Quinto ciclo
Anno liturgico C (2015-2016)
Tempo di Pasqua
IV Domenica
(17 aprile 2016)
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At 13, 14. 43-52; Sal 99; Ap 7, 9. 14-17; Gv 10, 27-30
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Dal riconoscimento del Risorto l’attenzione si sposta sui discepoli che lo riconoscono. In particolare, sul fatto che i discepoli costituiscono la comunità del Risorto. Le ultime domeniche del tempo pasquale sono incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi.
La liturgia sottolinea l’unità tra Gesù e il Padre, tra Gesù e i suoi discepoli, ma si tratta di un’unità in tensione dinamica, come dice Paolo nella sua lettera ai Corinti: “E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28). La preghiera della chiesa non invoca che questa unità si compia, ma che noi non ci separiamo da Colui che in sé opera questa unità, tiene tutto in unità. Prega la colletta: “… e fa’ che nelle vicende del tempo non ci separiamo mai dal nostro pastore che ci guida alle sorgenti della vita”. Come del resto, in ogni eucaristia, il sacerdote recita prima della comunione: “… per il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue liberami da ogni colpa e da ogni male, fa’ che sia sempre fedele alla tua legge e non sia mai separato da te”.
Come nessuno ha potuto rapire Gesù dalle mani del Padre, nonostante tutto congiurasse contro questa fedeltà del Figlio al Padre suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in croce, così nessuno potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto si scateni la violenza degli avversari. Così Tertulliano spiega l’invocazione del Padre nostro: ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’: itaque petendo panem quotidianum perpetuitatem postulamus in Christo et individuitatem a corpore eius”, che potremmo tradurre: quando chiediamo il pane quotidiano, che è Cristo, noi domandiamo di rimanere costantemente e per sempre in Cristo e di non essere mai separati dal suo corpo, cioè di vivere in modo da non stare mai lontani dalla mensa eucaristica e di godere della piena intimità con Lui, in modo da sperimentare compiutamente il mistero della fraternità che da Lui prende origine. Perché è in Cristo che si svela il principio stesso di quella fraternità che nulla può distruggere, come ripete il salmo responsoriale di oggi: “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”. Se siamo suoi, di Lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da Lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte.
Le parole di Gesù sono proferite durante la festa della Dedicazione, che cadeva in dicembre, nell’anniversario della purificazione del Tempio sotto Giuda Maccabeo avvenuta nell’anno 164 a.C. (cfr 1 Mac 4,36-59). Non sono la semplice ripresa della parabola del buon pastore, ma una ulteriore specificazione della sua identità, del mistero della sua persona messa ripetutamente sotto accusa nelle discussioni riportate dai cap. 8-10 di Giovanni. Il punto centrale sembra questo: voi non mi potete capire perché pensate già di conoscere Dio e pretendete di comprendere la sua parola senza nemmeno ascoltare la sua voce. In effetti, la cosa straordinaria del parlare di Gesù risalta dal fatto che per accogliere la parola bisogna ascoltare la voce. Gesù non dice: “Le mie pecore ascoltano la mia parola”, ma “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Si ascolta la voce, prima ancora della parola che questa voce proferisce. Come a dire: se non si accoglie la parola da dentro un’intimità di rapporto (non ci si emoziona per la parola ascoltata, ma per la voce che parla al cuore con quella parola!), a partire dal dono di quell’intimità, non ci si può disporre ad accogliere anche quello che la voce dice (=mi seguono). Non si fa parte del gregge per pregi o meriti, ma semplicemente perché accolti.
L’unico impedimento, come ben mostra la lettura degli Atti, risulta essere quello di giudicarsi non degni della vita eterna, come dicono Paolo e Barnaba ai convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna …” (At 13,46). Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene degni dei misteri di Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa dignità si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà preda del tormento della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento. I discepoli invece sono “pieni di gioia e di Spirito Santo” perché partecipano all’opera dello Spirito Santo che è l’edificazione di un’umanità con un cuor solo e un’anima sola. La partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo.
Riprendendo ancora l’espressione del salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”, non vogliamo dire che siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori. Riconoscere, con il salmo: “egli ci ha fatti” significa proclamare tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi siamo, ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua bellezza. Dignità, che è riservata a tutti e che tutti condivideranno nel regno dei cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del Signore custodiscono per sé e difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è basata sull’uomo, ma chi ne ha conosciuto per esperienza di fede il segreto, in Gesù, è chiamato a custodirla per tutti finché a tutti venga svelata. Non solo, ma che il mistero della vita in Gesù non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo. Per questo la gioia dei discepoli attraversa tutte le prove e le ostilità del mondo.
Un’ultima annotazione. Con il dire: ‘le mie pecore ascoltano la mia voce’, possiamo intendere che non semplicemente ascoltano quello che dice, ma sentono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero.
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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):
[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]
Prima Lettura At 13, 14. 43-52
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 99
Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.
Acclamate il Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.
Seconda Lettura Ap 7, 9. 14-17
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete,
non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
Vangelo Gv 10, 27-30
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».