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Giudizio universale. Monastero di Voronet (Moldavia)

* § *

Genova, 19 ottobre 2017

Convento del Padre Santo (Padri Cappuccini)

I Novissimi, tradizionalmente intesi sono: morte, giudizio, inferno e paradiso. Come ne possiamo parlare? A me è stato chiesto di presentare una visione d’insieme perché nella serie degli incontri successivi verranno trattati i singoli dati di fede. Se ne può parlare:

In modo sbarazzino, con un proverbio irlandese:

Ci sono solo due cose di cui ti devi preoccupare:

o stai bene, o stai male.

Se stai bene non ti devi preoccupare, ma se stai male ci sono solo due cose di cui ti devi preoccupare:

 o guarisci, o muori.

Se guarisci non ti devi preoccupare, ma se muori ci sono solo due cose di cui ti devi preoccupare:

o vai in paradiso, o vai all’inferno.

Se vai in paradiso non ti devi preoccupare, ma se vai all’inferno ti ritrovi tanto preso a salutare gli amici, che non hai nemmeno il tempo di preoccuparti.

Non ti preoccupare!

In modo psicologico, da sindrome depressiva, con accenti anticlericali, come spesso si trova nei vari blog della rete:

Sono sempre stata credente, cattolica, e praticante nell’ultimo decennio della mia vita, a parte un anno in cui ho tralasciato di frequentare i sacramenti. La fede mi ha sempre molto aiutato ma mi ha anche messo i bastoni fra le ruote. Da sempre penso che finirò all’inferno e che non c’è salvezza per me. Anche il sacerdote da cui sono andata a parlare mi ha detto che questa cosa non ha nulla a che fare con la religione ma solo con la depressione. Per me però è una vera tortura, mi rende confusa. bloccata, incapace di vivere sul serio.

Risponde il saputello anticlericale, mosso dalle più nobili intenzioni umanitarie:

Questa faccenda dell’inferno è legata a una teologia di stampo medievale, nessun serio teologo anche cattolico ci crede più. Anche le interpretazioni dell’Apocalisse si volgono all’apocatastasi, alla rigenerazione e alla salvezza di tutti. Ti consiglio di contattare un teologo post-conciliare (meglio un missionario comboniano e un gesuita), non dare retta a tutte le fesserie che tornano di moda con queste teologie reazionarie che tanto piacciono alla Curia romana di questi tempi!

In modo devoto, tradizionale, secondo la fede che è arrivata intatta fino ai nostri genitori:

Nella vecchiaia alle sofferenze della malattia e alla dissoluzione del corpo si aggiungono le pene morali, e in particolare la paura dell’inferno, a cui si deve far fronte con l’elevarsi con il pensiero ai gaudi eterni in modo che, al momento della morte, non si avrà nulla da temere (S. Antonio da Padova).

In modo mistico, con s. Isacco Siro:

“Io dico che coloro che soffrono nella geenna, sono tormentati dalle sofferenze dell’amore. Sono dure e amare le sofferenze provocate dall’amore, cioè laddove si è sentito di aver mancato nell’amore, più dei tormenti provocati dal timore. La sofferenza che grida nel cuore per la mancanza di amore è forte più di qualsiasi sofferenza che ci possa essere”.

Diceva Karl Barth: “L’ultima parola che ho da dire […] non è un concetto come la “grazia”, ma un nome: Gesù Cristo.  Egli è la grazia, ed è lui l’ultimo, al di là del mondo, della chiesa, e anche della teologia. Non possiamo “catturarlo”. Ma con lui abbiamo a che fare…. In nessun nome c’è salvezza, se non in questo.  E là appunto è anche la grazia. Là è anche l’impulso al lavoro, alla lotta; l’impulso alla comunione, all’essere insieme agli altri uomini.  Là è tutto quanto ho provato nella mia vita, nella debolezza e nella stoltezza. Ma tutto è là”.

In questa testimonianza ravviso l’orizzonte in cui parlare appunto dei Novissimi. Non nel senso di cosa ci attenderà, ma nel senso di come giocare la vita rispetto a ciò che ne fonda il senso e ne indica la direzione di movimento come la meta segreta.

Prima domanda. Che senso ha riflettere sulle realtà ultime?

Realtà, cioè, oltre le quali nulla è più dato, nelle quali ravvisare la meta del desiderio che, invece di riposarsi, si incendia completamente convogliandolo verso l’infinito che lo attirerà eternamente, ma di cui nessuno è venuto a dirci come sarà.

Rispondo con l’aiuto di un testo letterario e di un testo evangelico.

1) Nell’ultimo canto del Paradiso Dante rivela la ragione ultima della grazia della visione straordinaria che gli è concessa: “E fa la lingua mia tanto possente / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente” (Par XXXIII) secondo quello che già aveva annunciato nel Purgatorio: “in pro del mondo che mal vive “ (Purg XXXII). Tutto ciò che nell’universo è separato, diviso, contraddittorio, ciò che ci ferisce, ci fa soffrire e ci fa star male – dice Dante – io l’ho visto stare insieme. Tutto è tenuto insieme con amore come in un volume. C’è un ordine nella vita che non possiamo vedere dalla terra, possiamo solo intravederlo. E Dante aggiunge: io però l’ho visto; la mia mente “fissa, immobile e attenta / e sempre di mirar faceasi accesa”. Non solo, ma il desiderio, invece che saziarsi, si alimentava incessantemente. Anzi, la soddisfazione del desiderio alimenta il desiderio. E proprio l’assenza di desiderio è l’inferno, il contrario di Dio, la morte dell’essere, perché questa è la natura dell’amore che “saziando di sé, di sé asseta” (Purg XXXI).

Così Dante commenta la natura del suo vedere Dio: “ma per la vista che s’avvalorava / in me guardando, una sola parvenza, / mutandom’io, a me si travagliava”. Come a dire: l’aspetto divino si trasformava ai miei occhi via via che io stesso cambiavo, perché ero io a cambiare cambiando il mio modo di vedere. E quando può fissare lo sguardo nell’intimità più profonda di Dio, cosa vede? “dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige: / per che ‘l mio viso in lei tutto era messo”. Il volto di un uomo, nel più profondo di Dio! Ma come è possibile che lui, Creatore, abbia accettato di farsi creatura? Tanto che il volto del Figlio di Dio fatto uomo, Gesù, morto e risorto per noi, rende riconoscibile il volto di ciascuno. Qui la ragione supera se stessa dentro l’ultima illuminazione divina tanto che “A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Tutto è mosso nell’armonia dell’amore sovrabbondante che tiene insieme il tutto. Ecco ormai l’invito finale: tornare alla terra con questa esperienza di paradiso. Perché la terra può essere un inferno, tante volte è certamente un purgatorio, ma può avere squarci di paradiso capaci di tenere su anche tutto il resto.[1] Se si parla dei Novissimi, è per cogliere la posta in gioco della vita.

Come spiega poeticamente s. Efrem nei suoi Inni del paradiso: “L’alito di un pezzetto benedetto del paradiso fa dolce l’amarezza di questo nostro luogo. Esso mitiga la maledizione della nostra terra. Quel giardino è il respiro di questo mondo malato, a lungo rimasto nell’infermità. Esso ha annunziato l’invio del Farmaco della vita alla nostra condizione mortale. Quale bisogno aveva, la terra, che di là un fiume fluisse, uscisse verso di lei dividendosi in rami se non perché la benedizione del paradiso si mescolasse mediante l’acqua e uscisse a irrigare il mondo e ne risanasse le fonti mescolate di maledizioni…?”.[2]

2) Come testo evangelico prendo Mt 25,31-46, che presenta il giudizio universale. Il brano si proclama nell’ultima domenica dell’anno liturgico allorquando la liturgia ci pone nel punto di intersezione tra questo mondo e il mondo futuro, facendoci contemplare nello stesso tempo, con uno sguardo d’insieme, la verità di questo mondo e quella del mondo futuro. Non si tratta però di guardare a quello che avverrà alla fine dei tempi, ma di renderci conto di quello che è in gioco in questo tempo dal punto di vista dell’eternità.

Il brano del vangelo, non propriamente una parabola, ma la visione di un giudizio profetico, nel personaggio che è seduto per giudicare assomma le figure del Figlio dell’uomo, del Pastore e del Re. Il giudizio è presentato come inappellabile. La collocazione del brano però nella struttura della narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione.  Al brano segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti.

La liturgia poi suggerisce il clima in cui l’evento si compie fugando l’emozione di angoscia istintiva che la scena tende a scatenare. Il Figlio dell’uomo, il Pastore, il Re, è anche l’Agnello immolato, Colui che per noi ha dato la sua vita, Colui che è il segno per eccellenza dell’amore di Dio per l’uomo. La liturgia ci fa cantare all’inizio: “L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza e sapienza e forza e onore: a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno” (Ap 5,12; 1,6). Celebra la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di Ez 34. Ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il compimento dell’attesa del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Ma prima di appuntare lo sguardo sul giudizio, è bene sottolineare la corrispondenza, segreta, di alcuni particolari. Il re dice a quelli di destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. Quel ‘venite’ corrisponde all’invito dello Sposo alla sposa nel Cantico dei cantici (c.4), ma è anche il grido della chiesa, l’ultima parola del cuore dell’uomo al suo Signore ed insieme l’ultima parola di Dio all’uomo, quella sulla quale si chiudono le Scritture: “Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!” … Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,16.20). Eco dell’invito di Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28), esprime il riposo raggiunto dell’amore che tanta pena si è dato per convincere e conquistare. Il ‘regno’ è preparato fin dalla fondazione del mondo. Con il ‘riceverlo’, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita. Quello che da sempre ha mosso il cuore di Dio, quello che ha costituito il suo primo pensiero per l’uomo, ora, finalmente, si vede realizzato, l’uomo lo può gustare in tutta la sua potenza e grandezza. Se gli aggettivi sembrano comportare un registro di potenza e di gloria, la realtà di cui parlano è invece tutta di intimità, gioia, condivisione; è il ‘ristoro’ che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.

Venendo ora al giudizio in se stesso, dal punto di vista dell’uomo, della storia dell’uomo, il vangelo rivela il senso insospettato delle nostre azioni. Nel bene e nel male, le nostre azioni hanno echi assai più misteriosi e infiniti di quanto siamo soliti considerare perché la storia umana non è mai stata semplicemente storia umana, bensì sempre storia sacra, storia di Dio e dell’uomo. È caratteristico che il giudizio non menzioni nessuna distinzione tra gli uomini e che nessuno abbia chiara coscienza delle conseguenze dell’agire. Non saremo giudicati sulla fede, ma sull’amore. E davanti a questo, ciò che conta è la sincerità dei cuori. E la sincerità dei cuori sembra giocarsi tutta nella solidarietà con l’umanità là dove non c’è alcun titolo speciale di gloria. Quando Gesù dice: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” allude proprio a coloro che non hanno alcun titolo a ricevere le nostre attenzioni oltre l’appartenenza all’umanità. È la visione più radicale dell’etica ed insieme la visione più divina dell’umanità. Se già non è scontato credere che la nostra storia personale sia comunque una storia sacra, e se già è difficile credere che la nostra storia sacra costituisca l’unica forma possibile per noi per entrare in possesso della gioia del Regno che sempre sembra sfuggirci, è ancora più arduo credere che quella promessa di vita e di gioia che sempre ci accompagna dipenda dalla nostra solidarietà con l’umanità e non da altro. Ma qui si gioca appunto la nostra fede. E la visione sul mondo futuro conferma esattamente questa rivelazione.

Chi ha visitato la Romania non può non aver sostato, rapito in stupore e contemplazione, davanti alle pitture sulle pareti esterne delle chiese moldave. In particolare, non può non essersi riempito gli occhi delle rappresentazioni del Giudizio universale, che solitamente occupa l’intera facciata occidentale. Forse, la rappresentazione più famosa è quella della chiesa di san Giorgio del monastero di Voroneţ, dipinta nel 1547, sebbene risulti diversa da quelle, come a Moldoviţa, Probota, Humor, collocate nell’esonartece. A Voroneţ, la parete è cieca, lasciando così tutto lo spazio possibile per una rappresentazione che si può ammirare in tutta la sua grandiosità. Tutti gli esseri umani si dividono un lungo registro, al centro del quale figura il Trono dell’Etimasia, contornato dalle sagome nimbate dei progenitori prostrati, Adamo ed Eva. Sagome nimbate perché il Giudizio e l’escatologia hanno un significato prima di tutto soteriologico, spazzando via la storia. A sinistra del Trono le nazioni: Ebrei, Turchi, Tatari, Armeni, Latini, Arabi, raggruppati per etnia, con profusione di dettagli nelle fisionomie e nei costumi specifici; a destra i fedeli, raggruppati e caratterizzati a loro volta da vestiti e attributi tipici, suddivisi in profeti, gerarchi, martiri, asceti. Tutti attendono, guidati da Mosè e da s. Paolo, la rivelazione della loro sorte. Se il pittore li ha separati nell’organizzazione spaziale dell’immagine, ciò non attiene alla Parola del Giudizio propriamente detta; questa non dev’essere pronunziata attraverso o nell’immagine. Gli infedeli sono rappresentati altrettanto degnamente dei vescovi. La dannazione è sospinta fuori dal mondo della visibilità e della rivelazione. Ciò che l’immagine indica come distinte sono solo le vie che ciascuno segue fino ai piedi del Trono. Il grande abisso che separa il ricco Epulone, la cui anima assetata resta prigioniera nell’oceano di fiamme, dal povero Lazzaro, addormentato al suono dell’arpa di Davide e accolto da un angelo, non separa ancora le nazioni, non divide la creazione, perché sta al Giudice rendere Giustizia nel gran Giorno della fine. Un unico spazio contiene al tempo stesso il disegno escatologico, che rimane nascosto e la realtà storica rivelata.

Gli storici dell’arte hanno spesso interpretato la rappresentazione delle nazioni in senso ‘realistico’, come una specie di vendetta divina cui i Moldavi votavano i loro nemici, come se il ruolo conferito a quelle pitture esterne consistesse nel portare al cuore del popolo il messaggio di una specie di guerra santa contro i pagani e contro tutti gli eretici. Non si dimentichi che la rappresentazione delle nazioni non compare solo nelle scene del Giudizio ma anche in quelle della Pentecoste. Non solo, ma che in certe icone russe, ad esempio, nella parte riservata alle nazioni, si trova anche la presenza del popolo a cui appartiene il pittore, cioè Russi ortodossi, a riprova del fatto che la rappresentazione delle nazioni ha il valore di una rappresentazione del cammino verso il Giudice di tutti i popoli, che si trova per conseguenza prima del Giudizio[3]. Se ci si riferisce poi alla rappresentazione del Giudizio nell’esonartece, dove la scena sovrasta la porta di ingresso della chiesa, allora il significato soteriologico è ancora più immediato: si tratta della visione di un Giudizio che orienti lo sguardo del fedele alla rivelazione della salvezza che si può gustare partecipando alla liturgia celeste, alla quale tutti sono invitati, entrando appunto nella chiesa. Dei Novissimi si può parlare in riferimento a ciò che ci riguarda dal punto di vista del desiderio di salvezza universale e non in riferimento all’emissione di un giudizio insindacabile che noi non possiamo conoscere nei confronti di nessuno.

Seconda domanda. Con quale sensibilità si affrontano oggi questioni così cruciali?

Mi appunto in particolare sul tema dell’inferno perché costituisce il punto di osservazione più adatto per cogliere la sensibilità di un’epoca nella sua visione religiosa del mondo terreno e del mondo celeste, del mondo presente e di quello futuro. Un famoso saggista francese, Alain Besançon[4] intitola l’ultimo capitolo del suo saggio: “Perché la demografia dell’inferno è cambiata?”. Descrive la storia demografica dell’inferno cristiano che per lungo tempo è stato creduto sovrappopolato e che ora è rimasto quasi vuoto, concludendo con l’annotazione che questo inferno svuotato è forse più angosciante dell’inferno pieno al quale si è creduto per tanti secoli. Nella società moderna, con il secolo dei Lumi, man mano che si esce dal cristianesimo, si esce anche dalla paura dell’inferno. Voltaire, che aveva un padre giansenista, trovava strano che Dio avesse creato gli uomini per spedirli poi all’inferno. Rousseau ripeteva che non c’era bisogno di andare a cercare l’inferno nell’altra vita, perché fin da quaggiù è nel cuore dei cattivi. Nella sensibilità romantica, poco a poco si fa strada l’idea che l’inferno è troppo crudele. Un Dio buono non può esserne l’autore: è appunto la tesi del movimento romantico. Compare una nuova religione umanitarista che vuole pensare a un Dio, migliore di Dio. Scrive Schleiermacher: “L’inferno non è degno della religione”. Col tempo, però, questa nuova religione umanitarista si accorge che può fare a meno dello stesso Dio e si tende a pensare che il vero inferno è questo mondo che lo racchiude.

Il concilio ecumenico Vaticano II si svolge contemporaneamente allo smantellamento del Goulag sovietico e quando è ancora vivo il ricordo dei campi nazisti comunemente paragonati all’inferno. Certo, la dottrina sull’inferno non cambia nella Chiesa, ma la rappresentazione popolare dell’inferno cambia in pochi anni, la sensibilità comune viene modificata. Basti pensare alla popolazione un tempo riservata all’inferno: pagani, eretici, suicidi, che ora nessuno pensa più come aventi il biglietto per l’inferno. Così, non è più Dio che mette all’inferno, quel Dio cattivo che faceva orrore alla sensibilità romantica. Siamo noi stessi che ci condanniamo all’inferno. Nel mondo individualizzato e democratico quale il nostro, il verdetto di condanna sta sottomesso alla volontà individuale. Ognuno si condanna da solo. Sono abbandonate le formulazioni che finivano per strumentalizzare l’inferno secondo una pastorale della paura. L’inferno non è più un’ossessione, ci si pensa raramente ed è come scomparso dalla predicazione. Ma qual è la conseguenza? Ci si può domandare se esiste ancora una speranza di salvezza e se la nozione di salvezza ha senso per l’uomo contemporaneo. Si sente dire sovente che l’inferno esiste, ma che è vuoto. Così la religione cristiana e la religione umanitarista si ricongiungono.

È forse questo il senso della dottrina cristiana sull’inferno? L’inferno sarà pure vuoto, ma resta aperto davanti a me. Soltanto i santi temono l’inferno, loro che sono più capaci degli altri di leggere il fondo della loro anima e che supplicano Dio di risparmiarli da un destino che sanno di meritare. E sperano anche nell’assistenza della comunione dei santi, cosa che nel nostro mondo atomizzato e individualista sembra scomparsa, completamente ininfluente sulle vicende personali. Come suona diversa la prospettiva della grande Tradizione! Diceva abba Poemen: “In quanto a me, io dico che sono gettato nel luogo in cui è gettato Satana” (Poemen 184). E il santo starets Silvano del Monte Athos: “Mantieni nell’inferno il tuo spirito, e non disperare”.

Il tema dell’inferno può essere affrontato soltanto nel linguaggio dell’io e del tu. Le minacce del vangelo mi riguardano (si veda la parabola di Mt 22,1-14 con il particolare dell’uomo, entrato nella sala del banchetto senza abito nuziale e buttato fuori), mi spingono al pentimento e all’umiltà perché vi riconosco la diagnosi del mio stato. Ma per te, per l’innumerevole tu degli altri, non posso fare altro che servire, testimoniare, pregare affinché tu senta il Cristo risorto, affinché tu e tutti siate salvati.[5]

La sensibilità spirituale appropriata per affrontare il tema cruciale dell’inferno non può che essere quella suggerita da questi due racconti chassidici:

“Il Rabbi di Alta disse a Dio: Signore del mondo, so bene che non ho meriti per i quali dopo la mia morte tu possa mettermi nel paradiso tra i giusti. Ma se per caso tu volessi mettermi nell’inferno in mezzo ai cattivi, sai bene che non posso andar d’accordo con loro. Perciò ti prego, conduci tutti i cattivi fuori dall’inferno, e dopo puoi metterci me”.

“Si narra: Quando rabbi Moshe Löb morì, disse a se stesso: Ora sono libero da ogni comandamento. In che modo posso fare anche ora la volontà di Dio? Rifletté: Certamente è volontà di Dio che io riceva castigo per i miei innumerevoli peccati! Subito spiccò un salto e si precipitò nell’inferno. Questo provocò una grande inquietudine in cielo e tosto il principe dell’inferno ricevette quest’ordine: per tutto il tempo che il Rabbi di Sasow è lì, il fuoco deve cessare. Il principe pregò lo zaddik di andarsene in paradiso, perché lì non era il suo posto, e non voleva che l’inferno per colpa sua non lavorasse. Se è così, disse Moshe Löb, allora non mi muovo fino a che tutte le anime non possano venire con me. In terra mi sono occupato di riscattare prigionieri, non lascerò ora soffrire in carcere tutta questa gente! E si dice che l’abbia spuntata”.[6]

Come a dire: noi dobbiamo pregare che il fuoco del giudizio, cioè il fuoco dell’amore divino, consumi, non i peccatori, ma la parte di male che è in ciascuno. Se non si può limitare la terribile libertà umana, non si possono nemmeno imporre limiti alla preghiera e alla speranza dei santi: che tutti siano salvati.

Nella liturgia bizantina il Signore è chiamato il “filantropo”, “Dio che ama l’uomo”. E p. Alessandro Turincev, un sacerdote ortodosso, così commenta la visione ortodossa dell’inferno: “Un santo monaco del Monte Athos così scriveva indirizzandosi ai fedeli: Quando il Signore ti avrà salvato con tutta la moltitudine dei tuoi fratelli, e quando restasse anche uno solo dei nemici del Cristo e della Chiesa nelle tenebre esteriori, non ti metterai forse, insieme a tutti gli altri, a implorare il Signore affinché sia salvato quell’unico fratello ribelle? Se tu non lo supplichi giorno e notte, allora il tuo cuore è di ferro – ma in paradiso non si ha bisogno del ferro”. E aggiungeva, ricordando s. Paolo, che mentre affermava: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), non era forse pronto a essere “separato da Cristo a vantaggio dei suoi fratelli” (cfr. Rm 9,3)? Il Signore attende da noi questa preghiera: “Tutti i miei fratelli siano salvati. Se no, sia condannato anch’io insieme a loro!”. È la ‘soluzione’ al problema dell’inferno e della dannazione.[7]

Ho trovato perciò strano che in un documento della Commissione teologica internazionale del 1990, Problemi attuali di escatologia, si usi un’espressione di questo genere: “nella Chiesa non si fa nessuna preghiera per i condannati”.[8] È evidente: la chiesa non può riferirsi a nessuno come a un condannato, perché non sa nulla in quanto il Giudizio è riservato solo a Dio.

Rispetto allora al cambiamento di sensibilità in rapporto al tema dell’inferno e della salvezza degli uomini, tutto sta a vedere se tale cambiamento è dettato dall’adeguamento alla religione umanitarista o alla riscoperta della rivelazione evangelica di Gesù.

E rispetto alla rivelazione evangelica, vorrei suggerire una prospettiva paradossale. Noi diciamo comunemente che siamo invitati a seguire Gesù. Anzi, noi aspettiamo il ritorno di Gesù. Ma ha senso parlare di ‘ritorno’ di Gesù? Farebbe pensare che se ne è andato da qualche parte (dove?…) e che ritornerà per il giudizio finale. Se nell’esperienza cristiana resta comunque fondamentale seguire Gesù, come intendere l’attesa di Gesù, come intendere la sua sequela? Ebbene, quando la Scrittura definisce il Signore, lo chiama “Colui che era, che è e che viene!” (Ap 4,8) oppure “Colui che è, che era e che viene” (Ap 1,4). Come è possibile seguire uno che viene? Se interpretassimo la proclamazione che solennemente innalziamo dopo la consacrazione del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta” come un reiterato invito ad attendere qualcosa che non arriva mai, non saremmo già stufi di aspettare? Sarebbe un’attesa che non incide minimamente nel nostro vissuto perché pensata troppo remota. Il significato invece è di altra natura.

Il Signore è detto ‘che viene’, noi siamo in attesa della sua venuta nel senso che seguendo le sue parole, praticando la sua parola, lui si manifesta al nostro cuore, manifesta al nostro cuore il Regno che ha promesso di darci fin da ora. Come preghiamo nel Padre nostro: ‘venga il tuo Regno’: si manifesti al nostro cuore il Regno che Gesù ha fatto splendere e che a noi si rivela nel seguire il suo vangelo, cioè la sua parola di verità e di vita. Ora, l’eucaristia esprime proprio la dimensione del Regno nel suo venire a noi perché tutta la nostra storia sia attraversata dalla sua luce. Attendere la sua venuta esprime perciò la tensione escatologica del nostro desiderare e agire facendo del nostro tempo concreto un tempo aperto sull’eterno, un tempo toccato dall’eternità. Non aspettiamo l’eternità, ma viviamo l’eternità nel tempo. Il Cristo ha reso il tempo eucaristia, lo ha spezzato come ha spezzato il pane così che fino alla fine del mondo il più piccolo frammento del tempo contiene la pienezza del mistero di Cristo. Celebrando il memoriale della Parusia la Chiesa nel tempo annuncia l’eternità già ora presente e al cuore della storia proclama la vita eterna. Come ha ricordato Emmanuel Lévinas: “il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con gli altri”; “la condizione del tempo sta nel rapporto fra gli esseri umani”[9]. E potremmo tradurre così il senso del tempo nella storia: ogni volta che un uomo è responsabile del fratello, il tempo diventa luogo di salvezza.

Pensiamo alla diversità con cui la classicità considera il tempo rispetto al cristianesimo. Un poeta come Esiodo, un pensatore come Platone, quando dipingono il sogno umano del vivere secondo equità, giustizia, fratellanza, lo proiettano sempre nel passato. Il mito dell’età dell’oro, il mito dell’Atene primordiale, seguono tale dinamica. La visione ebraica e successivamente quella cristiana, invece, pongono l’ideale nel futuro, nell’escatologia: pensano alla Gerusalemme futura, alla seconda venuta di Gesù, al compimento del Regno di Dio che ora non si è ancora manifestato, ecc. È come un voler dare consistenza e speranza ai sogni umani, agli ideali più grandi che l’uomo porta in cuore.

Singolare la concezione, contrapposta, del paradiso nella tradizione ebraico-cristiana: agli inizi, si parla di un paradiso terrestre; alla fine, del paradiso come una città, la Gerusalemme celeste. Agli inizi la natura, alla fine la storia è trasfigurata. Il paradiso è concepito nelle realizzazioni delle relazioni: è la relazione il contesto di trasfigurazione del mondo. Questo l’escatologia cristiana considera. Per questo la parabola matteana del giudizio universale ha a che fare con l’escatologia nel presente, con il senso, svelato, della storia.

E s. Efrem canta nei suoi Inni sul paradiso:

“Non è infatti il paradiso il motivo della creazione dell’uomo, ma è solo Adamo il motivo per cui fu piantato il paradiso. Il cuore di Adamo la vinse sui suoi germogli e il suo eloquio sui frutti. La parola è più gustosa delle varie specie, la verità dell’uomo eccelle sulle erbe e l’amore è più bello degli aromi”.[10]

Terza domanda. Secondo quale visione la chiesa spiega i novissimi?

Cosa confessiamo nel Credo? Secondo la formulazione del credo niceno-costantinopolitano, nella confessione di Gesù Cristo viene aggiunto: “e di nuovo verrà nella gloria, per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine” e nella confessione della Chiesa si aggiunge: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Secondo il Credo apostolico diciamo, a proposito del Cristo: “di là verrà a giudicare i vivi e i morti” e nella confessione della Chiesa aggiungiamo di credere “la risurrezione della carne, la vita eterna”.

Benedetto XVI rimandava a uno scrittore contemporaneo, ateo esistenzialista potremmo chiamarlo, Albert Camus, per sottolineare il segreto della rivelazione cristiana:

“Creda a me, le religioni sbagliano a partire dall’istante in cui fanno la morale e scagliano comandamenti. Dio non è necessario per creare la colpevolezza, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi. Lei accennava al giudizio universale. Mi permetta di ridere rispettosamente. Io l’aspetto a piè fermo: ho conosciuto il peggio, il giudizio degli uomini. Per loro non esistono circostanze attenuanti, anche la buona intenzione viene imputata come delitto. Ha almeno sentito parlare della cella degli sputi, immaginata di recente da un certo popolo per dimostrare che era il più grande della terra? Una cassa in muratura dove il prigioniero sta ritto, ma non può muoversi. La solida porta che lo chiude nella sua conchiglia di cemento arriva fino all’altezza del mento. Non gli si vede nient’altro che il viso su cui ogni secondino che passa sputa abbondantemente. Il prigioniero, stretto nella sua cella, non può asciugarsi; gli è però permesso di chiudere gli occhi. Ebbene, questa, caro mio, è una invenzione d’uomini. Non hanno avuto bisogno di Dio per un tal piccolo capo d’opera. E allora? Allora, la sola utilità di Dio consisterebbe nel garantire l’innocenza, e io la religione la vedrei piuttosto come una grande impresa di lavatura, cosa che del resto è stata, ma per breve tempo, esattamente tre anni, e non si chiamava religione. Da allora, manca il sapone, abbiamo il naso sporco e ce lo soffiamo a vicenda. Tutti cattivi soggetti, tutti puniti, sputiamoci addosso, e giù in cella! Si tratta di vedere chi sputa per primo, ecco tutto. Le dirò un grosso segreto, mio caro, non aspetti il giudizio universale. Avviene ogni giorno”.[11]

La Chiesa antica, tutta protesa verso la Parusia, non poteva concepire né l’esistenza attuale di dannati che fossero tali definitivamente, né una beatitudine già perfettamente compiuta per i santi, né un purgatorio in senso stretto come soddisfazione penale, giuridicamente intesa, quale lo immaginerà il Medioevo latino. Troviamo presso i Padri la nozione di purificazione progressiva. Dopo la morte, l’anima attraversa o un ‘mare di fuoco’ o certe ‘frontiere’ spirituali ove le potenze del male strappano via da lei tutto ciò che appartiene a loro e la lasciano sempre più spoglia, a iniziarsi alla pace e al silenzio. S. Ambrogio, ad esempio, parla delle ‘dimore’ sovrapposte, a suggerire un progressivo perfezionamento. Sembra contrario allo spirito della rivelazione cristiana che Dio abbandoni qualcuno. Dio, in Cristo, dona a tutti la pienezza del suo amore.

Ma questo amore può essere sentito come un tormento da coloro che lo rifiutano, come dice s. Isacco Siro:

“In quanto a me, io dico che quelli che sono tormentati nell’inferno lo sono dall’invasione dell’amore. Che c’è di più amaro e di più violento delle pene d’amore? Coloro che sentono di aver peccato contro l’amore portano in sé una dannazione ben più grande dei più temuti castighi. La sofferenza che il peccato contro l’amore mette nel cuore è più lacerante di ogni altro tormento. È assurdo pensare che i peccatori nell’inferno saranno privati dell’amore di Dio. L’amore … è donato senza divisione. Ma, a causa della sua stessa forza, agisce in due modi. Esso tormenta i peccatori, come succede quaggiù, che la presenza di un amico tormenta l’amico infedele. Ed esso fa gioire in sé quelli che sono stati fedeli. Tale è a mio avviso il tormento dell’inferno: il rammarico”.[12]

Le chiese, cattolica, ortodossa e protestante, hanno tolto dalle loro meditazioni sul Giudizio ultimo le rappresentazioni giuridiche del giudizio e del giudice. Probabilmente, nella storia anche piuttosto recente, si è abusato della pedagogia di intimidazione con la paura dell’inferno e del supremo giudizio, dimenticando l’abisso della misericordia di Dio. Davanti alla sua misericordia il peccato di ogni carne, tutto il peccato del mondo non è che un pugno di sabbia gettato nel mare (Isacco Siro) o una scintilla che cade nel mare in tempesta (Giovanni Crisostomo) o una goccia d’acqua che cade in un immenso braciere acceso (s. Teresina del Bambino Gesù). La tradizione ortodossa ha sottolineato più la misericordia di Dio che la libertà dell’uomo, mentre la tradizione latina, più giudiziale nella sua impostazione, ha sottolineato la libertà dell’uomo più della misericordia di Dio, tanto da voler difendere la giustizia di Dio per fondare l’etica. Ma l’etica riceve il suo fondamento non dalla giustizia bensì dalla compassione, come il vangelo testimonia. “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

Non ha molto senso voler come giustificare la giustizia di Dio che comunque si compirà. L’uomo non conosce come Dio giudicherà. Tanto vale attenersi al timore di questo giudizio, ma per emendarsi e fare esperienza della grandezza dell’amore di Dio, ricco in misericordia. Quando, nella liturgia pasquale, si canta l’acclamazione “eterna è la sua misericordia!”, non si vuol solo dire che dalla risurrezione di Gesù in poi prevale in Dio la misericordia che tutti vuole salvare, perché per tutti il suo Figlio è morto e risorto, ma che la misericordia è l’intima struttura della creazione stessa, tanto che tutto è retto dalla e nella misericordia per la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo. Gesù testimonia proprio questo e in questo offre agli uomini la possibilità di vivere secondo la ‘giustizia’ di Dio. Noi abbiamo bisogno di definire confini e condizioni perché il mondo sia vivibile e abbia senso (ecco il tema della giustizia umana) ma i santi colgono il senso della giustizia di Dio nella rivelazione della sua misericordia che sopravanza ogni confine definito, ogni giudizio umano (ecco la ‘giustizia’ divina). Così, pensare ai Novissimi, vuol dire pensare in termini non semplicemente umani, ma divini; divini, però, non proiettati in un remoto o incombente futuro, ma nella trama della vita quotidiana, aperta all’eterno, aperta all’esperienza dell’amore incomprensibile e folle di Dio.

Più che riferirsi alle cose ultime come a quelle che vengono dopo, sarebbe meglio parlare della dimensione escatologica della fede, come alle cose che stanno dentro, sotto, capaci di portare senso e aprire la storia all’eternità. Un ‘al di là’, non come a una regione inaccessibile da qui, ma come a un ‘dentro’, a un ‘profondo’ che regge il qui. Voglio spiegarmi meglio. Nel nostro agire si sovrappongono tre livelli, che corrispondono pressappoco alle tre dimensioni dell’uomo: corpo-anima-spirito. Sul piano immediato, siamo confrontati con la cronaca: l’azione diretta, fatta o subita. Sul piano interiore, siamo confrontati con la nostra vicenda personale, secondo l’eco che la cronaca comporta per il nostro io, colto nella sua globalità, normalmente a partire dal passato. Sul piano spirituale, siamo interrogati quanto al nostro uomo spirituale, contrapposto a quello carnale, sul senso del vivere e sul cammino che stiamo percorrendo. Per fare un esempio. Ricevo una sberla. Il fatto di cronaca: mi fa male. La dimensione interiore: mi sento offeso (reagisco valutando e l’altro e il rapporto con l’altro e me stesso). La dimensione spirituale: cosa ho da imparare, cosa Dio ha da insegnarmi, in cosa posso progredire. Attivare la dimensione spirituale significa aprire il nostro cuore alla dimensione escatologica perché l’atto e la reazione corrispondente non parlano solo della mia storia passata ma anche del desiderio di quella futura, un futuro che mi viene incontro.  È per questo che i Padri parlano della dimensione spirituale come della acquisizione della potenza della risurrezione di Gesù, sul quale la morte (come potere di mortificazione della vita) non ha più alcun potere. Come dice stupendamente s. Basilio: “Così dunque il Signore, preparandoci alla vita che scaturisce dalla risurrezione, ci propone tutto il comportamento evangelico, prescrivendoci di non adirarci, di essere miti, di rimanere puri dall’amore del piacere, di tenere un comportamento distaccato dal denaro, cosicché noi ci conserviamo, per una scelta deliberata, sulla retta via, impegnandoci fin d’ora in quel che è possesso proprio e naturale della vita eterna. Se dunque qualcuno, volendolo definire, dicesse che l’evangelo è una prefigurazione della vita che scaturisce dalla risurrezione, non mi sembra che si allontani dal giusto”.[13]

Tre sono i passi della Scrittura che inviterei a tenere insieme per vivere della speranza che i Novissimi infondono, quando sono considerati nella dimensione della rivelazione evangelica:

1) ci muoviamo nella tensione della speranza che sostiene il progredire della vita come è presentato dal passo di 1Cor 13,12-13: “Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!”. Conoscerò come adesso sono conosciuto vuol dire imparare a vivere ogni evento nella logica di un amore che ci viene svelato e di cui si è invitati a partecipare e a lasciarsi conquistare.

2) sul fondamento del Signore Gesù, che per noi è morto e risorto e che costituisce la radice del nostro vivere, via-verità-vita, come viene espresso da Ef 1,16-23: “continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, 17affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.

Egli la manifestò in Cristo,

quando lo risuscitò dai morti

e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,

al di sopra di ogni Principato e Potenza,

al di sopra di ogni Forza e Dominazione

e di ogni nome che viene nominato

non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.

Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi

e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:

essa è il corpo di lui,

la pienezza di colui che è il perfetto compimento

di tutte le cose”.

3) nel desiderio che si compia anche per noi ciò che speriamo e che costituisce la promessa di Dio, come già il profeta Isaia aveva così lucidamente annunciato: “Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato” (Is 25,7-8). La promessa è triplice: conosceremo finalmente tutto l’amore che ci ha segretamente impastati, non ci sarà più mortificazione di vita e di desideri, ognuno sarà consolato nell’intimo della sua storia personale.

La sintesi, potente, del vivere i Novissimi, però, non si riassume che in questa richiesta tanto radicale, secondo la radicalità tipica di un rapporto amoroso riuscito, come è testimoniato dai santi di ogni estrazione religiosa:

“Una volta Salman interruppe la preghiera e disse: Io non voglio il tuo paradiso, io non voglio il tuo mondo futuro, io voglio te solo”.[14]

p. ELIA CITTERIO

FRATELLI CONTEMPLATIVI DI GESU’

www.contemplativi.it

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SUGGERIMENTI DI LETTURA.

– ISACCO DI NINIVE, Discorsi spirituali e altri opuscoli, Bose 1990, 2° ed., Qiqajon, La geenna, 227-239

– ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza, Bose 1999, Qiqajon.

HADJADJ, Fabrice. Il paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda, Torino 2013, Lindau.

– idem, Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, Assisi 2009, Cittadella

– VERDON, Timothy. Cristo nell’arte europea, Milano 2006, Mondadori Electa

– CELINE LAFONTAINE, Il sogno dell’eternità, Milano 2009, Medusa

– FLORENSKIJ, Pavel. La colonna e il fondamento della verità, Cinisello (MI) 2010, San Paolo: Lettera ottava, La Geenna, 220-273.

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[1] Davvero interessanti le riflessioni di Franco NEMBRINI, Dante, poeta del desiderio. Conversazioni sulla Divina Commedia, vol. III: Paradiso, ed. Itaca.

[2] EFREM IL SIRO, Inni sul paradiso, Milano 2006, Paoline: inno XI, pag. 269-270.

[3] Di un’icona del genere, conservata al Museo Nazionale di Stoccolma, parla A. Grabar, La représentation des peuples dans les images du Jugement dernier en Europe orientale, in Byzantion, L, Bruxelles 1980, p. 186-197. Citazione da A. Vasiliu, L’architettura dipinta. Gli affreschi moldavi nel XV e XVI secolo, Milano 1998, Jaca book (Corpus bizantino), p. 250, n. 151.

[4] Alain BESANÇON, Problèmes religieux contemporains, Paris 2015, Editions de Fallois.

[5] Si vedano le osservazioni a commento dei testi dei Padri di Olivier CLEMENT, Alle fonti con i Padri. I mistici cristiani delle origini, testi e commento, Roma 1987, Città nuova, pagg. 289-300.

[6] BUBER, Martin, Storie e leggende chassidiche, a cura e con un saggio introduttivo di A. Lavagetto, Milano 2008, Mondadori (I meridiani, Classici dello Spirito), p. 950, 928-929.

[7] Dieu est vivant. Catéchisme pour les familles par une équipe de chrétiens orthodoxes, Paris 1987, Cerf, p. 426-431.

[8] “Le formule che si usano in tali orazioni includono una domanda che non sarebbe comprensibile se non ci fosse una purificazione dopo la morte: «La sua anima non soffra lesione alcuna, […] perdonale tutti i suoi delitti e peccati». Il riferimento ai delitti e peccati deve intendersi dei peccati quotidiani e delle vestigia di quelli mortali, poiché nella Chiesa non si fa nessuna preghiera per i condannati”, 11.3.

[9] E. LÉVINAS, Il tempo e l’altro, Genova 2001, 3° ed., Il melangolo, p. 17 e 57.

[10] EFREM IL SIRO, Inni sul paradiso, Milano 2006, Paoline: inno VI, pag. 194-195.

[11] Albert CAMUS, La caduta, Paris 1956 (prima edizione italiana, 1958).

[12] ISACCO SIRO, Disc. 84, in Olivier CLEMENT, Alle fonti con i Padri. I mistici cristiani delle origini, testi e commento, Roma 1987, Città nuova, pagg. 296.

[13] BASILIO DI CESAREA, Lo Spirito Santo, Roma 1993, Città nuova: XV, 35, pag. 136.

[14] BUBER, Martin, Storie e leggende chassidiche, a cura e con un saggio introduttivo di A. Lavagetto, Milano 2008, Mondadori (I meridiani, Classici dello Spirito), p. 810.