Sesto ciclo
Anno liturgico A (2016-2017)
Tempo Ordinario
XXIV Domenica
(17 settembre 2017)
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Sir 27,30-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35
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L’immagine di fondo che emerge è la stessa delle domeniche precedenti: la chiesa come comunità di riconciliati, di uomini e donne che hanno fatto esperienza della grande misericordia di Dio e che non possono non condividerla tra di loro. L’accento del brano di oggi però non verte su una norma di comportamento all’interno della comunità, come nel caso della correzione fraterna che era stato proclamato domenica scorsa. Qui viene mostrata la ragione di fondo, il mistero su cui può far leva l’invito al perdono. Pietro, oltrepassando le tre volte di perdonare al fratello che la legge rabbinica ingiungeva al credente, avanza il numero di sette volte, già abbondantemente oltre le norme consuete. Ma Gesù, facendo riferimento alla selvaggia decisione di Lamec che rivelava come la violenza dilagava nell’umanità (“Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»”, Gn 4,23-24), gli risponde: settanta volte sette, cioè infinite volte, sempre, senza se e senza ma.
Questo mistero è richiamato dalla bellissima preghiera dopo la comunione, la quale ci introduce nella dinamica divina che attraversa il cuore dei credenti: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”. E qual è l’azione dello Spirito nella storia? La riconciliazione del mondo in Cristo. Quel mistero è l’unico argomento di interesse per il cuore, se vuol vivere in pace. Lo ricorda anche il libro del Siracide: “Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (il testo non allude tanto al dimenticare, ma al sorvolare, al passar sopra, al non tener conto. Non allude tanto all’odiare, ma al serbare memoria dell’offesa, al rancore, all’arrabbiarsi per l’offesa ricevuta). In gioco è proprio l’esperienza dell’alleanza dell’Altissimo, che in Gesù mostra tutto il suo splendore.
Gesù racconta la parabola del debitore spietato in risposta alla domanda stupita di Pietro sulla nostra capacità reale di offrire il perdono ai fratelli. Il passo parallelo di Luca rivela il sottofondo che fa da contesto: “Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,5-6). Il perdono è questione di fede, non di generosità. Il perdono è in funzione dell’esperienza di Dio, non della nostra generosità. Il perdono parla di Dio, non di noi.
Il primo servo della parabola, quello che deve al padrone diecimila talenti, allude a ciascuno di noi in rapporto a Dio. Diecimila talenti sono una cifra spropositata, a sottolineare l’assoluta impossibilità della restituzione. Davanti a Dio ognuno si trova in questa condizione, sebbene non sia così evidente la cosa per la nostra coscienza. È così forte la paura di Dio che, pur avendo coscienza dei propri peccati, si confida più nella propria giustizia che nel perdono umilmente chiesto e ricevuto e quindi non si è disposti a perdonare al proprio fratello, dal quale si esige la giustizia a tutti i costi. Non ci si rende conto che l’operazione è impossibile e che risponde solo alle proprie paure nascoste e quindi alla grettezza del proprio cuore.
Il secondo servo, quello che deve al suo compagno cento denari (nel confronto tra i diecimila talenti e i cento denari si è calcolato che la differenza è di uno a seicentomila! Cento denari corrisponde alla paga di tre mesi di un salariato), indica ciascuno di noi in rapporto agli altri. In gioco non è la disistima della giustizia, ma la grettezza di cuore, la giustizia perpetrata in nome di sentimenti ignobili. Di più ancora, in gioco non è semplicemente una questione tra compagni, ma la stessa dignità della conoscenza di Dio. Il primo servo è cattivo nei confronti del compagno perché non solo non ricorda quello che lui per primo ha ricevuto, ma soprattutto perché ferisce i sentimenti del padrone ed agisce infischiandosi di lui, rinnegando i legami che ha con lui. Se i doni di Dio non sono percepiti dentro l’offerta di una storia di alleanza, di comunione e di vita per noi, dimentichiamo Dio e ci chiudiamo nei doni ricevuti rivendicandoli come di diritto. Ciò ci impedisce di vivere l’alleanza con i nostri fratelli e facciamo pagare a loro le conseguenze di quello spirito di rivendicazione che ci attanaglia.
Ecco perché il sottofondo di comprensione della parabola è la fede. L’esempio del granellino di senapa non vuol suggerire che basta avere una fede tanto piccola quanto un granellino, ma che la fede racchiude la stessa potenza di crescita di un granellino. La fede non è che la coscienza dell’alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con Lui ed il miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al fratello come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi. Il tutto è descritto dall’invocazione del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, in modo così vero che, una volta capaci di risplendere della luce del perdono perfetto, senza più accusare nessuno, non si subisce più la tentazione e non si è più preda del male, come la successione delle invocazioni della preghiera suggeriscono: ‘non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male’. Come sottolinea la preghiera sulle offerte: “Accogli con bontà, o Signore, i doni e le preghiere del tuo popolo e ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. L’offerta a Dio sarà accolta a patto che si risolva in splendore di fraternità, di cui il perdono vicendevole è il segno più eloquente.
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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):
[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]
Prima Lettura Sir 27, 30 – 28, 9
Dal libro del Siràcide
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 102
Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
Non è in lite per sempre,
non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono;
quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
Seconda Lettura Rm 14, 7-9
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Vangelo Mt 18, 21-35
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».