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Sesto ciclo

Anno liturgico A (2016-2017)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(19 novembre 2017)

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Pr 31,10-13.19-20.30-31;  Sal 127;  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

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La parabola di oggi è incastonata tra la parabola delle dieci vergini, che invita a stare vigilanti e la parabola del giudizio finale, che rivela su cosa saremo giudicati nel nostro fare, cioè sull’amore. La parabola dei talenti invita invece alla fedeltà nell’operare. Il padrone distribuisce i suoi beni per mettere gli uomini nella opportunità di giocare la loro vita, concepita nei termini di un esercizio di responsabilità. La domanda di accesso al mistero della parabola può essere la seguente: cosa è in gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?

Anzitutto rendiamoci conto di che operosità si tratta. L’uomo che parte per un viaggio rappresenta Gesù stesso, che con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli affidando loro i misteri del Regno. Il padrone è lo stesso personaggio del buon Samaritano che accudisce l’uomo colpito dai briganti, è il Maestro che serve, è il padrone che vuole far entrare a tutti i costi quanti più può nella sala del banchetto nuziale, ecc. Il Signore Gesù non solo lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’ amore, nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita. L’operosità dei servi è direttamente proporzionale alla fiducia che questi pongono nel loro padrone.

La somma data è assai cospicua. Anche per questo sembra strano che il padrone, alla resa dei conti, dichiari che questa cifra enorme è poca cosa! I talenti si riferirebbero cioè alla fede in Gesù con tutto quello che comporta quanto al partecipare ai segreti di Dio, come dirà Gesù nell’ultima cena ai suoi discepoli: “Non vi chiamo più servi … vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Quello che fa problema è la spiegazione del terzo servo, che aveva ricevuto un talento e che dichiara la sua paura per averlo nascosto sottoterra. Dice il vero rispetto al padrone? La parabola sembra confermarlo. In realtà, però, le sue parole tradiscono l’indisponibilità verso il padrone. Il padrone lo chiama ‘servo malvagio e pusillanime (che per paura non si decide, non: ‘pigro’)’, mentre i primi due servi sono chiamati ‘servo buono e fedele’. Il terzo servo non crede alla potenza del vangelo, prende le distanze dalla fede in Gesù, sebbene l’abbia conosciuto e si impedisce di accoglierne la fecondità nella sua vita. Si richiude in se stesso, per paura che troppo gli venga richiesto e così manifesta la sua sfiducia. È l’opposto di quello che dirà Paolo: “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

La liturgia sembra suggerire lo scenario per evitarci di cadere nella disposizione di quella ‘cattiveria di cuore e pusillanimità di comportamento’ del terzo servo. L’antifona di ingresso riporta le parole del Signore al popolo esiliato a Babilonia: “Io ho progetti di pace e non di sventura …”. Quelle parole si trovano nella lettera che il profeta Geremia aveva scritto ai deportati per diffidarli dal credere che l’esilio sarebbe durato poco, come alcuni millantati profeti andavano dicendo sulla base di notizie di rivolte che erano scoppiate qua e là nell’impero babilonese. Li invita a pazientare e a sfruttare il tempo dell’esilio per tornare al Signore, fiduciosi che a suo tempo il Signore li avrebbe riportati a casa. Quando la liturgia invita alla fedeltà quanto alla nostra operosità sa che il contesto in cui esercitare tale operosità è l’esilio, un tempo difficile da non sprecare in recriminazioni e ribellioni. Così l’antica colletta prega: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”. E l’orazione sui doni proclama: “Quest’offerta che ti presentiamo, Dio onnipotente, ci ottenga la grazia di servirti fedelmente e ci prepari il frutto di un’eternità beata”.

Il ‘servizio fedele’ non può essere che il medesimo esercitato dal Maestro, quello di mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli, servizio che risalta in tutta la sua bellezza proprio nella lavanda dei piedi nell’ultima cena. Alla resistenza di Pietro a farsi lavare i piedi, Gesù non ha altro argomento per convincere Pietro che questo: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8). Non è forse la stessa cosa che dice il padrone ai servi fedeli: “… sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”?

E se l’opera di Gesù si risolve nella gloria del Padre perché ne fa risplendere lo splendore in mezzo agli uomini con la sua testimonianza di amore fino alla fine (fino a raggiungere lo scopo della Provvidenza di Dio, che è quello di riunire a sé i figli dispersi!), così sarà l’opera dei suoi servi. Siamo servi di questo ‘splendore’ di Dio dovuto all’umanità perché ottenuto da Gesù per noi. Il servo che ha nascosto il talento è colui che vuole solo per sé ciò che invece è trovato donandolo, è il servo che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce il potere e chiude agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più ‘buono a nulla’ ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli! Non sa o non vuol sapere che la sua felicità dipende dal farsi dono a tutti perché l’amore del Signore splenda in questo mondo.

Ora, se la ‘responsabilità’ del dare se stessi è esercitata di fronte a Colui che per noi ha dato se stesso, l’esercizio di tale responsabilità è volto direttamente verso i fratelli, in specie i fratelli più piccoli, per i quali, come per noi, il Signore ha dato se stesso. Come ci ricorda un racconto chassidico. Un uomo entusiasta di Dio vagò nell’universo fino ad arrivare alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali, ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”.

La parabola suggerisce anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo, che ha ricevuto i misteri del Regno dal Signore Gesù, li sperimenta nell’amore agli uomini suoi fratelli, diventa solidale con il Padre, il quale ci serve nel Figlio che ha inviato per noi. Servendo, nell’amore, l’umanità di tutti, non facciamo che esercitare quel servizio divino che ridà dignità all’uomo e rende la vita davvero desiderabile. L’insidia maggiore a questo sogno di Dio è la nostra paura, la paura che Dio sia così esigente con noi da toglierci ogni illusione di riuscire a compierlo. Non solo, ma la paura ci impedisce di condividere la gioia del Signore. Quando Gesù, nell’ultima cena, affida ai discepoli i suoi segreti e li invita a rimanere nel suo amore rivela che lo scopo del suo agire è la condivisione della sua gioia (cfr. Gv 15). E ci può essere gioia nel Signore senza l’amore per i fratelli per i quali sono svelati i suoi segreti?

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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]

Prima Lettura  Pr 31,10-13.19-20.30-31

Dal libro dei Proverbi

Una donna forte chi potrà trovarla?

Ben superiore alle perle è il suo valore.

In lei confida il cuore del marito

e non verrà a mancargli il profitto.

Gli dà felicità e non dispiacere

per tutti i giorni della sua vita.

Si procura lana e lino

e li lavora volentieri con le mani.

Stende la sua mano alla conocchia

e le sue dita tengono il fuso.

Apre le sue palme al misero,

stende la mano al povero.

Illusorio è il fascino e fugace la bellezza,

ma la donna che teme Dio è da lodare.

Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani

e le sue opere la lodino alle porte della città.

Salmo Responsoriale  Dal Salmo 127

Beato chi teme il Signore.

 

Beato chi teme il Signore

e cammina nelle sue vie.

Della fatica delle tue mani ti nutrirai,

sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda

nell’intimità della tua casa;

i tuoi figli come virgulti d’ulivo

intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto

l’uomo che teme il Signore.

Ti benedica il Signore da Sion.

Possa tu vedere il bene di Gerusalemme

tutti i giorni della tua vita!

Seconda Lettura  1 Ts 5,1-6

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési

Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.

Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.

Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

 

Vangelo  Mt 25,14-30

Dal vangelo secondo Matteo

[ In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. ]

Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.

[ Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. ]

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».