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CENTRO CONGRESSI SANTO VOLTO

VIA BORGARO, 1

TORINO

CONVEGNO DI PASTORALE GIOVANILE VERSO IL 5° CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE DI FIRENZE 2015

Sabato 3 ottobre 2015

(Padre ELIA CITTERIO)


Ho inteso il compito a me affidato nel senso di mostrare le coordinate interiori di un vivere che non si riduca a un vivacchiare, nella logica del vangelo e secondo i desideri grandi che portiamo iscritti nel cuore, chiaramente nell’orizzonte della fede in Gesù. Mi sono proposto l’obiettivo di mostrare come l’esperienza dell’incontro con il Signore Gesù, che sostanzia ogni tipo di accompagnamento spirituale nella Chiesa, non miri a far agire bene, ma a far sì che l’agire bene faccia fiorire la nostra umanità sull’esempio di quella di Gesù, che per noi si è fatto servo di tutti, perché a tutti sia noto l’amore del Padre. Vale anche per i suoi discepoli quello che è valso per lui: inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre per tutti (cfr. Gv 3,13-16) e a riunire i figli di Dio dispersi (cfr. Gv 11,49-52). Così, credere in Gesù comporta l’essere trascinati in questo movimento di invio al mondo perché splenda l’amore del Padre e si faccia una sola famiglia.

Dei cinque verbi che caratterizzeranno il prossimo Convegno ecclesiale di Firenze 2015 (educare, abitare, trasfigurare, annunciare, uscire) approfondirò l’ABITARE, secondo il tema che mi è stato proposto: “Il senso profondo dell’accompagnamento spirituale”. Prospetto il percorso in tre passaggi: dopo aver mostrato i confini che delimitano l’abitare, ne illustrerò la bellezza e le esigenze, per una dimensione di vita aperta sul mondo.

  • Riconoscere i confini.

Se l’uomo sa riconoscere i suoi confini si può muovere agevolmente. Per il cuore, non si tratta di indurlo all’entusiasmo, ma di permettergli di accedere a spazi di verità. Ecco in sintesi la questione dei confini. Inizio la mia riflessione riprendendo il noto detto di Eraclito “ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων”, tradotto normalmente con “Il carattere proprio è per l’uomo il suo demone”. Ma un’annotazione lucida di Heidegger, in un suo celebre commento, così rende l’espressione eraclitea: “L’uomo, in quanto è uomo, abita nella vicinanza di Dio” oppure anche “l’uomo abita, nella misura in cui è uomo, nella vicinanza di Dio”. Vale a dire: il luogo veritativo dell’uomo, quello che contiene e custodisce l’avvento di ciò a cui l’uomo appartiene nella sua essenza è Dio[1]. L’etica non è soltanto il complesso delle consuetudini, delle norme a cui ci si deve attenere (la parola greca è presa nel suo primo significato di costumi, consuetudini, ‘mos’ in latino), ma soprattutto il valore di riferimento in cui abitare, in cui far venire all’essere quello che si è (la parola greca è presa nell’altro significato che possiede, cioè quello di luogo dell’abitare, di soggiorno). Si tratta, cioè, stando al nostro tema, di accompagnare il desiderio di essere dell’uomo, desiderio che riceve possibilità di espressione in rapporto a ciò che lo costituisce dal di dentro, nella tensione a Dio in cui l’uomo abita.

Una prospettiva simile è suggerita da un’espressione singolarissima riportata nel libro della Genesi nel passo in cui si narra la chiamata di Abramo. Il passo per esteso suona:

Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»” (Gen 12,1-3).

L’espressione singolarissima, nel testo ebraico, è ‘lek leka’, tradotto con ‘vattene’, ma che andrebbe reso, secondo la vocalizzazione tradizionale: ‘vai a te’, ‘vai verso te stesso’, ‘vai per te stesso’. Contemporaneamente un esodo e un ritorno. Un esodo da qualcosa che impedisce la scoperta del senso pieno del vivere e un ritorno a ciò che ci costituisce nell’intimo per vivere in gratuità e servizio la nostra vocazione all’umanità. E la tradizione ebraica commenta: lo scopo del viaggio sarà per il tuo bene, deve essere l’ultimo viaggio per stabilirti nel nuovo paese, vai senza paura delle resistenze familiari, vai in modo da vivere libero dalle influenze negative del tuo ambiente familiare, cammina solitario e non nei sentieri del popolo.[2]

Rispetto alla citazione di Eraclito, interpretata da Heidegger, il testo della Scrittura aggiunge l’invito a riconoscere la grandezza dell’uomo che scaturisce dall’essere amato e chiamato da Dio. L’uomo non è il fondamento di se stesso; è un dono affidato a se stesso. Avere coscienza di me stesso significa rendermi conto di un rapporto originario che mi costituisce e mi invita a riconoscere questo dono, riconoscendomi quale dono.[3] Qui si radica la possibilità di vivere in positivo la solitudine che tanto angoscia l’essere dell’uomo condannandolo alle sue ferite. Evidentemente, la chiamata non è per un semplice viaggio, ma per il dramma del viaggio della vita! Abramo, chiamato, obbedì, partì (senza sapere bene dove sarebbe andato), abitò in tende (provvisorio, nel territorio straniero, che sarebbe diventato la terra promessa). Così per noi, per la chiamata alla fede nel Signore Gesù. L’accompagnamento avviene entro l’orizzonte della chiamata e del dramma personale nel servizio del Dio Vivente sia per realizzare la propria vocazione all’umanità sia per realizzare quella fraternità che non è che la fioritura dell’umanità.

Un altro esempio biblico ci aiuta a guardare nel profondo. Quando i saggi di Israele hanno ripensato all’avvenimento della manna, che Dio aveva dato al popolo come cibo nel deserto, intuiscono una cosa essenziale. Il testo di Sap 16,20-21 dice: “Invece hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli, dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i figli, si adattava al gusto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava”. L’unico cibo della manna si adatta al gusto di colui che sa accoglierla come un dono che viene da Dio, che sa far posto all’imprevisto, all’insperato, invece di fuggire nell’immaginario di un mondo di abbondanza, dove tutto sembra così semplice, pensato però sempre al passato o comunque in luoghi diversi da quello in cui ci si trova. Nella storia, in effetti, passata l’emozione della novità, con l’andar del tempo gli israeliti si erano presto nauseati nel trovarsi davanti sempre lo stesso cibo e solo quello. Non hanno più pensato che con quel cibo potevano continuare a camminare nel deserto; avevano dimenticato dove erano diretti, per quale promessa si erano mossi dall’Egitto. Al colmo della loro nausea, non potevano che riandare all’antica abbondanza dell’Egitto: “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna” (Nm 11,5-6). La Scrittura allora ci avverte che la felicità dell’uomo passa per l’accettazione del suo luogo, fosse pure il deserto, un luogo in cui la vita è ben lungi dall’essere semplice. Ma è proprio in questo luogo che la manna, un cibo così semplice, è data. Per questo l’uomo deve lottare contro la tentazione di fuggire verso un altrove chimerico. L’uomo non troverà la felicità cercando un altro luogo né cambiando senza posa cose e esperienze. Vi accederà se accoglierà le cose, anche le più semplici e se farà prova di creatività e di immaginazione per dar loro il gusto, giocando con la complessità dei sapori di una vita ancorata al reale.[4] È uno dei compiti di chi accompagna nel cammino della vita: aprire continuamente eventi e situazioni all’insperato, alla fiducia in Dio capace di condurci alla terra promessa partendo da quello che si ha e da quello che si è, sfruttando quello che ci è dato, là dove ci è dato.

Riassumerei l’inquietudine[5] diffusa che ci caratterizza oggi a livello interiore nel fatto di aver perso i contatti con i ritmi interiori, segreti, del cuore. Immaginiamo di stabilire noi i ritmi della giornata adattando il nostro cuore a quelli. La realtà è che i ritmi assunti non sono nostri, ma di altri; sono ritmi che vincolano puntando a obiettivi che non sono i nostri; sono ritmi che necessitano di energie che non lavorano per noi, ma per altri. Una certa asprezza nei rapporti come un certo nervosismo di fondo deriva da qui. L’incapacità di trovare ritmi adeguati al nostro uomo interiore ci condanna alla superficialità e alla pigrizia, venendo meno a quello che è il primo comandamento per l’uomo: il coltivare sé stessi.

Come ricorda la Scrittura, quando Dio ha creato l’uomo, l’ha posto in un giardino “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). Ora, la terra di quel giardino allude alla terra del cuore; coltivare il giardino significa coltivare la terra del cuore, coltivare il proprio giardino interiore. Uomini si nasce, ma umani si diventa. L’uomo, a differenza di tutti gli altri esseri, ha questo di singolare: per diventare sé stesso è chiamato a trascendere sé stesso. Lo si può spiegare come si vuole, ma questa esigenza è insopprimibile. È l’orizzonte che deve essere sempre presente nel cammino di accompagnamento.

Per il nostro cuore è importante sia scoprire dove abitare sia percepire come possa essere abitato, senza ritrovarsi disperso e frammentato.

  1. a) Dove.

Secondo la narrazione di Giovanni, la prima domanda che i futuri apostoli fanno a Gesù, che incontrano dopo il suo battesimo al Giordano, è: “Rabbì (che significa maestro), dove abiti?“, reso nella nuova versione CEI: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?» (Gv 1,38). Gesù li invita a venire da lui e a costatare di persona e il vangelo annota: “quel giorno rimasero con lui” (Gv 1,39) (nella vecchia versione: quel giorno si fermarono presso di lui) .

È interessante osservare che il verbo che noi traduciamo con abitare, dimorare, fermarsi presso, rimanere, in greco è sempre lo stesso verbo: ποῦ μένεις; … εἶδαν ποῦ μένει καὶ παρ᾽ αὐτῷ ἔμειναν τὴν ἡμέραν ἐκείνην (Gv 1,38.39). Questo verbo è lo stesso che ricorre insistentemente nel discorso di Gesù all’ultima cena, con la differenza che, se all’inizio i discepoli potevano al massimo rimanere con Gesù, alla fine sono invitati a rimanere in Gesù. Tutto il racconto evangelico della sequela di Gesù da parte dei discepoli non è che la descrizione del passaggio dal rimanere con lui al rimanere in lui, dalla scoperta del Messia alla conoscenza del Messia. In realtà Gesù risponde alla domanda di Andrea e Giovanni solo nell’ultima cena, allorquando rivela dove effettivamente lui dimora, cioè nell’amore del Padre per i suoi figli. Lì lo devono cercare e lì devono abitare.

Gesù vive nel Padre, nell’amore del Padre per i suoi figli: ecco dove dimora. Ma cosa significa questa rivelazione? Permettete che la illustri brevemente presentando i quattro interventi di Pietro, Tommaso, Filippo e Giuda, tramite i quali l’evangelista Giovanni racconta lo svelamento del segreto di Gesù nell’ultima cena. Nello svelamento di quel segreto sta tutto il senso profondo dell’accompagnamento spirituale quanto al dove abitare.

All’annuncio della sua morte imminente da parte di Gesù, Pietro protesta: “Signore dove vai?Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la vita per te!” (Gv 13,36-37). Rispondendogli, Gesù non gli preannuncia semplicemente il tradimento, ma dice anche altro. Gesù non può accettare che Pietro dia la vita per lui. Sarà Gesù a dare la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini. Quando segue Gesù, il discepolo non è invitato a sacrificare la sua vita a Dio, ma viene trasformato in dono di Dio sempre più pieno all’umanità, come Gesù. Così l’uomo finisce di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio ai suoi fratelli. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.

Nel suo parlare ai discepoli Gesù non chiama la ‘casa’ del Padre come l’aveva chiamata quando aveva scacciato i venditori dal tempio (cfr. Gv 2,16; in greco, casa si può dire al maschile e al femminile; al maschile indica l’edificio, al femminile l’intimità della famiglia). Oramai, Gesù non si riferisce più al tempio per indicare la casa di Dio, ma all’intimità della famiglia, alla comunanza di vita e sentimenti tra Dio e i suoi figli. E quando Gesù spiega il suo ritorno al Padre e il suo venire ai discepoli (un venire che non allude semplicemente al suo ‘farsi vedere’ dopo la risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, ma al suo ‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra i discepoli) usa l’espressione: “… verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). L’espressione significa: io sono nell’amore del Padre, anche voi lo sarete; sono il testimone del suo amore in questo mondo e anche voi lo sarete; risplendo della gloria dell’amore del Padre per tutti e pure voi risplenderete dello stesso amore. E questo proprio perché sopportando l’ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza dell’amore, sarà noto a tutti che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato (cfr. Gv 14,31) e così l’amore del Padre per i suoi figli risplenderà sul mondo.  Di questo amore deve parlare il vostro amarvi vicendevole perché si radica in me; di questo amore deve parlare il vostro amore per i fratelli. A questo amore, perché conquisti, si radichi, si diffonda, mira l’accompagnamento spirituale.

Tommaso però insiste: “Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?” (Gv 14,5). Tommaso era quello che aveva voluto seguire Gesù pronto a morire con lui (cfr. Gv 11,16); sarà quello che non vorrà illudersi sulla risurrezione di Gesù e vorrà tastare il corpo del Risorto per sincerarsene e alla fine riassumerà la fede dei discepoli e dei futuri credenti con la sua solenne e intima professione: ‘mio Signore e mio Dio!’. Gli era ancora impossibile cogliere che ‘luogo e via’ indicavano la stessa cosa. Ragionava in termini spaziali: non poteva sapere ancora che luogo e via a cui alludeva Gesù si riferivano al nostro essere in lui, partecipi dello stesso suo amore per il Padre e dell’amore del Padre per i suoi figli. Gesù gli risponde: “Io sono la via, la verità e la vita”. Gesù è la via nel senso che conduce al Padre (implica il bisogno di orientare gli sforzi del vivere); è la verità nel senso che fa conoscere il vero volto del Padre (implica il bisogno di relazione assoluta, il bisogno di intimità, così essenziale al vivere dell’uomo); è la vita nel senso che ci ottiene di condividere la stessa vita divina di cui il Padre ci fa dono nello Spirito (implica il bisogno di pienezza, di una qualità di vita non soggetta a diminuzioni e che si traduca in gioia piena, condivisa, duratura).

Con una sottolineatura tutta speciale. Se Gesù è via-verità-vita lo è in quanto Figlio, che è nel seno del Padre e di cui svela il Volto d’amore per gli uomini con la sua morte e risurrezione. Sarà la tensione apostolica della fede nel Cristo: credere al Cristo significa essere inviati con lui nel mostrare al mondo la grandezza dell’amore del Padre per tutti i suoi figli. Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo.

Interviene Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8). E Gesù risponde: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”. Filippo era colui che aveva accompagnato a Gesù quei greci che volevano vederlo (cfr. Gv 12,21). La sua richiesta riformula la domanda di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18); contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo per il Dio di cui porta così intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L’ anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 43,3). La richiesta di Mosè nasceva dalla tragedia del tradimento del vitello d’oro, scegliendo di stare dalla parte del popolo piuttosto che continuare ad essere amico di un Dio che avrebbe potuto decidere di annientarlo per il suo peccato. Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce. Il che significa che, se in Gesù riposa tutta la compiacenza del Padre, riconoscerlo significa entrare in questa compiacenza e goderne la potenza risanante e vivificante. In Gesù si concentra tutto il desiderio di comunione di Dio con l’uomo e tutto il desiderio dell’uomo per il suo Dio: riconoscere Gesù, nel suo invio come testimone dell’amore del Padre per gli uomini, significa godere la rivelazione del volto di Dio, che è amore per gli uomini.

Infine interviene Giuda, non l’Iscariota, che aveva colto come la rivelazione di Gesù non corrispondesse a quanto si sarebbero aspettati secondo la loro attesa messianica e domanda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). Tra mondo e Spirito c’è opposizione perché il primo vorrebbe piegare il secondo ai suoi scopi di potere e di gloria, perseguiti ai fini del dominio su tutto e su tutti, mentre per lo Spirito potere e gloria derivano solo dall’amore misericordioso per tutti che in Gesù risplende come la rivelazione di Dio nel mondo. Così l’osservanza dei comandamenti ha sempre a che fare con l’amore, non solo nel senso che si possono osservare se si ama Gesù, ma anche nel senso che i comandamenti sono le possibilità concrete per vivere l’amore di Gesù verso tutti e quindi gustare l’intimità col proprio Dio, che è amore per tutti. In effetti, man mano che accogliamo lo Spirito, il mondo in noi si ritira o, meglio, si fa Chiesa, cioè sempre più e sempre più estesamente tutto di noi asseconda l’opera di Gesù, che è quella di mostrare quanto è grande l’amore del Padre per tutti i suoi figli, riunendo alla stessa mensa i figli dispersi, facendoci luogo di trasparenza dell’amore di Dio per tutti.

  1. b) Come.

L’esperienza di riferimento è quella descritta dal profeta Isaia e sfruttata dalla liturgia natalizia della chiesa che proclama la promessa di Dio realizzata per l’umanità con la venuta di Gesù: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,5), compresa nella sua valenza nuziale: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo” (Is 62,4). Dio è lo sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata e sola, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo che la fa sentire abitata, mio compiacimento e sposata (forse, meglio: abitata in dolcezza). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. Senza a aprirci a questa percezione le nostre ferite resteranno tali. I Padri antichi chiamano pentimento l’apertura a questa percezione. E l’accompagnamento guida a che il pentimento lavori il nostro cuore, perché torni abitato in dolcezza. Tanto da interpretare il cammino spirituale come un’arte divina del servire la propria vocazione all’umanità, le cui esigenze si possono esprimere così: custodire la bellezza delle creature condividendo il perdono ricevuto, liberare la dignità di tutti non mettendosi sopra nessuno. Allora la fatica comune del vivere, con la mortificazione delle nostre illusioni e dei nostri sogni di esibizione, si risolverà nella fatica delle beatitudini evangeliche, che rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita.

Come dunque accompagnare a far fiorire la nostra umanità, solidali con i fratelli, abitati dall’amore di Dio che ci chiama alla comunione, in Cristo: ecco il compito. Che posso delineare in questi punti.

  • Sviluppare insieme la capacità di ascolto. Il movimento dell’ascolto è tipico della dimensione umana della vita come della dinamica della fede. Siamo fondati sulla Parola di Dio, ci comprendiamo a partire dalla Sua parola perché solo Dio conosce i segreti che ci intessono e che Gesù ci ha svelato nella sua umanità. Rispetto alla Parola, non è sufficiente ascoltare, se l’ascolto non introduce alla visione, all’andare a vedere, come viene descritto nei brani evangelici della natività a proposito dei pastori. Il che significa: se non sei disposto a praticare quello che ascolti, non potrai mai vedere e non scoprirai mai se il messaggio aveva una verità per te. E se non si arriva a vedere, la nostra vita non sarà interessata e non potrà mai risolversi in racconto di lode, racconto e lode che costituiranno per altri l’invito angelico: vi annuncio una gioia grande! La stessa dinamica, in una visione di fede, vale per gli eventi della nostra vita: se non li accolgo come Provvidenza di Dio per me, non potrò comprenderli e comprendermi. Sarebbe un’illusione aspettare di accoglierli finché non li abbia compresi. Significherebbe voler vivere la vita esigendo risposte previe invece di trovarle proprio perché si accetta di viverla da dentro una benedizione, qualunque siano gli eventi quotidiani. Davanti alle Scritture, non si tratta di leggere per saperne di più, ma per aprirsi al mistero, per entrare più a fondo nel mistero, per imparare a pensare nello Spirito, secondo lo Spirito. Dovremmo di nuovo rivolgerci all’esperienza dei Padri i quali sanno parlare delle cose di Dio e del cuore oltre ogni psicologismo, volontarismo o moralismo di cui la nostra educazione come la nostra cultura è imbevuta. Leggere autori come Isacco Siro, per fare un esempio, pulisce lo sguardo e libera l’orizzonte interiore. Sa indicare la concatenazione delle cose, sa far guardare all’essenziale per godere di quello che si cerca. Il rinnovamento del linguaggio, per intercettare e rispondere all’anelito religioso nei giovani, riguarda la capacità di aprire l’intelligenza spirituale del cuore e degli eventi alla luce del vangelo.
  • Portare all’esperienza della confidenza in Dio, che vince ogni forma di rivendicazione individualistica. L’eterno serpente tentatore, sempre all’opera nelle sue suggestioni illusorie, rivela all’uomo tutte le sue potenzialità (illimitate: “Sarete come dèi”, cfr Gen 3,5), ma gli nasconde con ciò stesso il suo limite ontologico. La ragione profonda dell’angoscia moderna deriva da qui: voler prendere da sé qualcosa che invece ci può essere solo donato. E penso anche che la sensibilità culturale moderna, nel suo complesso, manchi proprio delle due caratteristiche che costituiscono i segnali della buona salute dello spirito: della gioia (la gioia della salvezza e la salvezza che è gioia) e dell’umiltà. Invece di favorire l’acquisizione di quelle due caratteristiche, ci perdiamo nell’illusione di voler comunque risolvere i problemi piuttosto che insegnare a viverli cercando il Regno di Dio, come invita il vangelo. La tendenza rivendicativa della sensibilità odierna, così letale per il cuore e per gli affetti, è proprio il male di fondo che va guarito con l’accompagnamento ad una vera esperienza di incontro col Signore Gesù.
  • Da dentro il dramma della propria storia personale, sempre aperta alla promessa di Dio. Gesù non si proclama solo buon pastore, ma anche porta: è la porta spalancata del cielo per noi, la porta aperta per il Regno e, contemporaneamente, la porta stretta per la quale entrare sia nel Regno sia nel cuore. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino che, per nascere, deve passare per la porta stretta. La cosa strana è che solo a partire da un amore che ci ha riconosciuti noi possiamo diventare autonomi e liberi. Non ci si libera per ribellione, ma per un accedere, scavando, a un livello più profondo, oltre l’oppressione o la delusione o l’ingiustizia, comunque oltre la ferita, che diventa la falla foriera di vita. La parola che arriva al cuore dell’altro (il primo altro siamo noi stessi) non può essere una parola rabbiosa, ma una parola che, essendo passata nel crogiolo della rabbia, è stata purificata dalle scorie della cronaca e delle passioni umane per accedere alla dimensione della verità, che non può mai essere una verità contro, ma per qualcuno. Si lotta per riconoscere i propri limiti, cosa che fa dire ai santi parole di verità, di cui però il nostro io nemmeno vuole sentire parlare: “Beato l’uomo che conosce la sua debolezza: questa conoscenza sarà per lui fondamento e principio per tutte le cose buone e belle”; “Tutte le realtà future sarebbero fantasmi senza le debolezze di questo mondo”[6]. Noi tendiamo invece a coprire le nostre debolezze, a giustificarle o a sentircene giustificati e non a viverle come porte di accesso alla verità e alla vita, che fondamentalmente riguardano la verità dell’amore di misericordia di Dio e la vita che ne scaturisce per essere peccatori perdonati, non più ricurvi su se stessi.
  • Sul principio così fortemente proclamato da san Paolo: “Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il desiderio profondo dell’uomo, il bisogno dell’uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. E il mistero scaturisce proprio qui: l’uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni gesto sta la sua compassione, che rimanda direttamente all’amore sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il proprio Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”.[7] È a partire da quella passione che Gesù si muove nelle viscere davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli uomini. Ed è per aver percepito quella passione che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione …? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35-39). Ha fatto esperienza dell’invito di Gesù: “Venite … e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).

  • Essere inviati.

Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini, Mt 4,19). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita aperta; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. L’intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c’è un uomo, fin dove c’è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell’incontro, fin dove c’è una malattia da curare, l’apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell’incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Gesù ci chiama non semplicemente a seguirlo, ma a metterci dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovera per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). La strada? Quella indicata dalle beatitudini che così potranno essere lette:

conoscerà la consolazione dell’amore chi si affligge solo per la paura di perderlo o di diminuirne l’energia; conoscerà la stabilità di questo amore nella terra del suo cuore chi non accetterà ragioni per disperderlo arrabbiandosi con i suoi simili; sentirà la sazietà sempre rinnovata dell’amore chi non cercherà altro se non di custodirlo, accrescerlo, purificarlo, approfondirlo; godrà del balsamo di quest’amore chi saprà effonderlo allo stesso modo sui fratelli; otterrà la conoscenza di Colui che il suo cuore ama chi non mescolerà a questo anelito null’altro; si ritroverà figlio nel Figlio chi come Lui riverserà sul mondo la pace che da Dio discende in gratuità e abbondanza.

Oppure ancora:

non c’è altro modo per ricevere consolazione se non quello di affliggersi, di pentirsi cioè, per tutto ciò che non corrisponde al dono di Dio; non c’è altro modo per possedere la terra del nostro cuore se non quello di usare benevolenza sempre e comunque; non c’è altro modo per essere saziati se non quello di ricercare la giustizia di Dio, di fare cioè esperienza dell’amore di Dio per gli uomini; non potremo riposarci nell’amore misericordioso di Dio se non nella condivisione solidale con gli uomini del nostro bisogno di perdono reciproco, ecc.

Cosa è realmente in gioco nella testimonianza cristiana? Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, dopo aver ricordato loro le prove che li attenderanno, li esorta a non avere timore: temete Dio e non gli uomini! (cfr. Mt 10,26-28). Dicendo loro che “nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto, è come se dicesse: per quanto gli uomini vi facciano violenza per zittirvi, se non cedete alla violenza ricordate al mondo che l’amore di Dio è più forte. L’amore di Dio non riguarda gli uni o gli altri semplicemente, ma gli uni in rapporto agli altri, perché a tutti venga partecipato e dentro ciascuno si accresca con la testimonianza degli uni per gli altri. Tanti esempi di testimoni moderni sono lì a ricordarcelo, soprattutto i nostri fratelli di fede perseguitati nelle varie parti del mondo.

Nell’ottica della testimonianza, cosa significa che Gesù invita i suoi discepoli a essere sale e luce? Un’antica glossa bizantina spiega il noto passo di Matteo: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Mt 5,14). Diventano luce del mondo se si rapportano a vicenda in amicizia, tra loro e con tutti, lasciandosi trascinare da Gesù, luce del mondo. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l’azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l’azione della luce). Non si tratta quindi di far vedere le nostre opere buone, che suonerebbero fesse perché piene di vanità, ma di far sì che le opere buone siano a vantaggio, per profitto degli uomini (così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini, cfr. Mt 5,16) permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

Tuttavia, non è proprio scontato percepirci luminosi, dal momento che tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. Quando Massimo Confessore spiega l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ nella preghiera del Padre Nostro, ha l’ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”.[8] Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora, come dice il profeta Isaia: “Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!” (Is 58,9). Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, chiuso in rancori e rivendicazioni, non può cedere all’oppressione, perché il Signore è con lui. Non c’è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall’intimità con il suo Signore.

Alla base delle paure che ci attanagliano e ci lacerano c’è uno sguardo di non benevolenza, di disprezzo di sé, di diffidenza verso la vita, di incapacità a vivere la vita da dentro un’alleanza, corroborato da una cattiva immagine di Dio che la fa da padrona. Tutte le parabole di Gesù sono lì a smascherare questo sguardo complice del serpente tentatore, che si traduce sovente in arroganza e aggressività. La vita è percepita come dipendere dagli eventi, a noi esteriori ma che hanno presa su di noi. Così, più l’uomo cerca la sua felicità ad ogni costo, più resta in balia delle sue ossessioni.

Mi piace ricordare la testimonianza di un fratello di Taizé[9] che cerca di reimmaginare la chiesa cristiana nel tempo della mondializzazione, a dieci anni dalla morte di frère Roger (16 agosto 2005). Di fronte all’enorme afflusso di giovani a Taizé, frère Roger scriveva: “L’entusiasmo, inteso come fervore, è una forza positiva, ma non è sufficiente. È una forza che si esaurisce e svanisce se non comunica il suo slancio a un’altra forza, più sotterranea e meno sensibile, che deve farci camminare durante la nostra vita. Assicurare la continuità è indispensabile, poiché gli entusiasmi sono intervallati da tempi morti, da deserti aridi”[10]. Non ha però ceduto alla tentazione di organizzare un nuovo movimento nella Chiesa, il movimento di Taizé. Aveva rilevato il ruolo della Chiesa locale come luogo di continuità, promuovendo una rete di condivisione e di amicizia da testimoni della riconciliazione fra i cristiani. In occidente, molte persone vivono senza riferimento esplicito alle loro radici cristiane o ebraiche, spesso persino non sapendo fino a qual punto esse hanno influenzato l’universo socio-culturale nel quale si muovono. Il messaggio essenziale che la Chiesa di Gesù Cristo vuole proclamare e comunicare, e che non può nascondere senza cessare di essere ciò che è, è quello di una comunione universale in Dio. In altri termini, si può dire che tale messaggio può essere descritto come una proposta di amicizia a tutti. I cristiani hanno ricevuto come un dono immeritato la buona notizia che, in Gesù, Dio ha abolito tutte le barriere che gli uomini avevano alzato fra loro e la vita divina, e di conseguenza le barriere fra gli esseri umani non hanno più importanza decisiva (cfr. Gal 3,28). Testimoniano questa buona notizia volendo essere amici di tutti, tendendo la mano persino a chi rifiuta la loro amicizia o a chi li martirizza[11]. Il cristianesimo non è un concorrente fra altri alla ricerca di adepti nel mercato mondiale delle religioni, ma un’espressione che “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). E fa seguire il commento della piccola sorella Magdeleine di Gesù: “E, nel Suo Nome, ti si parlerà del grande desiderio di amicizia che dobbiamo avere verso tutti gli esseri umani, andando verso di loro semplicemente perché li amiamo e vorremmo testimoniarlo loro gratuitamente, cioè senza aspettarne alcuna riconoscenza né alcun risultato … fosse anche di apostolato”[12].

Ecco dunque il compito per il mondo: approfondire sempre più l’esperienza dell’incontro con Gesù, nel quale radicarsi, come un’offerta di comunione con Dio e fra gli esseri umani, resa concreta in rapporti di amicizia fra i credenti e aperta a tutti. Comunione offerta sulla sfida, tipicamente dei giovani, di aver un volto e non semplicemente un profilo, di avere un proprio volto e non semplicemente dei profili, di incontrare dei volti e non semplicemente dei bisogni, di intessere relazioni e non semplicemente di risolvere problemi. Anche di questo è fatta la povertà evangelica, così luminosa per i cuori che cercano la verità e non la parvenza.

Qui si coglie in tutta la sua rilevanza la forza del comandamento di Gesù: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Di fatto, l’aver sottaciuto questo ha comportato una certa banalizzazione dell’esperienza cristiana e una certa irrilevanza del mistero cristiano nel vivere l’obbligazione all’agire buono verso il prossimo. Il movimento non è chiuso, ma aperto, nel senso che l’esito del bene non è quello di farmi dei meriti o di far vivere bene eventualmente gli uomini, bensì permettere alle persone che amo di conoscere a loro volta il Volto di Dio e il suo amore e permettere quindi a loro volta di amare altri secondo la stessa dinamica.

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[1] Cfr. Basilio PETRA’, L’ethos del futuro. Etica e vita spirituale di fronte alle sfide del terzo millennio, in Natalino VALENTINI, a cura. Una spiritualità per il tempo presente, Bologna 2003, EDB (quaderni di Camaldoli, 11), p. 115.

[2] Cfr. Encyclopedia of Biblical Interpretation, by Menahem M. Kasher, translated under the editorship of Rabbi Harry Freedman, American Biblical Encyclopedia Society, New York 1953, Genesis, vol. II, p. 106-110.

[3] Cfr. R. CHEAIB, Un Dio umano. Primi passi nella fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, p. 156-160.

[4] Cfr. Dominique GRENIER, L’expérience d’un monde complexe, CHRISTUS 2014 (n. 244, octobre), p. 400-408.

[5] Mi sembrano pertinenti le osservazioni critiche di Thomas Hylland ERIKSEN, Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, Eleuthera, Milano 2003. Oggi viviamo di fretta e inquieti. La fretta riguarda il tempo, l’inquietudine il luogo. Non riusciamo mai a fare le cose essenziali perché prima ne abbiamo cento altre urgenti da sistemare. Non viviamo mai in pace in un luogo perché immaginiamo che se fossimo in un altro ci troveremmo meglio (il miglior posto virtuale non sostituisce il più prosaico posto reale!). Basta pensare al ‘compito’ della preghiera nella nostra vita. Possiamo sempre preferire qualcosa alla preghiera e la situazione interiore che viviamo non è mai il luogo ‘adatto’ alla preghiera! I sociologi parlano di tempo stracolmo, tempo accelerato, con la relativa perdita del tempo lento. Se pensiamo però che gli affetti, i valori significativi della vita, le relazioni, hanno bisogno del tempo lento per essere vissuti, ci rendiamo conto che la ricerca delle gratificazioni immediate, con la conseguenza dell’accantonamento dei valori nella categoria del marginale, non derivano da un problema di moralità, ma di prospettiva. Per intaccare la prospettiva non serve richiamarsi ai valori o alla moralità, ma solo alla dimensione spirituale, che, anche in ambito ecclesiale, si è molto rarefatta.

[6] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza, Qiqajon, Comunità di Bose 1990, p. 65.

[7] ORIGENE, Omelie su Ezechiele (Testi patristici, 67), Città nuova, Roma 1987, p. 119 (Omelia VI,6).

[8] Cfr. Elia CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, EDB, Bologna 2005, p. 231.

[9] Frère JOHN di Taizé, Un’amicizia e i molti amici. Reimmaginare la Chiesa cristiana nel tempo della mondializzazione, EDB, Bologna 2012.

[10] Ibidem, p. 119.

[11] La testimonianza di un uomo che ha perso due fratelli nella terribile esecuzione, ad opera dell’Isis, di ventun cristiani copti egiziani in Libia, il cui video è apparso su youtube (www.youtube.com/watch?v=-VM5F_Zn2J4), è straordinariamente potente.

[12] Piccola sorella MAGDELEINE DI GESU’, Dal Sahara al mondo intero, Città Nuova, Roma 1983, p. 368. Citato in Frère JOHN, Un’amicizia e i molti amici, p. 178.