;  Sal 88;  Rm 16,25-27;  Lc 1,26-38

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La liturgia ci aveva accompagnati finora con la testimonianza dei profeti, di Giovanni Battista, di Giuseppe e ora, nell’imminenza del Natale di Gesù, riporta la testimonianza di Maria, la Vergine Madre, alla quale è inviato l’angelo Gabriele. Nella proclamazione del vangelo di oggi si incomincia con l’espressione usuale ‘in quel tempo’, ma si tratta di un tempo ben specificato: ‘al sesto mese’. La venuta di Gesù si situa in una serie di interventi del Signore nella storia del suo popolo, di cui l’ultimo ad essere ricordato è il concepimento di Giovanni Battista, colui che preparerà la strada a Gesù, colui che avrà il compito di additarlo presente nel mondo e di far convergere su di lui tutti gli sguardi. È il ‘segno’ che l’angelo presenta a Maria per confermarla nella fede, segno che è letto nell’ottica della potenza di salvezza del Signore perché a lui nulla è impossibile. Si tratta semplicemente di un segno, non di una prova o di una garanzia, ma al cuore credente della Vergine è più che sufficiente per proclamare tutta la sua disponibilità al desiderio di Dio: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.

La Vergine è colei che, con le parole del salmo 88, può proclamare in verità: “Canterò per sempre l’amore del Signore”, versetto che nell’ebraico, nel greco e nel latino suona più precisamente: “Le tue misericordie, Signore, canterò in eterno”. Sì, perché l’amore del Signore non è mai presentato nelle Scritture come un ‘sentimento’ ma come una ‘azione’, un’azione che svela il sentimento, azione che si traduce per l’uomo, che è peccatore e smarrito, nelle azioni di misericordia e di perdono. Tanto che il salmo, proseguendo nella lode delle misericordie del Signore, dirà che, se pure il Signore flagella la nostra iniquità, lo fa nell’assicurazione più certa: “Ma non annullerò il mio amore e alla mia fedeltà non verrò mai meno. Non profanerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa” (Sal 88/89,34-35). Ecco, l’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria e la disponibilità di Maria al desiderio di Dio sono la riprova più evidente della fedeltà di Dio al suo amore per l’uomo, amore che è fonte di gioia. In effetti, l’annuncio è di letizia, la risposta è di disponibilità piena a quella letizia.

Sembra che l’evangelista Luca intenda presentare Maria come l’arca dell’alleanza del tempio di Sion, sede della presenza del Signore in mezzo al suo popolo. Per questo l’angelo evoca l’ombra della nube che copriva il tempio, come aveva coperto la tenda del convegno nel deserto (cfr. Es 33,7-11). Dalle parole dell’angelo possiamo cogliere due aspetti del mistero che veniva annunciando. Il saluto “rallègrati” si ricollega alle profezie per la Vergine di Sion, che poteva vedere lo scendere in campo del suo Re e Salvatore contro i suoi nemici (Sof 3,14), consolando il suo popolo (Is 49,13), mostrando le cose grandi che il Signore operava per il suo popolo (Gioele 2,21) e venendo ad abitare in mezzo al suo popolo (Zac 2,14). Lei, la Vergine Maria, diventava la letizia del suo popolo perché il Signore veniva a prendere dimora e contemporaneamente, sempre secondo le profezie, la letizia di tutti i popoli perché il Signore aveva deciso di estendere a tutti la sua salvezza.

Per questo lei riceve il ‘nome nuovo’, quello che esprime tutta l’iniziativa d’amore di Dio per il suo popolo e per tutte le genti: “piena di grazia”, “ricolmata di ogni grazia”. Non soltanto lei esprimeva tutta la grazia di amore e misericordia che Dio le aveva riservato perché potesse farsi uno di noi, ma con lei il tempo è colmato di grazia, della grazia della dimora di Dio in mezzo ai suoi figli. Quel ‘nome nuovo’ è ciò che costituisce la firma di garanzia dell’amore di Dio per noi, quell’amore che Gesù poi, con la sua vita e il suo insegnamento, con la sua morte e risurrezione, manifesterà in tutto il suo splendore.

In questo si compie la profezia davidica, come leggiamo nella prima lettura: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa”. E che il salmo responsoriale 88/89 riprende con la sottolineatura della fedeltà perenne di Dio a questa sua volontà di bene per noi: “È un amore edificato per sempre … gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele”. Con la ‘dimora di Dio’ nel seno della Vergine, nostra sorella, quella volontà di bene di Dio suona assoluta, radicale, totale: dall’umanità Dio non potrà più togliersi o essere tolto. E siccome questa volontà di bene è fonte di letizia per l’uomo, quando l’uomo cercherà la letizia al di fuori di questa volontà di bene resterà sulla sua fame.

Forse la nostra indisponibilità ad accogliere la potenza rinnovatrice di tale letizia deriva dal fatto che non abbiamo coscienza di ciò che comporta una tale rivelazione, ci siamo stancati di attenderla. Paolo, nella sua lettera ai Romani, lo fa ben capire quando dice che questo mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, viene “ora manifestato mediante le scritture dei Profeti”. Se mai abbiamo indagato le scritture dei profeti o le profondità dei nostri cuori, come possiamo non commuoverci a quell’ ‘ora’ nella quale viene manifestato? Sarà il senso dell’adorazione davanti al bambino di Betlemme che domani contempleremo con le braccia aperte in attesa di tutti noi (tutte le statue del Bambino Gesù nel presepe rappresentano un bambino con le braccia aperte!).

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2017)

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Messa vespertina della vigilia:          Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                             Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                           Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                             Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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Il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore considerando lo sviluppo della liturgia nei suoi quattro formulari delle Messe. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva. Se teniamo presenti i brani evangelici possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno).

Il Bambino, contemplato nella mangiatoia, compie finalmente le promesse di Dio. La genealogia di Matteo, all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, il Messia annunciato della discendenza di Davide, risale ad Abramo, con cui inizia la storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie le promesse. Leggendo però la genealogia nel vangelo di Luca, posta dopo il battesimo di Gesù al Giordano, quando il cielo si apre e si ode la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato …”, allora il significato muta. Il Bambino è Colui sul quale il Padre dice: “Questi è il mio Figlio amatissimo, in lui mi sono compiaciuto, in lui riposa il mio amore e in lui mi riposo”. In effetti il cielo si apre su di lui e passa per lui (Gesù dirà: ‘io sono la porta…’) in modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e la sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità.

Con il prologo di Giovanni si afferma la stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire da Dio e dal Figlio, per mezzo del quale tutto è stato creato, avvalorata ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Di lui dice Giovanni: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria”.

Quando nella notte si celebra l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano, con lo sguardo affinato dalla vigilanza dell’avvento, anche se per noi risulta sempre difficile cogliere la immensa sproporzione tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Compaiono gli angeli, il Bambino è riconosciuto e adorato, echeggiano canti celesti, ma la povertà è totale, il rifiuto incombente, la persecuzione nell’aria, nessuno si appressa se non i pastori, gli ultimi della società. I pittori di icone della Natività lo hanno mostrato assai bene: la greppia assomiglia alla tomba, le fasce del bambino assomigliano alle fasce mortuarie. E poi, non ci sono luci e angeli attorno alla greppia o alla grotta; questi appaiono ai pastori che vegliano le loro greggi, annunciano il loro messaggio e spariscono. Alla grotta, davanti al Bambino, vale solo il racconto dei pastori, e come loro hanno creduto all’annuncio celeste, così gli altri credono alla loro semplice testimonianza.

Mi piace sottolineare che nei racconti natalizi non si riporta nessuna parola della Madre di Gesù. Si descrivono i gesti di tenerezza, nella povertà della situazione (“lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”) e la sua disposizione adorante (“custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”). La sua parola era già stata riferita: “Ecco, la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. La sua vita è stata puro spazio perché il desiderio di Dio di dimorare con noi si compisse in tutto il suo mistero. Nelle icone natalizie, la Madre non guarda il suo bambino, ma coloro ai quali questo bambino è donato!

Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero è delineata secondo questa traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!… Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

BUON NATALE!

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Santa Famiglia

(31 dicembre 2017)

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Gn 15,1-6; 21,1-3;  Sal 104;  Eb 11,8.11-12.17-19;  Lc 2,22-40

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È significativo che la tradizione non celebri l’incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.

La liturgia di oggi contempla il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio sottolineandone gli aspetti di veracità storica. Dio si fa uomo in un determinato popolo, dentro una determinata storia, rispettando certe regole: la mamma si dovrà purificare, il bambino ebreo dovrà essere circonciso, gli si darà un nome, sarà presentato al tempio e vivrà in una famiglia che gli assicurerà la crescita e l’educazione.

Due sono i personaggi che introducono a questa contemplazione: Abramo e Simeone. Proprio di Abramo Gesù dirà: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). E Simeone esultante proclama, prendendo tra le sue braccia il bambino Gesù: “i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Quando o come Abramo avrà potuto vedere il giorno di Gesù? L’ha visto profeticamente alla nascita di Isacco, il figlio della promessa, avuto in vecchiaia, ma soprattutto dopo aver riavuto il suo Isacco, amatissimo, allorché il Signore gli impedisce di sacrificarlo e gli fa trovare l’ariete per l’olocausto sul monte Moria (cfr. Gn 22). E l’ha visto nella sua discendenza, in Simeone, che da Abramo deriva e che ha tenuto Gesù bambino nelle sue braccia. L’esultanza di Abramo attraversa tutta la sua discendenza per giungere a compiersi in Simeone e da Simeone risale indietro fino a ricadere sullo stesso Abramo.

Il testo del vangelo di Luca che narra della presentazione al tempio di Gesù è ricco di particolari misteriosi, particolari che tradiscono la contemplazione di un mistero, velato ma percepibile. Luca parla della loro purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lev 12,1-8). Non c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13); Luca, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, lui è il Consacrato, il Cristo di Dio; lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.

Simeone, che aspettava la consolazione di Israele, figura di tutta l’umanità in attesa, ha ricevuto la promessa che non avrebbe visto la morte prima di aver veduto il Messia del Signore, cioè colui stesso che era la consolazione di Israele, colui nel quale tutte le attese di consolazione si sarebbero compiute. E siccome si sarebbero compiute attraverso la passione della croce, Simeone vede la spada di dolore che trafiggerà la mamma di quel bambino, non solo in ragione del suo dolore di mamma, e nemmeno solo in ragione della sofferenza della divisione nel suo popolo che sperimenta in se stessa in tutta la sua tragedia, ma anche e soprattutto in ragione della sua solidarietà con il Figlio Redentore e con l’Amore del Padre che così perdutamente testimonia la sua dilezione per gli uomini.

Ma anche la visione di Simeone, come quella di Abramo, come del resto la visione di ogni credente, è una visione profetica. Tiene il bambino Gesù in braccio e vede avanti, vede in spirito, sente il mistero di quel bambino venuto a compiere tutte le attese: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. È il cantico che la chiesa innalza a compieta, tutti i giorni, come a riprova che l’esito dei nostri giorni mortali non può che risolversi in questa contemplazione di Dio. Eppure le parole di Simeone hanno un’altra forza. Potremmo tradurle così: Signore, ora che ho potuto trattenere una tua parola, fa che sia sciolto da ogni legame che impedisce a questa parola di agire, che impedisce al mio cuore di goderne la potenza e possa cominciare a vivere in quella pace che compie la mia attesa ed anche la tua! Sì, perché non è soltanto l’uomo ad aspettare la consolazione, è anche Dio e la consolazione di Dio è la condivisione della sua gioia e della sua pace con noi. E possano tutte le genti, insieme al popolo di Israele, diventare l’Israele di Dio, nel quale si compie la consolazione e dell’uomo e di Dio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Maria SS. Madre di Dio

(1° gennaio 2018)

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Nel calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la Vergine Maria, Madre di Dio. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio.

Con lei, la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale benedizione si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi, Gesù Signore.

L’esperienza dei pastori alla mangiatoia di Betlemme ha a che vedere proprio con l’esperienza di quella benedizione. Il brano è percorso da un doppio movimento che caratterizza prima gli angeli e poi i pastori. E ogni movimento ha due tempi: l’annuncio e la lode. Appaiono gli angeli per annunciare il messaggio di cui sono portatori e poi lodano Dio ritornando in cielo; i pastori vanno a Betlemme a sincerarsi della veracità dei fatti e poi lodano Dio ritornando a casa loro. Consideriamo il movimento dei pastori. “I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”. I verbi sono ben collocati: prima ‘udito’ e poi ‘visto’. Esprimono la dinamica della fede, la dinamica dell’intelligenza della Parola. Prima occorre ‘udire’, ‘ascoltare’: noi non siamo produttori di messaggi, tanto meno siamo produttori di significati. Siamo invece invitati a cogliere i messaggi, ad essere testimoni degli eventi e ad assimilarne i significati. Non è però nemmeno sufficiente ascoltare, se l’ascolto non introduce alla visione, all’andare a vedere. Il che significa: se non sei disposto a praticare quello che ascolti, non potrai mai vedere e non scoprirai mai se il messaggio aveva una verità per te. E se non si arriva a vedere, il cuore non potrà convertirsi, la nostra vita non sarà interessata e non potrà mai risolversi in racconto di lode, racconto e lode che costituiranno per altri l’invito angelico: vi annuncio una gioia grande…! Se la dinamica si compie in tutta la sua estensione, la benedizione che dalla Vergine è riversata sull’umanità fa sentire i suoi effetti, ricopre i cuori e la Chiesa, a sua volta, non ha altra vocazione che di rimandare a quella benedizione per tutta la famiglia umana.

D’altro canto, la realtà dell’incarnazione comporta la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo.  Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per assuefarsi all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi, custodiva e meditando significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte queste cose del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella benedizione che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio nel loro amore per noi. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità potremo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti e ad essere operatori di pace? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza?

Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo. Come canta s. Efrem: “Benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!…”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Epifania del Signore

(6 gennaio 2018)

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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La festa di oggi, che in Oriente si festeggia insieme al Natale, viene presentata così nel Martirologio romano: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. L’episodio dell’adorazione dei Magi non sembra potersi ricondurre a un evento storico preciso, ma, nella logica narrativa di Matteo, la rivelazione è che Dio guida la storia perché sia conosciuto il suo Figlio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. Lo esprime molto bene s. Paolo nella sua lettera agli Efesini quando scrive: “[tutte le genti, tutti gli uomini] sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, perché solo così potremo scoprire la grandezza del suo amore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Battesimo del Signore

(7 gennaio 2018)

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Is 55,1-11;  Is 12,2-6;  1 Gv 5,1-9;  Mc 1,7-11

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La tradizione ha colto il mistero del battesimo di Gesù nell’ottica della sua epifania, della sua manifestazione. Nella celebrazione della festa dell’Epifania, con le antifone solenni del Benedictus e del Magnificat, la chiesa cantava: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”. La festa di oggi è stata iscritta nel calendario romano solo nel 1960 ed è stata fissata alla data attuale nel 1969.

Appuntiamo lo sguardo su due particolari.

Primo particolare: Gesù viene al Giordano per farsi battezzare. Marco usa la stessa espressione di Es 2,11, letta nel testo greco della LXX con l’annotazione di Mosè che, una volta raggiunta l’età di quarant’anni, uscì dalla casa del faraone per fare visita al suo popolo. Il riferimento è letto in rapporto alla profezia di Mosè in Dt 18,15: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”. Chi ascolta queste parole è Giosuè, in greco Gesù, colui che traghetta il popolo nella terra di Israele attraversando il Giordano. La deduzione è presto fatta: l’evangelista Marco vede realizzarsi le profezie e l’attesa messianica in Gesù di Nazaret che viene a farsi battezzare, lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Da notare che il Giordano è il fiume della terra che scorre più in basso, raggiungendo circa i 500 m sotto il livello del mare.

Tutti particolari, questi, che descrivono la salvezza operata da Dio secondo la cifra dell’abbassamento, della debolezza, della stoltezza, che Paolo chiamerà più forte e più sapiente degli uomini, e che Giovanni chiamerà gloria ed elevazione. Il primo gesto di Gesù, nel compiere la sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. È in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Lui però non ha bisogno del battesimo. Perché allora viene a farsi battezzare? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo, il battesimo nello Spirito. Si potrà vedere allorquando, compiuta la sua missione, avendo patito per gli uomini, morto e risorto, lo effonderà come lingue di fuoco sugli apostoli. Vedere lo Spirito Santo significa poter penetrare nei cieli ormai aperti, significa aver sperimentato in tutta la sua potenza quel compiacimento che la voce proclama da parte di Dio su Gesù.

Il racconto di Marco è densissimo di allusioni. Se i profeti (cf. Ml 3,22) motivavano l’invito a emendarsi mirando al passato, richiamando cioè Mosè e la Legge, con il Battista oramai si guarda al futuro, alla venuta di colui che battezzerà in Spirito Santo. L’azione dello Spirito è di far sì che l’uomo appartenga a Dio (cf. Ez 36,28; Is 44,5) e denominarlo Santo, oltre che alludere alla natura divina, significa sottolinearne l’azione specifica: introdurre l’uomo nella sfera divina, consacrarlo nella fedeltà a Dio. Con il suo battesimo, a differenza di tutti coloro che ricevono il battesimo di Giovanni, Gesù non confessa la sua complicità con il male, ma manifesta la disposizione di offerta totale di sé: si impegna a compiere la sua missione a favore degli uomini disposto a non risparmiare nemmeno la sua vita. Si tratta di compiere l’esodo definitivo per il nuovo popolo dell’alleanza.

Secondo particolare: i cieli si squarciano e la voce lo proclama il Figlio amato. Il profeta Isaia aveva gridato al Signore: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). Ora la profezia si realizza, con il richiamo al fatto che con la crocifissione il velo del tempio si squarcia da cima a fondo (Mc 15,38). L’annotazione segnala l’irreversibilità del movimento: non c’è più chiusura tra cielo e terra, tra Dio e uomo e lo Spirito scende su Gesù come nel suo luogo desiderato. Come a dire: colui che si consegna per amore degli uomini è il luogo naturale dello Spirito di Dio. Con l’allusione, nell’immagine della colomba, allo Spirito Creatore di Gn 1,2, il quale in Gesù porta a compimento la creazione dell’uomo, portandola alla pienezza umana, ricolma di Spirito. Se con l’ultimo profeta, Malachia, la tradizione ha visto ritirarsi lo Spirito nel santuario celeste perché nessun nuovo profeta era sorto da allora, ora, con la discesa dello Spirito su Gesù, il santuario celeste è lui. Nell’Antico Testamento, lo Spirito Santo è indicato come lo Spirito del santuario, dato che è il Tempio, al suo centro, nel Santo dei Santi, a contenere la Shekhinah, la Presenza, l’Inabitazione. Ora la Shekhinah, la Presenza, è in quel profeta di Nazaret, che la voce proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”.

In quel ‘Figlio mio, l’amato’ risuona l’eco dell’esperienza di Abramo al quale viene chiesto di sacrificare Isacco, il figlio unico, che amava (cf. Gen 22,2). O ancora, l’eco della parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo, che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, a maggior ragione rivela la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. L’aggiunta “in te ho posto il mio compiacimento” rivela tutta la profondità del mistero. ‘In te’, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in lui si può contemplare tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità.

Chiamare Gesù ‘il Figlio mio’ non esprime solo la qualità di essere di Gesù per cui Dio, oramai, è il Padre di Gesù, ma anche la sottolineatura che il Figlio agisce e si comporta come Dio, il Padre. La dedizione di Gesù in favore degli uomini, per cui il battesimo è simbolo della morte volontariamente accettata, come riporta il canto al vangelo: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”, è la rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. Il Padre rivela che il suo atteggiamento verso gli uomini è lo stesso manifestato da Gesù. In Gesù possiamo vedere chi è Dio. Tutto il vangelo sarà lì a mostrarlo, nelle parole come nelle azioni di Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

II Domenica

(14 gennaio 2018)

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1 Sam 3,3b-10.19;  Sal 39;  1Cor 6,13c-15a.17-20;  Gv 1,35-42

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La liturgia del tempo ordinario, in tutti e tre i cicli, comporta la lettura dei sinottici, ma l’inizio è sempre riservato a brani del capitolo primo di Giovanni con il riconoscimento di Gesù da parte del Battista al Giordano, la scoperta del Messia da parte dei discepoli e la manifestazione di Gesù a Cana. Tutti i testi evangelici che si leggeranno nell’anno non faranno che dare storia a quella rivelazione degli inizi perché chiunque ascolti si ritrovi nella stessa dinamica vissuta dai discepoli.

Oggi viene letto il brano della scoperta del Messia da parte di Andrea e dell’altro discepolo, non nominato, che da sempre è stato riconosciuto in Giovanni, autore del vangelo. In effetti, si tratta di ricordi personali dell’evangelista a proposito di un’esperienza che l’ha segnato per tutta la vita, come quando uno si innamora per davvero. Giovanni racconta l’incontro che l’ha trasformato completamente, con una precisione di particolari che sono direttamente proporzionali all’intensità dell’esperienza. Se, all’inizio del suo vangelo, Giovanni dichiara: “e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14), ebbene, ha cominciato a essere afferrato da quella gloria proprio in quel giorno, alle quattro del pomeriggio, quando, su invito del suo maestro, il Battista, va da Gesù con Andrea.

La domanda che rivolgono a Gesù: “Rabbì, dove dimori?” attraversa tutto il racconto del vangelo per concludersi con l’affermazione/risposta di Gesù all’ultima cena: “rimanete nel mio amore” (cfr Gv 15). In greco viene usato lo stesso verbo. È come se Gesù, ancora rispondendo alla domanda iniziale dei suoi discepoli: “dove dimori?”, alla fine dicesse: siete venuti da me, avete visto che dimoro nell’amore del Padre per voi e così voi, ora, dimorate in questo stesso amore. È a questa esperienza che Giovanni allude quando annota: “andarono dunque e videro dove egli dimorava”. Il racconto ha il sapore di un’intera vita; ha la potenza, non di un ricordo, ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha sconvolto tutta la sua vita. La carica emotiva di quella scoperta, infatti, è rivelata in tutta la sua forza nell’ultima cena allorquando Gesù, con il paragone della vite e dei tralci, innesta i suoi discepoli nel segreto del Padre, coinvolti nella stessa intimità sua con il Padre. In quel contesto Gesù non chiamerà più servi i suoi discepoli, ma amici, partecipi dei suoi segreti. Sarà l’esito della sequela di Gesù, come dell’ascolto, attento e orante, della Parola.

Le condizioni che permettono al cuore di condividere quei segreti sono indicate dalla prima lettura e dal salmo responsoriale. La prontezza di Samuele a rispondere rivela la libertà di cuore nell’obbedienza, che è la porta di accesso alla visione. Dio non si sottrae mai alla mediazione umana: Giovanni Battista media per Giovanni ed Andrea, Eli per Samuele. Accogliere il mistero di questa mediazione significa custodire una libertà e una purità di cuore nei confronti di Dio. Detto con le parole del salmo 39: non vengo a fare una certa cosa, di cui ho ascoltato l’invito e che condivido, ma vengo perché sono con te e poi farò quello che mi si chiederà. È l’apertura di cuore che conta, non la disponibilità a un certo progetto. Il brano però fa intravedere la drammaticità che comporta l’apertura di cuore. La prima rivelazione che il giovane Samuele riceve riguarda la condanna della casa di Eli, suo maestro e padre nella fede. Non vorrebbe rivelarla ma non è nemmeno disposto a mentire. La prontezza di obbedienza che gli ha ottenuto la visita di Dio gli ottiene anche la sincerità con Eli e la pace del cuore, nella totale fiducia in Dio.

Quando la colletta prega: “O Dio … fa’ che non lasciamo cadere a vuoto nessuna tua parola” sull’esempio del giovane Samuele, non si riferisce in generale alle parole che ascoltiamo quotidianamente leggendo le Scritture, ma a quelle parole che parlano al nostro cuore, capaci di imprimere una direzione alla nostra vita, fonte di lotta e di gioia per la nostra vita, dandoci orizzonti di senso e di esperienza significativi. Proprio quello che il salmo commenta, in riferimento al Messia: “Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo” (Sal 39,8-9). Quando Gesù, invitandoci a rimanere in lui, a dimorare in lui, ci associa alla sua esperienza nel fare la volontà del Padre, vuole indurci a vivere la vita in modo da mostrare quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli. Avere la sua legge nell’intimo significa preferire la comunione con i suoi figli a qualsiasi altra cosa. Ed è quello che la liturgia eucaristica vuole ottenere quando ci fa invocare lo Spirito Santo dopo la consacrazione: formare un cuor solo e un’anima sola. Stessa cosa che viene chiesta con la preghiera dopo la comunione: “Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l’unico pane di vita formiamo un cuor solo e un’anima sola”.

Per i discepoli di Gesù, seguire il Signore significa andare con il Signore, semplicemente stando con lui, in tutte le vicende della vita. Seguire Gesù comporta il desiderio di vivere con lui e come lui, così come Gesù stesso dichiarerà poco prima di subire la passione: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Essere dove è lui significa rimanere ad ogni costo nell’amore del Padre per noi perché tutti sono invitati alla stessa mensa. Quando Gesù sceglierà i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione sarà: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. Sarà lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,53).

Così, dall’esperienza del vivere con Gesù scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni anche tu! È l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa gloria risplendano anche per lui.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

III Domenica

(21 gennaio 2018)

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Gio 3,1-5.10;  Sal 24;  1Cor 7,29-31;  Mc 1,14-20

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Tutti i Sinottici riportano la notizia che Gesù comincia a predicare dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e partendo dalla Galilea, un territorio dove convivono ebrei e gentili. La sua predicazione è riassunta nelle parole: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15).

Come intendere l’annuncio che ‘il tempo è compiuto’? Non significa solo che ormai i tempi dell’attesa sono compiuti e quello che Dio aveva promesso ora lo realizza. Ha a che fare anche con l’esperienza che la sua predicazione aveva suscitato. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo parla di un tempo breve: “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29). L’espressione è ripresa dal gergo marinaresco quando i marinai imbrogliano le vele chiudendole rapidamente per sottrarle all’azione del vento mediante la manovra dei cavi che si chiamano imbrogli. Non si tratta di cogliere il fatto che le attese sono compiute, ma che le uniche possibilità di vita sono l’accoglimento del tempo di Dio che entra nel nostro presente, dell’eterno che entra nel temporale, del compimento che si fa accessibile. E noi potremmo spiegare: è tale la gioia dell’amore salvatore di Dio, sperimentato in Gesù, che tutto il resto passa in secondo piano. Tutto in questo nostro mondo e in questa nostra storia ha valore, ma tutto va vissuto nell’ottica di quella verità, percepita come la grazia lungamente attesa e finalmente godibile. La nostra cronaca, quello che facciamo e ci succede, prende senso dalla storia di Dio che ci investe alimentando le radici della nostra vita. Così, non c’è più alcun tempo che non possa essere raggiunto dalla rivelazione dell’amore di Dio. Il tempo breve, il tempo che ci riguarda, è ormai il tempo compiuto, dove tutto si compie.

Dire che ‘il regno di Dio è vicino’ allude al fatto che nella persona di Gesù il regno si svela, si lascia toccare. È vicino nel senso che si è approssimato a noi, ne possiamo godere la grazia. Grazia che ci apparirà in ragione della conversione del nostro cuore. Con Gesù la conversione, che costituisce la reazione alla percezione della prossimità del Regno in Gesù, comporta il lasciarsi invadere dalla fiducia nella promessa di Dio che in lui si compie per noi. Credere al vangelo comporta il ritenere Dio sufficientemente potente per compiere, in Gesù, la sua promessa per noi, capace quindi di soddisfare gli aneliti del nostro cuore. Tutto questo dobbiamo imparare a percepire nell’annuncio di Gesù.

Il brano di Giona illustra splendidamente che l’annuncio di Gesù riguarda tutti, ebrei e gentili, ironizzando sull’ira del profeta che, conoscendo la natura misericordiosa di Dio, non vuole sia condivisa dai pagani. Il profeta, che sa come Dio sia “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore”, secondo la rivelazione a Mosè sul Sinai, testimonia controvoglia che le premure di Dio sono estese a tutti, pagani compresi.  La conversione degli uomini resta fondata sulla natura compassionevole di Dio. E quando il salmo responsoriale fa pregare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, non si riferisce prima di tutto alle vie che l’uomo deve percorrere per piacere a Dio, ma alla via di Dio che mostra compassione, intendendo: “fa’, o Signore, che sia toccato dalla tua compassione, possa ritornare a sentire il tuo amore diventando solidale con tutti i miei fratelli, perché a tutti si rivolge la tua compassione”.

Il convertirsi comporta essenzialmente il fidarsi del dono di Dio che è Gesù per noi e si traduce essenzialmente nella sequela di Gesù. Quello, appunto, che Marco sottolinea con la chiamata dei discepoli, figura di ogni vocazione al seguito di Gesù. I primi discepoli chiamati saranno quelli (almeno per tre di loro: Pietro, Giacomo e Giovanni) che accompagneranno Gesù nei momenti più significativi della sua avventura (trasfigurazione, preghiera nell’orto degli ulivi). Tanto che la chiamata apostolica comporta il lasciare il mondo, attività e affetti, nel senso che il mondo non costituirà più motivo di interesse prevalente per il cuore dei discepoli, dal momento che Gesù si presenta come via, verità e vita piena.

È del resto assai caratteristico che nel vangelo la conversione sia espressa dall’immagine del seguire Gesù. A dire il vero, spesso il testo evangelico non parla di seguire, ma più direttamente di andare dietro, di stare dietro, di mettersi dietro a Gesù. In questo, si può ancora ascoltare l’eco delle parole di Dio a Mosè: mi si può vedere solo di spalle, cioè solo praticando i suoi comandamenti (cfr. Es 33,20). Quando Pietro, spaventato della predizione della passione da parte di Gesù, cercherà di distoglierlo da quella strada, si sentirà dire: stai dietro, poniti dietro, non volere starmi davanti! (cfr. Mc 8,37). Alla fine del vangelo di Giovanni, dopo che Gesù gli ha predetto che avrebbe sofferto il martirio per lui, Pietro si sente ancora dire: vienimi dietro. In quel venire dietro a, in quel camminare dietro a sta il godimento della promessa di Dio che ha raggiunto l’uomo. Non sta tanto lo sforzo di seguire il Signore, ma la percezione di una rivelazione che si dispiega al cuore dell’uomo. A quella percezione tende la conversione, se vogliamo che si traduca in speranza di vita, come ci indica la preghiera dopo la comunione: “fa che ci rallegriamo sempre del tuo dono, sorgente inesauribile di vita nuova”. Nuova, non nel senso di altra, ma trasformata, pescante in quella novità di vita che ci viene dal Signore Gesù, che ci ha fatto conoscere l’amore di Dio per i suoi figli.

Se si dice che Gesù predica il vangelo di Dio, ciò significa che Dio si è fatto grazia per l’uomo, che Dio fa grazia di sé, in Gesù, agli uomini, verità che anche gli apostoli annunceranno al mondo, con la sottolineatura che a loro basterà annunciare Gesù. Così, cantare con il salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, oltre a significare la possibilità di conoscere l’amore salvatore di Dio in Gesù, significa domandare di indurci a seguirlo come gli apostoli in modo da godere della potenza di salvezza del suo vangelo, potenza che non concerne soltanto noi, ma tutto il mondo. Gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione. Sarebbe questo il senso di: vi farò pescatori di uomini. Per gli apostoli come per noi, seguire Gesù dice soprattutto l’intimità di vita con lui che ci ha conquistati, intimità così incontenibile che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(28 gennaio 2018)

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Dt 18,15-20;  Sal 94;  1Cor 7,32-35;  Mc 1,21-28

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La colletta della liturgia di oggi ci fa chiedere una cosa assolutamente straordinaria. Dopo averci condotto a riconoscere che Gesù è il Maestro che ci introduce nei segreti di Dio e il Liberatore dal male che ci insidia e opprime, fa pregare: “O Dio […] rendici forti […] perché testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano”. Dà per avvenuta l’esperienza della gioia invincibile che deriva dalla fede nel Signore Gesù. Possiamo noi pregare in sincerità in questo modo?

La condizione che prelude a questa preghiera riguarda la disposizione del cuore nell’ascoltare la parola, nell’ascoltare colui che parla con autorità, come ha fatto la gente di Cafarnao, che evidentemente conosceva le Scritture e amava ascoltare chi delle Scritture parlava. Vorrei provare a entrare nel segreto dei loro cuori proprio seguendo le Scritture.

Risuonava certamente nei loro orecchi (o almeno così interpreta l’evangelista Marco, estendendo anche ai suoi lettori la stessa possibilità) la promessa di Mosè al popolo prima di entrare nella terra promessa: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Dt 18,15). La promessa è stata recepita così intensamente da vedere in questo futuro profeta il Messia stesso, tanto che nella gente di Israele, al tempo di Gesù, il Messia era atteso anche come ‘il profeta’. Dobbiamo tenere presente che la qualifica ‘pari a me’ si riferisce alle due caratteristiche singolari di Mosè descritte nella Scrittura: Mosè è l’uomo di fiducia, l’uomo con cui Dio parla bocca a bocca, perché Mosè era un uomo assai umile (nelle versioni antiche: mite), più di qualunque altro sulla faccia della terra. È la testimonianza che si trova in Numeri 12,3.8. Tra l’altro, va notato che il termine ‘umile’ ricorre solo qui in tutto il Pentateuco! La possibilità di ascoltare la parola di Dio era vista come la discriminante tra Israele e i popoli pagani, i cananei, i quali seguivano presagi e divinazioni come orientamento nel loro agire.

Ma la cosa più strana è la motivazione che il popolo dà al bisogno di un profeta. Tutto il popolo aveva assistito alla rivelazione del Signore che parlava dal fuoco sull’Oreb e non regge alla paura, tanto da invitare Mosè a fare da mediatore tra loro e il Signore. Il capitolo 5 del libro del Deuteronomio lo esprime chiaramente: “Se continuiamo a udire ancora la voce del Signore, nostro Dio, moriremo. Chi, infatti, tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo? … Accostati tu e ascolta tutto ciò che il Signore, nostro Dio, ti avrà detto: noi lo ascolteremo e lo faremo” (Dt 5,25-26.27). E Dio stesso commenta: “Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e osservare tutti i miei comandi ..!” (Dt 5,29). Così, la richiesta di un mediatore procede da un profondo timore del Signore in cuori che vogliono essere fedeli all’alleanza con il proprio Dio.

Nel racconto evangelico Gesù assomma tutte queste reminiscenze, tanto più che quando l’evangelista riporta il brano di oggi già sa che Gesù è stato indicato dal Padre come il Figlio, l’amato, che deve essere ascoltato (vedere il racconto della Trasfigurazione sul Tabor).

Così, la deduzione per noi risulta la seguente: siamo ancora capaci di fremere di timore davanti alla parola di Gesù? Sappiamo ancora cosa comporta l’ascoltare la parola del Signore che parla dal fuoco? Siamo nella disposizione d’animo degli israeliti che, davanti all’avventura dell’alleanza con il loro Dio, dichiarano: noi l’ascolteremo e lo faremo? Perché a questo si riferisce l’esperienza drammatica della ‘novità’ dell’insegnamento di Gesù. Un insegnamento che va al di là di ogni buona dottrina e conduce direttamente all’incontro col proprio Dio. La meraviglia degli astanti risalta proprio dall’osservazione che parola e potenza dicono la salvezza operante di Dio in mezzo a loro. Gesù non solo ‘è pari’ a Mosé nelle due caratteristiche singolari, ma che Mosè è solo un’allusione a Colui che è inviato per mostrare la potenza di salvezza di Dio per il suo popolo. Gesù è l’unico mediatore di salvezza perché nessun spirito impuro ha presa su di lui e perciò può liberare tutti dagli spiriti impuri.

Se ha potere sui demoni è perché sottrae alla loro influenza gli uomini e li rimette nella luce di Dio. In questo si rivela il suo potere di guarigione, che porterà alla rivelazione del suo potere di rimettere i peccati, cosa che svelerà definitivamente, in lui, come Dio si sia appressato all’uomo. È la novità che suscita stupore, sbalordimento, esultanza, perché il male è vinto e l’uomo ritorna nella signoria di Dio che vuole gli uomini commensali al suo amore e alla sua gioia. Qui pesca l’invocazione della colletta di testimoniare la beatitudine per chi ha accolto la testimonianza di questo Profeta.

Così, presentare Gesù come profeta, il cui insegnamento è nuovo, diverso rispetto a quello degli scribi, porta allusione al mistero dell’intimità tra lui e il Padre. Gesù introduce poco a poco i suoi ascoltatori a questo segreto, nel quale tutta la Scrittura si riassume. Ascoltare le parole di quel profeta significa intuire e percepire quel segreto di intimità con il Padre che tanto ama il mondo da mandare il suo Figlio, tanto che in ogni parola da lui pronunciata, in ogni azione da lui compiuta, si apre l’accesso anche per noi all’intimità da lui goduta. Dire poi che Gesù ha il potere di guarirci, di scacciare dal nostro cuore i demoni, equivale a illustrare il mistero dell’accondiscendenza di Dio per gli uomini da farli partecipi dei suoi segreti, da condividere con loro la gioia del suo amore sempre e comunque.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

V Domenica

(4 febbraio 2018)

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Gb 7,1-4. 6-7;  Sal 146;  1Cor 9,16-19.22-23;  Mc 1, 29-39

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La liturgia di oggi usa due prospettive per leggere l’azione di Gesù che scaccia i demoni e va in giro predicando, come viene proclamato nel brano evangelico di Marco.

Con la colletta e il canto al vangelo viene sottolineata la ragione di fondo dell’autorità di Gesù sui demoni e della sua potenza di guarigione. La colletta fa pregare: “O Dio, che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini …”. Il canto al vangelo “Cristo ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” è ripreso da Mt 8,17 e costituisce la traduzione letterale dall’ebraico di Is 53,4, passo che appartiene al quarto carme del Servo. Matteo fa una rilettura dell’operato di Gesù a partire da una theologia crucis e fonda l’autorità di Gesù nello scacciare i demoni proprio sulla vittoria contro di loro sulla croce. Introdurre il brano di Marco con questa rivelazione profetica significa sottolineare da dove viene la potenza di Gesù, significa invitare a leggere la sua opera, i suoi miracoli, in funzione di quella rivelazione. Dietro l’agire di Gesù sta un segreto da cogliere. Il miracolo delle guarigioni e la cacciata dei demoni non sottolineano tanto il potere divino di Gesù, ma l’accondiscendenza di Dio, la prossimità di Dio in Gesù all’uomo. E questa dimostrazione è in funzione dello svelamento del segreto di Dio per l’uomo, della rivelazione del suo immenso amore al mondo tramite il Figlio, che ci riporta alla comunione con lui strappandoci dal male.

Con la lettura della lettera ai Corinzi dove vien messo in risalto l’ardore apostolico di Paolo nell’annunciare il vangelo a tutti, comunque, in ogni maniera, Gesù è considerato nel suo essere mosso da una santa inquietudine che lo spinge a girare per i vari villaggi di Israele perché tutti possano ascoltare la buona novella del Regno. Marco annota che Gesù si è ritirato tutto solo a pregare. Solo in tre occasioni Marco parla della preghiera di Gesù: qui, dopo la moltiplicazione dei pani quando Gesù teme di essere frainteso e deve sottrarsi alla folla e nel Getsemani prima della passione. Tutti e tre i casi riguardano il segreto della sua persona nella sua intimità con il Padre che lo ha inviato nel mondo ‘per noi e per la nostra salvezza’. Anche il suo guarire dalle malattie, il suo scacciare i demoni, il suo predicare, riguarda quell’invio e la volontà di salvezza del Padre che ne è all’origine, come del resto la sua obbedienza di Figlio. La inquietudine di arrivare a tutti e, come via via si verrà a sapere, di arrivare a Gerusalemme, parla di quella volontà di salvezza di cui lui è, non solo il Testimone, ma il Realizzatore. Così che il regno di Dio predicato, fatto toccare nella sua potenza di salvezza con il guarire e il cacciare i demoni, si risolve nel rivelare il segreto della sua persona, nel farsi accogliere come l’Inviato che fa entrare nel regno che è la sua stessa umanità. In quell’ansia di Gesù, nel suo doppio significato di raggiungere tutti e che tutto il suo segreto si sveli, sta racchiusa l’urgenza della missione della chiesa in tutti i tempi.

La preghiera di Gesù non ha forse a che fare con il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio prima ancora che essere espressione del desiderio degli uomini di stare in compagnia di Dio? Se gli uomini non percepissero l’eco di quel desiderio di Dio, potrebbero mai pregare davvero? Potrebbero mai essere solidali con i loro fratelli e farsi raggiungere dal Suo amore tanto da essere rinnovati totalmente? Il fatto che Gesù si ritiri da solo a pregare esprime proprio l’immensità del desiderio di Dio per l’uomo e quando i discepoli gli annunciano che lo cercano, non torna ma va altrove perché tutti deve raggiungere. E si può leggere anche così: Gesù deve percorrere tutta la terra del nostro cuore; se in qualche parte siamo stati guariti, altre parti attendono la guarigione, fino a che tutto in noi possa risplendere del suo amore salvatore.

La colletta mostra che in Gesù Dio si appressa all’uomo, gli uomini sono liberati dalle loro oppressioni e imparano a vivere solidali, abitati dalla speranza: “… rendici puri e forti nelle prove, perché sull’esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva”. La potenza della supplica deriva dall’intensità della coscienza del male che ci ferisce insieme al desiderio di guarigione che ci attrae al Signore Gesù, solidali in umanità con tutti. La preghiera si risolve nel desiderio di sperimentare l’amore salvatore di Dio, non però nel senso di essere preservati dagli effetti dell’azione dei demoni (il male non scompare e non scomparirà dalla scena del mondo) ma nel senso di non essere più asserviti ai loro scopi perversi. A tal punto che, proprio quando il male sembrerà prevalere, come con il Signore Gesù in croce, esso sarà definitivamente vinto perché svuotato del suo scopo perverso, cioè quello di dividere gli uomini da Dio e tra di loro.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(11 febbraio 2018)

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Lv 13,1-2.45-46;  Sal 31;  1Cor 10,31-11,1;  Mc 1,40-45

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Oggi le letture parlano di lebbra, le preghiere di peccato. È esattamente la corrispondenza da cogliere, intuendo la natura del peccato nell’orrore della lebbra.

Se confrontiamo il passo di Marco con i passi paralleli di Matteo e Luca riusciamo a cogliere più in profondità il mistero della compassione di Gesù. Anzitutto, è solo Marco che annota: “Ne ebbe compassione”. Antichi codici riportano la lezione “Si sdegnò”, ad indicare il coinvolgimento di Gesù davanti al lebbroso. In effetti, lo statuto del lebbroso secondo la legge era terribile, come riporta la prima lettura del Levitico. La sua malattia, oltre il peso sociale dell’esclusione, comportava l’esclusione dal culto, dall’accesso alla santità di Dio che la Legge definiva in termini di partecipazione alla vita del popolo santo di Dio e al culto del vero Dio. Quando Gesù guarisce il lebbroso, non guarisce semplicemente un malato, ma modifica radicalmente la condizione interiore del malato restituendolo ad una vita santa. Proprio qui si mostra il prodigio che Gesù opera, che va ben al di là di quella guarigione. Il testo, a proposito della lebbra, non parla di guarigione, ma di purificazione.

Così, la vita santa, quella in rapporto alla santità di Dio goduto nel suo desiderio di comunione con noi, non è più definita secondo i termini della legge. La discriminante tra santo e non santo si sposta e i confini sono radicalmente cambiati perché Dio si è fatto prossimo a noi nella sua compassione. Il nesso guarigione/purificazione, da leggere in rapporto alla beatitudine: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, acquista la luminosità della tenerezza di Dio che libera e ci rende capaci a nostra volta di tenerezza luminosa per l’uomo.

La cosa risalta nel racconto di Matteo (Mt 8,1-4) perché la guarigione del lebbroso è il primo miracolo che Gesù compie scendendo dalla montagna dove aveva appena proclamato le sue beatitudini. E le beatitudini sono la rivelazione della fraternità in Dio, quando veniamo guidati dallo Spirito Santo. Guarire dalla lebbra vuol dire allora ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non avere paura di Dio e del prossimo, vuol dire ritornare a vivere in umiltà e mitezza, in libertà e gratuità, toccati da Dio.

Tutti e tre i sinottici riportano la volontà espressa di Gesù: “Lo voglio, sii purificato”. Non è da leggere soltanto la compassione del Signore per un uomo malato e angosciato, ma l’ansia di riportare il regno di Dio nel cuore dell’uomo, la fretta e l’ardore di mostrare come l’amore di Dio che raggiunge i cuori fa risplendere in modo nuovo l’umanità che li sostanziano. È come se dicesse: ‘ardo dal desiderio di mostrarvi quanto è grande l’amore del Padre’, ‘bramo che il suo amore vi raggiunga’, ‘voglio che la vostra umanità risplenda di tutta la sua luce’. Nel suo volere va letto il desiderio di compiere il disegno del Padre, di riscattare gli uomini non dalle malattie, ma dal peccato, di cui la malattia della lebbra era il segno per eccellenza.

Luca (Lc 5,12-16) aggiunge altri particolari. Narra l’episodio dopo la pesca miracolosa e la chiamata degli apostoli a seguirlo (la sequela di Gesù comporterà la condivisione della sua compassione) e conclude il racconto con l’annotazione che, dopo aver guarito molti dalla lebbra e dalle malattie, si ritira in un luogo deserto a pregare. Vi si può leggere sia la volontà di sottrarsi all’entusiasmo della gente che rischia di fraintendere la rivelazione di Gesù sia il collegamento tra la potenza guaritrice di Gesù e l’avvento del regno per realizzare il disegno del Padre. Tanto che quando il Signore Gesù si presenta, nella sua Passione, come uomo dei dolori, il profeta Isaia usa le parole confacenti a un lebbroso: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53,2-3). Il Signore si è addossato i nostri mali da portarne tutto l’orrore, come un lebbroso.

La colletta ci fa pregare: “Risanaci, o Padre, dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono”. Dividere e avvilire sono le due caratteristiche della malattia della lebbra. I peccati nostri hanno lo stesso destino: insidiano la fraternità, irrigidiscono i rapporti, contaminano il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separano ed opprimono. Così la purità, con Gesù, viene definita come spazio luminoso, spazio che torna a risplendere (=guarigione) per rapporti fraterni pacifici, dove il Padre è visto nel suo amore per noi. Ad occupare l’atmosfera del cuore non c’è più l’immondezza dei demoni, ma lo splendore del Figlio di Dio che permette all’umanità di compiersi finalmente e glorificare così il Padre.

Quando il lebbroso guarito, nonostante l’invito contrario di Gesù, non riesce a frenare il bisogno di annunciare a tutti la sua guarigione, il testo annota: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto”. In realtà però il testo dice semplicemente: “si mise a proclamare e a divulgare la parola”. È la parola di Gesù diventata per lui fatto. Non si annunciano semplicemente parole, ma fatti che rivelano la potenza della parola. Quello che parla ai cuori sarà sempre la Parola, capace di operare in chi ascolta le stesse cose meravigliose di cui porta testimonianza chi annuncia.

Per questo la preghiera caratteristica della liturgia di oggi è il salmo 32: “Ho detto: ‘Confesserò al Signore le mie iniquità’ e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. L’audacia del lebbroso che, contravvenendo alla legge, si avvicina a Gesù, corrisponde nel salmo all’audacia del peccatore che decide di manifestare il suo peccato. La compassione di Gesù che ottiene la guarigione/purificazione del lebbroso corrisponde alla misericordia perdonante di Dio che fa la beatitudine del peccatore, il quale ritrova la gioia dell’alleanza con il suo Signore. E i Padri commentano: “Brevissima è la regola: piace a Dio colui cui piace Dio” (Agostino); “Lui che si dispiace di se stesso soddisfa il Signore poiché quando noi ci scontriamo con noi stessi cerchiamo la verità, ma quando noi cerchiamo di lodare noi stessi le nostre parole sono piene di falsità” (Cassiodoro); “Una persona retta accusa se stessa sin dall’inizio del suo discorso” (Evagrio Pontico). Senza dimenticare che, se l’uomo arriva a manifestare il suo peccato, è perché la misericordia di Dio già ha lavorato il suo cuore, che è pronto a tornare luminoso.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(18 febbraio 2018)

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Gn 9,8-15;  Sal 24;  1 Pt 3,18-22;  Mc 1,12-15

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La colletta del mercoledì delle ceneri riconduceva la disciplina penitenziale quaresimale al processo di una vera conversione del cuore: “O Dio, nostro Padre, concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione”. L’antica colletta della prima domenica di quaresima orienta gli sguardi per poter ottenere quella conversione: “O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”. Fin dall’inizio del cammino, tutto è orientato a quel Signore Gesù, che per noi ‘patì, morì, fu sepolto, risuscitò, rendendoci il suo Spirito’.

Il primo sguardo su Gesù, che la liturgia quaresimale propone, ce lo fa contemplare nel deserto, tentato dal diavolo, e però con gli angeli che lo servono. “E subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto” (Mc 1,12). Gesù è appena stato battezzato, e subito viene come trascinato nel deserto. È appena stato indicato come colui nel quale il Padre si compiace e subito è sottoposto alla tentazione del diavolo. Marco non racconta il contenuto delle tentazioni come Luca e Matteo; ne indica semplicemente l’evento. Due sono le cose da notare. Prima, il fatto della tentazione. Gesù è ricolmo di Spirito Santo e subisce la tentazione. Possiamo pensare: in discussione non è messa la sua potenza, ma la modalità con cui si esprimerà. La sua vittoria non avrà nulla di mondano, come il tentatore sembra suggerirgli per realizzare la sua missione, bensì si rivelerà nella debolezza e nella follia della croce. In tal senso, l’annotazione che stava con le bestie selvatiche e che gli angeli lo servivano, allude alla ritrovata armonia della creazione come era uscita dalle mani di Dio. Quell’esito, però, sarà ottenuto con l’umiltà e la mitezza del Figlio di Dio che si consegna nelle mani degli uomini perché ne facciano quello che vogliono e così si rivelerà la grandezza dell’amore del Signore per i suoi figli.

La seconda, la tentazione avviene nel deserto. Il deserto è il luogo della grazia e della tentazione, dell’alleanza e della infedeltà, della manna e del vitello d’oro. “Il Signore parlò a Mosé nel deserto” (Nm 3,14; 9,1); “Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto” (Es 7,16); “Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosé” (Es 16,2); “Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16). In particolare, nominare il deserto, significa far riferimento all’alleanza del Sinai. Gesù è presentato come colui che rinnoverà l’alleanza di Dio con il suo popolo, un’alleanza definitiva ed eterna che segue e compie le altre precedenti alleanze, quelle con Adamo, Noè (vedi la prima lettura), Abramo e Mosé.

Ancora, l’accenno alle bestie selvatiche e agli angeli, nel deserto, può essere spiegato con questa bellissima annotazione di Origene: “Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta, mentre l’egiziano se vorrà attraversarlo, verrà sommerso e l’acqua non diventerà per lui come muraglia a destra e a sinistra. Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio”. Sarà proprio quello che ci ottiene la nuova alleanza di Gesù firmata nel suo sangue.

Vittorioso sul diavolo, Gesù inizia la sua ‘evangelizzazione’: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Se leggiamo in parallelo i vangeli sinottici, ci accorgiamo che di queste quattro espressioni che definiscono l’annuncio di Gesù, due sono singolari di Marco: “il tempo è compiuto”, “credete al vangelo”. Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù” (Mc 1,1). Mettere in bocca a Gesù, come prima parola di annuncio, ‘il tempo è compiuto’ e ‘credete al vangelo’, significa orientare il lettore all’insieme del vangelo, che è costituito dalla persona stessa di Gesù. Ma qual è il vangelo annunziato da Gesù se non la rivelazione dello splendore dell’amore del Padre per gli uomini, come poi la conclusione del cammino quaresimale, nella celebrazione della Pasqua, farà scoprire? E la novità evangelica, perenne novità divina per l’uomo, novità che risulterà sempre tale rispetto a tutto ciò che il mondo può produrre (ecco perché i suggerimenti del diavolo sono illusori, in quanto non si possono rifare a questa novità, che rivela tutta la gratuità dell’agire di Dio nel suo amore per gli uomini), è proprio quella di mostrare lo splendore dell’amore di Dio nell’umanità. Di questo Gesù sarà il Testimone e il Donatore.

Le opere quaresimali: preghiera, digiuno, elemosina, saranno opere penitenziali solo quando e se portano a liberare il cuore da ogni intralcio perché il dinamismo di questa rivelazione del Figlio di Dio si esprima anche in me, nella mia umanità, e possa così far risplendere la presenza del suo amore in questo mondo. Il digiuno libera il cuore dall’asservire il mondo al corpo e al suo piacere; l’elemosina libera il cuore dalla prevaricazione contro gli altri imparando a stare solidali in umanità; la preghiera libera il cuore dall’illusione del mondo per volerlo trasfigurato dalla luce di Dio.

Buon cammino quaresimale.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(25 febbraio 2018)

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Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18;  Sal 115;  Rm 8,31b-34;  Mc 9,2-10

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La liturgia, facendoci contemplare il volto di Gesù risplendente di luce luminosissima, un volto bellissimo, rende ragione del desiderio che abita il nostro cuore e canta con l’antifona di ingresso: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’. Il tuo volto io cerco o Signore. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26/27,8-9). Sono espressioni appassionate di un cuore che conosce l’anelito struggente dell’amore. Collocate nel salmo, queste parole seguono lo scioglimento del dramma dell’attacco dei nemici che non sono riusciti a piegarci, proprio per l’intervento del Signore. E l’attacco è vinto perché il cuore non si è allontanato dall’invito che ascolta dallo stesso Signore: “Cercate il mio volto”.

A differenza però di quello che ci attenderemmo, la liturgia non insiste sulla visione del volto di Gesù trasfigurato, ma sulla tensione che quella rivelazione comporta. La colletta sottolinea, ad esempio: “O Dio, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo Figlio unigenito, ma lo hai dato per noi peccatori …”. Nel brano della Genesi, che riporta il dramma di Abramo per il sacrificio del figlio Isacco, leggiamo: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito …”. Stessa sottolineatura nel grido dell’apostolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?”.

Negli antichi racconti ebraici dell’obbedienza di Abramo alla voce del Signore che gli chiede di offrigli in olocausto il figlio della promessa, il figlio unico, l’amato, veniamo a sapere che la prova ha riguardato tanto Abramo quanto Isacco. Alla richiesta del padre di svelargli ciò che ha in cuore, il figlio risponde: “Per quanto è vivo il Signore, e per quanto è viva l’anima tua, giuro che nulla dentro di me mi induce a deviare a destra o a sinistra da quanto Egli ti ha ordinato. E dico: Benedetto sia il Signore che quest’oggi ha scelto me come Suo olocausto”. Davanti all’obbedienza di Abramo il Signore dice agli angeli: “Avete visto come il mio amato Abramo proclama nel mondo l’unicità del mio Nome? Se al momento della creazione, quando diceste: ‘Che è l’uomo da ricordarTi di lui, il figlio dell’uomo ché Tu ne debba aver cura’ (Sal 8,5), vi avessi prestato ascolto, chi Mi avrebbe più celebrato nel mondo?”. E davanti alle rimostranze di Abramo al Signore dopo aver superato la prova: “E allora, perché mi hai torturato in questo modo? Dio risponde: “Era Mio desiderio che il mondo ti conoscesse e si convincesse che non senza ragione avevo scelto te fra tutte le nazioni: ora il genere umano è testimone che tu temi Dio”.

Gesù riprende e unisce in se stesso la posizione di Abramo e di Isacco e per questo risplende della bellezza che vince ogni tenebra. Di una bellezza, però, che viene contemplata in un contesto drammatico. Dal vangelo di Luca conosciamo il contenuto del colloquio tra Gesù, Elia e Mosè, mentre il suo volto risplendeva e gli apostoli nemmeno potevano sostenerlo. Parlavano della sua dipartita. Parlavano del suo esodo pasquale. Nel vangelo di Marco il brano della trasfigurazione sul Tabor è posto al centro del suo tessuto narrativo. Gesù era appena stato riconosciuto da Pietro come Figlio di Dio, ma contemporaneamente aveva svelato il suo esito messianico, che cioè avrebbe dovuto soffrire molto, essere ucciso e risuscitare. Non solo, ma aveva ricordato ai discepoli che, se quella era la via del Maestro, non si immaginassero di seguire un’altra via: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce…”. I discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono gli stessi che vedranno di Gesù il volto sanguinante, teso e stravolto dalla sofferenza, al Getsemani.

I discepoli hanno visto il volto trasfigurato di Gesù sul Tabor perché imparassero a riconoscerlo nella sofferenza della passione, quando hanno dovuto rimirare non l’oltre, ma come l’al di qua della figura, non il volto trasfigurato, ma il volto sfigurato. I vangeli e la tradizione tengono collegate le due esperienze. Quale il senso?

Lo illustra assai bene Leone Magno nella sua omelia LI: “Una tale trasformazione tendeva principalmente a rimuovere dal cuore dei discepoli lo scandalo della croce, sicché l’umiliazione della passione, volontariamente accettata, non venisse a turbare la fede di chi aveva contemplato l’eminente dignità, seppur nascosta, del Cristo. Intanto, secondo un disegno altrettanto previdente, era dato fondamento alla speranza della santa Chiesa, nel senso che tutto il corpo di Cristo veniva a conoscere quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e le singole membra potevano scambiarsi la promessa di compartecipazione all’onore che risplendeva nel loro capo”.

L’aggiunta della voce celeste al Tabor, rispetto alla stessa voce al momento del battesimo al Giordano, cioè “Ascoltatelo!”, assume questa valenza. Lui ha ascoltato il Padre nell’obbedienza al suo essere inviato al mondo come testimone dell’amore del Padre per i suoi figli. Noi siamo invitati ad ascoltare il Figlio nel nostro essere inviati al mondo per testimoniare la grandezza del suo amore. Io leggerei: non allontanatevi dal mio amore, entrate e rimanete in questo movimento di amore che solo può salvare il mondo. Il cammino quaresimale punta proprio a renderci permeabili all’amore di Dio in Gesù che si fa radice di vita, misura di vita. Cercare di ascoltare Gesù, di seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata espressione di amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca ad un amore, capace di far risplendere il volto degli uomini. Ma se si vede risplendere quella luce, allora Dio è con noi, il mondo può risplendere della sua presenza. Qui si comprende perché il cammino quaresimale sia lotta, lotta perché sia superata ogni forma di egoismo e il cuore viva del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore e dividendoci dai fratelli.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(4 marzo 2018)

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Es 20,1-17;  Sal 18;  1 Cor 1,22-25;  Gv 2,13-25

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Il mistero del Figlio di Dio, dato a noi, testimone dell’amore del Padre per noi, è colto oggi sotto l’immagine del tempio. La liturgia collega la santità della Legge alla santità del Luogo dove celebrarla, che non è più il tempio di pietra, ma il corpo del Signore Gesù, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,8).

La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo dove viene narrata la promulgazione delle dieci parole, dei dieci comandamenti, è particolarmente adatta a orientare i cuori all’intelligenza del brano evangelico. Per la tradizione ebraica il primo comandamento suona: “Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (Es 20,2). Dio non è designato come Creatore, ma è colto nella prospettiva del destino degli uomini tanto che la conoscenza di lui riguarda sempre la loro storia: Dio non può che essere il mio Dio, se no non può nemmeno essere conosciuto. La parola proclamata non dice che Dio esiste, ma chi è il mio Dio. Non solo, ma viene designato in rapporto all’evento della liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto. Il che significa che Dio è nominato come il Dio della libertà nella storia e ciò comporta che la storia sia una continua rivelazione della graduale crescita della libertà e della giustizia sulla terra.

Il racconto di Giovanni comporta invece molte allusioni all’attesa del Messia. Chiama la festa ‘pasqua dei giudei’ (e continuerà a chiamarla così fino a Gv 11,55) per distinguerla dalla ‘pasqua’ che Gesù stesso vivrà, come compimento della ‘pasqua del Signore’ descritta in Es 12,11. Gesù costruisce una frusta di cordicelle, che corrisponde al flagello messianico, secondo antichi racconti ebraici, nella sua opera di purificazione dal male e che riprende due tradizioni profetiche, quella di Zaccaria 14,21 (“In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti”) e di Malachia “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”). Quando Gesù risponde ai capi che gli chiedono un segno di autenticazione della sua autorità, dice: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Il termine che usa, però, non è ‘tempio’ riferito al complesso degli edifici (Gesù scaccia i venditori dal recinto del tempio, luogo al quale anche i pagani potevano accedere) ma alla cappella interna, al ‘Santo dei santi’ dove era creduta sussistere la Presenza. Riprende l’immagine della tenda nel deserto, luogo della Presenza del Signore.

Se gli apostoli si ricordano del salmo 69,10: “mi divora lo zelo per la tua casa”, applicandolo a Gesù, non per questo riescono a cogliere il significato vero della sua azione. Lo potranno solo dopo la sua risurrezione, tanto che l’annotazione “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22) esprime la dinamica di intelligenza e delle Scritture e del Verbo di Dio: l’uno illumina le altre e queste ne definiscono le coordinate di comprensione.  In quel momento, però, i discepoli non possono che interpretare la parola del salmo nell’ottica del Messia restauratore della santità del Tempio e della Legge, come del resto faranno gli altri di cui si dice che credono in Gesù ma di cui Gesù non si fida. Nessuno è ancora pronto a riconoscere la portata vera di ciò che intende Gesù. Solo con la sua Pasqua la santità della Legge si compirà in ‘grazia e verità’, secondo la grandezza dell’amore misericordioso del Signore che attira tutti a Sé. Solo allora risulterà fondante di ogni possibile santità la fede in quel Gesù che, come esprime il canto al vangelo riprendendo una sua espressione nel colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”.

Il ritornello del salmo lo sottolinea con le parole di Pietro in risposta alla tristezza di Gesù per l’incomprensione del suo parlare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). E il salmo 18, soprattutto nella sua redazione greca della LXX, scolpisce a fuoco nel cuore il senso di quella fiducia nel Signore Gesù e nella sua parola di vita. Accogliendo quel Figlio, dato a noi nella sua morte e risurrezione, il suo comandamento ci riporta a integrità e armonia nel nostro essere (è immacolato), con la sua sapienza dall’alto ci fa bambini desiderosi del Padre e del suo Regno (è fedele), infonde gioia al cuore (è retto), ci ridà uno sguardo luminoso per tutto e per tutti (è splendente), in modo da farci vivere i giudizi del Signore nella nostra vita come espressione del suo amore misericordioso, di cui aneliamo l’esperienza. E siccome tutto questo lo viviamo in fragilità e precarietà, restiamo umili domandando di essere liberati dal male che non riusciamo a padroneggiare o a vedere, cercando di tenerci sempre alla sua presenza, nella verità della sua parola che sempre parla al nostro cuore.

Come canta l’antifona d’ingresso, confidando nella ‘stoltezza e debolezza’ di Dio (1Cor 1,25) che vediamo esprimersi nella passione e nella morte di Gesù, possiamo dire: “I miei occhi sono sempre rivolti al Signore…”. I nostri occhi sono rivolti al Signore per cercare in ogni evento la traccia del suo passaggio al fine di seguirlo e poterlo conoscere; per cercare in ogni pensiero la scintilla divina che attiri a lui e apra uno spazio di visione del suo volto. Il fatto che i nostri occhi siano rivolti al Signore esprime la tensione del cuore che non si perde nelle cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i suoi pensieri, ma li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità. Sarà la Pasqua del Signore per noi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(11 marzo 2018)

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2 Cr 36,14-16.19-23;  Sal 136;  Ef 2,4-10;  Gv 3,14-21

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La prima lettura riporta le ultime parole della Bibbia ebraica perché il secondo libro delle Cronache chiude la serie dei libri del canone ebraico: “Così dice Ciro re di Persia …Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga” (2Cr 36,23). Nella Bibbia ebraica tutto è come orientato verso la salita o il ritorno a Gerusalemme. Tutte e tre le parti della Bibbia ebraica (la Legge, i Profeti, gli Scritti) si concludono con l’orientare gli sguardi al futuro, verso la terra promessa, quella che Dio mostra a Mosè, quella che il ritorno del profeta Elia deve salvare dalla distruzione e quella dove Ciro invita a ricostruire il tempio. La speranza messianica si innesta lungo lo sguardo volto al futuro, verso la terra promessa.

La liturgia collega il salire a Gerusalemme del popolo liberato dalla schiavitù babilonese al salire di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua, che celebrerà con il suo salire sulla croce, che costituisce l’argomento del colloquio con Nicodemo. Il salire o l’esaltazione o l’innalzamento, tutti termini simili, sono in rapporto con la rivelazione dell’amore per il mondo da parte del Padre.  L’innalzamento di Gesù corrisponde al suo essere crocifisso. Mistero, che assai più tardi, l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera definisce così: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). L’espressione ‘ha dato la vita’, letteralmente dovrebbe rendersi: ‘ha posto la sua anima’, che richiama il passo di Is 53,12: “ha spogliato se stesso fino alla morte”.

La sfumatura di significato risulta essere ormai questa. Gesù non solo ha dato la vita per noi, ma ha dato la vita a noi, quella vita che nemmeno l’ingiustizia più obbrobriosa, la violenza più ignominiosa, riesce a scalfire, a mortificare, perché quella vita è amore effuso. Quell’amore deriva dall’alto, da Dio, che così svela il suo segreto per il mondo. Gesù ne dà testimonianza con l’allusione al serpente di bronzo secondo la narrazione di Numeri 21,4-9. Come il serpente di bronzo, innalzato nel deserto, recava guarigione (letteralmente: vita) a coloro che l’avessero guardato, così sarà di Gesù quando sarà innalzato sulla croce. Gesù sta istruendo Nicodemo, che era venuto, di notte, a chiedere delucidazioni sul suo insegnamento e lo introduce al mistero dell’immenso amore di Dio per l’uomo, di cui Gesù è il sigillo definitivo, ultima e ultimativa rivelazione di Dio. La forza del ragionamento di Gesù sta in un particolare: l’altezza, il fatto che per dare salvezza Gesù debba essere innalzato. Questo particolare nasconde la modalità della rivelazione di Dio e costituisce perciò per l’uomo la possibilità di accesso a tale rivelazione. È da quell’altezza che ci viene la vita eterna, perché da quell’altezza si rivela in tutto il suo splendore l’amore del Padre per l’uomo e l’intimità del Figlio con Lui, che di quello splendore è il testimone per eccellenza. Perché quell’altezza? Di cosa parla quell’altezza?

Spesso gli antichi crocifissi, al posto dell’iscrizione di condanna (in latino, INRI= Gesù nazareno re dei giudei) portavano il titolo ‘re della gloria’. È la gloria di un amore che manifesta la sua radice dall’alto proprio quando in basso viene vilipeso e calpestato. È la gloria di un amore che rimane libero nel suo dono proprio quando è rifiutato e negletto. Ma, come dice Gesù: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Da interpretare oramai: non si può salire al cielo se non discendendo. L’innalzamento sulla croce mostra la reale discesa di Dio fino all’uomo, fino a consegnarsi all’uomo, fino a star sottomesso all’uomo che lo tradisce e lo calpesta. E proprio perché custodisce la sua divinità nell’essere calpestato, rivela tutta la potenza di un’umanità che è irraggiamento dello splendore di Dio, un’umanità che tutta si muove nell’amore perché sia vinto l’odio, perché il mondo torni ancora a risplendere della presenza di Dio. Così anche per noi non esiste altro modo di salire a Dio se non quello di discendere, di stare sottomessi perché risplenda l’amore di Dio. Quando s. Francesco di Assisi parla di perfetta letizia allude proprio a questo mistero.

Operare la verità (“chi fa la verità viene verso la luce”) è un’espressione semita che si riferisce al fatto di mettere in pratica i comandamenti. Ma la sfumatura essenziale di significato risulta: i comandamenti non sono causa di meriti, ma autorivelazione di Dio che partecipano, all’uomo che li accoglie, la Sua stessa vita, che è amore per noi. Ciò significa che i comandamenti ci aiutano a ritrovare quella ‘umanità’, rivelata dal Signore Gesù, che costituisce la vocazione dell’uomo e che in Gesù riceve il suo sigillo. Se Dio risplende nell’umanità perché sta sottomesso all’uomo fino a farsi calpestare senza lasciarsi distrarre dal suo amore di benevolenza, anche l’uomo vedrà lo splendore di Dio se sta sottomesso ai suoi fratelli senza lasciarsi vincolare da ingiustizie o malvagità, pur di non uscire dall’amore. E se avrà lo sguardo fisso su Colui che di quell’amore, ferito e appassionato, è il testimone per eccellenza, potrà rimanere nel Suo amore nei tormenti dell’esistenza e far fiorire l’umanità. Come dice la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa’ risplendere su di noi la luce del tuo volto, perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

Se Gesù si premura di ricordare a Nicodemo e ai suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato, vuol dire che si tratta di un evento che non risponde alle nostre attese, vuol dire che noi non avremmo mai immaginato si dovesse passare per quella strada, perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l’intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l’intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell’uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata con la capacità di un nuovo modo di esistenza: invece di un’esistenza autocentrata, si accede a un’esistenza comunionale, relazionale, donata.

L’aspetto straordinario di questa rivelazione è svelato da Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo” (Ef 2,10). Significa che quando facciamo il bene accogliamo l’amore eterno di Dio nello spazio del nostro tempo perché la sua presenza risplenda nella nostra umanità. E se potessimo vedere che tutto nella nostra vita è finalizzato a questo, beati i nostri occhi e beato il cuore diventato capace dei segreti di Dio!

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(18 marzo 2018)

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Ger 31,31-34;  Sal 50;  Eb 5,7-9;  Gv 12,20-33

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Con la richiesta dei gentili a Filippo: “Signore, vogliamo vedere Gesù”, il vangelo ci introduce nell’ora di Gesù, quella nella quale Gesù si mostrerà Salvatore e così apparirà ai nostri sguardi. Diventerà vera per noi la profezia di Geremia: “Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: ‘Conoscete il Signore’, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore -, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”. Il salmo responsoriale traduce il compimento effettivo di questa promessa di Dio con la richiesta: “Crea in me, o Dio, un cuore puro”.

Ma quando un cuore sarà puro? Quando tornerà a lasciarsi commuovere, quando reagirà alla visione del ‘crocifisso’ e si batterà il petto per tornare a sentire vivo e invadente l’amore di Dio. Il cap. 31 di Geremia descrive l’amore di Dio in questi termini: “Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele” (Ger 31,3) che si può rendere con: ‘così, è per amicizia che io ti attiro a me’. E più avanti: “Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza” (Ger 31,20), che si potrebbe rendere: ‘ogni volta che ne parlo, ancora e ancora devo pronunciare il suo nome; e nel mio cuore, che emozione per lui! Io l’amo, sì, io l’amo’. Quell’amore, negletto, disprezzato, farà dire a Gesù, prendendo le parole del libro delle Lamentazioni: “Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore […] Senti come gemo, e nessuno mi consola” (Lam 1,12.21).

Il vangelo di Giovanni non parlerà dell’angoscia di Gesù al Getsemani. Lascia intravedere qui, eco delle parole dei salmi 6,3 e 41,6-7: “trema tutta l’anima mia”, “in me si rattrista l’anima mia”. L’intensità dell’angoscia di Gesù, condivisa dal Padre, raccoglie in un punto supremo la sua umanità che si abbandona al Padre nel suo amore per gli uomini. È questo amore condiviso con il Padre e con gli uomini che permetterà a Gesù di attirare tutti alla salvezza e scacciare il principe di questo mondo, vale a dire dare la vita nella morte, ricevere la vita nella morte. Quando Gesù, al culmine della sua angoscia, prega: “Padre, glorifica il tuo nome” manifesta tutta la sua intimità con il Padre, tanto che chiede al Padre di far splendere l’amore suo in lui in tutta la sua potenza, perché il nome del Padre è proprio Gesù, il volto visibile del Padre. Il cuore torna puro quando potrà percepire questo.

Gesù si paragona al chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto. Il paragone era usato sia nella tradizione rabbinica che poi in san Paolo come immagine della risurrezione. L’immagine verte sulla qualità del frutto, che designa la potenza di una vita non più mortificabile, non più soggetta alla morte, quella vita che il Signore ci rende perché ci fa partecipi della sua, in intimità con il Padre. E la vita, che non è più soggetta alla morte, è lo splendore di un amore che nessuna ingiustizia e violenza piega o mortifica. Per questo Gesù continua nella sua spiegazione con la massima dell’amare o dell’odiare la propria vita: “Chi ama la propria vita, la perde [la distrugge] e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Odiare, contrapposto ad amare, ha il significato di non considerare come un valore supremo. Ne deriva il significato: chi non teme nemmeno la propria morte è sovranamente libero, per amare totalmente. Chi non teme la propria morte disarma il potere perverso del male e lo caccia fuori dal mondo, cioè lo esclude dalla vita. Evidentemente, non si tratta di un’azione puntuale, ma di un processo, secondo il paragone del chicco di grano che porta frutto, perché interessa tutto il corso della vita.

E come è di Gesù, così sarà del suo discepolo. Se Gesù è nell’amore del Padre per i suoi figli, così anche i discepoli saranno nell’amore di Gesù per tutti, godendo di quella vita in Dio che è splendore di amore per noi. ‘Servire’, ‘seguire’, hanno il valore di essere messi a parte del segreto di Dio nel suo amore per il mondo, che in Gesù, proprio quando è innalzato sulla croce, risplende luminoso. Il suo essere levato in alto non allude semplicemente al morire, ma al trasformarsi in potenza vivificante e salvatrice dalla morte, che a noi si comunica per vivere della sua stessa vita.

Così, se riprendiamo la promessa di Dio nella profezia di Geremia, possiamo notare come i due passaggi nevralgici siano dati dalle espressioni: “Tutti mi conosceranno”; “perché io perdonerò la loro iniquità”. Quel perché dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. E possiamo venire perdonati solo riconoscendo di essere peccatori. Più forte è la coscienza del nostro essere peccatori, più profonda sarà l’esperienza del perdono e più rigenerante l’incontro con il Signore, finalmente conosciuto nel suo amore per noi. E per non cadere nell’illusione sentimentale di sentirsi peccatori, senza averne la coscienza in verità, basta riferirsi alle nostre reazioni di fronte all’ingiustizia e alla violenza che ci arrivano addosso dai fratelli. Se davvero abbiamo coscienza di essere peccatori, non rivendicheremo nulla, non ci offenderemo, non resteremo oppressi, perché non vogliamo perdere l’esperienza di quell’amore che costituisce il vero tesoro di vita del nostro cuore. Allora l’alleanza conclusa da Dio con noi è scritta davvero sul nostro cuore, nella carne del nostro cuore. Allora resteremo innalzati con il nostro Signore, crocifisso, e la salvezza, mentre tiene saldi noi, attirerà anche i nostri fratelli.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

(25 marzo 2018)

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Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, Mc 11,1-10

Is 50,4-7;  Sal 21/22;  Fil 2,6-11;  Mc 14,1-15,47

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La liturgia della domenica delle Palme introduce alla settimana cruciale per la storia del mondo, quella che permette una visione d’insieme della creazione e della storia dell’umanità: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito … per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 3,16 e 11,52). Le celebrazioni di questa settimana mostrano fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l’uomo è prezioso agli occhi di Dio. Ci accompagneranno le espressioni drammatiche del salmo 21: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente … hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa…” (Sal 21,7.17-18), piene degli echi del profeta Isaia che descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire … per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,3.5). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha patito, è morto e risorto, in obbedienza in tutto all’amore del Padre per noi.

Il canto al vangelo della messa di oggi costituisce la nota dominante della celebrazione: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. È la ripresa del passo di Fil 2,8, che però sottolinea l’umiliazione che ciò ha comportato: “umiliò se stesso facendosi obbediente”. Nello stesso brano l’obbedienza di Gesù, prima è presentata con ‘svuotò se stesso’, sottolineando il suo divenire uomo da Dio che era, poi con ‘umiliò se stesso’, sottolineando il suo farsi schiavo da uomo che era. Nell’ottica di una obbedienza all’amore del Padre per noi, perché risplenda solo l’amore di Dio per noi.

Nella prima parte della celebrazione, accompagniamo festosamente l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. La frase di lode e stupore che è sulla bocca di tutti davanti all’entrare di Gesù in Gerusalemme, riportata da tutti i vangeli, suona: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Corrisponde alla percezione che Gesù ha di se stesso: lui è l’Inviato, colui che è mandato a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi. I vangeli aggiungono anche che l’Inviato è il re di Israele, il Messia, e tutta la scena dell’ingresso in Gerusalemme ha i caratteri di una regalità messianica riconosciuta, anche se non ancora compresa. Gli sguardi sono volti a Colui che entra trionfale a Gerusalemme, ma per esservi ucciso, anche se nessuno ancora si accorge di quello che in realtà sta avvenendo. L’invito a imitare le folle di Gerusalemme con i rami di ulivo in mano, mentre la processione entra nella chiesa per celebrare la Passione del Signore, ha il valore di accogliere nel nostro cuore il venire di Gesù, di accoglierlo nel suo mistero di Inviato e di Testimone dell’amore del Padre per noi.

La liturgia, conclusa la processione, cambia registro. Invita alla compassione, alla compagnia, amorosa e partecipante, con l’uomo dei dolori, con l’uomo umiliato e obbediente, vilipeso e condannato, dato per noi perché noi avessimo la vita. Il senso della lettura della passione, celebrata in forma solenne, è proprio quello di introdurci nel mistero di Colui che viene, umiliato e obbediente fino alla morte e a una morte di croce, suscitandoci sentimenti di intima compassione e di riverente amore, sentimenti che ci accompagneranno lungo tutti i riti della settimana santa.

Viene letto, come prima lettura, il terzo carme del Servo di Jahvé (Is 50,4-7), figura di Gesù flagellato e deriso, che l’assemblea riprende con il salmo 21 (22), ripetendo come versetto responsoriale il primo versetto: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Parole, che riascolteremo nella solenne proclamazione del vangelo della Passione. Se un non cristiano leggesse questo salmo, dopo che abbia letto la descrizione della passione di Gesù nei vangeli, non potrebbe non restare profondamente meravigliato della precisione con cui il salmo elenca le varie angherie che Gesù subisce: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: ‘Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!’ … un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi .. si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte …”.

Ascoltando la narrazione della passione di Gesù, nel racconto di Marco, colpisce il silenzio di Gesù. Nel processo Gesù tace davanti ai suoi accusatori. Risponde solo alla domanda del sommo sacerdote confermando che lui è il Messia e il Figlio di Dio, secondo la profezia di Dan 7,13, passo che i sacerdoti conoscevano bene e da cui deducono le loro ragioni per condannare quel millantatore. Davanti a Pilato non risponde alle accuse ma solo alla domanda: “Tu sei il re dei Giudei?” con quel “Tu lo dici”, che però Pilato non prende come motivo di accusa nei suoi confronti. Gesù si attiene alla figura del Servo sofferente che non apre la bocca (Is 53,7). Non si tratta di credere ad una sua parola, ma a Lui, per come si è presentato fino ad allora e per come morirà sulla croce, testimone dell’amore del Padre per noi, oltre ogni violenza e ingiustizia.

Il vangelo di Marco inizia così: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). Con il racconto della passione, che si conclude con la dichiarazione del centurione sotto la croce vedendo morire Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39), termina l’itinerario del lettore che è stato accompagnato lungo tutta la narrazione perché riconosca in quel Gesù, profeta di Galilea, il Messia e il Figlio di Dio.

Se il racconto della passione si apre con la scena della donna che versa il profumo sul capo di Gesù, significa che il mistero di Gesù può essere colto solo nell’allusione al significato della sua morte redentrice. Se nessuno si era accorto di ciò che si andava preparando, una donna sola, nella tenerezza del suo amore, intuisce il segreto di Gesù. Versargli sul capo un unguento preziosissimo (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio) risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l’amore che quella morte significa ed esprime. I Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga e impregna tutto perché l’amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore. Quando s. Paolo, rivolgendosi ai suoi fedeli, li chiama profumo di Cristo, allude proprio a questa tenerezza che ha conquistato il cuore – così si può chiamare il pentimento per i nostri peccati! Sarebbe il frutto più autentico di un commosso ascolto della passione di Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Resurrezione del Signore

(1° aprile 2018)

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At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

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Beato colui che nell’Uomo sofferente ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell’amore del Padre. Beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini. Beato colui che ha l’intelligenza allenata per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell’amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito.

La settimana santa era cominciata con la colletta del lunedì: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio”. Lungo la settimana più volte era risuonata la profezia di Isaia: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12). Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più potenti: “… poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita.

Nell’ufficio della santa passione nel rito bizantino, la liturgia addita tre personaggi per suscitare i sentimenti dei cuori nei confronti di quell’Uomo disprezzato e maltrattato, senza più apparenza né bellezza: Giuda, con l’insistente annotazione: “ … ma non ha voluto comprendere l’iniquo Giuda”; il ladrone sulla croce: “Ricordati anche di noi nel tuo regno”; la Vergine, sua Madre, straziata dalla spada del dolore, tormentata dalle doglie che non aveva sofferto nel parto, con gli angeli che assistono e dicono: ‘Incomprensibile Signore, gloria a te!’, mentre supplica: “Dimmi una parola, o Verbo, non passare accanto a me in silenzio …”.  Nel riposo del sabato la Chiesa ha contemplato: “Per riempire della tua gloria tutte le cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli uomini”.

E con la veglia pasquale viene aperto il mistero della morte e risurrezione di Gesù: se la morte è l’ultimo nemico che deve essere annientato, allora vuol dire che non c’è nemico che abbia potere su Colui che l’ha vinta. E se l’ha vinta come primogenito di tanti fratelli, allora vuol dire che la sua stessa vita, non più segnata dalla morte, diventa la nostra vita, quella che può segnare e vivificare il nostro vivere quotidiano, sempre tallonato e ferito dalla morte e spirituale e fisica.

Nell’annuncio al mondo della risurrezione di Gesù la Chiesa proclama che vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell’essere e dell’agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr. Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il bisogno dell’uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l’uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Come lo sottolinea un canto bizantino: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. A cui fanno eco le parole di Giovanni Crisostomo: “Tutti godete il banchetto della fede. Tutti godete la ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la propria miseria, perché è apparso il nostro comune regno. Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati”.

Nella gioia esultante per il Signore risorto, gli angeli dicono alle donne che si erano recate al sepolcro: “Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui“. Bisogna intendere: Gesù non è più confinato in un posto perché dovunque lo si può vedere e sentire. Come aveva promesso che sarebbe restato con noi fino alla fine del mondo. Dice una preghiera: “Oh, la tua divina, la tua dolcissima voce amica! Con verità hai promesso, Cristo, che saresti rimasto con noi fino alla fine dei secoli. E noi fedeli esultiamo, possedendo quest’ancora di speranza”.

L’augurio è proprio quello di sentire la sua voce, come la Maddalena, come i discepoli e non solo quella degli angeli che ci dicono che è vivo. Quella voce che potremo udire e riconoscere nelle parole di vita del suo vangelo quando penetrano nel nostro cuore, quando rivelano quella forza prodigiosa di vita perché in esse sentiamo l’eco di quella ‘dolcissima voce amica’, di Colui che, vivo, vive in mezzo a noi.

Nel racconto di Giovanni, la domenica di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è proprio Maria Maddalena, quella che per prima sente la ‘dolcissima voce amica’ chiamarla per nome. Essa viveva un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei il Signore era l’Assente; non poteva che sentirlo così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. E Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro: “Vide e credette”. Il brano evangelico introduce al mistero della risurrezione con un crescendo rispetto alla ‘potenza’ del vedere espressa in greco da tre verbi. Prima semplicemente si guarda (Maria Maddalena vede la pietra tolta dal sepolcro e Giovanni, arrivato per primo al sepolcro, guarda da fuori nel sepolcro e vede i teli), poi si osserva attentamente, si contempla (Pietro, entrato nel sepolcro, guarda attentamente i teli e il sudario posto in un luogo a parte), infine si conosce, si intuisce intimamente la verità delle cose (Giovanni, entrato nel sepolcro, vede e crede). È l’ascesa suggerita dall’evangelista per fare esperienza del mistero della risurrezione, assolutamente imprevedibile per gli uomini.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha a che fare con i tre doni di Gesù che il vangelo di Giovanni riporta: la gioia, la pace e la libertà. Sono i doni tipicamente pasquali che, uniti all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita. Perché anche noi possiamo dire al termine della nostra vita: “l’abbiamo amato sino alla fine’, ‘abbiamo amato i nostri fratelli sino alla fine’, come meglio abbiamo potuto. L’augurio pasquale più bello!

CRISTO È RISORTO. È VERAMENTE RISORTO!

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

II Domenica di Pasqua

(8 aprile 2018)

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At 4,32-35; Sal 117; 1 Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

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Se la liturgia latina celebra la domenica della misericordia, quella bizantina la celebra come la domenica di Tommaso. Il giorno di Pasqua, giorno uno e non semplicemente primo della settimana, ad indicare l’inaugurazione di un tempo nuovo, ha come un completamento nel giorno ottavo quanto alla comprensione della risurrezione di Gesù. Possiamo dire, a causa dell’apostolo Tommaso, che non era presente quando Gesù compare ai compagni la sera di Pasqua. Gregorio di Nazianzo così esalta questa domenica: “Quella Domenica [Pasqua] è il giorno della salvezza, questa è il genetliaco della salvezza; quella è il confine tra la morte e la risurrezione, questa è chiaramente quello della seconda nascita, affinché, come la prima creazione ha avuto inizio dalla Domenica (è chiaro che il settimo giorno a partire da essa fu il Sabato, giorno di pausa per le fatiche), così anche la seconda inizi ancora da essa, che è il primo dei giorni che la seguono e l’ottavo di quelli che la precedono, più sublime del sublime, più ammirevole dell’ammirevole” (Orazione 44).

A differenza del proverbio popolare che, di Tommaso, ha ritenuto la sua incredulità e testardaggine, la liturgia ne coglie invece tutta l’audacia e l’ardore. Come proclama un’antifona della liturgia bizantina: “Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci alla manifestazione del mistero di Gesù, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione”.

Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso così sul serio la vicenda di Gesù che non vuole illudersi. Quando Gesù gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: si trova tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero: ‘mio Signore e mio Dio’, la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel mio, c’è tutto l’anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c’è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture. È l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio.

Se, da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore’.

La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

Ma è singolare che la fede, alla fine del vangelo di Giovanni, sia presentata sotto il segno del senso del tatto e non della vista, come è tipico dell’evangelista Giovanni, rappresentato dalla tradizione con l’immagine dell’aquila dallo sguardo acutissimo. Mi sembra che si possa leggere la cosa in questo modo. La fede non ci porta oltre questo mondo in alto, ma ci mantiene quaggiù nella veracità dell’incontro con il Risorto, colto nell’esperienza realistica dei sensi che si è tradotta nell’aderire totalmente al Dio vivente e al suo Regno ormai toccabile. Quello che la professione di fede di Tommaso ci mostra: ‘mio Signore e mio Dio’, da pronunciare qui, nella storia nostra, perché qui è lo spazio della missione ricevuta da Gesù: ‘Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi’.

A dire il vero non si tratta di essere mandati nel mondo per fare qualche cosa. Il termine è usato in senso assoluto. Significa che il credente, in tutto ciò che fa, resta collegato, tramite Gesù, al mistero stesso del Padre, che aveva mandato Gesù per mostrare la grandezza del suo amore. A questo si riferisce l’annotazione della prima lettura: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù” (At 4,33). Una bella preghiera della liturgia bizantina pasquale canta: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo ‘fratelli’ anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte ed ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”. Questo opera lo Spirito Santo, quello che Gesù ‘soffia’ sugli apostoli la sera di Pasqua: renderci un corpo solo e un’anima sola, con lui e tra di noi. Da qui deriva la forza che rende credibile e convincente la proclamazione della risurrezione del Signore, che abita vivo nei nostri cuori e in mezzo a noi. Come sottolinea la prima lettera di Giovanni: è la gioia della risurrezione che sgombera i cuori da ogni timore e quindi da ogni attaccamento a se stessi rendendoli splendenti della compassione del Cristo per l’umanità, partecipi di quella pace che rivela la gloria di Dio tra gli uomini.

Il sigillo della rivelazione pasquale è la pace che Gesù Risorto ci offre. Si tratta della pace messianica, quella che racchiude tutti i doni di Dio rendendoceli disponibili. Gesù la proclama e la offre definendola in rapporto a tre cose:

1) in rapporto alle sue piaghe. Mentre dà la sua pace mostra le mani e il costato. Quella pace ci deriva dalle sue piaghe e le sue piaghe ci confermano che il Signore risorto è il Gesù che ha patito, tanto la sua passione e morte ha fatto risplendere l’amore di Dio per gli uomini. Sarà così anche per i suoi discepoli: è la condizione della condivisione della rivelazione del vangelo. La gioia della presenza del Signore risalterà proprio là dove il discepolo è chiamato al martirio in qualunque prova della vita.

2) in rapporto alla missione: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Non si tratta semplicemente del fatto che i discepoli sono inviati ad annunciare al mondo la buona notizia, ma del fatto che l’annunceranno nella stessa modalità nella quale Gesù l’ha annunciato e cioè che come Gesù non dice e non fa se non quello che sente e vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19), così i discepoli nei confronti del loro Maestro.

3) in rapporto allo Spirito Santo, di cui Gesù ci ha ottenuto l’effusione sulla croce. L’opera dello Spirito è la riconciliazione con Dio ed energia di comunione. Se Luca, nella prima lettura, descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è appunto la comunione.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

III Domenica di Pasqua

(15 aprile 2018)

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At 3,13-15.17-19;  Sal 4;  1 Gv 2,1-5a;  Lc 24,35-48

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Il canto al vangelo riprende l’espressione di meraviglia e commozione dei due discepoli di Emmaus dopo il riconoscimento di Gesù. Si ripetono a vicenda: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32). Potremmo rendere, più alla lettera: ‘non bruciava il nostro cuore (oppure: non sentivamo ardere il nostro cuore, non avevamo il cuore incendiato) mentre ci parlava lungo il cammino, quando apriva le Scritture a noi?’. Ecco il collegamento: ardere per veder aprirsi. Senza fuoco le Scritture restano chiuse. Se il cuore arde, può vedere aprirsi le Scritture. Ascoltare senza sentir ardere il cuore non farà aprire nessuna porta. Luca usa lo stesso verbo ‘aprire’ per l’azione di Gesù tanto nei confronti delle Scritture, come i due discepoli ricordano commossi, quanto nei confronti della mente dei discepoli, come la fine del brano riporta: “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45). L’annotazione è singolare perché è sempre Gesù, accolto, riconosciuto come il Vivente, che apre il cuore e le Scritture. Ciò significa che il segreto desiderio e del cuore e delle Scritture è sempre lui, il Testimone dell’amore del Padre per i suoi figli. Vuol dire che e il cuore e le Scritture non aspirano ad altro se non all’esperienza dell’amore di Dio.

La testimonianza a cui i discepoli sono invitati non consiste semplicemente nel riferire a tutti che Gesù, il crocifisso, è risorto, notizia del resto assolutamente sconvolgente, ma nel fatto che, proprio perché Gesù è risorto, allora l’uomo può essere perdonato e ritrovare la via della comunione con Dio nell’esperienza del suo amore, solidale con tutti. Così dice Gesù alla fine: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,46-47). Per questo la prova, se così si può chiamare, della risurrezione di Gesù, riguarda non l’emozione sconvolgente ed entusiasmante del vedere il Signore risorto (tra l’altro, i vangeli annotano sino alla fine che i discepoli stentano a credere, hanno paura, nonostante le ripetute apparizioni del risorto, a testimoniare che la risurrezione non fa parte dell’orizzonte umano e che si colloca sul confine tra questo mondo e il mondo futuro), ma il fatto di collegare il risorto al crocifisso. La testimonianza suprema è il fatto che Gesù ha patito ed è morto mostrando la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini e la risurrezione è la conferma che questo amore è vita eterna, vita divina comunicata a noi perché anche noi, in Gesù, possiamo vivere del suo stesso amore.

Tanto che, diversamente da come ci saremmo aspettati, anche noi lettori moderni, sembra che il carico della prova della risurrezione non stia nel corpo ormai glorioso di Gesù, ma nel raccordo dell’evento salvifico di Gesù alle Scritture. Noi professiamo nel Credo: ‘il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture’, come del resto sempre i vangeli annotano. Quel ‘secondo le Scritture’ risulta essenziale per l’esperienza cristiana, perché, se Gesù è il Salvatore, lo è secondo il disegno di Dio che è iniziato fin dalla creazione del mondo, è proseguito nell’elezione del popolo di Israele, nell’invio dei profeti fino all’invio del Figlio.

Pietro, nella sua predicazione, come proclama la prima lettura, collega la risurrezione al Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio dei nostri padri “che ha glorificato il suo servo Gesù…” (At 3,13). Servo, in greco, sta per figlio e richiama l’invio del Figlio che si fa servo obbediente fino alla morte di croce per mostrare in tutto il suo splendore l’amore del Padre per noi. La vicenda di Gesù si colloca all’interno dell’alleanza di Dio con il suo popolo, all’interno dell’alleanza di Dio con gli uomini fin dalla creazione. È dalla testimonianza del Suo amore che scaturisce per noi la vita abbondante, quella vita eterna non più mortificabile nella tensione dell’amore che la origina e la muove. Ecco perché il senso proclamato della risurrezione è nella conversione, vale a dire la possibilità di vivere nella comunione col proprio Dio nel suo amore per tutti i suoi figli. Di questo i discepoli di Gesù sono testimoni per il mondo.

La conversione, come richiama la colletta: “O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio, vittima di espiazione per i nostri peccati, hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri il nostro cuore alla conversione e fa di noi i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”, nelle esortazioni degli apostoli, è sembra abbinata al perdono dei peccati. Pietro, invitando a convertirsi, in realtà richiama l’invito che percorre tutte le Scritture: ritornate a Me, ritornate a godere la Mia promessa di vita piena, la Mia alleanza con voi! L’espressione italiana ‘cambiate vita’ significa in realtà: ritornate a Dio. Quel ritorno allude al fatto di fissare lo sguardo su ciò che Dio ha compiuto, vale a dire al Cristo che doveva soffrire e il terzo giorno risorgere dai morti. Come misteriosamente aveva preannunciato il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). È proprio Dio che si lascia trafiggere e la salvezza viene dal fatto di guardare a lui trafitto. Non c’è altra strada per convertirsi, per credere. Non è sdegnandosi con se stessi o sognando una giustizia superiore che il cuore attinge al mistero di Dio, ma solo commuovendosi davanti ad un amore così toccante che ti rende prezioso nonostante la tua indegnità. Mi piace ricordare un antico detto talmudico: prima di creare il mondo, Dio ha creato il ritorno a Lui, la teshuvah. Il senso del mondo sta nell’amore preveniente di Dio, sempre, comunque. Ad indicare che la risurrezione di Gesù proprio questo fa risaltare: l’amore di Dio splende su tutto, in tutto e noi, guidati dalle Scritture, in Gesù possiamo vederlo all’opera e con lui viverlo.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

IV Domenica di Pasqua

(22 aprile 2018)

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At 4,8-12;  Sal 117;  1 Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

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La confessione del Risorto come il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, in questo periodo pasquale, comporta due verità strettamente collegate: anzitutto la realtà che Gesù e il Padre siano una cosa sola e poi che Gesù sia il Redentore, cioè Colui che introduce l’umanità alla piena comunione con Dio. La figura del ‘buon pastore’, come risalta dal brano evangelico odierno, prende tutto il suo spessore se si collega a queste due verità.

Prima però di definirsi ‘il pastore buono’ (in greco è usato l’aggettivo bello), Gesù si presenta come colui che entra dalla porta perché è conosciuto dal guardiano. Poco oltre Gesù dirà: “il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Tale conoscenza è definita in rapporto al loro amore, totalmente condiviso, per le pecore. Quando Gesù dice che conosce il Padre allude fondamentalmente all’unità del loro sentire e agire in rapporto ai figli, che il Padre vuole nella piena comunione con Sé per partecipare loro la gioia del suo amore. La conferma la possiamo dedurre dall’espressione di Gesù: “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo” (Gv 10,17).

È proprio ciò che viene suggerito con la seconda immagine che Gesù si applica: lui è la porta (cfr Gv 10,7). È la porta che introduce alla comunione della gioia dell’amore del Padre: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). È l’abbondanza messianica, quel ‘di più’ che solo il Messia poteva ottenerci e tale che sopravanza ogni tipo di merito, perché ciò che riempie il cuore dell’uomo è solo questa sovrabbondanza che proviene da lui e non la giustizia che proviene dalle nostre opere. Se il vangelo definisce questa porta come la porta stretta è perché l’uomo con fatica abbandona la sua pretesa di giustizia per far posto a tale sovrabbondanza. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta.

Con la terza immagine: ‘io sono il buon pastore’ Gesù allude al come ci ha gratificato della vita in abbondanza, dandoci cioè la sua. Il testo evangelico, a dire la verità, è più preciso. Non dice semplicemente che dà la vita per noi, ma che la pone, la mette a disposizione, la mette in gioco totalmente. L’allusione è che Gesù, che pone la sua vita per noi, va colto nel mistero del Padre che gli ha comandato questo, nel mistero dell’amore eterno di Dio per i suoi figli. Per questo la colletta può pregare: “O Dio, creatore e Padre, che fai risplendere la gloria del Signore risorto quando nel suo nome è risanata l’infermità della condizione umana, raduna gli uomini dispersi nell’unità di una sola famiglia, perché aderendo a Cristo buon pastore gustino la gioia di essere tuoi figli”.

Dignità filiale, che Giovanni, nella sua prima lettera, definisce in questi termini: “vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente … Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,1-2). È guardando a Gesù, morto e risorto per noi, che tale verità emerge nei cuori e dà senso a tutta la nostra storia, che è sempre storia sacra, una storia d’amore del nostro Dio con noi. Ciò che il paradiso svelerà sarà semplicemente questo: sarà un’esplosione di umanità allorquando tutto sarà visto percorso da questa abbondanza di amore, e precisamente in tutto ciò in cui si è espressa la nostra vita. Non solo tutto sarà consumato nell’amore ma che tutto è stato intriso di questo amore. Come può questa esperienza non generare un inno di lode modulato in infiniti modi, sempre rinnovato?

Quando Pietro dichiara: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4,12), allude alla dinamica di amore del Padre che ha accolto e raccolto tutti i suoi figli nell’unico Figlio, testimone del suo amore per noi. È una dichiarazione inclusiva, non esclusiva. Non vuol dire che non ci si salva se non per mezzo di Gesù, ma che ogni ricerca di salvezza, comunque sia vissuta dagli uomini, è mediata da Gesù, a lui si riferisce, perché a lui guarda il Padre, perché in lui riposa tutta la sua compiacenza.

Ora, la ragione di amore del Padre per il Figlio, è la stessa ragione di amore che vale per i discepoli di Gesù. Gesù è amato dal Padre perché pone la sua vita per noi, così noi siamo amati da Gesù perché poniamo la nostra vita per i fratelli. Non è una ragione di merito, ma una ragione fontale, di sorgente. Vale a dire, possiamo scoprire l’amore di Dio nel fatto di porre la nostra vita per i fratelli e lo possiamo fare nell’energia di Colui che ce l’ottiene con la sua morte e risurrezione. Per questo Giovanni dice che Gesù è stato inviato e muore in croce “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Se Gesù è il buon pastore, lo è per questo.

Di fronte ad ogni tipo di ingiustizia, di afflizione, di oppressione, interiore e esteriore, potessimo dire con Gesù: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso”! Significherebbe diventare collaboratori con Dio alla sua opera di salvezza, quella di radunare i figli di Dio dispersi; significherebbe non permettere che il nostro cuore ceda alla divisione con qualche fratello scavando fossati o respingendolo lontano da noi, perché in tal caso daremmo più importanza all’agire di un uomo che all’agire di Dio e ci sottrarremmo alla comunione con Lui che non ha altro desiderio se non quello di attrarre alla sua comunione tutti i suoi figli.

L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in Lui riposa pieno, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se dò la vita; solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. È il dono del Risorto a coloro che credono in lui. È la speranza che la chiesa deve al mondo per la sua fede nel Risorto che la raduna.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

V Domenica di Pasqua

(29 aprile 2018)

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At 9,26-31;  Sal 21;  1 Gv 3,18-24;  Gv 15,1-8

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L’immagine della vite ha risonanze profondissime nelle Scritture, soprattutto in rapporto alle premure di Dio per il suo popolo. Si possono leggere i passi di Os 10,1, Is 5,1-7, Ger 2,21. In particolare, però, la vite ricorre nelle parabole di Gesù: nella parabola degli operai inviati alla vigna (Mt 20,1-16), nella parabola dei due figli invitati ad andare a lavorare nella vigna (Mt 21,28-30) e, con accenti assolutamente evocativi, nella parabola dei vignaioli assassini (Mt 21,33-42) dove l’amore di Dio per il suo popolo appare proprio folle.

La vite, per il vino che se ne ricava pestando gli acini e facendo fermentare il mosto, richiama il sacrificio pasquale di Gesù; il vino, frutto della vite, richiama il sangue, il mistero eucaristico, lo Spirito Santo, il regno di Dio.

Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). In rapporto a cosa vale quel ‘fare’? La preghiera dopo la comunione sembra suggerire la direzione in cui guardare: “fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato alla pienezza della vita nuova”. Tre i termini significativi: vita, nuova, pienezza. Quando Gesù si paragona alla vite e paragona noi ai tralci allude all’evento pasquale che aveva indicato poco prima, parlando ai discepoli della sua dipartita e del suo ritorno: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Quella vita, che lui ha donato e che diventa in noi radice di vita nuova perché ci fa partecipi della sua, è piena nel senso che non è più mortificabile da nulla. Vale a dire: l’amore del Padre, che Gesù ha fatto splendere nella e con la sua vita, viene immesso in noi in modo da essere anche noi inviati al mondo per mostrarlo nel suo splendore, stando radicati in Gesù.

Senza questo radicamento in Gesù nulla può essere compiuto di quello che è gradito al Padre e che ci procura vita nuova e piena. Se, all’inizio del vangelo, i discepoli cercano dove dimora Gesù e stanno con lui, ora questa ricerca si è approfondita e ricevono la promessa che potranno dimorare in lui, non semplicemente con lui. È il frutto dell’evento pasquale. È caratteristico che il salmo responsoriale di oggi sia il salmo 21(22), il salmo della passione, dato che comincia con l’angosciosa affermazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e termina con la proclamazione del frutto di quella passione: “Al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”, espressione che nell’ebraico e nelle versioni greca e latina suona più precisamente: “(proclameranno la sua giustizia) al popolo che sarà generato, che il Signore ha fatto”. Il poter dimorare IN Gesù suppone che Gesù abbia rivelato il suo segreto in tutti gli aspetti che lo caratterizzano, fino a che lo scopo per cui era venuto fosse manifestato in tutta la sua densità e bellezza: Gesù muore, risorge e entra nella gloria del Padre per essere sempre in noi e noi in lui e condividere la sua stessa intimità di vita con il Padre, vita che è amore per noi, incessantemente donata.

La discepolanza rispetto a Gesù è condizionata alla verità/profondità dell’essere IN lui. Quello che Gesù dice: “Chi rimane in me, e io in lui…”. Qui l’immagine della vite e dei tralci acquista tutto il suo spessore di rivelazione. L’immagine cela la realtà della dinamicità e continuità del progresso del discepolo in ragione dell’intimità del rapporto con Gesù, rapporto che può essere sempre più profondo, sempre più stabile. Tanto che la potatura inevitabile per portare più frutto, al di là dell’immagine, significa: più si resta in Gesù, più si porta frutto e il frutto non è che l’intimità sempre più grande, sempre più sincera, sempre più profonda, con Gesù che dimora in noi. Quell’intimità non verte su un ripiegamento intimistico, tutt’altro. Quell’intimità parla della condivisione con Gesù nel suo essere inviato al mondo perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Due sono gli aspetti singolari di questa intimità che è fatta gustare al discepolo. Primo aspetto: è bandita ogni banalità, vale il tutto o niente, nel senso che il tralcio che non rimane nella vite verrà tagliato e bruciato. Come a dire: la parola del Signore diventa per noi la parola della nostra vita quotidiana e si fa radice di vita in ogni occasione. Cercare la vita fuori o contro quella parola significa perdersi. Così la discepolanza è concepita nel rifiuto di vivere egoisticamente perché sarebbe un vivere separati da Gesù e dai fratelli.

Secondo aspetto: il progredire nell’essere discepoli di Gesù è concepito nei termini di una presenza personale vissuta nella intimità più grande possibile. Il che equivale a dire che progredire significa far sì che in noi Gesù, il Signore, diventi sempre più dolce, più amante, più vero, più presente insomma nella sua umanità luminosa che dà consistenza alla nostra. Credo corrisponda a quello che dirà san Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Quando Giovanni, nella sua prima lettera, dice: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1Gv 3,18), possiamo intendere: siamo invitati ad amare con l’agire, nel concreto della vita quotidiana, ma pescando nell’intimità con Gesù. La vita viene concepita come un’obbedienza alla dinamica dell’amore. Ed è esattamente quello che Gesù sottolinea più volte ai discepoli nell’ultima cena insistendo sul riferimento a lui quanto al ‘come’: amatevi come io ho amato voi, rimanete in me come io rimango in voi …. Quel ‘come’ corrisponde alla verità esperita dell’essere in lui.

Posso ancora aggiungere un aspetto rispetto al portar frutto che riguarda anche l’intelligenza delle Scritture, colte nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo alla gioia del suo Dio. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di inglobare tutti.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

VI Domenica di Pasqua

(6 maggio 2018)

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At 10, 25-27.34-35.44-48;  Sal 97;  1 Gv 4, 7-10;  Gv 15, 9-17

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Continuando nella meditazione sul mistero della nostra vita in Cristo, al paragone della vite e dei tralci Gesù aggiunge una nota personale: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… come io ho osservato i comandamenti del Padre mio … questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati“.

A dire il vero, le frasi di Gesù suonano piuttosto strane. Non ha molto senso infatti dire che uno è amico se fa ciò che gli comanda l’altro oppure unire l’amare al fatto di essere comandati. In questo intensissimo brano, dagli accenti estremamente confidenziali, si aprono continuamente nuovi livelli di comprensione a seconda di come le varie espressioni sono tenute insieme. La complessità è intenzionale perché la densità di ciò che viene rivelato è tale da doverla accostare da più punti e l’ascoltatore o il lettore è condotto, per accostamenti successivi, a entrare sempre più nel profondo.

Ho osservato una particolarità che a me sembra oltremodo significativa. Gesù parla di amore, gioia e comandamento, ma nei versetti 9,10 e 11, si legge una specificazione singolare. “Rimanete nel mio amore”, in greco: nell’amore quello mio; “perché la mia gioia sia in voi”, la gioia quella mia; “questo è il mio comandamento”, il comandamento quello mio. È come se il testo volesse insistere sulla natura, sulla qualità di quell’amore, di quella gioia e di quel comandamento. Se Gesù intesse il suo discorso su tre come, è perché allude a ciò che lo caratterizza in proprio. Evidentemente il come non ha valore di paragone, quasi Gesù volesse additarci lui come esempio in modo da raggiungere l’uguaglianza di intensità con lui nell’amore. Sarebbe oltremodo presuntuoso per noi uomini. Non esprime uguaglianza, ma ragion d’essere, identità di movimento, natura del movimento. Gesù riferisce tutto al Padre, come se dicesse: tutta la compiacenza che il Padre ha posto su di me (si pensi al battesimo e alla trasfigurazione), io l’ho posta su di voi. Voi, in me, siete chiamati a entrare sotto questa compiacenza e a goderne i benefici. Tale compiacenza dura dall’eternità e lungo tutta la storia.

Lo proclamiamo con il salmo 97/98, salmo che fa parte dei cinque salmi con cui gli ebrei ricevono liturgicamente il Sabato (salmi 95-99), con l’espressione: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”, ragion per cui si è invitati a cantare in modo nuovo: “cantate al Signore un canto nuovo”. Se il cuore si apre al mistero del Figlio, inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre e a riunire i figli di Dio dispersi, allora non può non sentire compiersi la promessa di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, gioia che qualche versetto più avanti verrà definita: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22).

La gioia è collegata all’esperienza dell’amore, amore che lascia sgorgare fluente la vita. È caratteristico il legame dell’amore con la vita. L’amore rende la vita degna di essere vissuta perché l’amore dà vita, porta vita. Ma perché questo sia effettivo e duraturo, deve valere anche l’aggiunta: l’amore fa dare la propria vita, come è stato per Gesù. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici“. Il che non comporta solo il morire per l’altro, ma il mettere a disposizione la propria vita per l’altro di modo che la propria vita diventi per l’altro alimento, calore, rifugio, riposo, senza alcun limite. Mi sembra risieda proprio in questo particolare aspetto la promessa di Dio all’uomo: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23), ripreso dal canto al vangelo. Come a dire: il venire di Dio ed il suo dimorare nel cuore dell’uomo che osserva la parola di Gesù comporta il renderlo partecipe della sua stessa vita, comporta il metterlo a parte dei suoi segreti e della sua sapienza di vita. E questo Gesù chiama: “perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena“. La gioia è il frutto più autentico non semplicemente dell’amore, ma dell’amore che si è trasformato in vita piena, donata, consegnata. I passaggi sarebbero così compresi: Dio dà il suo Figlio per amore dell’uomo, ma Dio ama tutti coloro che si trovano nel Figlio, cioè coloro che, guidati dal suo stesso Spirito, perdonati e pacificati, si dispongono a far splendere l’amore del Signore comunque. Per quanto dobbiamo aggiungere che l’amore e la gioia sono gli ultimi due passaggi di una serie di quattro, come lucidamente nota Isacco Siro: “A misura della tua umiltà, ti sarà data la capacità di sopportare le tue difficoltà; a misura della tua capacità di sopportare, si alleggerisce il peso della tua anima ed essa è consolata nelle sue afflizioni; a misura della sua consolazione, si accresce il tuo amore per Dio; e a misura del tuo amore, si accresce la tua gioia nello Spirito”. E il movimento continua: a misura della tua gioia si accresce l’umiltà, ecc. (…)

Sono delineati come tre livelli concentrici di realtà: tra il Padre e Gesù, tra Gesù e noi, tra di noi. Il comandamento dell’amore vicendevole pesca nell’intimità di amore del Padre per il Figlio e del Figlio per noi. Fa da perno la persona del Figlio, inviato dal Padre, che si dà a noi nel suo amore salvatore. I comandamenti del Padre sono la salvezza dell’uomo, veicolano la partecipazione alla sua compiacenza in funzione di una comunione nell’amore e questo è il senso della nostra storia. Chi non coglie questa dimensione troverà senza senso o troppo dura la vita perché non riposa in un’intimità (è la sfumatura di significato del termine ‘rimanere’). La dinamica dell’amore è tale che o si estende a tutti o si perde, nel senso che non è possibile limitare a qualcuno l’amore e negarlo ad altri. Non sarebbe più un amore come quello di Gesù. E l’estensione a tutti ha una concretezza che ne qualifica la verità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. L’amore a tutti comporta il trascinare tutti dentro quell’amore vicendevole che è tipico dell’esperienza di comunione con Gesù, rivelatore dell’amore del Padre. Tanto che Gesù può riassumere i comandamenti in uno solo: l’amore vicendevole, che deriva dall’intimità di vita con il proprio Dio Salvatore. Se alla fine non si parla più di comandamenti, ma di un solo comandamento, vuol dire che quel comandamento non solo riassume tutti gli altri, ma di tutti mostra lo scopo unico, il sigillo di autenticità e di vigore. L’amore vicendevole è direttamente dipendente dall’esperienza dell’amore salvatore del Signore. Non si accede all’amore per entusiasmo, ma per intima compassione, goduta e condivisa.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

Ascensione del Signore

(13 maggio 2018)

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At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 4,1-13;  Mc 16,15-20

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Potremmo domandarci: l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù cosa aggiunge alla dichiarazione di fede nella risurrezione?

La tradizione comune della Chiesa ha sempre collegato l’ascensione di Gesù con la visione della nostra futura assunzione nella gloria, come proclama la colletta: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria”. Afferma Leone Magno: “L’Ascensione di Cristo è quindi la nostra stessa elevazione e là dove ci ha preceduti la gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo”. L’evento dell’ascensione è colto quindi in rapporto al nostro destino celeste.

In rapporto a Gesù, il nostro destino celeste viene descritto da s. Ambrogio, che commenta il salmo 23 dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle porte celesti: “Chi è questo re della gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antichi ed entri il re della gloria”: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”.

Ecco: il senso dell’ascensione sta tutto in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio. Ma la narrazione dei vangeli e degli Atti degli apostoli non è su questo che insiste. Il contesto del racconto dell’ascensione comporta due orizzonti di senso che si sovrappongono: l’orizzonte della predicazione e della missione degli apostoli nel mondo e l’orizzonte della interiorizzazione della presenza di Gesù nel cuore degli apostoli, che lo sperimenteranno sempre con loro proprio nel loro essere inviati al mondo. Il vangelo di Marco termina con le parole: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto”. Il vangelo di Matteo: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18). Il vangelo di Luca: “Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,51).

Le immagini della tradizione per indicare l’ascensione, vale a dire il salire al cielo e sedere alla destra del Padre, tradotte in un linguaggio a noi più comprensibile, suonerebbero così: Gesù ha compiuto tutto il tragitto terreno della sua testimonianza dell’amore del Padre per gli uomini e ora, con il dono del suo Spirito, vive in noi trascinandoci nella stessa dinamica di rivelazione dell’amore del Padre per tutti i suoi figli, dovunque si trovino, perché per tutti lui è morto e risorto e tutti hanno il diritto di essere messi a parte del suo segreto. In questo senso, suona potente la sua dichiarazione: “io ho vinto il mondo” (Gv 16,33) perché “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31) [‘contro di me non può nulla’ = in me non ha nulla, non trova nulla che gli possa appartenere, su di me non ha alcuna influenza ..]. Il fatto che Gesù sia nella gloria significa che l’amore del Padre che ci ha testimoniato nella sua umanità e che ci comunica con il dono del suo Spirito è a riprova di ogni attacco del maligno, per essere in totale comunione con Dio e con i fratelli.

Di qui deriva la sottolineatura, nel vangelo di Matteo, di compiutezza, universalità, totalità del mistero che si compie perché per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere … tutti i popoli … tutto ciò che vi ho comandato … tutti i giorni”. Nel vangelo di Luca viene sottolineato lo stato interiore dei discepoli che trovano nella benedizione di Gesù il segno della sua presenza in loro da riempirli di gioia. Nel vangelo di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù accanto ai suoi non va vista nella capacità di fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo; va vista piuttosto in riferimento alla predicazione, vale a dire alla capacità che ha di riempire il cuore, che parla a tutti della sua presenza viva, senza che il mondo lo possa soffocare. La molla segreta di tale capacità è lo stesso desiderio di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai discepoli per raggiungere tutto il mondo.

Perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa di Gesù? Non è certo scontato per noi arrivare a dire: riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c’è nulla in me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna e aperto all’amore dei fratelli perché tu sei in noi e con noi! Sarebbe questo l’effetto auspicabile della fede nell’ascensione di Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo di Pasqua

Pentecoste

(20 maggio 2018)

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At 2,1-11;  Sal 103;  Gal 5,16-25;  Gv 15, 26-27; 16, 12-15

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“O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” canta s. Efrem e la liturgia di oggi, con il canto al vangelo, proclama: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”.

Quando Gesù, nell’ultima cena, aveva promesso l’invio dello Spirito Santo dopo che lui se ne fosse andato, aveva suscitato tristezza negli apostoli. Aveva parlato in modo velato e poi si era spiegato, tanto che gli apostoli avevano concluso: adesso capiamo, adesso crediamo! E lui: ma se tra qualche ora mi lascerete solo e vi disperderete! La cosa strana è che proprio per quell’eventualità lui aveva parlato. E proprio perché aveva tenuto conto di quella eventualità le sue parole sono così rivelative. In sostanza Gesù dice: se prima, quando ero con voi, io stesso vi custodivo, ora, che me ne vado, sarà lo Spirito a custodirvi. Quello che ho fatto io, lo farà anche lui, vale a dire: custodirvi dal maligno in modo che non vi inganni e vi attiri nella sua orbita (intelligenza della parola); mostrarvi la grandezza dell’amore del Padre (fede in Gesù); disporvi, stando uniti a me, a mostrare a tutti quell’amore (amore vicendevole). È la promessa di Gesù: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,13-14). Questo può avvenire solo dopo che Gesù avrà mostrato fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’uomo. In effetti, lo Spirito guida non tanto alla verità (moto a luogo) ma nella verità (stato in luogo). Il che significa che la guida dello Spirito non è tesa a farci raggiungere la verità, ma ad aprire ogni evento della vita alla manifestazione della verità. In altre parole, in gioco è la possibilità di vivere la nostra vita, dentro tutti gli eventi che la caratterizzano, esteriori e interiori, nella logica dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, che nell’umanità di Gesù ha la sua manifestazione più totale. Ogni evento può essere vissuto nell’esperienza dell’amore di Dio che ci trascina nella sua dinamica di comunione con Lui e tra di noi. La guida dello Spirito è tesa proprio a far sì che nessun evento ci impedisca l’esperienza di questo amore; a far sì che ogni evento ci richiami a vivere la potenza di quell’amore, che nulla può mortificare. Quello che appunto domandiamo con la preghiera allo Spirito, che è luce e fuoco.

E quando si sottolinea che lo Spirito dirà tutto ciò che ha udito, non si fa riferimento alle semplici parole di Gesù che noi troviamo nei vangeli, ma al colloquio eterno di Dio in se stesso a proposito della creazione e della salvezza dell’uomo, scopo di tutta la creazione. Quel colloquio riguarda il destino di comunione dell’uomo nella gioia dell’amore con il suo Dio, destino che si gioca sull’immolazione dell’Agnello prima della fondazione del mondo (Ap 13,8). Lo Spirito ha udito tutto quello che il Padre e il Figlio si dicono dall’eternità nella condivisione del loro amore folle per l’uomo. Quella memoria si incendierà nel nostro cuore, del contenuto di quella memoria incendierà il nostro cuore. Il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto.

È caratteristico che nel giorno di Pentecoste lo Spirito appaia con l’immagine delle ‘lingue come di fuoco’. Lingua e fuoco, sono le due immagini dello Spirito. Il fuoco allude all’amore e la lingua alla comunione, nel senso che non ci può essere comunione se non nell’amore. Lo Spirito, mentre spira l’amore nei nostri cuori, apre alla comunione rendendo le differenze suscitatrici di gioia e non di gelosia o timore. Il miracolo di pentecoste possiamo esprimerlo così: i vari idiomi si unificano in un’unica lingua, la diversità si apre alla comunione e tutti comprendono la stessa cosa. Ciò che accomuna, comunque, è solo l’opera di Dio riconosciuto nel suo amore per gli uomini. Tutti mantengono la proprietà dei rispettivi linguaggi, ma tutti esprimono l’identica cosa: i cuori parlano oramai un’unica lingua, a differenza dell’esperimento della torre di Babele, quando gli uomini parlavano l’unica lingua del dominatore di turno in ordine al sogno di grandezza di qualche potente, ma i cuori erano schiavizzati, zittiti nella loro lingua. È il miracolo operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Santissima Trinità

(27 maggio 2018)

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Dt 4,32-34.39-40;  Sal 32;  Rm 8,14-17;  Mt 28,16-20

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L’antifona di ingresso della liturgia di oggi esprime molto bene il senso della confessione di fede nella Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. È la stessa cosa che proclamano i beati in paradiso: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello” (Apoc 7,10). Corrisponde alla comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti.

Lo proclama la prima lettura del Deuteronomio, presa dal primo discorso di Mosè al popolo, a conclusione della sua traversata del deserto, in procinto di entrare nella terra promessa. Sono tutte persone che non hanno visto nulla di quello che Mosè sta raccontando perché coloro che sono stati liberati dalla schiavitù dell’Egitto e hanno assistito alla rivelazione di Dio sul Sinai sono tutti morti nel deserto. Sono lì ad ascoltare i loro figli e Mosè li incalza con due potenti ‘ragionamenti’. È mai successo che un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco e sia rimasto vivo? Oppure, si è mai visto da qualche parte che un dio andasse a scegliersi un popolo combattendo per lui e liberandolo dalla schiavitù? Sono le due ‘evidenze’, la rivelazione al Sinai e la liberazione dall’Egitto, che Mosè ricorda per convincere la sua gente a seguire il Signore. Ecco, confessare il proprio Signore significa proclamare l’esperienza di quelle due evidenze. Certo, noi oggi non abbiamo naturalmente una concezione di Dio così viva da pensare che la cosa più prodigiosa sia effettivamente la sua conoscenza, l’esperienza del suo aiuto. Ma comprendiamo bene i nostri padri che di quella concezione sono stati i testimoni primi.

Proclamare la Trinità significa, prima di tutto, aver accolto la testimonianza di Gesù, aver riconosciuto che in lui si è rivelato lo splendore dell’amore del Padre per noi, con lo Spirito Santo che ci apre il cuore a quella rivelazione. Proclamando il Credo, nella liturgia, diciamo: benedico colui che ha fatto questo e questo per me, accetto di rispondere all’alleanza che ha voluto offrirmi, sono suo servo, erede delle sue promesse e fruitore del suo regno. La proclamazione delle Scritture come la celebrazione liturgica sono percepite come memoriale dell’iniziativa di Dio per l’uomo, il quale è chiamato a riconoscere l’amore di Dio per lui nella sua storia che diventa sacra, storia di salvezza.

Ed è caratteristico che il brano di vangelo, il quale riporta la confessione di fede battesimale, insista su due aspetti strettamente correlati: mentre fa leva sul fatto che il Signore Gesù ci accompagnerà lungo la storia, fino alla fine dei tempi, invita ad annunciare al mondo quello che Gesù ha insegnato e trasmesso. Intimità e missione, ecco i due perni della fede. Fede rivolta al Signore Gesù, ma radicata nel mistero di intimità di Gesù con il Padre e testimoniata nella missione al mondo con il dono dello Spirito, che guida i discepoli a fare esperienza dell’amore di Dio.

Quando Gesù aveva promesso lo Spirito, l’aveva descritto come colui che ci avrebbe guidati a tutta la verità (cfr Gv 16,13). Il che significa: farà vivere ogni circostanza nella logica di quell’amore del Padre che Gesù ci ha fatto conoscere, non permettendo che ci possa essere evento capace di mortificare quella esperienza.

Non bisogna dimenticare che l’invocazione del Padre come Abbà, così tipica della fede nel Padre di Gesù, che ce lo ha rivelato nel suo volto di misericordia, sulle labbra di Gesù compare solo nella sua preghiera al Getsemani (Mc 14,36), cioè nel momento più angoscioso della sua vita terrena. Le altre due volte, nel Nuovo Testamento, che compare quell’appellativo, è messo sulle labbra dei credenti come proferito dallo Spirito Santo nei nostri cuori: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15); “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!” (Gal 4,6). Non posso non pensare che la circostanza nella quale quell’invocazione sgorgherà più potente sarà quella nella quale la prova opprimerà. L’intimità sta insieme all’angoscia perché così è stato per Gesù e così sarà per la nostra umanità, chiamata alla mensa dell’amore di Dio, insieme a tutti i fratelli. Gesù, che è sempre con noi, ci innesta nel suo movimento di rivelazione al mondo dell’amore di Dio, riunendo tutti alla stessa mensa, perché tutti chiamati allo stesso destino. Questo comporta la proclamazione della fede nella Trinità.

Rifacendomi ai versi di Dante, poeta del paradiso, avverrà anche per noi quello che è avvenuto per lui nella sua ascesa verso Dio:

Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo

cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,

sì che m’inebriava il dolce canto.

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso

de l’universo; per che mia ebbrezza

intrava per l’udire e per lo viso (Par XXVII).

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Corpus Domini

(3 giugno 2018)

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Es 24, 3-8;  Sal 115;  Eb 9, 11-15;  Mc 14, 12-16. 22-26

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Dal punto di vista storico, furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione di questa festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

La celebrazione di oggi verte tutta sul tema dell’alleanza nelle sue tre dimensioni: la dimensione celebrativa-sacrificale, la dimensione misterica o sacramentale, la dimensione escatologica. L’alleanza sinaitica, che la lettura del cap. 24 del libro dell’Esodo commenta, è sigillata dall’aspersione con il sangue degli animali uccisi per l’olocausto e dall’obbedienza del popolo che si dichiara pronto a eseguire ciò che il Signore aveva comandato e che Mosè fa conoscere loro. Tra l’altro, l’espressione singolare con cui il libro dell’Esodo riporta la volontà del popolo (“Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”, Es 25,7), è stata interpretata dalla Tradizione come la norma di intelligenza delle Scritture e della crescita spirituale: metto in pratica e comprendo, faccio e ascolto (ascolto, cioè, l’ispirazione interiore del comandamento, impossibile da cogliere senza la disponibilità a praticarlo, per la fiducia in Colui la cui promessa di vita è iscritta nella parola che mi rivolge). Quella alleanza sinaitica, che si compie definitivamente nella nuova alleanza, spiegata dalla seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, è sigillata nel sangue di Gesù. La nuova alleanza, nella sua dimensione misterica, è celebrata con gli apostoli nel Cenacolo ed è sigillata con il dono del Corpo e del Sangue di Gesù, oramai vero cibo e vera bevanda per l’accesso al Regno di Dio. Così che la comunione con Dio, frutto della nuova alleanza, è sigillata dalla fraternità in Cristo dei discepoli, vissuta nell’amore vicendevole, come annuncio del Regno.

La celebrazione eucaristica è animata proprio dalla tensione al Regno che i discepoli sono chiamati ad annunciare al mondo, radicati in Cristo, nell’attesa del compimento ultimo nel regno dei cieli. Come proclama la colletta: “Signore, Dio vivente, guarda il tuo popolo radunato intorno a questo altare, per offrirti il sacrificio della nuova alleanza; purifica i nostri cuori, perché alla cena dell’Agnello possiamo pregustare la Pasqua eterna della Gerusalemme del cielo”. Pensiero ripreso nella orazione dopo la comunione: “Donaci, Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.

La parte innica della liturgia è frutto dell’intelligenza del mistero da parte di s. Tommaso d’Aquino con i suoi componimenti Pange lingua e Lauda Sion, largamente usati dalla Chiesa nella sua devozione eucaristica. Sono però soprattutto i tre prefazi che suggeriscono le porte di accesso allo splendore di questa festa.

Il primo si incentra sul memoriale del sacrificio: viene celebrato il mistero d’amore di Dio per l’uomo, che nel sacramento continuamente si ripresenta perché ognuno vi possa essere immesso e in esso rimanere.

Il secondo celebra l’eucaristia come vincolo di unità e perfezione: “in questo grande mistero tu nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l’effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria”. È il mistero della santità come mistero di fraternità realizzata, a immagine della Trinità. La vita eterna che il sacramento ci procura è la vita nello Spirito che ci fa vivere un cuor solo e un’anima sola, nella lode di Dio; un assaggio di paradiso.

Il terzo celebra l’eucaristia come pegno di risurrezione: “nell’eucaristia, testamento del suo amore, egli si fa cibo e bevanda spirituale per il nostro viaggio verso la Pasqua eterna. Con questo pegno della risurrezione finale partecipiamo nella speranza alla mensa gloriosa del tuo regno”. È la celebrazione del mistero del Regno. Il principio di fondo, illustrato dai Padri nella spiegazione della preghiera del Padre nostro, è semplice: su quello che sarà e che non verrà mai meno va orientata la nostra esistenza. Accedere alla mensa del Corpo e Sangue di Cristo vuol dunque dire imparare a percepire ciò che soddisfa il cuore dell’uomo e a vivere del Dono di Dio, fino a che la verità di questo appaia finalmente al nostro cuore in tutto il suo splendore.

Tre sono i verbi significativi che ricorrono nei prefazi: “… a te per primo si offrì vittima di salvezza”, “in questo grande mistero tu nutri e santifichi”. “Si offrì” vuol dire ‘non si tirò indietro’, ‘non preferì nulla all’amore che lo consumava dentro’, ‘svelò tutta la sua passione d’amore per il Padre e per gli uomini’. In quell’offrirsi non è accentuato tanto la natura riparatrice del suo sacrificio quanto lo splendore dell’amore del Padre che tanto ha amato gli uomini da dare quel suo Figlio unigenito, su cui era posto tutto il suo compiacimento. Il nutrire (il suo Corpo si fa pane di vita, il suo Sangue bevanda di salvezza) allude al fatto che comunica la forza del suo amore che risana e vivifica, rendendoci capaci di percorrere la via per il Regno. Il santificare allude alla potenza di trasfigurazione dello Spirito che ci fa vivere in Cristo e di Cristo fino a che tutto di noi parli di Lui. La cosa straordinaria è che la tensione del santificare non mira che al mistero della fraternità, l’unico segno inequivocabile della presenza di Dio, dello splendore della sua gloria. Quando preghiamo che ci trasformi a immagine della sua gloria, in effetti, chiediamo di poter essere immessi nel mistero d’amore della Trinità da cui deriva la fraternità tra gli uomini. Il segno più eloquente di quell’amore e dello spazio nuovo di fraternità che ne deriva per gli uomini è la dicitura ‘re della gloria’ posta sul capo del Crocifisso.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

X Domenica

(10 giugno 2018)

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Gn 3,9-15;  Sal 129;  2 Cor 4,13-5,1;  Mc 3,20-35

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Sembra che il personaggio in gioco nella trama della liturgia di oggi sia il diavolo. Con la prima lettura compare come prevaricatore sull’uomo, con il vangelo come sconfitto da Gesù. Tutto il mistero di questo inevitabile confronto è ben illustrato dal canto al vangelo: “Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31-32).

La preghiera dopo la comunione descrive il contesto in cui si gioca il confronto con il diavolo sulla base della vittoria pasquale di Gesù: “O Signore, la forza risanatrice del tuo Spirito, operante in questo sacramento, ci guarisca dal male che ci separa da te e ci guidi sulla via del bene”. Ecco, il diavolo tenta di separarci dal Signore! Non preghiamo solo di evitare il male, ma di essere guariti da un certo male (il che significa che questo male ci insidia da dentro), vale a dire dal male che ci separa dal Signore. Il potere del diavolo è direttamente proporzionale alla tragica possibilità di essere ingannati. E l’inganno si configura come l’illusione del bene, come la pretesa di volere comunque il bene. Non per nulla, Gesù si rivolge con severità al suo interlocutore che l’aveva chiamato ‘maestro buono’: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18). Forse, la ragione segreta di questo giudizio perentorio sta nel fatto che solo Dio conosce il modo di vincere il male alla radice, conoscenza che si manifesterà nel suo splendore sulla croce allorquando l’amore prevale vittorioso in tutto. Come dice il canto al vangelo: allora il principe di questo mondo sarà gettato fuori! Ma occorrerà che Gesù sia innalzato sulla croce, trafitto. E nessun uomo avrebbe potuto immaginarsi una via del genere!

Se, dopo questa premessa, ci avviciniamo al brano evangelico di oggi, capiamo il valore della distinzione che regge tutto il passo. Tutto si gioca sulla contrapposizione tra un dentro e un fuori. Quanto al diavolo, che si era insinuato dentro la casa dell’uomo e ne aveva avuto il sopravvento, ora è fatto prigioniero da uno più forte di lui ed è cacciato fuori. Nel vangelo di Marco l’annotazione più comune per indicare l’azione rivelatrice di Gesù quanto al suo essere “l’Inviato”, è appunto la cacciata dei demoni. E se Gesù si circonda di collaboratori, di assistenti, con l’elezione dei Dodici, sarà per estendere questa azione rivelatrice: anche gli apostoli sono forniti del potere di cacciare i demoni. In effetti, poco prima, Marco aveva raccontato della decisione di Gesù di scegliersi collaboratori: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-14).

Se il gruppo dei farisei contesta questa azione rivelatrice del Regno da parte di Gesù non lo può fare che in mala fede. Vale a dire: interpretare il bene evidente con l’attribuirlo al male assoluto comporta la non possibilità di remissione (il cosiddetto peccato contro lo Spirito Santo) nel senso che è impedito ogni forma di pentimento. Di tutti i peccati ci si può pentire, ma del mettersi nella condizione di non possibilità di pentimento, questo significa rinnegare lo Spirito Santo. Faranno sempre in tempo ad accorgersi di questo e allora usciranno da questa impossibilità e tutto ciò che avranno causato di male al Figlio dell’uomo sarà perdonato perché lui è venuto proprio per aprire i cuori al perdono di Dio.

Quanto ai discepoli, anche per loro vale un dentro e un fuori. E la contrapposizione si gioca tra coloro che appartengono ai legami di sangue e coloro che sono introdotti in un altro genere di legami, quelli della fede in Gesù. Ricercato dalla gente, criticato dagli scribi per il suo stare con i pubblicani e i peccatori, sorpresi dai demoni che gridavano appena lo vedevano: “Tu sei il Figlio di Dio!”, Gesù ha suscitato certamente apprensione tra i suoi parenti, che in effetti vengono per portarlo via. È la prima annotazione significativa rispetto al mistero della persona di Gesù: non sono i rapporti parentali che hanno valore nei suoi confronti. I suoi non lo capiscono; non è la carne e il sangue che introduce nell’intimità con Dio. Pensano che sia fuori di testa! E il brano li descrive sempre nell’attesa, fuori. Gesù, invece, che parla dentro casa, risponde: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”. Spiegato da Edith Stein: “Spirito divino, vita divina, amore divino equivale a questo: colui che fa la volontà di Dio, questi conosce Dio e lo ama. Infatti, nel momento in cui si fa con dedizione interiore ciò che Dio richiede, la vita divina diventa la nostra vita, si trova Dio in se stessi”.

Aggiungo ancora questo. È possibile interpretare in senso positivo il tormento dell’inimicizia col demonio, di cui facciamo le spese nella vita. Secondo il racconto della Genesi, dopo il peccato Dio proclama l’inimicizia tra il serpente e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. L’antica tradizione ebraica commenta che se due si alleano per andare contro Dio, Dio li renderà nemici tra di loro perché tornino alla comunione con lui. E se il demonio, che non ha alcuna nostalgia della comunione col suo Dio, non ritorna, vi ritorna però l’uomo attraverso il pentimento, cioè con l’inimicizia radicale verso il demonio che l’ha sottratto all’amicizia con il suo Dio.

L’uomo, che è chiamato all’amore, ne vive tutta l’angoscia perché sa che, benché aneli all’innocenza, l’ha perduta. Ma Dio, che vuole intimi suoi i suoi figli, li attira a sé rinnovandoli nel suo amore crocifisso e rendendoli capaci della dedizione di un amore ormai svincolato dalle prese del demonio. Gesù ci attira lì.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XI Domenica

(17 giugno 2018)

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Ez 17,22-24;  Sal 91;  2Cor 5,6-10;  Mc 4,26-34

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Il brano di vangelo di oggi è introdotto con un avvertimento: “Fate attenzione a quello che ascoltate” (Mc 4,24). I Padri hanno applicato quell’avvertimento alle parabole di Gesù sul regno, di cui oggi viene proclamata la parabola del granello di senape, preceduta dalla similitudine dell’uomo che getta il seme sul terreno. La spiegazione di Beda il Venerabile è quanto mai significativa: “Continuate a ricordare e a indagare con tutta la vostra attenzione la Parola che avete ascoltato poiché a colui che ama la Parola sarà data anche l’intelligenza di capire l’oggetto del suo amore, ma chi non ama la Parola che ascolta, anche se per ingegno naturale o per cultura sembra intenderne il significato, non gioirà di alcuna dolcezza della vera sapienza”.

Il racconto delle due parabole è la ripresa dell’invito iniziale del vangelo di Marco: “Credete al vangelo” (Mc 1,15), che, per essere percepito nella sua reale novità, potremmo tradurre: ‘abbiate fede in questa buona notizia’, ‘date fiducia a questa buona notizia’. In una duplice direzione, come sottolineano le due parabole del seme gettato nella terra e del granello di senape: ciascun cuore è invitato ad accogliere il seme della parola di Gesù, che, crescendo, costruisce una nuova fraternità dallo spirito evangelico; questa nuova comunità agisce nel mondo crescendo e attirando al Signore Gesù gli uomini di ogni dove, sempre custodendo la modestia dell’opera di Dio che non si impone, ma che affascina e attira.

Le parabole in effetti sono costruite sul contrasto tra il seme e il frutto, tra il seme piccolissimo e la pianta grande. Sottolineano la potenza del seme e l’esito certo finale. La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Il paragone del seme vale anche per la fede: “se aveste fede quanto un granellino di senape …” (Lc 17,6). Non da intendere: basta che abbiate almeno un pochino di fede. Piuttosto: aveste fede autentica, grande come un minutissimo seme di senape. I semi di senape sono così minuti che se si mettono sul palmo della mano e si capovolge la mano come per rovesciarli per terra, nemmeno cadono giù. Era proverbiale l’immagine della piccolezza del seme di senape. Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della vita, al peso dei malvagi nella vita. Non importa se abbiamo una fede grande o piccola, basta che sia genuina e questa ha la potenza di fare miracoli, cioè di trasformare tutto il nostro cuore fino a che ogni desiderio e pensiero che vi si trova si riunisca e trovi riposo e compimento nel Signore Gesù.

L’allusione si deduce dai termini che il vangelo di Marco usa, inusuali per una semplice descrizione. Ad esempio, non usa il verbo ‘nidificare’ ma ‘accamparsi’; per dire che il frutto matura dice: il frutto ‘si consegna’ (allusione alla consegna di Gesù agli uomini, alla consegna dei discepoli a Gesù!); per la mietitura che è arrivata usa l’espressione di Gioele 4,13 in cui si parla del raccolto che è presente, vale a dire che il messaggio di Gesù è destinato a tutti i popoli e tutti lo riconosceranno. Così la piccolezza del seme non è solo allusiva dell’inizio insignificante, ma dell’irrilevanza sociale della comunità dei credenti.

Come viene cantato al vangelo: “Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo: chiunque trova lui, ha la vita eterna”, la parola del Signore ha così potenza che basta accoglierne una in verità da essere capace di riunificare tutto di noi attorno, su e dentro di essa. Così, davanti al dramma del male che ci accompagna, resta la fiducia ancora più grande della potenza della parola di Dio, di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui, come s. Paolo nella sua lettera ai Corinzi proclama: “sempre pieni di fiducia … siamo pieni di fiducia”.

Se all’immagine del seme si sovrappone quella del granello, come è il caso della parabola del granello di senape, allora l’allusione più feconda resta ancora quella che suggeriscono i Padri, s. Ambrogio in particolare: “Anche il Signore è un chicco di senapa. Egli era immune da ogni offesa, ma il popolo lo ignorava, come un chicco di senapa, perché non lo aveva ancora mai toccato. Preferì di essere sfatto, perché noi potessimo dire: Noi siamo per Dio il profumo di Cristo (2Cor 2,15)”. Ambrogio pensa alla fede, che è semplice, ma se viene macerata dalle avversità, essa effonde l’incanto della sua forza. Pensa i martiri come chicchi di senape che, fatti a pezzi dalla spada, sparsero per i confini del mondo il fascino del loro martirio. Altri Padri parlano del grano di senape che rivela la sua qualità con grandissima potenza se viene triturato, alludendo alla passione di Gesù.

L’aspetto singolare, poi, dell’immagine della pianta che cresce fino a permettere agli uccelli di nidificare è il capovolgimento di prospettiva rispetto al suo uso profetico tradizionale. Se, nel brano di Ezechiele, l’immagine indicava l’umiliazione dei due potenti regni antagonisti del Medio Oriente antico, Egitto e Assiria, nell’intelligenza evangelica l’immagine perde tutto il sapore di potenza mondana e si applica al regno di Dio che cresce a tal punto da attirare tutte le nazioni. L’inizio è insignificante, la modalità di crescita nascosta, ma l’esito fecondo.

Aggiungo ancora che Luca, all’immagine del seme, unisce quella del lievito, per mostrare come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del regno non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro. Quel Verbo, seminato nella terra del nostro cuore, cresce e attira tutto a sé.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Natività di San Giovanni Battista

(24 giugno 2018)

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Is 49, 1-6;  Sal 138;  At 13, 22-26;  Lc 1, 57-66. 80

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Giovanni Battista è l’unico santo di cui la Chiesa festeggia, come per Gesù e la Vergine Maria, la nascita in questo mondo. La festa dei santi commemora il giorno della loro ‘nascita’ al cielo ossia il giorno della morte. Invece, per il Battista, nella tradizione si danno addirittura tre feste: la festa della sua concezione (23 settembre), la nascita (24 giugno), il martirio o la decollazione (29 agosto). Evidentemente la Chiesa riconosce qualcosa di assolutamente speciale nella figura del Battista, il Precursore, Colui che indica ormai venuto tra gli uomini il Salvatore.

Se consideriamo l’iconostasi nelle chiese di rito bizantino troviamo il Signore Gesù al centro, mentre alla sua destra è rappresentata la Vergine e alla sua sinistra Giovanni Battista, prima degli angeli Michele e Gabriele e degli apostoli Pietro e Paolo. Perché? Spiegano i Padri che il nome Giovanni significa ‘il Signore fa grazia’: indica il dono fatto ai genitori con questa nascita; il dono dello Spirito che riempie Giovanni fin dal seno della madre; il dono accordato ai figli di Israele di essere ricondotti al Signore loro Dio tramite la sua predicazione; il dono della grazia fatto al mondo intero tenendo conto che in Giovanni usciamo dal cerchio della semplice discendenza carnale di Abramo ed entriamo in quello che la Promessa aveva di universale: “e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Il nome di Giovanni allude a tutta la grazia dell’economia del Vangelo che lui avrebbe annunciato, indicando la presenza nel mondo dell’Agnello, del Figlio di Dio, per il quale fu donata al mondo questa grazia, come richiama l’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo.

La definizione più espressiva del mistero della sua nascita l’ascoltiamo dalla bocca di suo padre, Zaccaria, il quale, sciolto dai vincoli che l’avevano imprigionato per la sua incredulità all’annuncio dell’angelo, proclama a gran voce: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto” (Lc 1,76-78). ‘Dare al popolo la conoscenza della salvezza’: non si tratta solo di ‘far sapere’ che il Salvatore è venuto, che Dio ha fatto visita al suo popolo. La conoscenza di Dio non si risolve semplicemente nella conoscenza di certi eventi, ma nella conoscenza del senso della nostra storia con Dio, della nostra vita e delle nostre persone. Si tratta di una conoscenza che ‘impegna’ la vita come risposta alla rivelazione di senso del nostro destino in una storia più grande di noi. La straordinaria ‘potenza’ di questa conoscenza si vede dalla vita stessa del Battista, che però non viene narrata dai vangeli ma che noi vediamo riassumersi nella forza trascinante della sua predicazione potente: ‘il regno dei cieli è vicino, convertitevi!’. La sua persona stessa si era fatta eco vivente di quella ‘Parola fatta carne’ di cui si era rallegrato fin nel seno materno quando Maria, che portava in grembo Gesù, saluta sua mamma. Nel deserto, quando predica, lui è la voce, ma la Parola è un altro. E la grandezza di Giovanni, elogiata da Gesù, sarà proprio quella di dar voce alla Parola, di prestare la lampada alla Luce.

E Gesù, quando Giovanni si avvede che non si muove come lui si sarebbe aspettato e gli manda a dire se si deve aspettare qualcun altro, pone la firma in calce alla vita ed alla persona del Battista con l’affermazione ‘beato chi non si scandalizza di me’. Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra i nati di donna. Nell’ordine della grandezza della rivelazione di Dio, il Battista non è più solo un profeta, il cui compito è quello di annunciare. Lui è più che un profeta perché ha indicato presente fra gli uomini Colui di cui tutti gli altri profeti avevano annunciato il mistero e la venuta. Ma Colui che doveva mostrare l’estensione e la profondità di tale mistero è Gesù, il più piccolo nel Regno dei Cieli, che risulta più grande di Giovanni Battista. Gesù, l’Inviato, Colui che “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio ...” (Fil 2,6-8), proprio per la sua ‘piccolezza’ ha mostrato tutta la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo facendone vedere il suo vero Volto. Ma il Volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua ‘piccolezza’ quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d’uomo aveva più l’aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto. Ilario di Poitiers così commenta: “Il Signore manifesta tutta la gloria di Giovanni dicendo che lui era più che un profeta perché a lui solo fu permesso sia di annunciare che di vedere il Cristo. E come si può pensare che non conoscesse il Cristo uno che è stato inviato con la potenza di un angelo a preparare la sua venuta e che tra i nati da donna è il più grande profeta che sia mai sorto? Però con questa eccezione che colui che è più piccolo di lui e cioè colui che viene interrogato, al quale non si crede, al quale neppure le sue opere danno credito, questi è più grande nel regno dei cieli” (Commento al vangelo di Matteo, 11,6).

Quando l’evangelista Giovanni, nel suo prologo, risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…”, per arrivare ad annunciare: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,1.14), il Battista è il primo testimone di quella gloria che via via apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo. La sua testimonianza è ancora tesa a dissipare le incertezze, i dubbi: ‘io non sono…’. Il Battista non è né il Messia né Elia né il Profeta. Condivide con la gente l’attesa del Messia, senza poter specificare oltre, ma avrà la capacità profetica di riconoscerlo presente nel mondo. Toccherà allo stesso Messia dire, poi, chi sia, mostrarsi nel suo mistero; sarà Lui ad amministrare appunto il battesimo in Spirito, mentre il Battista, con il suo battesimo di acqua, ne prepara solamente la manifestazione. Ma è esattamente il suo titolo di grandezza, per il quale la Chiesa lo celebra al di sopra degli angeli e dei santi.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(1° luglio 2018)

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Sap 1,13-15; 2,23-24;  Sal 29;  2 Cor 8,7.9.13-15;  Mc 5,21-43

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Il canto al vangelo fa da porta di luce per l’intelligenza della liturgia di oggi: “Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo” (cfr. 2Tm 1,10). Paolo, alla fine della sua vita, nell’imminenza del martirio, sintetizza il senso del vangelo nello splendore della vita che il Signore Gesù ha fatto scaturire per l’uomo riscattandolo dalla morte. A dire il vero, il testo greco non riporta ‘ha vinto’, ma, in contrapposizione al ‘fece risplendere’, dice con più precisione ‘ha reso inefficace la morte’, vale a dire ha svigorito la morte di tutto il suo potere, potendola ormai patire senza subirne la condanna. Ha lo stesso valore dell’espressione che viene riportata nel vangelo di Giovanni: satana gli viene contro con tutto il suo potere ma, non trovando nulla di suo in lui, non lo può distogliere dal suo compito di mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini e quanto lui ama il Padre (cf. Gv 14,30-31). È vinta definitivamente l’invidia del diavolo e il cuore dell’uomo può tornare a splendere dell’amore di Dio che conferisce la vita.

Come d’altronde sottolinea la conclusione della prima lettura tratta dal libro della Sapienza: “Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,24), da rendere forse con più precisione: “ma per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e quelli della sua parte la sperimentano”. In realtà si tratta della conclusione del ragionamento degli empi, introdotto con le parole: “Dicono fra loro sragionando” e definito: “Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio …” (Sap 2,1.21-22), segreti che svuotano la morte del suo potere, esercitato dall’invidia del diavolo. Ora, lo stesso ragionamento è ripreso nel vangelo di Matteo alla crocifissione di Gesù quando i capi: “… facendosi beffe di lui dicevano: ‘Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso! É il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (Mt 27,42-43). I segreti di Dio riguardano proprio quel Figlio, venuto perché gli uomini abbiano la vita e la vita in abbondanza.

Così, i miracoli, narrati nel brano di oggi con tale intensità da assumere valenze simboliche precise, alludono alla potenza salvatrice del Figlio, testimone dell’amore di Dio per l’uomo, amore che farà risplendere proprio nel suo essere innalzato sulla croce, quando il potere della morte sarà esautorato. I miracoli sono l’occasione di rivelazione del Figlio di Dio, rivelazione che necessita, per esplicitare la sua potenza nel cuore dell’uomo, della fede.

È mostrata la fede di due personaggi: un capo della sinagoga, Giairo e una donna, l’emorroissa. Alcuni particolari sono assolutamente singolari. Gesù era stato precedentemente scomunicato dalla sinagoga (cfr. Mc 3,6 e 3,22) e proprio uno dei capi insiste, prostrandosi ai piedi di Gesù, perché venga a guarire sua figlia agli estremi e che muore prima che possano arrivare a casa. Ma Giairo continua a credere, anche quando tutti ormai lo dissuadono. Il brano suggerisce almeno due cose. La prima: quando Gesù è supplicato con fede, interviene. Il testo annota: “Andò con lui”. Gesù accompagna chi ha fede in lui nel tempo e lungo la strada per ottenere la grazia, che avviene in condizioni insperate o disperate. Gesù salva e fa vivere: questo significa fare il bene, come aveva espressamente dichiarato in sinagoga davanti all’uomo della mano inaridita (cfr. Mc 3,1-6). La seconda: il contrario della fede non è la non fede, ma la derisione, come il testo annota rispetto alla gente che piangeva e urlava forte: “E lo deridevano” (Mc 5,40). Stessa derisione che avviene sotto la croce! Non semplicemente la resistenza a credere, ma la presa in giro, quel senso di superiorità che prende le distanze mettendo in ridicolo, questo ci chiude nella impossibilità di avere la vita!

L’emorroissa, la donna che per la sua malattia era dichiarata immonda (cf. Lev 15,25-27), nella calca generale, è l’unica a toccare Gesù. Gesù se ne accorge perché chi lo tocca nella fede permette alla sua potenza salvatrice di operare. Così lui, che è il Santo, santifica; lui, che è il Salvatore, salva; lui, che è il Potente, soccorre e guarisce. Chi non ha vivo il senso della propria immondezza, della propria miseria, non può avere fede sufficiente per ottenere salvezza. Il particolare del mantello (o della frangia, come nel passo parallelo di Matteo, simbolo dell’obbedienza alla parola di Dio) ha fatto pensare al vestito del Verbo che sono le parole della Scrittura. Ci si può accalcare attorno alla Scrittura, ma non succede nulla, come non successe nulla alla folla dei discepoli che pressava il Maestro lungo la strada. Se però ci si accosta anche a una sola parola con fede, allora ne scaturisce la potenza che racchiudeva e l’anima è guarita. E la parola, come il suo corpo, è lì (pensiamo alla celebrazione eucaristica) proprio nell’attesa di lasciar uscire la potenza che racchiude e rivelare l’amore per cui è stata proferita ed è stata inviata. Gesù resta nell’attesa di dirci: la tua fede ti ha salvato, va’ in pace e sii guarito dal tuo male! Un commento di s. Efrem annota: la donna è testimone della divinità di Gesù come Gesù è testimone della sua fede!

La tua fede: è la fiducia nel Messia salvatore, in colui che ci può accogliere e guarire e far vivere dell’amore del Padre, rendendo splendore alla nostra umanità.

Va’ in pace: dopo l’incontro con il Salvatore nulla è più come prima, come tanti episodi dei vangeli dimostrano, perché il cuore ha potuto gustare qualcosa che frantuma le sue pretese e rivendicazioni disponendoci a vivere riconciliati.

Sii guarita: si torna a vivere nella luce della santità di Dio, che è amore per noi, diventato radice e forza dei nostri comportamenti e del nostro orizzonte interiore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(8 luglio 2018)

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Ez 2,2-5;  Sal 122;  2 Cor 12,7-10;  Mc 6,1-6

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La liturgia di oggi spiega il legame d’amore di Dio con il suo popolo attraverso la figura dell’inviato, del profeta che è inviato al popolo perché torni all’alleanza con il suo Dio. Gesù si sposta da Cafarnao a Nazaret, cittadina dove era stato allevato e dove tutti conoscevano lui e la sua famiglia. La sua venuta però non suscita grandi entusiasmi e si conclude con una grande delusione: la sua gente non gli fa fiducia, prende le distanze. A dire il vero non si comprende bene come si passi da uno stupore iniziale a una specie di rivolta nei suoi confronti. I passi paralleli di Matteo e Luca ci possono aiutare a comprendere meglio.

Matteo colloca l’episodio di Nazaret a conclusione delle parabole del regno dove il senso generale si risolveva in questo: per il regno di Dio i legami di sangue contano poco (i suoi familiari non lo capiscono) mentre valgono i legami di fede (coloro che ascoltano la parola di Dio sono i nuovi familiari di Gesù). I suoi concittadini restano diffidenti, preludio al rifiuto finale dei capi e dell’autorità religiosa con la condanna alla crocifissione. Il Testimone comunque dell’amore di Dio per il suo popolo resta lui, anche se non accolto.

Luca invece colloca l’episodio all’inizio della predicazione di Gesù, subito dopo il racconto delle tentazioni nel deserto. La scena è solenne, Gesù entra in sinagoga e legge la Parola, probabilmente il brano della liturgia di quel sabato e lo commenta. Si tratta del passo di Isaia 61,1-2, che riporta il testo di consacrazione di un profeta: “Lo Spirito del Signore è sopra di me …”. Gesù si applica quel passo confermando che in lui si compie quello che il profeta Isaia aveva annunciato. Di fronte allo stupore e alla perplessità degli ascoltatori, rammenta gli episodi biblici della vedova di Zarepta al tempo del profeta Elia e della guarigione di Naaman il siro al tempo del profeta Eliseo. In pratica Gesù richiama l’adesione alla fede di Israele da parte di due pagani. Sembra che i suoi concittadini non abbiano accolto di buon grado il ricordo della preferenza dei pagani da parte di Dio e così contrastano la predicazione di Gesù, come gelosi dei doni di Dio.

Anche la prima lettura del libro di Ezechiele, che riporta la grande visione della Gloria di Dio in terra straniera tra i deportati a Babilonia, sottolinea che comunque Dio invia i suoi profeti, sebbene non siano ascoltati. Non viene mai meno la premura di Dio per il suo popolo. Se in terra di Israele il luogo per eccellenza della visione è il tempio, in terra straniera è il cielo, a mettere in evidenza che sempre Dio è con il suo popolo. La visione del profeta, che lo consacra come inviato, non fa che mettere in luce il fatto che la storia di Dio con il suo popolo continua, continua sempre, che Dio non si stanca mai di inseguire, di venire a cercare. E il salmo responsoriale traduce in supplica quello che il popolo potrà capire, anche se confusamente: “A te alzo i miei occhi … finché abbia pietà di noi”.

Così, l’episodio della predicazione di Gesù a Nazaret va letto nella premura di Dio per il suo popolo. La scena è racchiusa da due identici sentimenti di valore però diametralmente opposti. Si apre con la meraviglia, sospettosa, diffidente, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire: “E si meravigliava della loro incredulità”. Una meraviglia, quella di Gesù, però, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, come il resto del racconto evangelico proverà, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività ovunque.

Noi non ci accorgiamo che spesso la nostra incredulità nasconde una cattiva idea di Dio. A dire il vero non si tratta realmente di una mancanza di fede, ma di diffidenza, di riserva mentale. Come per i concittadini di Gesù descritti da Luca 4,16-31: gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani, come se questa preferenza comportasse un’accusa ai suoi figli. Così è per noi: è vero che ci accorgiamo che Gesù insegna cose belle, cose degne della massima stima, ma essere disposti ad accoglierlo e seguirlo nella sua rivelazione di Dio e nel suo servizio agli uomini non ci è agevole.

La liturgia ci invita allora a cogliere il nodo essenziale della vita: la salvezza è data dalla potenza di Dio ma ha bisogno di essere accolta con fede, senza riserve mentali. Il problema più o meno può essere posto così: perché la grazia non compie tutto ciò che promette? Pensiamo al perdono che domandiamo a Dio per i nostri peccati. Perché, pur chiedendolo sinceramente e ottenendolo, non agisce in profondità da trasformarci completamente? Forse che Dio vincola il suo perdono? Non sarebbe morto per noi! Pensiamo alla richiesta di una virtù: “Signore, fammi umile”. Perché dopo la richiesta restiamo ancora in preda all’orgoglio e all’egoismo? Forse che Dio è geloso dei suoi doni? Non ci avrebbe dato il suo Figlio! Ecco dunque la meraviglia di Gesù: la nostra incredulità.

Dio non si stanca però della nostra incredulità perché sa che il nostro cuore ha bisogno di tempo per cedere, per arrendersi, per sciogliere le sue paure, le sue resistenze, le sue ambiguità. L’importante è non lasciare mai il Signore, lasciarsi sempre riaccostare da lui tanto che, come dice la colletta: “sappiamo riconoscere la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione”. Il movimento suggerito dalla preghiera è appunto quello di imparare a vedere la gloria, cioè lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, proprio nell’umiliazione del Figlio che si consegna agli uomini perché sappiano quanto lui ama il Padre e quanto è grande il suo amore per noi. Il che significa riconoscersi dentro una provvidenza di bene per noi, stando solidale con i sentimenti di Dio, in favore dei fratelli. Così facendo, potremo sperimentare la potenza della vita che viene da Dio accogliendo in pace le infermità e le afflizioni della nostra storia perché non ci allontanano dalla comunione con Colui che il nostro cuore cerca e di cui potente è la salvezza.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(15 luglio 2018)

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Am 7,12-15;  Sal 84;  Ef 1,3-14;  Mc 6,7-13

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La bellissima colletta: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”, mostra la radice da dove l’annuncio apostolico prende linfa e vigore. Chi annuncia, mandato dal Signore, ha già sperimentato quel ‘non avere nulla di più caro del Figlio’, lo stesso che invia e l’unico che può colmare i cuori nei loro aneliti e nelle loro angosce.

Il canto al vangelo: “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (cfr. Ef 1,17-18), mostra come l’annuncio apostolico alimenti la speranza iscritta nei cuori, sebbene spesso sepolta e perduta.

La prima cosa di cui Gesù dota i suoi discepoli nel loro ministero di annuncio è: “dava loro potere sugli spiriti impuri”. Come si vince o si scaccia il male che sempre insidia, ferisce, opprime la vita? Nel vangelo di Giovanni, quando Gesù parla della vite e dei tralci per illustrare l’invito a rimanere in lui, si trova questa espressione: “voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato” (Gv 15,3). È l’accoglienza del Signore che rende puri, cioè inattaccabili dal male; è la fede in lui che ci associa alla sua vittoria sul male. L’aspetto straordinario di questa verità risalta nella lavanda dei piedi all’ultima cena: Gesù si mette a lavare i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo segreto ed è l’accoglienza di questo segreto che li stabilisce nella purità (cfr. Gv 13). Il suo segreto è di mostrare la grandezza dell’amore del Padre nel suo farsi servo, nel suo farsi schiavo, in totale solidarietà con l’amore del Padre per noi e solidale con la nostra umanità che lui ha amorevolmente rivestito. Quando Gesù invia i discepoli con il potere sugli spiriti impuri, li introduce nel segreto della sua persona e della sua missione, sebbene i discepoli ancora non possono sapere tutta la sconvolgente profondità di quel segreto e il coinvolgimento delle loro persone.

Nella tenuta dell’apostolo, secondo la descrizione di Marco, si può ravvisare l’allusione alla tenuta da viaggio del popolo all’uscita dall’Egitto raccontata in Es 12,11. Gli apostoli guidano il nuovo esodo con l’annuncio del Regno di Dio che in Gesù si manifesta. Ogni annuncio nella Chiesa ha così un sapore pasquale: comporta l’esodo dall’Egitto e l’accoglienza del regno di Dio, dentro l’esperienza della manifestazione della potenza di salvezza di Dio. Il gesto dello scuotere la polvere dai piedi, quando non dovessero accogliere l’annuncio, – gesto che era comune al pio israelita quando saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme proveniente da territori pagani e non voleva contaminare il sacro suolo d’Israele -, assume anche questo significato: la pace che non avete raccolto voi, non ha lasciato noi; avete la possibilità di rifiutarla, ma non avete il potere di fermarla perché sarà rivolta ad altri; e se resta a noi, se è condivisa da altri, è perché prima o poi la possiate desiderare anche voi; non temete, sarà sempre vostra eredità. La forza dell’annuncio evangelico sta in questo potere della pace di Dio che raggiunge tutti. La responsabilità dei discepoli sta appunto nel far vedere la loro vita confermata da quella pace perché possa apparire davvero desiderabile.

Quella pace ha un volto misterioso, invisibile, che riluce, ma nel nostro cuore, ed è il volto del Signore Gesù. Ma ha anche un volto visibile, costatabile, amabile, che è quello della fraternità condivisa. Che cosa possono insegnare gli apostoli agli uomini se semplicemente ripetono le parole del Signore? Le ripeteranno, sì, ma con potenza, con la potenza di coloro che possono mostrare come siano diventate efficaci per il loro cuore. E l’efficacia appare dalla fraternità condivisa. Ecco perché sono mandati ad annunciare la Buona Novella non da soli, ma a due a due. É la stessa rivelazione del Padre Nostro, allorquando la fraternità vissuta (‘venga il tuo regno’, venga cioè lo Spirito del Signore a renderci un corpo solo e un’anima sola, così come preghiamo anche nel canone eucaristico) rivela a tutti il volto di Dio come Padre, rivela il suo amore per gli uomini. E come ottenere questo senza la preghiera: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio”, lui che ha rivelato in tutto il suo splendore l’amore di Dio per gli uomini e la grandezza della vocazione dell’uomo? Credo sia assai significativo che la chiesa vincoli l’intelligenza della verità al fatto di percepirla capace di interferire con le radici del nostro cuore (‘donaci di non avere nulla di più caro’), dentro cioè la possibilità di un’esperienza che renda la verità amabile e rigenerante.

Nel salmo responsoriale si canta: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. L’amore di misericordia di Dio per l’uomo tocca chi è disposto a non vivere nell’illusione, a vedere il suo peccato, a riconoscersi debitore di verità presso Dio, così che la santità di Dio, lo splendore del suo amore per noi, si risolva in desiderio di pace con tutti, in solidarietà con l’umanità di tutti. Siamo chiamati proprio a essere annunciatori di quella pace che guarisce e ristora, da viverla come il tesoro più prezioso del cuore e la rivelazione della bellezza del volto di Dio, in Gesù. Per questo il salmo, dopo avere supplicato: “Mostraci, Signore, la tua misericordia”, aggiunge: “Ascolterò che cosa dirà in me il Signore Dio” (antica versione greca e latina), vale a dire: nella misericordia posso ascoltare la parola d’amore che spingerà il mio cuore a vivere nella misericordia perché l’amore sia condiviso.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(22 luglio 2018)

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Ger 23,1-6;  Sal 22;  Ef 2,13-18;  Mc 6,30-34

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Il brano evangelico di oggi, in verità, serve da introduzione al miracolo della moltiplicazione dei pani, che sarà proclamato nelle cinque domeniche successive a partire dal testo di Giovanni 6. Anche nei commenti antichi il brano è letto nella prospettiva del banchetto messianico, simbolo della salvezza definitiva offerta da Dio al suo popolo, che viene enunciato con la moltiplicazione dei pani per sfamare la folla.

Alcuni particolari del racconto di Marco sono assai suggestivi. Quando Gesù invita in disparte gli apostoli, lo fa perché si riposino un poco. L’accenno al riposarsi è misterioso. Si tratta dello stesso termine che ricorre nell’affermazione di Gesù: “Venite a me … e io vi darò ristoro… e troverete ristoro” (Mt 11,28-29). Quel ‘ristoro/riposo’ corrisponde al movimento della sua compassione, ma pesca nel riposo di Dio il settimo giorno della creazione, riposo che viene ripreso dal salmo responsoriale. Gli antichi rabbini hanno pensato che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Quando nel salmo si proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce” (Sal 23,1-2) si allude proprio alle acque di ‘menuchoth’. Stessa allusione che troviamo nelle parole del Signore Gesù quando dice ai suoi discepoli: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-31). Vi darò ristoro = vi farò riposare; sarò la vostra felicità, pace, riposo. L’umiltà/mitezza che lo definisce costituisce la cifra della luce della santità di Dio che si riversa sul mondo e che abilita a quello sguardo capace di cogliere il mondo nel suo insieme.

È singolare che Gesù inviti i discepoli a starsene in disparte, a cercare un luogo solitario per riposare e che contemporaneamente si trovino davanti una folla numerosa, per la quale Gesù sente profonda compassione. Quando i discepoli annunceranno il regno di Dio non faranno che far arrivare ai cuori l’eco di quella ‘compassione’, di quella ‘profonda commozione’ di Gesù, buon pastore, mandato a riunire i figli di Dio dispersi. L’annuncio che non provenga dalla condivisione, dalla solidarietà con quella ‘compassione’ sarà piatto e ripetitivo e non toccherà i cuori. D’altra parte, se i discepoli non impareranno a starsene in disparte con il loro Signore, non sentiranno la profondità di quella ‘compassione’ e non potranno annunciare ‘con potenza’ il regno di Dio. La vivacità, la vitalità, nel senso che porta vita, della parola di Dio trova qui le sue radici. D’altronde è la stessa dinamica dei doni di Dio, della stessa elezione del popolo, della chiamata alla fede. Essere scelti dal Signore non è in funzione di un privilegio, ma di una intimità per farsi eco presso tutti di quella ‘compassione’ che tutti raggiunge, perché non si dà pace finché uno solo resti escluso.

Inviando gli apostoli in missione, Gesù li aveva forniti delle stesse sue prerogative: ‘scacciare i demoni, guarire ogni malattia e infermità’. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall’alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un ‘chiamato’, un ‘inviato’, lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno. Così avverrà quando dirà agli apostoli di dare da mangiare a una folla sterminata.

Nel brano di oggi la compassione di Gesù si esercita nel parlare alla folla a lungo, insegnando i misteri del regno dei cieli, mentre in Mc 8,2 la compassione si eserciterà nello sfamare la folla. Parola e pane, Verbo e Corpo, come nella liturgia eucaristica: l’insegnamento della parola dà il senso del sacrificio e della comunione eucaristica, rendendoci una cosa sola con il Signore. Per questo il nome profetico che, alla vigilia del crollo di Gerusalemme sotto l’invasione assira, Geremia preannuncia per l’Inviato del Signore che ricostituirà il suo popolo, sarà: “Signore-nostra-giustizia”. Intendendo ‘giustizia’ dal punto di vista di Dio, cioè come l’offerta della sua pace e del suo perdono pieno di compassione per noi. Esattamente quello che Paolo, nella lettera agli Efesini, proclama: “Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva …” (Ef 2,14). Non ci sono più motivi di separazione tra gli uomini se Gesù li ha uniti nella sua pace. Cadono barriere e diffidenze se si guardano i fratelli nel nome di Gesù, che li ha tutti riuniti come figli dell’Altissimo, di cui la beatitudine proclama: ‘beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9). Perché quella pace pesca nel mistero delle ‘viscere di compassione’ di Dio per i suoi figli, di cui le Scritture sono la testimonianza luminosa.

La compassione di Gesù per l’umanità è alla radice della sua missione sia come rivelatore del Padre che come salvatore. In essa prendono senso e valore tutti i suoi gesti e le sue parole, come anche tutte le parole e le opere di Dio lungo la storia sacra. Molte volte nei vangeli si parla della compassione di Gesù. Gesù ha compassione delle folle, del lebbroso, della vedova di Nain, dei ciechi di Gerico. Le sue parabole illustrano spesso il mistero della compassione: il padre che vede il figlio prodigo ritornare, il padrone che rimette il debito al servo insolvente, il samaritano che raccoglie il malcapitato e lo cura amorevolmente. A sottolineare che l’amore di Gesù, che si identifica con il Signore, pastore del suo popolo, non è vincolato a nulla, ma procede dal suo stesso essere, dalla sua totale intimità con il Padre che vuole i suoi figli assisi alla sua mensa e che tutti attira a sé.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(29 luglio 2018)

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2 Re4,42-44;  Sal 144;  Ef 4,1-6;  Gv 6,1-15

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Per cinque domeniche successive la liturgia proclamerà il cap. 6 del vangelo di Giovanni che, partendo dal miracolo della moltiplicazione dei pani per sfamare una folla numerosa, ne svela il contenuto simbolico e lo commenta con un lungo discorso di Gesù. Oggi viene proclamato il racconto del miracolo.

La rivelazione di Gesù che l’evangelista vuole presentare è ottenuta sovrapponendo il racconto del miracolo con la trama della storia di Israele e la celebrazione liturgica dell’eucaristia della chiesa. La moltiplicazione dei pani per sfamare la gente (cfr. 2Re 4,42-44) è un gesto messianico e la folla sente giusto, anche se poi interpreterà male. Molti particolari, soprattutto nel testo di Mc 6,30-44, proiettano una luce speciale. Siamo nel deserto, prossimi alla festa della Pasqua, in un luogo con tanta erba, in occasione di un pasto, con una disposizione particolare dei partecipanti (a gruppi di cento e cinquanta). Sono tutte allusioni all’organizzazione del popolo nel deserto secondo i racconti del Pentateuco, specialmente in occasione della conclusione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. È lui, Gesù, come ribadirà nel suo discorso, il vero Pane disceso dal cielo che nutre e dà la vita, che ristora e dà riposo, nel quale celebrare la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli accenni al raccogliere gli avanzi valgono a sottolineare la sovrabbondanza di grazia di questa alleanza, data a tutti, oltre la quale non c’è nulla di significativo che possa colmare i desideri degli uomini. I verbi usati per descrivere il miracolo (prese, benedisse, spezzò e diede) sono i verbi caratteristici della celebrazione eucaristica.

Nel racconto di Giovanni alcuni dettagli sono tipici della sua ‘comprensione’ del mistero di Gesù che vuole condividere ai lettori. Gesù, dopo essere salito sul monte, ‘alza gli occhi’. Non è un’indicazione di cronaca, cioè alza gli occhi per vedere la gente che l’ha seguito. Solo in un’altra occasione, nel vangelo di Giovanni, si descrive Gesù che alza gli occhi, cioè all’inizio del cap. 17, prima della grande preghiera sacerdotale nell’ultima cena. Quello che sta per compiere o per pronunciare deriva dall’intimità con il Padre di cui ne svela il mistero di misericordia per l’uomo. Tanto più che l’annotazione che era vicina la Pasqua dei Giudei e che i pani offerti da un ragazzo sono pani d’orzo, con l’allusione alla festa degli Azzimi che segnava l’inizio della mietitura dell’orzo, voleva significare: la vera Pasqua sarà quella celebrata da Gesù con la sua immolazione sulla croce, il vero Pane sceso dal cielo è il suo Corpo. La stessa raccomandazione di Gesù di raccogliere i pezzi avanzati, con riferimento al passo del miracolo di Eliseo raccontato nella prima lettura e alla figura di Rut che tiene gli avanzi per portarli a sua suocera (cf. Rut 2,14, che la tradizione rabbinica interpreta in senso messianico: “Ne mangiò per il tempo presente, ne mangiò a sazietà per i giorni del Messia e ne mise da parte gli avanzi per il tempo futuro”) non vogliono sottolineare solo l’abbondanza della grazia, ma anche che il pane che distribuirà Gesù non è come la manna, che era proibito conservare, ma sarà il vero cibo di vita.

Gli interventi dei due apostoli, Filippo e Andrea, sono preziosi. Filippo sarà l’apostolo che domanderà a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta!” (Gv 14,8-9). Filippo è in coppia con Andrea; sono loro che riportano a Gesù la domanda dei proseliti: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21-22). E Andrea è colui che rivolge a Gesù la prima richiesta: “Maestro, dove dimori?” (Gv 1,38). Convince Pietro, suo fratello, a seguire Gesù dicendogli: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1,41). Nel vangelo di Marco Andrea è appaiato a Pietro, Giacomo e Giovanni, che interrogano Gesù, seduto sul monte degli ulivi di fronte alla città di Gerusalemme, sulla sorte del tempio. Loro sono i primi quattro ‘chiamati’.

Nel nostro racconto Filippo, con la sua risposta, dà l’idea della grandezza del miracolo (la cifra di 200 denari è una cifra alta, se si tiene conto che un denaro era la paga giornaliera di un bracciante), mentre Andrea, con la sua solerzia, scova il ragazzo che dispone dei cinque pani. Il valore di queste annotazioni sta nel fatto di sottolineare la modalità con cui Gesù opera il miracolo: Gesù non crea i pani, li moltiplica solo. Un’altra volta si era trovato alle prese con la fame e si era sentito provocare: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane” (Mt 4,3). Ora non è più lui ad avere fame, è la gente, ma la posta in gioco non cambia. La dinamica sotterranea descritta è la seguente: Dio agisce in condivisione profonda con l’umanità degli uomini. Non agisce da prestigiatore o da illusionista, non vuole catturare o soggiogare nessuno: il miracolo è in funzione del suo mistero, capace di parlare al cuore dell’uomo, di suscitare la sua libertà e la sua condivisione, in termini umani. Dio moltiplica quel poco di noi che possiamo presentare, senza sostituirsi a noi, senza comprarci. Un esegeta commentava: se dò tutto quello che ho, il mio prossimo riceverà tutto quello che desidera. E volere che crei in noi la grazia, quando rifiutiamo di affidargli quel poco che siamo, sarebbe come condannarci alla delusione sicura. Nello stesso contesto si situa la collaborazione degli uomini all’opera di Dio. Gesù non ha solo bisogno dei cinque pani e due pesci del ragazzo, ma anche della collaborazione dei discepoli che distribuiscono il cibo moltiplicato, che raccolgono gli avanzi, che collaborano alla gioia di Dio e degli uomini. È il mistero della Chiesa, il segreto della potenza evangelica dell’amore fraterno. Anche questo è un aspetto dell’agire di Dio in condivisione dell’umanità degli uomini.

La difficoltà per noi, come risulterà dall’esito finale del racconto, deriva dal fatto che andiamo a Dio pensando di attirarlo per i nostri scopi (Gesù non accetterà di essere proclamato re se non dalla croce) invece che aprire i nostri cuori al suo segreto.

Da sottolineare ancora un’altra dinamica, presente nel testo, quella che corre tra l’offerta della parola e l’offerta di cibo. Gesù si era sentito commosso davanti a tutta quella gente, aveva cercato di insegnare loro tante cose, aveva rivolto loro una parola vera, di consolazione, di ristoro, di salvezza. Come avrebbe potuto non preoccuparsi della loro fatica, della loro fame? Annunciare così una parola vera a qualcuno significa nello stesso tempo farsi carico dei suoi bisogni, significa condividere quello che si ha e creare spazi di condivisione sempre più allargati. Senza questo risvolto, cadrebbe anche la verità del nostro parlare perché sarà mai possibile annunciare il vangelo a qualcuno, se questo qualcuno non ci diventa caro? E una persona ci può essere cara se non ci facciamo carico dei suoi bisogni? Tutt’altra questione è poi considerare l’esito di questo farsi carico. Gesù sapeva dell’insuccesso a cui andava incontro, ma non si sottrae al miracolo della moltiplicazione dei pani, come non si era sottratto all’annunzio della parola. Quello che fa da fondamento al suo agire, come anche all’agire poi dei suoi discepoli quando sarà loro rivelato il segreto di Dio, ce lo descrive il testo della lettera agli Efesini proclamando l’opera dell’amore di Dio che si esprime nel mistero della fraternità: “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). L’uomo evangelico persegue quell’unico mistero, affigge i suoi sguardi su quell’unico punto, ragione del vivere la sua chiamata alla fede nel Figlio di Dio, dato per noi, per cui “con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità”, sostiene (= ha pazienza con) sé e tutti, contemporaneamente, perché quel mistero sia finalmente rivelato ai cuori.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XVIII Domenica

(5 agosto 2018)

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Es 16,2-4.12-15;  Sal 77;  Ef 4,17.20-24;  Gv 6,24-35

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Cosa era successo dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani? Gesù aveva temuto che anche i suoi apostoli perdessero la testa con l’ubriacatura messianica della folla che aveva visto in Gesù il realizzatore dei loro sogni. Li manda via in tutta fretta e dice loro di tornare a Cafarnao in barca. Lui intanto si sottrae alla folla e si ritira in solitudine sulla montagna che sovrasta il lago. Nella notte, camminando sulle acque, raggiunge i discepoli e approda con loro a Cafarnao. Il racconto è stilato sulla manifestazione di Dio a Mosè al roveto ardente: “Io sono! Non abbiate paura”, espressione che verrà ripresa alla fine del brano odierno con la dichiarazione. “Io sono! Il pane della vita”. Il mattino accorre altra gente e si avvede che Gesù non è più lì e che non era andato via con i discepoli e comprendono: salgono sulle barche e si dirigono a Cafarnao, dove ha luogo il lungo incontro/dialogo/discussione sul pane della vita.

Una dichiarazione di Gesù apre il confronto: voi mi cercate non perché avere visto dei segni ma perché vi siete saziati. Potremmo intendere rivolta a noi la sua costatazione: per quale scopo preghiamo? Cosa cerchiamo dal Signore? Vogliamo semplicemente la vita o la vita eterna? Su questa domanda di fondo si regge tutto il dialogo. Come Gesù dicesse: è vero. Su di me il Padre ha posto la sua compiacenza e manifesto il suo regno. Ma per goderne la realtà occorre che ne cogliate bene la natura e fa riferimento al desiderio fattivo non semplicemente del cibo, ma del cibo ‘che rimane per la vita eterna’. La gente sembra seguire il ragionamento di Gesù e chiede: “Cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. Domanda strana. Sarebbe stato più semplice domandare: cosa dobbiamo fare per servire Dio? Ecco il primo punto nevralgico: la domanda vera non verte sulle opere, ma sulla sincerità del cuore. L’accento non è su quello che può fare l’uomo, ma su quello che sta facendo Dio. Riusciamo a vederlo?

Nella sua risposta Gesù mette a nudo i cuori: a Dio interessa un’opera sola! Quella della fede in Colui che vi ha inviato. Conta assai di più riconoscere l’amore di Dio che viene rivelato nella persona di Gesù che non tutte le opere e le devozioni che l’uomo può accampare come una specie di rivendicazione presso Dio. È a questo punto che la gente torna alla sua storia, storia della manifestazione della bontà di Dio per il suo popolo e ripensa all’episodio della manna nel deserto. È la via giusta per accogliere la nuova ‘manna’, quella vera, ma la gente comincia a diffidare: si potrà ripetere un segno simile? E così viene evocata la grande questione: come decifrare i segni di Dio.

La colletta di oggi sembra rispondervi: “O Dio … risveglia in noi il desiderio della tua parola, perché possiamo saziare la fame di verità che hai posto nel nostro cuore”. Sì, è molto facile dimenticare, come dice il salmo responsoriale “Dimenticarono le sue opere, le meraviglie che aveva loro mostrato … non ebbero fede in Dio e non confidarono nella sua salvezza” (Sal 77/78, 11.22). Dimenticarono proprio quello che lo stesso salmo proclama: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli …” (v. 3). In sostanza il salmo vuol definire l’esperienza di Israele nel deserto così: hanno visto, sì, certi fatti straordinari (la manna), ma l’oggetto del loro racconto è altro; loro vogliono raccontare le meraviglie del Signore. Dicono la storia, ma raccontano Dio. Non si sono solo sfamati mangiando la manna, ne hanno colto il valore di segno: Dio li guidava, adempiva le sue promesse, restava fedele al suo amore per loro. Dio aveva dato la manna al popolo confermandosi così il loro Dio, secondo il racconto dell’Esodo, ripreso anche dalla prima lettura. E Gesù cosa dà? Questo chiede la gente. La risposta di Gesù introduce al suo mistero, che è il mistero dell’amore di Dio per il mondo. Ogni dettaglio acquista qui una risonanza particolarissima: gli aggettivi, i verbi, le espressioni. Gesù sottolinea il dono attuale di Dio: “è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero”; “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”, cioè la sua, quella piena di Spirito Santo, di cui fa dono facendo dono di se stesso. Accogliere il Figlio come l’Inviato significa accogliere la storia dell’amore di Dio per l’uomo; significa radicare in quell’amore l’intelligibilità della nostra vita e avere la vita, quella che dura per la vita eterna, cioè quella che, custodita dalla potenza dell’amore di Dio per noi, risulta insopprimibile e inattaccabile.

Quindi, come non volere questo pane? Ma il pane non è più qualcosa, non si riferisce più a un prodigio: riguarda la sua persona, riguarda il prodigio dell’amore di Dio che nel Figlio fa grazia di sé agli uomini perché gli uomini possano, nel Figlio, fare grazia di loro a tutti e così far splendere la signoria di Dio nel mondo, ormai trasfigurato nello Spirito. A questo punto si intravede tutta la rischiosità e la radicalità del passaggio: dare fiducia al Signore, all’amore del Signore, consegnandosi a quel Figlio che promette libertà, verità e vita. Qui i cuori comprendono di essere sull’orlo dell’abisso: o ti trattieni nelle tue sicurezze di un tempo o ti abbandoni ad una fiducia che senti nascere ma di cui non sei per nulla padrone.

Difatti l’esito non sarà scontato. Alcuni rinunciano, altri accettano; di quelli che rinunciano, alcuni accetteranno poi; di quelli che accettano, alcuni lasceranno dopo. Resta comunque sempre l’offerta del Signore che non si stanca dei suoi figli e di cui ricerca sempre l’adesione del cuore. Nel racconto di Giovanni, la folla rivela molto bene i desideri che portiamo in cuore, senza però alla fine trovare soddisfazione perché incagliata nel suo passato piuttosto che affascinata per il futuro di Dio: l’urgenza etica per una qualità di vita accettabile, l’apertura al mistero di Dio che si manifesta, la fame del pane della vita. Gesù però si darà premura di illustrare sempre più precisamente il senso del mistero della sua persona come risposta a quei desideri.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(12 agosto 2018)

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1 Re 19,4-8;  Sal 33;  Ef 4,30-5,2;  Gv 6,41-51

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Tutto il lungo discorso eucaristico di Gesù narrato nel cap. 6 di Giovanni può essere letto come l’illustrazione della difficoltà per l’uomo di cogliere e accogliere i segreti di Dio. Davanti alla difficoltà di riconoscere la sua provenienza divina, Gesù esorta: “non mormorate tra voi”. Mormorare vuol dire prendere le distanze, vuol dire uscire dalla fiducia, uscire da una storia con. Ma appena si esce da una storia con, tutto si fa incomprensibile e soprattutto si resta nell’impossibilità di soddisfare i desideri del cuore, si resta cioè sulla nostra fame.

E aggiunge: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. S. Agostino, commentando questi versetti, ha un’intuizione geniale. Osserva che se siamo attirati dal Padre, questo non vuol dire che siamo attirati per forza: “Che significa essere attratti dal piacere? Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore (Sal 36,4). Che se il poeta ha potuto dire: ‘Ciascuno è attratto dal suo piacere’ [“trahit sua quemque voluptas”, Virgilio, Egloghe 2], non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo. Se i sensi del corpo hanno i loro piaceri, perché l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: ‘I figli degli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali; s’inebriano per l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie; poiché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce noi vediamo la luce’ (Sal 35,8-10)” [Commento al vangelo di Giovanni, 26,4].

Ma solo un cuore che ama sa cosa significa questo. Solo un cuore che ha conosciuto l’amore sa di cosa si parla qui. È come se dicessimo a Dio: fa, Signore, che io trovi in te la mia felicità e tu mi darai i desideri del mio cuore (cfr Sal 36,4). Il salmo non dice che Dio soddisferà i desideri del nostro cuore, ma che farà nascere i desideri del nostro cuore, il nostro cuore vorrà ciò che forma la sua felicità. In questo verremo ammaestrati da Dio, perché saremo attirati là dove il piacere del nostro cuore ci spinge. Gesù poi cita il profeta Geremia: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,33-34), eco di Isaia 54,13: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore”. Ora, proprio nel Cristo siamo accolti nel perdono di Dio che ci consente di vederlo, di scoprirlo cioè nella sua verità di amore per noi. Quando Gesù proclama che lui è il pane di vita, dice essenzialmente che lui ci comunica quell’amore di Dio che è radice di vita e che ci permette di conoscere personalmente Dio accogliendoci senza riserve nel suo perdono. Proprio questo è ciò che la folla desiderava nel profondo del suo cuore, ma alla fine si trova impossibilitata ad accettare perché non si riconosce adatta al mistero di Dio, per cui scade nella mormorazione.

Come sempre nel vangelo di Giovanni, ma in particolare in questo dialogo, le espressioni hanno un valore intensivo. Tutto può suonare in una certa ovvietà, materiale o religiosa, eppure tutto può avere sfumature insospettate. I verbi usati: discendere, mangiare, vedere, credere, imparare, hanno tutti risonanze, scritturistiche e interiori, impensabili. Gesù cerca di illustrare il mistero che costituisce la sua persona come il segreto di Dio svelato agli uomini che, pur immensamente desiderabile, non è facilmente ricevibile. Perché? La reazione della gente al fatto che Gesù si presenti come il pane della vita è rivelatrice. Di per sé la gente non rifiuta l’equiparazione di Gesù al pane di vita; rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo. Loro ne conoscono la sua origine: conoscono la famiglia, la provenienza (cfr Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 7,15). Come può dire di venire dal cielo? Forse c’è l’allusione alla credenza che del Messia non si potesse sapere l’origine oppure, velatamente, potrebbe esserci un’allusione alla nascita verginale di Gesù. Il fatto comunque è che la rivelazione definitiva di Dio è ormai l’umanità di Gesù, tanto che mangiare la carne del Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio fino a vivere di lui. Non è possibile che l’uomo non desideri la presenza del Signore e il suo amore e proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori non riescono a vedere?

Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il ‘discendere dal cielo’ non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Tanto, che san Paolo riassume il senso della rivelazione di Gesù nell’espressione ‘Dio fa grazia di sé a noi in Cristo’, resa in italiano con “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio …”. Perché mangiare il pane disceso dal cielo, questo significa! Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo. Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del  suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. Se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2018)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1 Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell’assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia visibile da tutti! E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Guardando alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, i fedeli non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”, e ripetere con il poeta: “Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

In lei possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Come Gesù ha detto di sé: “viene il principe del mondo; in me non ha nulla” (cfr. Gv 14,30). In lui c’è solo la parola del Padre, lui è la Parola del Padre, niente che sappia di questo mondo abita in lui e quindi il diavolo non trova nulla di suo in lui e così lui può esprimere in tutto il suo splendore l’amore infinito del Padre per noi. Così è della madre di Gesù.

Se poi colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa maternità spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata: ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio. Per questo la chiesa prega oggi la Vergine gloriosa dicendo con l’orazione alle offerte: “… per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XX Domenica

(19 agosto 2018)

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Pr 9,1-6;  Sal 33;  Ef 5,15-20;  Gv 6,51-58

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La liturgia ci presenta la continuazione del discorso di Gesù a Cafarnao sul pane di vita, ma oggi la prospettiva che suggerisce è particolare. È come se si riferisse al cuore dell’uomo individuandone la tensione di fondo con la lettura dei Proverbi, il contesto in cui opera con la lettera di Paolo agli Efesini e l’esperienza desiderata di vita con il brano evangelico. Ci svela cosa cerchi l’uomo, in quali condizioni, per quale esperienza di vita. La grande questione è la seguente: come ottenere l’intelligenza della vita. Essa appare desiderabile, chi non la vuole? Non è segreta, non è inaccessibile, non è complicata, non richiede studi particolari. Eppure, non è proprio a portata di mano. E nonostante tutto, il cuore la gradirebbe sempre.

Il brano dei Proverbi presenta l’invito di Donna Sapienza e di Donna Follia agli uomini, che sono inesperti e privi di senno rispetto alla vita, che misteriosamente li attrae ma non in maniera scontata. Si tratta di ‘camminare per la via dell’intelligenza’, che la Scrittura presenta come il fascino di una donna che attira, l’una alla vita, l’altra alla morte, ma con una ‘esortazione’, non con una ‘dimostrazione’. Il che significa che occorre saper ‘vedere’, occorre ‘imparare l’intelligenza’, occorre fidarsi dei desideri del cuore e di chi lo guida. Alla fine, l’intelligenza si manifesta con il seguire chi è degno di fede, non chi ammalia solo.

Il brano di Paolo rivela il contesto in cui avviene questo discernimento: i giorni sono cattivi, occorre fare buon uso del tempo (letteralmente, occorre riscattare il tempo, aprirlo cioè al mistero sul quale si affaccia). In sostanza ci dice che per essere intelligenti, occorre essere spirituali, per essere spirituali occorre essere oranti, per essere oranti occorre diventare capaci di rendere grazie, per avere questa capacità occorre essere sottomessi: “…siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti spirituali, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,18-21). Purtroppo, le edizioni moderne della Bibbia suddividono la frase, che in greco è unica e suona così: “…rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, sottomettendosi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Anche il testo liturgico della seconda lettura è stato decurtato dell’ultima espressione.

Il dono dello Spirito è il contenuto della preghiera nel senso di imparare a percepire la volontà di Bene di Dio per noi; il rendere grazie esprime l’esperienza della percezione di quel Bene per noi e lo stare sottomessi indica il radicamento di quel Bene nel cuore da risultare il tesoro più prezioso. Ma tra il rendere grazie e lo stare sottomessi c’è tutto il tragitto del cammino da fare. Se si rende grazie senza stare sottomessi si è boriosi; se si è sottomessi senza rendere grazie si è servili. Invece, il segno che un cuore adora sinceramente il suo Dio è proprio il fatto di rendere grazie continuamente (= sempre, in ogni circostanza, comunque) e di stare sottomessi (ai propri fratelli, ma anche alla vita in generale) portando pazienza con il tempo, le cose, le circostanze, il nostro cuore e i nostri difetti, il prossimo.

Se consideriamo le parole di Gesù da questa prospettiva, tutto appare più chiaro. Espressioni più forti Gesù non poteva usare: ‘chi mangia [masticare, rompere con i denti, assimilare] la mia carne…’. Come comprenderle se non a partire dal dono dello Spirito che di quel mistero ci rende intelligenti?

Se le persone che ascoltavano Gesù non avevano accettato l’idea di un Gesù ‘pane vivo che discende dal cielo’, come avrebbero potuto accettare l’idea di Gesù che si fa pane da mangiare, di un Gesù che intende dar da mangiare la sua stessa carne? È evidentemente necessario un forte supplemento di intelligenza! Il discorso di Gesù è impostato su due verbi: mangiare e dimorare. Il mangiare è in funzione del dimorare. Lo stesso modo di parlare Gesù lo userà nell’Ultima Cena, insistendo assai di più allora sul dimorare per mostrarne le conseguenze: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me”… “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv c. 14-16). Come rimanere in Gesù senza assumere Gesù? E dove più concretamente, più realmente, più intimamente assumiamo Gesù se non nell’Eucaristia?

Quando mangiamo il pane eucaristico, in realtà non siamo noi a mangiare il Corpo di Gesù, ma è lui ad assimilarci al suo Corpo, ad assumerci in Sé. Dimorare allude alla dinamica di un amore che diventa radice di vita, che si fa vita di amore, partecipando alla stessa potenza di amore che qualifica la vita del Figlio dell’uomo, splendore dell’amore di Dio per il mondo. La preghiera dopo la comunione della messa di oggi lo ricorda molto bene: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Diventare partecipi della vita del Cristo significa somigliargli, rivestirsi dei suoi sentimenti, vivere della sua stessa umanità sulla quale risplende, imperitura, la gloria dell’amore di Dio per gli uomini. Significa incarnare la Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perché, per la nostra stoltezza, non ritenerci ‘degni’ dell’offerta di Dio, del suo mistero? E così, se l’uomo vuole la vita e dimorare nella vita, non può non viverla che in forza e per estendere a tutti quell’amore che gli si è rivelato in Gesù, che ha accolto nel suo cuore come la parola definitiva di Dio per l’uomo, sigillo di Bene e di Verità, principio di vita vera che riempie il suo desiderio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(26 agosto 2018)

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Gs 24,1-2a.15-17.18b;  Sal 33;  Ef 5,21-32;  Gv 6,60-69

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L’esito dell’incontro con Gesù è drammatico. Non sono soltanto i giudei a sfiduciarlo, ma gli stessi discepoli: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?“. Il brano poi rivela tutta la sua drammaticità con l’accenno a Giuda Iscariota, colui che consegnerà il maestro nelle mani dei suoi avversari, anche se la liturgia di oggi omette quei versetti. È Gesù stesso a sottolinearlo: “Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!” (Gv 6,70). L’elezione non mette al riparo dalla tentazione. Nulla è scontato, se tutto è grazia. Davanti all’abbandono di tanti, Gesù non abbassa la posta in gioco per essere accettato e passa la palla ai suoi apostoli: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Non è un’espressione altezzosa, come se fosse pronto a cambiare i suoi piani. Esprime invece tutta l’accoratezza e i sentimenti del cuore di Gesù per i suoi apostoli, come in un amore quando vuole assolutamente il contraccambio ma in libertà. E Pietro, a nome di tutti, risponde da dentro questo sentimento di Gesù che li aveva affascinati: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,67). Non comprendono, come tutti gli altri, ma rimangono, si fidano, non vogliono uscire da quell’amore che li ha toccati.

È un problema serio: l’uomo può scandalizzarsi di Dio. Facilmente l’uomo si scandalizza di Dio. Forse per le attese/pretese che non abbandonano mai il cuore dell’uomo. La prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, ne illustra la ragione di fondo. Il popolo d’Israele era ormai penetrato nella Terra promessa, dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e la tortuosa peregrinazione nel deserto. Nessuno di coloro che in età adulta avevano lasciato l’Egitto, nemmeno Mosè, e con la sola eccezione di Giosuè, era entrato nella Terra promessa. Si tratta ora di impostare la vita nella nuova condizione di libertà. Chi si vuole servire? Quale dio servire? La scelta è appunto tra Dio e gli dèi, gli idoli. Nel linguaggio sapienziale del libro dei Proverbi che abbiamo proclamato domenica scorsa la scelta era tra Donna Sapienza e Donna Follia. L’insegnamento di fondo è che l’uomo non dispone di libertà assoluta; ha la libertà di scegliere chi servire. Nel linguaggio della Scrittura ‘servire’ Dio allude a un rapporto gioioso e liberatorio che esalta le energie dell’anima sottraendola alle schiavitù quotidiane e all’oppressione del male. E il ‘servizio’ funziona in ragione della continuamente reiterata libertà di scelta per la verità. Ma per quale verità si è disposti ad impegnarsi?

Lo esprime bene il popolo: “Perciò anche noi serviremo il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (Gs 24,18). ‘Nostro’ non tanto perché lo scegliamo noi, ma perché Lui ha mostrato il suo favore a noi, perché Lui ha fatto questo e questo per noi. In quel ‘anche noi’ non c’è solo il riconoscimento della fede dei padri; c’è soprattutto il riconoscimento dell’agire di Dio per i nostri padri, per noi. Di fronte a Gesù, questo appunto risalta: lui mostra il Dio che si appressa a noi. Come in lui Dio serve noi, così noi in lui serviamo Dio, vale a dire lo riconosciamo nel suo amore per noi. Come ripetiamo nel salmo responsoriale, il Signore è riconosciuto vicino da chi lo accoglie nella sua fatica del vivere, senza scandalizzarsi. Perché l’amore di Dio si mostra nell’umanità di Gesù sotto le categorie della debolezza e della stoltezza al giudizio del mondo, che è lo stesso giudizio della carne, quella che Gesù dice non servire a nulla per trovare e avere la vita.

Riprendo più in dettaglio due particolari del brano evangelico. Di fronte all’incomprensione dei suoi discepoli Gesù non riduce il Dono di Dio, non banalizza il suo mistero. Svela i vari aspetti del suo mistero, ma il mistero resta. Questo significa che la rivelazione di Dio non comporta una semplificazione del suo mistero, ma più semplicemente la sua maggiore prossimità. La tensione del cuore non va puntata sul contenuto del mistero, ma sul dinamismo che lo caratterizza: ‘Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito…”. Da cogliere è questa ‘intenzione’ di Dio, che va diritta al cuore. È quanto fa Pietro rispondendo a Gesù. Pietro non si esprime in merito al discorso che Gesù ha fatto, ostico anche per lui, ma si esprime in merito al senso della Sua persona per il suo cuore perché intuisce che lì può trovare la vita.

Il brano finisce con l’allusione al tradimento di Giuda. Ecco la questione: se è Dio ad attirare gli uomini, allora in che cosa gli uomini sono responsabili del suo rifiuto? È Dio a scegliere, ma la sua scelta non comporta automatismi, perché fidarsi di Dio significa fidarsi dello spazio di libertà in cui ci pone. Lo spazio di libertà è in funzione della possibilità dell’incontro, gioia di Dio e dell’uomo insieme. Così la fede esprime l’umano nella sua radicalità quando, per compiersi, si scopre fondato e attratto da un oltre che lo sorpassa, benché gli appartenga. La scelta di Dio non comporta perciò l’esito scontato. È il dramma che segna tanto Dio (che resta solo, se abbandonato da noi) come pure noi, che restiamo soli senza di Lui, incapaci come siamo a realizzare la nostra stessa vocazione umana. L’amore di Dio però non viene meno tanto che quei discepoli, che ora abbandonano Gesù perché il suo discorso è troppo duro, saranno gli stessi che, guardando a Colui che hanno trafitto, potranno ricredersi e convertirsi e finalmente avere la vita, cosa sempre possibile per tutti noi. Perché l’uomo non si condanni alla solitudine, restando in balia delle sue ossessioni, è invitato a vivere nell’alleanza offertaci da Dio, in Cristo, e non a condizionare l’alleanza ai suoi scopi, che comportano il rifiuto di quelli di Dio. Ma negli scopi di Dio sta appunto l’offerta di vita eterna, che non può provenire da noi stessi. È lo stesso spazio del dramma che si trasforma nello spazio di una vita piena, toccata da una gioia inattaccabile, allorché Dio e l’uomo si incontrano, esperienza però sempre misteriosa, imprevedibile e decisamente drammatica.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(2 settembre 2018)

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Dt 4,1-2.6-8;  Sal 14 (15);  Gc 1,17-18.21b-22.27;  Mc 7,1-8.14-15.21-23

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Di nuovo la grande questione che la liturgia propone oggi è la questione dell’intelligenza della vita. Gesù rimprovera i suoi discepoli: “Così neanche voi siete capaci di comprendere?” (Mc 7,18). Nel libro del Deuteronomio, Mosè dice al popolo: “Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente” (Dt 4,6). Interessante notare la ragione di tale intelligenza: “Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,7). Ecco, la vicinanza di Dio, la percezione della sua vicinanza, l’esperienza custodita della sua vicinanza, questa è la radice di intelligenza. Il che significa che il cuore dell’uomo ha bisogno di quella ‘prossimità’ per fiorire nella sua umanità. E, nello stesso tempo, significa che è la parola di Dio a nutrire il cuore dell’uomo, a custodire il suo cuore.

A sottolineare la verità, niente affatto scontata, di questa intuizione santa, il testo del Deuteronomio aveva premesso: “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio” (Dt 4,2). Solo il comandamento di Dio ha il potere di portare la vita. Ma è così facile per l’uomo aggiungere e togliere, rivestendo i suoi ideali o i suoi obblighi di coscienza con la nobiltà del comandamento di Dio. Quando però l’esecuzione del bene non porta la vita, vuol dire che al comandamento di Dio abbiamo aggiunto o tolto e proprio in quell’aggiungere o togliere ci esponiamo all’illusione e poi alla delusione.

Ben a proposito, quindi, la Scrittura dice: non aggiungere né togliere. Se è abbastanza facile capire quando ci rifiutiamo di compiere un comandamento, non lo è quando in qualche modo ci imponiamo un comandamento, quando cioè crediamo di fare qualcosa di bene, ma non secondo Dio. La tradizione midrashica ebraica incastona in questo contesto l’occasione del peccato di Adamo ed Eva. Se si leggono attentamente i primi capitoli della Genesi si noterà l’aggiunta di Eva al comandamento di Dio. Dio dice: “…dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. Ma Eva al serpente risponde: “…del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Eva aveva provato a toccare il frutto proibito, ma non era successo niente. Quindi conclude: allora Dio non ha detto il vero, ha ragione il serpente. Allora posso mangiare per avere la conoscenza…! E incontra la morte.

L’aspetto misterioso del comandamento di Dio deriva dal fatto che la parola di Dio cela la rivelazione del Suo volto al nostro cuore abilitandolo a vivere in pienezza la sua vocazione all’umanità. Per questo la logica dell’intelligenza della parola di Dio capovolge la logica normale della comprensione. Davanti alla parola di Dio siamo invitati subito a metterla in pratica al fine di comprenderla, al fine cioè di cogliere la rivelazione di Dio che si svela al cuore. La comprensione viene dalla pratica; io accetto di mettere in pratica per capire e non, come solitamente ci riduciamo a fare, cerco di capire per mettere in pratica. Il primo moto è affettivo, non intellettivo, nel senso che prima devo poter accogliere l’intenzione segreta di Dio che a me si rivolge, fidandomi del suo amore. È per questo che, continuando la lettura del brano del Deuteronomio, al v. 9, si proclama: “Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose [parole] che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita”.

La liturgia ha ben collocato, a commento del brano del Deuteronomio, il salmo 14 (15), il quale riassume la sincerità del cuore davanti a Dio nell’agire con giustizia e nel parlare lealmente, cioè nel non danneggiare il prossimo, noi stessi compresi, né coi fatti né con la lingua (quello che i nostri Padri chiamavano: non ferire mai la coscienza del prossimo, né coi fatti né con le parole). Questo vale assai di più di qualsiasi pratica umana, pur nobile, perché in questo risplende la vicinanza di Dio.

Come Gesù fa ben risaltare nel brano evangelico di oggi, il guaio proviene dal fatto che la nostra pratica deriva spesso, non dal comandamento di Dio, ma da tradizioni, atteggiamenti, pensieri, obblighi, esclusivamente umani. Così, la promessa di trovare la vita ed entrare in possesso della terra del cuore, cioè gustare il mistero del regno dei cieli svelato dal Signore Gesù Cristo, non si compie mai. Quella promessa è abbinata solo alla pratica del comandamento di Dio, non ad altro. Ora, il comandamento di Dio tocca sempre il cuore, mentre la tradizione umana, spesso, non ha nulla a che vedere con il cuore, ma solo con l’apparenza, con la società, con i vincoli di coscienza. Le parole di Gesù si riferiscono a un problema particolare, quello della purità rituale quanto al cibo (negli Atti degli apostoli, ascolteremo ancora Pietro dire che nella sua bocca non è mai entrato nulla di impuro!) ma hanno un valore generale. Forse, non teniamo sufficientemente in conto che l’osservazione di Gesù sul fatto che è dal cuore che proviene ciò che può contaminare l’uomo e non dai cibi, stabilisce una perfetta uguaglianza tra gli uomini. Ogni pratica rituale è separante nel senso che stabilisce confini e distanze tra gli uomini, mentre Gesù plaude a una solidarietà piena, davanti a Dio, di tutti gli uomini. Ciò che rende impuro l’uomo vale allo stesso modo per tutti gli uomini. Così non ci sono più distinzioni tra gli uomini, perché tutti siamo confrontati con le stesse cose e con lo stesso bisogno di invocare Dio.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(9 settembre 2018)

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Is 35,4-7a;  Sal 145;  Gc 2,1-5;  Mc 7,31-37

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Nella trama narrativa del vangelo il brano di oggi si inserisce nella premura di Gesù per accompagnare i suoi discepoli alla fede in lui, fede che sarà professata da Pietro a Cesarea a nome dei suoi compagni, dopo la seconda moltiplicazione dei pani, riportata nel cap. 8, a metà esatta del vangelo di Marco. Gesù sta attraversando terre pagane e i miracoli che compie sono tutti in relazione all’attesa messianica: la donna sirofenicia, il sordomuto (il brano odierno), il cieco. Miracoli che realizzano la profezia messianica di Isaia, nella descrizione del ritorno degli esuli da Babilonia, come viene proclamato nella prima lettura. Non possiamo dimenticare che la confessione di fede in Gesù, Figlio di Dio, alla fine del vangelo di Marco, è pronunciata da un pagano, il centurione ai piedi della croce: “[…] avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

I gesti e le parole di Gesù hanno un’alta valenza simbolica perché toccare gli orecchi e la lingua sono diventati specifici gesti battesimali che ancora oggi sono ripetuti nel rito del battesimo dei bambini. Il rito dell’effeta (dal brano evangelico odierno: effatà, àpriti) con le parole: “Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”, è l’ultimo rito nell’amministrazione del battesimo, dopo l’unzione del sacro crisma, la consegna della veste bianca e del cero acceso. La nuova nascita non può che risolversi nella proclamazione del ‘Padre celeste’ secondo la preghiera insegnataci da Gesù. Si tratta di entrare nella stessa intimità che Gesù ha con il Padre. Al rito dell’effeta segue appunto la proclamazione del Padre nostro. E anticamente, quando i battezzandi erano adulti, la Chiesa si riferiva loro come a bambini piccoli che imparano a parlare. E quale parola si suggerisce loro di dire? “Padre nostro” e non: padre mio, rinunciando così ad ogni dipendenza nei confronti di qualsiasi altro padre terreno e carnale, cioè al diavolo. Proprio in questa rinuncia a una paternità terrena e carnale e nel riconoscimento di avere ormai un unico Padre celeste, si aprono gli orecchi per ascoltare la Parola di vita e si apre la bocca per proclamare la lode di Dio. Ecco delineato il passaggio dal paganesimo alla fede: ascoltare e proclamare parole vere, lodando l’unico Dio e Padre, in Gesù.

È caratteristico che il termine con cui, sia nel brano di Isaia che nel vangelo, viene denominato il sordomuto, indichi letteralmente uno che fa fatica a parlare, che farfuglia, che balbetta in modo che non si riesce a capire quel che dice. Chi non ascolta la parola del Signore, cioè è sordo, non può nemmeno dire parole sensate, parole comprensibili. In realtà, non siamo semplicemente afoni; balbettiamo qualcosa, ma senza poter dire parole di vita, parole di senso perché siamo dispersi e vuoti. La guarigione non consiste semplicemente nel poter parlare, ma nel dire parole di lode, parole cioè che comunichino, parole vere. A questo allude la fede in Gesù, la PAROLA VERA.

Ciò che sacramentalmente viene operato nel momento del battesimo è l’inizio di un movimento che continua tutta la vita, come prega l’orazione dopo la comunione: “[…] aiutaci a progredire costantemente nella fede” per partecipare all’energia della risurrezione. Ora, nel cammino della vita, il passaggio dall’essere sordi e muti alla capacità di ascoltare e parlare si rinnova con il pentimento rispetto ai peccati che ancora ci mantengono nell’orbita del padre terreno e carnale, rinnegando quello celeste. L’espressione di Sal 51,16-17 è illuminante: “Liberami dal sangue, o Dio, mia salvezza: la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode”. Davide è consapevole che, con il suo assassinio, è meritevole di morte. Ha pregato che il suo peccato gli venisse perdonato e nella gioia del perdono ritrovato promette di far conoscere la misericordia del Signore a tutti, testimoniandola davanti a tutti e chiede che il suo parlare costituisca appunto non solo una lode sua al suo Dio, ma che susciti la stessa lode a Dio in coloro che l’ascoltano e tutti conoscano la misericordia del Signore.

È per questo che la chiesa fa iniziare le preghiere del fedele ogni mattino con le parole del salmo: “Signore, apri le mie labbra. E la mia bocca proclami la tua lode”, consapevole che se tutte le altre parole, che si pronunceranno nella giornata, non pescano la loro verità e il loro vigore nella lode del Signore, feriranno. E nelle preghiere quaresimali, ad es. quella di s. Efrem, domandiamo di venir liberati dalla parola vana, dalla parola vuota. La preghiera del giusto è descritta: “Benedirò il Signore in ogni tempo. Sulla mia bocca sempre la tua lode”. Se rinunciano alla gloria di Dio gli uomini si troveranno estranei tra di loro tanto da non capirsi più.

La lode finale in bocca alla gente che aveva visto il miracolo suona: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Quando, alla fine della creazione secondo il racconto della Genesi, Dio contempla ciò che ha fatto, viene sottolineato: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). L’espressione della gente rivela che siamo in presenza ormai della nuova creazione, quella dei tempi messianici, quando Dio rinnova ogni cosa ridando a ciascuna cosa il suo splendore eterno perché tutto torni a proclamare la gloria del suo amore.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(16 settembre 2018)

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Is 50,5-9a;  Sal 114;  Gc 2,14-18;  Mc 8,27-35

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Con la proclamazione di fede di Pietro siamo al centro del vangelo di Marco. Gesù prende così sul serio la risposta di Pietro che decide di svelare il suo futuro di passione. È il primo annuncio della passione nel vangelo di Marco. La differenza di risposte alla domanda di Gesù di chi lui sia sta in questo: la gente si riferisce a Gesù, la cui figura affascina, come a colui che è stato inviato a preparare l’arrivo del Messia, mentre Pietro confessa che Gesù è proprio il Messia. Si tratta dello stesso quesito di Giovanni Battista: sei tu o dobbiamo aspettarne un altro? Pietro riconosce che è lui il Messia, confessione che induce Gesù a svelare il suo segreto.

Pietro però non è ancora pronto a rinunciare all’idea di Messia che si era fatto. In effetti, il vangelo non riporta che Gesù abbia cominciato a parlare del suo destino di passione, ma annota: “cominciò ad insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto…” (Mc 8,31). I due termini indicano che l’uomo non avrebbe mai potuto arrivare al mistero della persona di Gesù dal basso; vi si giunge per rivelazione, dall’alto. Non si vuole sottolineare una necessità di destino, ma il segreto di un amore che si consegna, un segreto di cui si è messi a parte. Non solo, ma che “dall’alto” corrisponde allo “star dietro” a Gesù. Pietro non può comprendere perché, invece di star dietro a Gesù, vuole mettersi davanti, come a far da suggeritore al suo Maestro e si prende il rimprovero: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. In quel rimprovero però c’è tutta la pedagogia di Dio con l’uomo e Pietro ne farà tesoro. Gesù riprende la testimonianza di Es 33,20-23, là dove Dio dice a Mosè che potrà vederlo solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo camminando dietro il Maestro si potrà vederlo in verità fino alla ‘contemplazione’ (termine caratteristico per indicare la visione di realtà supreme, oltre la materialità della vista) della croce, là dove risplende l’amore di Dio per gli uomini, convincendo i cuori che solo da quell’amore scaturisce la vita per l’uomo e che solo in quell’amore la dignità della vita si fa godibile.

Quando Gesù estende a tutti la sua ammonizione non fa che rendere coglibile da tutti ciò che aveva detto a Pietro. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù, che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Ma, per quanto desiderabile, come resta velata ai nostri occhi! Siamo sempre nella condizione di dover essere istruiti dall’alto per afferrare la verità dell’umanità di Gesù consegnata agli uomini e scoprire vero per noi e per tutti lo splendore dell’amore. Così il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia a ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Il ‘rinnegare se stessi’ ha il valore: nego me per tenere te, rinuncio alle mie paure per dare spazio alla fiducia di te, non resto bloccato nel mio passato e di storia e di inconscio per aprirmi al futuro che mi viene incontro e mi apre al dono di Dio. In questo senso vale quello che san Paolo, nella sua lettera ai Galati, ripresa dal canto al vangelo, proclama: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La preghiera della chiesa tende a rendere vivace per il nostro cuore tale verità.

Perché si possa avverare per ciascuno di noi quello che invoca la bellissima preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”. Quell’azione ci apre alla conoscenza del segreto di Gesù che ci rende partecipi della sua stessa dinamica di vita e di amore, oltre ogni impedimento. Avverrà come un incontro, profondissimo, intimissimo, dell’ascoltarsi a vicenda di Dio e dell’uomo, come suggerisce il brano del terzo canto del servo del Signore: “mi ha aperto l’orecchio” e il salmo commenta: “ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo”. L’orecchio di Dio e quello dell’uomo tesi all’ascolto reciproco. Anche così può essere descritto il nostro ‘star dietro’ a Gesù.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(23 settembre 2018)

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Sap 2,12.17-20;  Sal 53,  Gc 3,16-4,3,  Mc 9,30-37

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La liturgia ci introduce nei sentimenti di Gesù e dei discepoli con la lettura del libro della Sapienza. Il passo non va letto solo come un annuncio profetico della passione di Gesù, ma per la prospettiva nella quale la profezia dona la sua luce. Il brano riporta il discorso degli empi introducendolo con le parole: “Dicono fra loro sragionando…” e concludendolo: “Non conoscono i segreti di Dio”. Ecco, la rivelazione di Gesù consiste nell’essere messi a parte dei segreti di Dio, che sono appunto i misteri del regno dei cieli. E l’annuncio della passione rivela quanto i segreti di Dio siano lontani dalla mente degli uomini, eppur così essenziali alla vita dei loro cuori.

Si tratta del secondo annuncio della passione. I discepoli sono già stati confortati con la visione di Gesù trasfigurato sul Tabor e, curiosamente, l’annuncio segue il miracolo della guarigione del ragazzo sordomuto e epilettico con la supplica del padre angosciato: ‘credo, aiuta la mia incredulità’.  Gesù, che si sta dirigendo a Cafarnao, non vuole incontrare nessuno perché ha premura di istruire i suoi discepoli, li vuole introdurre nel suo segreto. Ma i discepoli non comprendono e continuano tra di loro, lungo la strada, a discutere chi fosse il più grande. Discussione più impropria, rispetto a quanto Gesù aveva appena annunciato, non potevano fare. È Gesù a provocare, a volere che vengano manifestati i pensieri che sicuramente sapevano non essere così santi. Gesù però non rimprovera; insegna, istruisce.

La ricerca della grandezza è tema sensibile per il cuore dell’uomo. Gesù non condanna i discepoli; accetta che l’uomo desideri essere grande. La sfida è appunto: quale grandezza cercare? Così al desiderio di grandezza dell’uomo segue l’indicazione della sapienza dall’alto che indica la strada e la natura della grandezza secondo Dio, come fa pregare la colletta: “O Dio, Padre di tutti gli uomini…donaci la sapienza dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”. La qualità della grandezza gradita a Dio è nell’ordine della comunione, della gioia per l’altro, della gioia condivisa con il Maestro: questo è il senso del servizio.

Quando Gesù dice: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”, pone se stesso a modello della grandezza. Di sé dice: “Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Dopo aver lavato i piedi agli apostoli dice: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,13-17).

Voler essere il servo di tutti significa allora voler essere trovato in Cristo. Voler essere il primo significa voler essere ritrovato in colui che è il Primo e che si è fatto servo di tutti.  Qui si scopre la grandezza che Dio gradisce. Lo dice l’annuncio della passione: quel Figlio, che sarà esaltato, dovrà patire. Da intendere: non certo che il ‘soffrire’ abbia qualche titolo di merito per ottenere grandezza, ma che è preferibile custodire l’amore per l’altro comunque; non certo che occorra rassegnarsi al male, ma che si accetti il fatto che il bene sia comunque preferibile e quindi si attraversi il male senza perdere il bene.

E perché è necessario percorrere questa via? L’esempio dei bambini ce lo illustra. Nel testo di Marco Gesù prende un bambino e dice: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me” (Mc 9,36). Gesù sta illustrando la grandezza per il regno dei cieli, che è grandezza di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Essere ultimo non significa essere dietro a tutti gli altri, ma solo servo di tutti perché l’amore di Dio risplenda e questo comporta che non ci sia cosa o persona più significative per il nostro cuore da indurlo a preferirle contro l’amore di Dio. Con il corollario evidente, anche se assolutamente mai scontato: non c’è grandezza vera se non nel preferire tutti a noi stessi perché solo così l’amore di Dio splende. Accogliere un bambino, quindi al di là di ogni riconoscimento mondano del bene che si compie, significa vivere la propria umanità come espressione della gloria del Signore. Significa far splendere in questo mondo la gloria del Signore.

Se però leggiamo il passo parallelo di Mt 18,1-5, il riferimento ai bambini acquista un significato ancora più profondo. Nel testo di Matteo leggiamo: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”. Purtroppo la traduzione ‘si farà piccolo’ è fuorviante rispetto al contesto di rivelazione dell’annuncio della passione. In effetti, il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Il significato è più diretto rispetto all’annuncio della passione, perché Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Allora il riferimento al bambino può essere compreso sia nel senso della confidenza verso il Padre sia nel senso della debolezza estrema patita e diventata luogo di gloria. A tal punto, che Gesù si confonde con ogni ‘bambino’, cioè con ogni uomo nella sua debolezza, tanto che chi onora un uomo nella sua debolezza onora lo stesso Signore Gesù e chi onora il Signore Gesù onora il Padre. I segreti di Dio sono ravvisabili in questa ‘equazione’, svelata nella sua bellezza dal Signore che per noi ha patito, è morto ed è risuscitato.

Quando accogliamo un uomo senza altra qualificazione se non quella della sua ‘umanità’, senza altro titolo di importanza o di merito o di demerito, allora accogliamo Gesù. E lo possiamo fare perché già abbiamo imparato a godere dell’intimità con il Padre, che in quella ‘umanità’ ha posto la sua compiacenza e di cui abbiamo potuto fare esperienza credendo al Figlio dell’Uomo dato per noi. Così diventare come bambini comporta l’esperienza di una umanità che non ha bisogno di altri titoli di gloria, proprio come davanti ai bambini non si guarda ad altro se non che sono bambini.

Se Giacomo, nella sua lettera, parla di una sapienza che viene dall’alto, indicandola come “pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”, allude proprio a quella rivelazione che ha conquistato il cuore e che lo muove con la potenza del suo dinamismo. E quando, nella preghiera dopo la comunione, domandiamo che ‘la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita’, in realtà preghiamo perché il nostro cuore si apra a quella rivelazione e ne sia conquistato.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(30 settembre 2018)

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Nm 11,25-29;  Sal 18;  Gc 5,1-6;  Mc 9,38-43.45.47-48

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Il brano di Marco, al di là del contenuto specifico delle parole di Gesù, sottolinea due realtà: l’estrema preziosità della fede nel Signore Gesù e la tensione per il Regno, segreto della vita. Ambedue le realtà sono suggerite dal canto al vangelo: “La tua parola, Signore, è verità; consacraci nella verità” (cf Gv 17,17). Come se, davanti alla proclamazione del vangelo, pregassimo: fa’ che viviamo della verità delle tue parole, aderendovi intimamente, in tutta evidenza per il nostro cuore. In questo brano, Gesù proclama la verità sotto forma di promessa e sotto forma di minaccia. La promessa è rivolta a chi non ha ancora aderito a lui e la minaccia a chi ha già aderito, ma il contenuto della promessa e della minaccia è il medesimo: quanto è preziosa per la nostra vita la conoscenza dei misteri del Regno!

Ma l’uomo non sa vedere. Anche l’uomo zelante per Dio rischia di non saper vedere, come Giosuè, il servitore di Mosè. L’episodio del dono dello Spirito ai settanta anziani, tra i quali sono stati annoverati anche i due uomini rimasti nell’accampamento, Eldad e Medad, non va visto solo a conferma dell’atteggiamento di Gesù che non vuole venga impedita l’azione di Dio dovunque si manifesti, a differenza dei discepoli che vorrebbero invece limitarla al loro gruppo (“Chi non è contro di noi è per noi”). Va visto in rapporto alla necessità dell’effusione dello Spirito per accedere ai misteri del Regno. Mosè non può essere geloso della visita di Dio perché se Dio visita è appunto per attrarre tutti a Sé; così i discepoli non possono essere gelosi del dono dello Spirito perché quel dono è dato proprio perché tutti entrino nei misteri di Dio. Così, nel salmo responsoriale, la supplica è quella di essere liberati dai peccati nascosti, soprattutto dal peccato di orgoglio che impedisce di vedere in modo puro i doni di Dio: “Assolvimi dai peccati nascosti. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere…”.

In rapporto a questa supplica, coloro che hanno responsabilità nella chiesa sono i primi destinatari della minaccia di Gesù: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me…”. La fede in lui è così preziosa che chi, con il suo comportamento altero o litigioso oppure con la sua eccessiva severità verso i fratelli più deboli, la rende impraticabile o impossibile a tenersi, sarà condannato. L’aggiunta del paragone, che sarebbe meglio che fosse gettato in mare con appesa al collo una macina da mulino, allude al tradimento di Giuda (cfr. Mt 26,24) per sottolineare questa equazione: ricevere un discepolo di Cristo equivale a ricevere il Cristo, ma scandalizzare un discepolo di Cristo equivale a tradire il Cristo. Scandalo, in questo contesto, è riferito allo scoraggiamento che si istilla nei deboli con un atteggiamento troppo severo di fronte alle loro mancanze.

Rispetto a chi non ha ancora fede in lui Gesù dice: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico che non perderà la sua ricompensa”. Gesù ritiene fatta a sé ogni attenzione o cortesia rivolta ai suoi discepoli. E potremmo dedurre per tutti in generale: anche un semplice bicchiere d’acqua è degno di ricompensa, se offerto in rettitudine di cuore! L’aspetto misterioso consiste appunto nel fatto che ogni minima cosa, fatta nel nome di Cristo, apre sul mistero del regno dei cieli, che Gesù è venuto ad indicarci presente, fruibile. Nel nome di Gesù ogni minima azione può aprirsi sul regno dei cieli e ciò è accessibile a tutti perché a tutti Gesù rende vicino il Regno.

Rispetto invece ai suoi discepoli Gesù dice: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala … Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo … Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna …”. Il senso delle sue parole potrebbe essere così interpretato: se l’uomo ha il coraggio di agire seguendo i desideri più profondi del suo cuore, nell’esperienza della fede, allora abbandonerà i desideri superficiali, momentanei, che sono in contrasto con quelli. Posso portare un esempio. Vengo offeso da un fratello. Il mio cuore mi convince di esigere scuse da lui per ristabilire il mio diritto e se il fratello tarda o si rifiuta io resto nella mia offesa, anche se, a volte, è solo il senso della mia importanza ad essere ferito o la mia vanità o la mia presunzione. Vuoi ottenere il tuo diritto? Rischi di perderti completamente. La tua importanza ti impedisce (=scandalizza) di entrare nel regno dei cieli? Abbandonala, tagliala via e tu entrerai nel regno. La difesa del tuo diritto ti fa entrare in guerra con tuo fratello? Lascialo, taglialo via e tu vedrai il regno dei cieli. Vuoi prevalere sul tuo fratello? Taglia via quella volontà, stagli invece sottomesso: scoprirai la grazia del Regno.

I misteri del Regno sono i misteri della conoscenza del Signore Gesù, fuoco e sale della vita. Non per nulla il capitolo 9 di Marco termina con queste parole misteriose: “Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale … Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. Potremmo interpretare: se vi lascerete convincere a percepire i misteri del Regno come tesoro del vostro cuore (ecco il fuoco) e rinuncerete sia a ogni forma di ambizione e rivalità che di impoverimento di desideri e di tensione spirituale (ecco il sale) , vivrete custoditi e lieti, potrete godere la pace tra voi come sigillo dell’opera di Dio in voi, come frutto del dono dello Spirito Santo e godimento dell’esperienza della conoscenza del vostro Maestro che per voi è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato.

Gli atteggiamenti interiori che rivelano l’esperienza del Regno si riducono così a due: gioire del bene (sia quello fatto dagli altri che da noi, in qualsiasi condizione) e non ferire mai la coscienza del prossimo, specie dei deboli e dei piccoli. Allora potremo cantare con il salmo responsoriale: “i precetti del Signore fanno gioire il cuore”.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(7 ottobre 2018)

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Gn 2,18-24; Sal 127; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16

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Per comprendere il brano evangelico di oggi dobbiamo collocarlo nel contesto religioso del tempo. La domanda dei farisei, domanda tranello, non verteva tanto sul carattere lecito del divorzio, che anche la Legge consentiva (Dt 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”), ma a quale condizione lo fosse. Nella controversia tra le due scuole di Hillel e Shammai, ai tempi di Gesù prevaleva la prima, più rigorista: il divorzio è lecito solo a una condizione, in caso cioè di unione illegittima (che anche Mt 5,32 contempla) o di adulterio, mentre più tardi prevalse la seconda, più lassista: il divorzio è lecito per qualsiasi motivo. La legge sul divorzio proteggeva la donna dall’accusa di adulterio, perché le permetteva un nuovo matrimonio. Nell’ordinamento ebraico ai tempi di Gesù sembra che spettasse solo al marito l’iniziativa del ripudio, mentre nell’ambiente greco-romano spettava anche alla donna. Così Marco, che scrive per i convertiti dal paganesimo, attualizza l’insegnamento di Gesù per coloro che provenivano dal paganesimo.

Tutti sapevano che il ripudio era una consuetudine pacificamente accettata e che Mosè aveva avvallato con un’indicazione precisa. I farisei sembrano intuire che l’insegnamento di Gesù vada contro la Legge. Vogliono che lo dichiari apertamente per aver motivo così di accusarlo. In effetti tutte le fonti attestano la presa di posizione radicale di Gesù sul divorzio, che però la Legge approvava e che Gesù, però, non aveva intenzione di scardinare.

La risposta di Gesù, collocandoci nell’interpretazione più rigorista della legge mosaica, affronta la questione in una prospettiva completamente diversa. Gesù, contrapponendo comandamento a concessione, arriva al cuore del problema. In gioco non c’è l’interpretazione restrittiva o estesa di una norma e neppure la norma stessa, ma il fondamento su cui la norma prende valore. Il valore di riferimento non è la consuetudine, per quanto avvalorata, sebbene in semplice concessione, dalla stessa Legge, bensì l’agire di Dio che esprime il suo volere quanto all’uomo. E Gesù richiama l’atto della creazione: “Dio li fece maschio e femmina; per questo l’ uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola” (cf. Gen 1,27; 2,24). Faccio notare che nel testo ebraico quel ‘si unirà’ non ha una marcata valenza sessuale, valenza che si accentuerà nelle versioni e nei commenti successivi. Quella benedizione di Dio non è mai venuta meno, nonostante i peccati e le fragilità umane. E quella benedizione costituisce l’asse di riferimento perenne del valore del matrimonio.

Gesù si riferisce al secondo racconto della creazione dove l’uomo non è più considerato come coronamento del cosmo, bensì suo principio. Quando, con l’antifona di ingresso (citazione dal libro di Ester. Il passo è tradotto dalla Volgata e corrisponde al cap. 13,9.10-11, mentre nelle Bibbie moderne, ad es. la Bibbia TOB, il passo corrisponde al cap. 4,17b-c), proclamiamo: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere” alludiamo alla parola: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Tutte le cose sono date all’uomo, ma in nessuna cosa l’uomo trova il suo compimento. Da notare che Adamo godeva pienamente della pace con Dio, non era ancora venuto il peccato a turbare l’armonia con Dio e con il creato. Il contesto stesso della citazione dal libro di Ester è oltremodo significativo. Ester ha saputo dell’editto di annientamento del suo popolo ed è invitata ad intervenire. L’angoscia è totale perché nessuno può presentarsi al re se non chiamato, pena la morte, nemmeno la regina, come è lei. Allora supplica il Signore e Gli ricorda che nessuno può resistere al Suo volere di salvare Israele. Su quella volontà si fa forza e ardisce entrare alla presenza del re, che poi convince alla sua causa. Gesù si rifà a quel ‘volere’ di Dio nei confronti dell’uomo, volere che possiamo spiegare così.

Dio è Uno, ma non è solo. In questo mistero insondabile del Dio, uno nella natura e tre nelle persone, rivelato da Gesù, si fonda il volere di Dio per l’uomo. È come se Dio dicesse: non è possibile che l’uomo non partecipi alla realtà più bella che mi costituisce, l’amore. Non basta che l’uomo ami Me, suo Creatore, se non può amare anche chi è della sua stessa natura; l’amore che Noi, Padre Figlio Spirito Santo, ci costituisce, voglio che anche l’uomo lo possa vivere al pari di Noi. Ora la donna, che non è tratta come Adamo e tutte le cose dalla polvere del suolo, ma dallo stesso Adamo, è plasmata perché l’uomo potesse ‘essere come Dio’, amare come Dio: realizzare la comunione in un’unica natura e tra persone diverse.

Lo sottolinea anche la liturgia con il canto al vangelo: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Come a suggerire: l’amore, che ha le sue origini in Dio, rende uomini e donne di pari dignità rispetto alla loro vocazione originaria, perché solo attraverso l’amore possiamo fare esperienza di Dio. E quando un uomo e una donna sono consacrati nel loro amore, in gioco è proprio la consumazione dell’amore di Dio che si rivela in essi. Solo la tensione al Regno dei cieli, però, può motivare fino in fondo la decisione di quell’amore, tensione che giustifica l’insegnamento di Gesù sul divorzio andando contro la Legge.

In effetti, la posizione di Gesù è vincolata all’accoglienza del Regno, al fatto di vederlo come colui che compie il volere di Dio per l’uomo. Il brano è inserito in un contesto preciso, quello della sua sequela, che si chiude con il suo ingresso a Gerusalemme. I suoi discepoli sono come storditi, perché subito dopo Gesù proclama il valore del celibato volontario per il regno dei cieli, l’inciampo delle ricchezze per il sincero servizio del cuore e, per la terza volta, annuncia la sua prossima passione.

Così, l’indissolubilità del matrimonio diventa una esigenza del regime messianico insieme a tutto il resto. Proprio in questo trova senso il paragone dei bambini che leggiamo subito dopo: “a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”. Vi è l’allusione alle beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli …”. I bambini, da interpretare come ragazzi di 10-12 anni, prima del bar mitzvah, quando cioè a pieno titolo entrano nella società degli adulti con il poter leggere pubblicamente la Bibbia e contribuendo al numero legale per un’assemblea di preghiera, sono l’immagine dei discepoli che non hanno titolo di importanza o prestigio, che non si aspettano nulla, che non esercitano alcun potere, che possono confidare solo in chi vuole loro bene. Di questi è il regno dei cieli, di quanti cioè hanno posto in esso tutta la loro confidenza e in nient’altro, non cercando quindi ricchezze o prestigio o finendo di servirsi di Dio invece che essere suoi servi. L’insegnamento di Gesù è chiaro e i discepoli restano pensierosi. Dovranno fare ancora tanta strada insieme al loro Maestro per accogliere queste sue parole e viverne la potenza.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(14 ottobre 2018)

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Sap 7,7-11;  Sal 89;  Eb 4,12-13;  Mc 10,17-30

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Se il brano evangelico di domenica scorsa aveva presentato lo sbigottimento dei discepoli rispetto all’insegnamento di Gesù sul matrimonio e sulla verginità per il regno dei cieli, ora lo sbigottimento è dovuto al suo insegnamento sulle ricchezze. L’occasione è fornita dalla richiesta di un giovane ricco che interpella Gesù a proposito della vita eterna. Davanti all’esito dell’incontro, che ha lasciato tutti con la bocca amara, Gesù chiosa: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” e, subito dopo: “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!”. Il giovane se ne era andato rattristato perché non ha avuto il coraggio di disfarsi delle sue ricchezze, a fronte di una richiesta, liberamente formulata, che evidentemente gli derivava dal fatto che non era soddisfatto della sua vita, pur devota. Va notato subito che Gesù non ha chiesto a tutti di abbandonare le proprie ricchezze per seguirlo, ma solo ad alcuni, a quelli che aveva scelto perché stessero con lui e per mandarli a predicare. L’insegnamento di Gesù, perciò, non riguarda il possesso delle ricchezze.

Almeno due cose si possono notare. Prima cosa. L’orizzonte della richiesta del giovane ricco sembra limitato. La vita eterna che mostra di volere è assai diversa da quella che Gesù chiama l’entrare nel regno di Dio. È come se non riuscisse a distinguere il comandamento dalla ispirazione che l’ha dettato. Il dramma dei credenti viene proprio dal fatto che si può praticare il bene e non arrivare mai a gustarne il frutto. La messa in guardia risuona nell’affermazione di Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Ciò significa che si possono fare atti buoni senza diventare buoni o, meglio, fare i comandamenti senza partecipare alle segrete intenzioni per cui Dio ci ha dato quei comandamenti e così non veniamo messi a parte del suo segreto e del desiderio del suo cuore, non diventiamo mai intimi suoi. Il giovane ricco ricerca il regno di Dio come aggiunta ai beni che ha già. Non è disposto ad accogliere il regno come la radice di vita, come la partecipazione al segreto di Dio temendo così di perdere i suoi beni.

Seconda cosa. Se paragoniamo la richiesta della sapienza da parte di Salomone e quella del giovane ricco comprendiamo la distanza che li separa. Salomone è già re, è ricco, ma chiede a Dio la cosa che solo da Lui può provenire e che lui, Salomone, reputa come la cosa più preziosa: la sapienza. La sua richiesta è tesa alla realizzazione del compito per cui è stato chiamato: reggere il popolo con giustizia e rettitudine. E proprio perché ottiene da Dio la cosa principale, quella più preziosa ai suoi occhi, non mancherà di alcun altro bene. La richiesta del giovane ricco rivela invece che per lui la sequela del Signore non è così preziosa; sarebbe desiderabile, gli appare bella, ma non la cosa più preziosa. Vorrebbe solo essere più soddisfatto. Non desidera l’intimità con il suo Dio a tal punto da disprezzare quello che ha già pur di averla.

Di per sé la posizione del giovane ricco e dei discepoli, sbigottiti, si equivale. In fondo, pensano allo stesso modo. La differenza risiede nel fatto che i discepoli sono però capaci di provare a credere a Gesù, capacità che permetterà al loro cuore, a tempo debito, di condividere i segreti di Dio che in Gesù si manifestano, lasciandosi conquistare totalmente. Pietro non pretende qualcosa se sottolinea cosa ci guadagneranno dall’aver abbandonato tutto per seguire il loro Maestro. Dichiara semplicemente che a loro non è ancora dato di godere il frutto della loro rinuncia. E Gesù gli risponde con la promessa che ciò avverrà sicuramente e in abbondanza, a patto che seguano il Maestro fino in fondo, fino a conoscere nell’esperienza del loro cuore la prima beatitudine, ripresa dal canto al vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Si potrebbe dire che il senso della nostra vita si gioca non nel voler fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio e il segreto di Dio che ci rivela il suo amore per noi è proprio quel Figlio che è stato dato per noi e con il quale vogliamo stare.

Non è però possibile all’uomo entrare nel segreto di Dio. In questo senso si capisce bene la tristezza di Gesù davanti alla tristezza del giovane ricco che se ne va disilluso: il giovane rifiuta l’ingresso in una gioia che aveva intravisto e di cui si rassegna a non godere più. La conseguenza sarà che i comandamenti eseguiti non saranno mai per lui motivo di intimità e di gioia del cuore. E per questo non può ancora entrare nel Regno, che gli è balenato davanti.

La prima lettura illustra come sia da intendere questa impossibilità per l’uomo di ‘salvarsi’, cioè di entrare in intimità con Dio e vivere in comunione con lui e con tutti i suoi figli. Se Salomone prega per ottenere la sapienza vuol dire che la sapienza non è una conquista umana. Il salmo responsoriale lo mostra chiaramente. Parla di ‘saziarsi di grazia’, di ‘dolcezza del Signore’, di ‘saldezza’ dell’agire dell’uomo. Accogliere Gesù significa accogliere la sapienza di Dio che è splendore di amore per l’uomo. Tutto ciò che ha a che fare con quello splendore nella vita degli uomini parla della sapienza che ha lambito il cuore dell’uomo e lo rende luminoso. A paragone con questa sapienza, le ricchezze e ogni altro bene di cui godere nella vita non costituiscono nulla di davvero significativo per il cuore. Salomone lo sa e prega ardentemente per partecipare a quella sapienza.

E se l’antifona di ingresso proclama, eco del salmo 129: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele”, vuol dire che l’uomo non può accedere alla sapienza sulla base dei suoi meriti, non può conoscere la sapienza a partire dal suo buon comportamento; vuol dire che si accede alla sapienza con il riconoscere il bisogno del perdono, che non equivale semplicemente a riconoscere la colpa, ma a riconoscerla davanti a Qualcuno che ci vuol far dono di Sé.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(21 ottobre 2018)

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Is 53,2a.3a.10-11;  Sal 32;  Eb 4.14-16;  Mc 10,35-45

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Gesù sta salendo a Gerusalemme e per la terza volta annuncia la sua passione: “il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Mc 10,33-34). È a questo punto che si fanno avanti i due figli di Zebedeo (nel racconto di Matteo è la loro madre che si fa avanti) a chiedere di condividere la gloria del Messia. Strana richiesta, se non altro per la vantata supremazia sui loro compagni. Eppure la richiesta dei due discepoli non procede da cuori vanesi o boriosi. Effettivamente sono discepoli che seguiranno il maestro fino alla fine e Gesù riconosce la loro lealtà. Non dimentichiamo che, insieme a Pietro, questi due discepoli sono quelli che hanno ricevuto un nome nuovo da Gesù, a differenza di tutti gli altri. Nell’elenco degli apostoli (cfr. Mc 3,16-19), Giacomo e Giovanni vengono subito dopo Pietro e sono denominati ‘Boanerghes’, figli del tuono. Insieme a Pietro, accompagnano Gesù nei momenti più significativi e misteriosi e hanno sentito la voce dal cielo: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Sono presenti al Getsemani. E Gesù sa che sono disposti a seguirlo fin nella sua passione [di fatto Giacomo morì martire verso l’anno 44 a Gerusalemme, secondo At 12,2, mentre la tradizione che, fondandosi su questo passo, fa martire Giovanni è chiaramente posteriore. Anche in questo risalta la ‘misteriosità’ della parola di Dio: in che senso Giovanni ha bevuto il calice della passione, se non è morto martire?]. Eppure, la loro richiesta è inaccoglibile e non certo per evitare la gelosia degli altri. A cosa mirano dunque le parole di Gesù?

In poche parole, Gesù rifiuta ogni collegamento tra il desiderio di gloria e la sua sequela. Quel nesso è custodito da Dio solo. Non che non esista, ma guai a volerlo perseguire, perché ne scaturirebbe un fraintendimento colossale per i nostri cuori. La ragione profonda credo risieda nel fatto che ad attirare a Gesù è il Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Essere mossi dal Padre significa condividere l’amore di benevolenza che in quel Figlio ci raggiunge e ci fa riposare. Non si può desiderare altro. Volere altro, volere la gloria per sé significa uscire da quella dinamica e fallire il compimento dei desideri del cuore. A questa assolutezza Gesù richiama e rimanda. È l’assolutezza che lui ha vissuto e che il profeta Isaia ben delinea nella sua profezia sul Servo del Signore, proclamato nella prima lettura.

Del resto si concatena bene a questa anche l’altra risposta di Gesù all’irritazione dei discepoli contro i due figli di Zebedeo:“…chi vuole diventare grande  tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. La domanda di fondo suona: perché voler essere grandi comporta dover servire? Di nuovo si è rimandati al mistero del Padre che attira al Figlio. Servire significa compiere quella ‘volontà di benevolenza’ del Padre nei confronti degli uomini che in Gesù si realizza perfettamente. Compiere la volontà di benevolenza significa far risplendere, comunque, in qualsiasi condizione, quell’amore di Dio per gli uomini in cui si radica la loro dignità e la loro libertà. Non per nulla Gesù si definisce come colui che serve e dà la propria vita in riscatto per molti. Non viene semplicemente detto che Gesù è il prezzo pagato per il nostro riscatto, ma più propriamente che la sua vita diventa fonte di vita per noi perché anche noi possiamo dare la nostra perché altri l’abbiano e a loro volta diventino capaci di darla. Si tratta di attivare il circolo virtuoso dell’amore. Qui non è sottolineata la generosità di chi si offre in sacrificio, ma la natura del sacrificio, che è quella di liberare la vita altrui, di far risplendere l’amore di Dio capace di dare la vita. Non è un’azione di merito, ma di mistica.

È proprio il servire a procurare questo riscatto: libera la dignità degli uomini e fa risplendere la presenza del Signore. E se non porta lì, allora vuol dire che il servire messo in atto sa troppo di questo mondo, sul quale esercita il suo potere il diavolo. Se non porta lì, vuol dire che il dinamismo del sacrificio di Gesù, dinamismo di amore sotto la duplice forma di docilità filiale verso Dio e di solidarietà fraterna aperta a tutti, non ci ha toccati. Ma se quel dinamismo non ci ha toccati, allora non siamo discepoli di Gesù e la nostra sequela di lui è illusoria. Occorre lasciare ogni tipo di potere e prestigio se si vuole condividere la grandezza dell’amore, che in Gesù splende di tutta la sua bellezza in umanità.

Un’ultima annotazione. Nel brano di Marco, rispetto alla grandezza vale il servizio vicendevole (nel testo: sarà vostro servitore), rispetto al primato vale l’essere ultimi nel senso di essere schiavi di tutti (nel testo: sarà schiavo di tutti). Nell’ultima cena, Gesù si muove non solo come servitore, ma come schiavo e in questo rivela il segreto di Dio per l’uomo. Se l’uomo potesse condividere quel segreto, si troverebbe a muoversi come Gesù e vivrebbe la sua vita nella dinamica di liberare la dignità degli uomini in modo che sia esaltato l’amore di Dio per loro.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1° novembre 2018)

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1 Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione!

Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso dell’urgenza della preghiera: renderci accorti di quella verità! Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana. La stessa Eucaristia non è che la celebrazione di questo mistero.

Ora, chi sono i figli di Dio? Sono coloro che lo Spirito di Dio guida – risponde tutta la tradizione della chiesa. E le beatitudini evangeliche sono le vie che lo Spirito di Dio fa percorrere per essere trovati in quel Figlio, che è la rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini.

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità;

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini;

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fino a che la terra del loro cuore splenda della presenza del loro Signore;

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono;

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce;

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo se non di perseguire la pace con tutti ottenutaci dal Figlio di Dio;

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che promette.

Con l’invito a purificarci: “Non rimproveriamo il mondo, non rimproveriamo la vita, di velare per noi il volto di Dio. Troviamolo questo volto, ed esso velerà, assorbirà ogni cosa” (Madeleine Delbrêl).

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Solennità e feste

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

(2 novembre 2018)

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Prima Messa

Gb 19,1.23-27a;  Sal 26;  Rm 5,5-11;  Gv 6,37-40

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Se ieri, festa di tutti i santi, la chiesa guardava al mistero dell’amore di Dio per l’uomo dal cielo, oggi, commemorazione di tutti i defunti, lo guarda dalla terra. È lo stesso mistero di salvezza celebrato ieri ma contemplato nella logica degli affetti umani, che di quel mistero sono la cifra visibile.

Applico alla celebrazione odierna quello che la Chiesa vive nella sua preghiera eucaristica: “Per mezzo del tuo Figlio, splendore d’eterna gloria, fatto uomo per noi, hai raccolto tutte le genti nell’unità della Chiesa. Con la forza del tuo Spirito continui a radunare in una sola famiglia i popoli della terra, e offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo regno. Così la Chiesa risplende come segno della tua fedeltà all’alleanza promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore” (Preghiera eucaristica V/D). Tra l’altro, la preghiera per i defunti “L’eterno riposo” pesca in uno scritto cristiano in aggiunta al libro di Esdra, conosciuto nella sua redazione latina come il quarto libro di Esdra, attribuendo al sacerdote-scriba Esdra la visione profetica delle nazioni che si convertono al Signore a formare il nuovo popolo di Dio. Vedendo i popoli venire alla fede promette loro il riposo messianico nella luce meravigliosa dell’amore di Dio (4Esd 2,34-35).

Fare memoria dei nostri defunti significa alludere a quella forza unificante di Dio che ci raccoglie alla mensa del suo amore, dove tutti siamo invitati. Significa fondare la nostra speranza nel suo amore salvatore e misericordioso, oltre il dolore della separazione. La liturgia di oggi suscita un grande senso di solidarietà umana. Non si tratta solo di tenere viva la memoria dei propri cari, ma di fare esperienza di una solidarietà in umanità che gli affetti sanno custodire. È qualcosa che rivela la percezione di una realtà misteriosa, ma potente, coinvolgente, insopprimibile. La radice la ravviso nel brano del giudizio finale narrato da Matteo, il medesimo brano che viene proclamato anche nella solennità di tutti i santi. Con il suo giudizio il re manifesterà il segreto dell’agire di Dio fin dalla fondazione del mondo, lungo tutta la storia. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi. La solidarietà negli affetti parla di questo ‘segreto’ di Dio.

La memoria per i nostri defunti tiene vivo nell’anima questo segreto nella prospettiva della supplica che si riveli loro in tutta la sua potenza, come capace finalmente di dare compimento ai desideri che hanno lavorato la terra dei cuori loro e nostri. Le letture di oggi definiscono i salvati come ‘nel riposo’ di Dio e si prega perché i defunti, coloro che ci hanno preceduto nel regno di Dio, godano il ‘riposo’ di Dio.

Quel ‘riposo’ allude al compimento di un atto di creazione particolare. Nel primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, il testo dice che, dopo aver creato tutte le cose: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Se i sei giorni precedenti non sono bastati a completare il lavoro, che cosa allora è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo, rispondono gli antichi rabbini (cf. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna. Proprio secondo la promessa di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28) e soprattutto “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25,34).

Con il ricevere il regno che è preparato fin dalla fondazione del mondo, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita e della nostra. Ciò che da sempre ha mosso il cuore di Dio, ora, finalmente, si vede realizzato. In effetti, il riposo allude anzitutto alla condivisione dei sentimenti di Dio, al riposo dell’amore suo che tanta pena si è dato per convincere e conquistare; è il ristoro che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo. Da far dire al profeta Isaia: “E si dirà in quel giorno: Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza” (Is 25,9).

La particolarità della liturgia di oggi è data dal fatto che la chiesa supplica il suo Signore perché quel riposo sia condiviso da tutti i suoi figli, che intercede presso di lui per tutti loro, fiduciosa nella misericordia immensa di Dio che si è dato pena per i suoi figli, nessuno escluso. La supplica procede dalla fiducia nella promessa di Dio che vuole con sé i suoi figli, ma anche dal desiderio, pieno di speranza, che finalmente potrà avverarsi, come dice Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Se questo desiderio alberga in ogni cuore, la chiesa supplica perché tutti possano vederlo realizzato, possano sentirlo finalmente come la verità del loro cuore.

E le letture tratte da s. Paolo aggiungono che addirittura la nostra stessa carne rifiorirà incorruttibile, addirittura nella nostra stessa carne sperimenteremo l’amore salvatore del Signore che dà la vita. È l’altra caratteristica della liturgia di oggi: la chiesa professa la sua fede nella risurrezione della carne, la sua speranza nella potenza di Dio che esprimerà la vittoria sulla morte nella nostra stessa carne, insieme ai nostri cari.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

(4 novembre 2018)

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Dt 6,2-6;  Sal 17;  Eb 7,23-28;  Mc 12,28b-34

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Il brano del vangelo di Marco comporta una particolarità unica nei vangeli. È l’unico passo di tutto il vangelo in cui Gesù si congratula con uno scriba. Quello scriba, che alla fine riceve l’elogio di Gesù: ‘Non sei lontano dal regno di Dio’, aveva assistito alla discussione di Gesù con i sadducei a proposito della risurrezione dei morti. Aveva certamente notato che la forza del ragionamento di Gesù si basava sul fatto che Dio era proclamato Dio dei vivi: “Non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi!”. Se Dio è Dio dei vivi, vuol dire allora che la morte non costituisce barriera per Lui; vuol dire che la morte non distrugge la Sua fedeltà che tutto sovrasta. Quando si proclama la verità di Dio, la prima cosa che il cuore enuncia è la realtà di un Dio fedele al suo amore che arriva all’uomo nonostante il suo peccato e la sua miseria, capace di tenere insieme la nostra storia. Dio non è un oggetto di conoscenza, ma un Soggetto di relazione. Non si arriva a Dio per via speculativa, ma dentro una storia di salvezza. Più ci si percepisce dentro quella storia di salvezza e più la proclamazione di Dio è assoluta e coinvolgente. È appunto quel Dio così esperito che merita di essere amato con tutto il cuore e che fonda la possibilità stessa di amare.

L’espressione del Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” ricorda che ‘nostro/mio’ ed ‘unico’ stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza.  Secondo la bellissima espressione di Origene tale è la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.

Gesù, rispondendo allo scriba, cita proprio quel passo, che costituisce la confessione di fede del pio israelita, la parte più solenne della preghiera quotidiana di ogni ebreo praticante: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Anzitutto: ‘Ascolta’! La Parola di Dio è fondante, la mia esistenza riceve senso da quella Parola, da lì prende vigore il mio cuore. In Dio l’uomo scopre le sue radici. ‘Il Signore è il nostro Dio’: prima ancora che possa cogliermi nella mia individualità, devo riconoscermi dentro una pluralità, dentro una comunione, dentro una solidarietà. È il mistero dell’alleanza di Dio con noi che mi precede, dentro il quale mi posso raggiungere e riconoscere e accogliere. Prima c’è quello che Dio ha fatto per noi, poi in quel noi posso sentire anche me che vengo raggiunto dall’agire di Dio. Quindi: ‘Tu amerai’, cioè finalmente posso rispondere e godere tutta l’intimità di quella alleanza. A questo punto il comandamento non è più un imperativo morale, ma la porta di accesso a un segreto, a un mistero di cui sono chiamato a divenire partecipe. Noi spesso leggiamo il comandamento dalla parte della paura, del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, ma in realtà bisogna imparare a leggerlo dalla parte della passione del cuore, dell’anelito e del desiderio che ci muovono dentro e della possibilità finalmente di viverlo compiutamente. Ma come è possibile se non riusciamo a percepirci prima raggiunti da un’offerta, da un’alleanza, da un amore che ci precede? La ‘scoperta’ della fede in Gesù ci colloca proprio dentro quella prospettiva. È per questo che lo scriba, trovandosi sulla soglia di quella scoperta, viene elogiato.

Del resto, nella risposta di Gesù viene descritto tutto il movimento di intelligenza delle Scritture, che non può non portare a far condividere con tutti quello che ormai è percepito come il tesoro del cuore, per cui dal primo comandamento si passa direttamente al secondo, quello dell’amore del prossimo. Non però nel senso che l’amore per l’uomo è parallelo, per importanza, all’amore per Dio. Ma nel senso che l’amore per l’uomo non sarà totale che a partire dall’amore per Dio. La fede è sempre all’origine della carità, sebbene sia la carità a verificare la sincerità della fede. Così tutta l’opera spirituale, l’opera che procede dallo Spirito e che è tesa a mostrare il mistero della fraternità come rivelazione della presenza di Dio nel mondo, parte dalla condivisione del segreto di Dio in Gesù, si fa comunione di vita con Lui e diventa fonte di vita per tutti. Prima si fa la scoperta di quel che comporta l’incontro col Signore Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30); poi si compie in noi la sua promessa, come viene proclamato nel canto al vangelo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Consapevoli sempre che “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

E siccome il cammino non è proprio un viaggio in carrozza, l’antifona di ingresso illustra bene la situazione concreta dell’uomo quando, riportando due versetti del Sal 37 (38), 22-23, proclama: “Non abbandonarmi, Signore, mio Dio, da me non stare lontano; vieni presto in mio aiuto, Signore, mia salvezza”, espressione che i Padri del deserto usavano come invocazione ripetuta continuamente per custodirsi nella via di Dio e con la quale iniziano tutte le ore canoniche della preghiera liturgica della Chiesa.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(11 novembre 2018)

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1 Re 17,10-16;  Sal 145;  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

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Nella liturgia di oggi qualcosa di strano risuona per il nostro modo di ragionare. Dio ordina al profeta Elia di rifugiarsi a Sarepta, in territorio pagano, perché una vedova provvederà a lui, ma quella donna non ha di che sfamarlo. Come vedova già viveva di elemosine e ora che è tempo di carestia raccoglie solo briciole. Eppure proprio a lei il profeta viene inviato per la sua sopravvivenza. Prima, nella sua solitudine, il profeta riceveva cibo dai corvi, termine che alcuni commentatori rendono con ‘arabi’ intendendo che un israelita viene aiutato proprio da uno straniero. Gesù, che si è messo in posizione di osservazione davanti al tesoro del tempio, elogia una povera vedova per i due spiccioli che vi aveva buttato restando senza più risorse lei per vivere.

Tutta la liturgia di oggi può essere letta come il commento della Chiesa alla prima beatitudine cantata nel versetto all’alleluia: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3), secondo l’elogio che Gesù tributa ad una povera vedova a sua insaputa. L’antifona alla comunione ne svela la ragione la ragione profonda: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla …”. Di questa certezza era colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Gesù, elogiando la vedova, vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna, che vuole ottemperare al comando di Dio di portare l’offerta al tempio, come era richiesto a tutti gli ebrei, si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze sembrano giocare a sfavore.

Traducendo letteralmente si potrebbe rendere: “i ricchi hanno preso sul loro superfluo, lei, vedova, ha preso sulla sua indigenza tutto quello che aveva, che costituiva tutta la sua vita”. Oppure, ancora più significativamente: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti … portatori di pace … misericordiosi …”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose, vale a dire il tempio e il popolo per cui si portavano le monete al tesoro. E in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.

Come annota Madeleine Delbrel commentando la prima beatitudine: “Non pensate che la nostra gioia sia trascorrere i giorni a vuotare le nostre mani, le nostre menti, i nostri cuori. La nostra gioia è trascorrere i giorni a scavare nelle nostre mani, nelle nostre menti, nei nostri cuori un posto per il Regno dei Cieli che passa. Perché è straordinario saperlo così imminente, saper Dio così vicino. È prodigioso sapere il suo amore tanto possibile in noi e su di noi. E non aprirgli questa porta unica e semplice che è la povertà di spirito”.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma – aggiunge – “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. É il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l’importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, lungo tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell’incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita del profeta e la sua. Così, rispetto alla prima beatitudine, la vedova è tra quei poveri nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri in spirito toccheranno il regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi. Così in effetti prega la chiesa dopo la comunione: “La forza dello Spirito Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi tutta la nostra vita”. Come a dire: lo Spirito del Signore radichi i nostri cuori nello stesso atteggiamento di fede della vedova che ha strappato a Gesù quell’elogio pieno di ammirazione.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(18 novembre 2018)

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Dn 12,1-3;  Sal 15;  Eb 10,11-14.18;  Mc 13, 24-32

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Il ciclo dell’anno liturgico volge al termine e la chiesa contempla le cose ultime per collocare nella loro vera luce le cose presenti. Gesù era appena uscito dal tempio dopo aver elogiato l’offerta dei due spiccioli della vedova e i discepoli lo invitano a contemplare le meraviglie della sua costruzione. Siamo al cap. 13 di Marco e l’evangelista mette in bocca a Gesù un lungo discorso di stampo apocalittico. Mescola in un’unica sequenza gli avvenimenti della morte-risurrezione di Gesù, della distruzione di Gerusalemme, delle tragedie della storia umana, delle prove e del martirio dei credenti, dei segni cosmici alla fine dei tempi, del giudizio finale imminente. Con la predizione della rovina del tempio, avvenuta per opera dei romani nell’anno 70 d.C., mentre i lavori di ricostruzione, iniziati sotto Erode il Grande negli anni 20/19 a.C., si erano conclusi nell’anno 64 d.C., Gesù mette in guardia i suoi discepoli: sappiate sfuggire all’inganno, vegliate! Quell’avvertimento, Vegliate, è l’ultima parola del cap. 13, quella che introduce il racconto della passione di Gesù. Tutto è orientato alla manifestazione della gloria del Signore crocifisso, non semplicemente nel suo aspetto giudicante alla fine dei tempi, ma nel suo aspetto di rivelazione dell’amore del Padre per i suoi figli che costituisce l’unico mistero significativo per il nostro cuore. Così prega la colletta: “donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio”. La stessa immagine suggerisce il canto al vangelo: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,36), da intendere: possiate essere degni di veder manifestato in voi l’amore del Signore in modo tale da vivere la vostra vita nel segno del suo splendore.

L’antifona di ingresso, che riprende alcuni versetti del cap. 29 del profeta Geremia, offre il contesto di intelligenza per le parole di Gesù: “Dice il Signore: «Io ho progetti di pace e non di sventura; voi mi invocherete e io vi esaudirò, e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi»”. È la testimonianza del profeta fatta recapitare per lettera agli esiliati in Babilonia invitati ad accettare la prova nell’attesa dell’intervento liberatore del Signore, senza cedere a false promesse di falsi profeti per false e presunte liberazioni che non ci saranno. Se Gesù è venuto per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi, proprio in questo possiamo vedere i progetti di pace di Dio realizzarsi. L’insistenza sulle prove, sui dolori, sulle tribolazioni, sul martirio, che il linguaggio apocalittico esalta con immagini penetranti, non fa che acuire la vista sull’unicum necessario, mantenere cioè il cuore in quell’amore che da lui discende e che a lui riporta perché tutti possa conquistare, finalmente. Al di fuori di lui, progetto di pace di Dio per l’uomo, quell’amore non si attinge e la tragedia della storia resta solo tragedia, la dispersione resta solo un sogno irrimediabilmente infranto che acuisce la rabbia e la separazione tra gli uomini e appressa semplicemente la fine senza far raggiungere il fine. Per questo, quando la prova incombe, la tentazione assale, lo sconvolgimento irrompe, l’avvertimento che risuona è sempre il medesimo: badate bene, state attenti, vegliate! Non ingannate il vostro cuore, non lasciatevi ingannare!

Perché “chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mc 13,13). La consolazione scaturisce dalla lucidità della coscienza che Lui “è vicino, è alle porte” per indicarci “il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 15,11). Nel bene e nel male che accade, Lui è vicino, possiamo attenderne la manifestazione al nostro cuore, certi che il futuro si decide sulla fedeltà alla sua parola, certi che il male verrà riscattato. Come diceva Gesù a proposito della malattia di Lazzaro: “questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio” (Gv 11,4).

Proprio perché crediamo che l’esito finale sarà la manifestazione gloriosa del regno di Dio, per cui tutti vedranno quanto è grande l’amore di Dio per i suoi figli sia che se ne partecipi nella gioia sia che ce ne si senta dolorosamente privati, ci diamo premura perché anche il nostro agire, nell’oggi che ci è dato, sia teso a rivelare quella manifestazione, a far sì che appaia al nostro cuore, oggi, nel suo splendore, quell’amore che ci è stato riversato nella persona del Figlio dell’uomo. Così, ogni evento della fine non può che ricollegarsi all’evento della morte-risurrezione del Figlio dell’uomo il quale davvero consuma la storia aprendola al suo fine, alla rivelazione di quel progetto di pace. La domanda angosciosa che ci accompagna resta sempre la medesima: ma perché la storia deve contemplare nel suo seno tanto dolore? Perché il Figlio dell’uomo è anche l’uomo dei dolori? Si convince un cuore dell’amore che gli porti se non vede che puoi anche soffrire per lui? E la risposta resta segreta nel cuore di Dio, segreto a cui il cuore attinge quando non si premura d’altro che di condividere il progetto di pace di Dio. Proprio come canta l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”. Oppure, come nel ritornello del salmo responsoriale: “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio”. Da intendere: veniamo custoditi proprio dalla manifestazione dell’amore del Signore al nostro cuore, che così ne resta conquistato, in modo tale che quell’amore risulta il segreto vero della nostra umanità, la nostra radice di vita.

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Sesto ciclo

Anno liturgico B (2017-2018)

Tempo Ordinario

XXXIV Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

(25 novembre 2018)

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Dn 7,13-14;  Sal 92;  Ap 1,5-8;  Gv 18,33b-37

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Il ciclo liturgico si chiude fissando lo sguardo su due immagini che si sovrappongono: l’immagine dell’Agnello, ritto in piedi, in mezzo al trono, di cui ci parla l’Apocalisse e quella del Re, di cui ci parla il vangelo, nell’ottica della Pasqua terrena ed eterna che le due immagini richiamano. Sebbene l’immagine del re richiami la signoria universale di Gesù e il suo ruolo di Giudice alla fine dei tempi, la liturgia sceglie come icona della regalità il brano del processo davanti a Ponzio Pilato e ai capi dei giudei, dove il potere religioso e il potere politico rivelano la loro inconsistenza rispetto alla verità. Nell’arte italiana, il quadro della flagellazione di Gesù di Piero della Francesca è il più espressivo rispetto a tale sottolineatura.

Il vangelo di Giovanni non parla della predicazione del regno da parte di Gesù, tema centrale invece nella narrazione dei sinottici. In Giovanni, Gesù non predica il regno, è egli stesso il re. Ma la verità della sua regalità è descritta su due piani contrapposti: sul piano della cronaca, Gesù passa come re per burla (i soldati che lo deridono), come re per dispregio (l’accusa dei giudei di fronte a Ponzio Pilato), come re per finta ma finta atroce (Pilato lo consegna per essere crocifisso), come re perdente e impotente (è innalzato ma sulla croce e lì vi muore); sul piano della verità della storia, Gesù è il re vittorioso, ma non per un regno di questo mondo, è il re che attira tutti all’amore di Dio, è il re che rivela lo splendore dell’amore del Padre. La narrazione della passione di Gesù in Giovanni va letta sempre in contrappunto con questo piano della verità delle cose.

Il re messianico, colui che avrebbe inaugurato l’era messianica, era designato con l’espressione ‘colui che viene’, espressione che era risuonata festosa, pochi giorni prima, sulla bocca dei discepoli all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, ripresa dal canto al vangelo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11,9-10). Per mettere maggiormente in risalto il valore dell’espressione sarebbe bene tradurre: ‘Benedetto nel nome del Signore colui che viene!’. Se teniamo presente che quell’espressione risuona come definizione di Dio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) e che l’ultima parola della Bibbia si raccoglie in un doppio grido da e per Colui che viene: “Sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), allora se ne può intuire la densità di significato. Colui che da sempre è stato atteso, colui che da sempre si attende, Colui che riassume tutte le nostre attese è proprio Lui, il re dei giudei, sotto processo, condannato, giustiziato. Perché a questo è destinato colui che proclama la verità, colui il cui regno non è e non appartiene a questo mondo, ma di cui il senso è noto e svelato soltanto da Lui.

Quando dice che il suo regno non è di questo mondo, non vuol dire che non riguarda questo mondo, ma più semplicemente e più potentemente che proprio perché non è di questo mondo, può essere in questo mondo, può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale. Lo proclamerà dall’alto della croce quando si svelerà la profezia messianica: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). È la verità dell’amore del Padre per tutti i suoi figli che in lui splende.

È d’altronde caratteristico che il re promesso sia crocifisso: crocifisso in quanto re, re in quanto crocifisso. Non vale più alcun titolo di prestigio o potere, solo lo splendore dell’amore! Mi sembra che nel corso del processo si richiamino a vicenda, nella loro profondità di verità, le due espressioni sarcastiche, una proferita e l’altra pensata: ‘Ecco l’uomo’; ‘Ecco il vostro Dio’. Fin sotto la croce arriva l’eco di questo sarcasmo. Ma il sarcasmo non toglie la verità: Gesù è davvero l’uomo pieno, libero, sovrano nell’amore e nella dedizione ed è davvero il vero volto di Dio, il volto di compassione e misericordia, capace di salvare.

Credo sia questo il senso per cui Gesù abbina il titolo di re alla verità: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. La regalità di Gesù ha a che fare con la verità, che è amore. È la proclamazione ferma, sovrana, del brano dell’Apocalisse: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre…”. A Lui, all’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, a colui che costituisce l’inizio e la fine, a lui tutti volgeranno gli sguardi perché tutti vanno in cerca della verità che acquieta solo quando si rivela come amore, amore per noi.

Così l’espressione ‘chiunque è dalla verità ascolta la mia voce’ acquista il significato: chiunque vuol compiere in verità i desideri del suo cuore ascolta la mia voce, vale a dire regna con me, serve come me. Servire e regnare si richiamano a vicenda perché ambedue sono in funzione dell’amore che risplende in verità: nel servire è allusa la fedeltà all’alleanza con Dio, mentre nel regnare è allusa la libertà dei cuori liberata da odio e tristezza e perciò sovrana. L’alleanza si traduce in desiderio di fraternità, dove ormai non si tratta più di attirare a me le simpatie del Re, che è già tutto dalla mia parte, ma di condividere con lui i suoi sentimenti verso l’umanità intera. Posso così chiamare mio il mio Re, quando rispetto a tutti sono soltanto servo perché condivido ormai il suo segreto, che è il suo desiderio di comunione con gli uomini che diventa lo scopo supremo dell’agire umano.

Quando, nell’orazione dopo la comunione, preghiamo: “Fa’ che obbediamo con gioia a Cristo, Re dell’universo, per vivere senza fine con lui, nel suo regno glorioso”, domandiamo di imparare ad assumere il servizio all’umanità come condivisione del segreto di Dio perché si manifesti lo splendore di verità del suo amore per noi, in mezzo a noi. E come viverlo senza che i nostri sguardi si volgano con tenerezza a quel ‘re, schernito, vilipeso, crocifisso’ per tutti?