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Commento al testo comparso nel volume:

J.R.R. TOLKIEN, Albero e foglia, Bompiani, Milano 20047, 107-139.

Di fronte al racconto di Tolkien, letto più volte insieme ad altri suoi testi per ritrovarmici dentro e sentirmi di casa, mi si è riaccesa l’esperienza della scoperta di orizzonti insospettati con i racconti dell’epopea dei Padri del deserto e delle storie chassidiche.

Un giovane insegnante di Alessandria, in viaggio verso Scete dove intendeva unirsi ai monaci per dedicarsi a una vita di solitudine nel deserto, racconta a un anziano di un suo incontro nelle strade della sua città con una vecchia che si guadagnava da vivere portandosi a casa della roba da lavare. Mentre l’aiutava a portare il suo carico, le chiese: “Credi tu nella Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo?”. Tenendo la testa china, la donna rispose: “Maestro, non sono istruita e non ho familiarità con questa solenne Verità. La mia vita è fatta così: lavo la camicia di un vasaio che dà forma e bellezza alla creta informe. Lavo la tunica di seta di un architetto che disegna grandi palazzi su pelli di capra. Lavo le pezze usate per il parto da una levatrice, la quale rinnova il dono vivente del Creatore”. E pensò: “Dio Padre continua a nascere attraverso l’amore con cui lei svolge la propria parte nella sua creazione”.

Poi lei continuò: “Faccio l’elemosina al mendicante ammalato presso la porta della città. Mi prendo cura ogni notte della mia amica la cui vita lentamente l’abbandona. Cerco di riconciliare fra di loro i miei vicini, affinché da nemici tornino amici”. E di nuovo pensò: “Il Figlio, Cristo, continua a nascere in lei che è lo strumento del suo compito di redenzione”.

Poi aggiunse ancora: “A quelli che incontro sul mio cammino, mi sforzo di portare: un pugnale per tagliare i lacci che legano la loro libertà; un’ascia per spezzare il giogo che schiaccia la loro gioia; una freccia per trapassare l’elmo che preclude loro la pace”. Lui ne dedusse che lo Spirito Santo continuava a nascere nel cammino d’amore in cui lei proseguiva la Sua opera. E così si avvide come lei vivesse pienamente nell’ambito di quella Santa Trinità di fronte alla cui conoscenza si diceva incerta. E concluse: “la fede di questa lavandaia mi ha mostrato che il risultato dei miei studi e di tutti i miei insegnamenti non è altro che la costruzione del grandioso portone di un cortile nel quale non sono mai entrato. Il mio viaggio comincia ora”.

E l’anziano commentò: “La fede è la risposta della creatura alla domanda del Creatore. Nasce dallo sgomento: davanti al silenzio del deserto, davanti al bacio tra cielo e terra all’orizzonte, davanti all’avvento della sua serva, la Morte, che ci riporta a casa. La fede è l’eco che il credente fa al canto del Suo Spirito. La via che devi percorrere la conosci già. Egli l’ha posta nel tuo cuore. La solitudine ti parlerà”.

Nel libro dei Numeri viene riportata la visione di Balaam che era stato cooptato da Balak, re di Moab, per maledire i suoi nemici, cioè Israele. Nonostante le buone intenzioni per favorire il suo re, l’indovino sapeva che non si sarebbe sottratto alla visione che il Signore gli avrebbe ispirato. E così, invece di maledire Israele, si trovò a benedirlo. Interessante la sua dichiarazione di accettazione della visione: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, e oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante; oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, di chi vede la visione dell’Onnipotente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi” (Num 24,15-16). Il punto di verità è la visione dell’Onnipotente, non nel senso di vedere l’Onnipotente, ma nel senso di vedere ciò che vede l’Onnipotente. Il cuore è sincero se punta a quella verità.

Leggendo le testimonianze di Elie Wiesel che ricorda come da bambino ascoltava le storie del nonno e dei suoi compagni chassidici, mi ha colpito il movimento d’anima che lo caratterizzava. Mentre ascoltava gli anziani parlare dei loro rispettivi Rabbi chiudeva gli occhi per vedere che cosa vedevano loro. È tipico di un bambino, ma è anche tipico di chi vuole prendere parte a qualcosa, rendersi conto di qualcosa, essere svegliato a qualcosa e non semplicemente sapere, distrarsi, venire a conoscere.

Il racconto di Tolkien mi ha ripresentato lo stesso scenario. E mi sono immaginato: cosa vede lui? Mi sembra, avendo letto le sue lettere, che racconta sé raccontando. Non racconta la sua biografia, non descrive il suo stato d’animo, non dà ragioni di quello che succede e come vada vissuto o che giustificazioni possa addurre. Inventa una storia, crea uno scenario verosimile per attingere a una verità che non può essere descritta, ma solo percepita, sentita anche solo come eco di una parola ormai irraggiungibile ma presente per il tono con cui è stata pronunciata.

Sarebbe troppo banale, ma non fuori posto dire che il personaggio Niggle rimanda allo scrittore stesso, alle prese con le mille angustie quotidiane, con le innumerevoli fatiche, impegni, impedimenti, fallimenti eppur sempre dedito a ciò che lo interessava veramente; sempre dibattuto tra il bisogno di convalide e riconoscimenti altrui alla propria opera creativa e, nello stesso tempo, la fede insopprimibile in quell’opera secondo la percezione interiore della propria anima. Non si tratta però di un rimando alla sua realtà biografica. Si tratta piuttosto di forzare la propria realtà biografica come si forza con un grimaldello la serratura di un forziere che contiene un tesoro. L’importante, del racconto, è quel tesoro, imprendibile anche allo scrittore stesso, ma la cui sagacia narrativa lo fa intravedere al possibile lettore, ignaro, più dello scrittore, di quello stesso tesoro.

Il tesoro io lo ravviso nel suggerimento di tre dinamiche che si intersecano continuamente per creare spazi di percezione della verità del vivere.

La prima la denomino così: l’esito non è il senso.

Il racconto si distende su tre tempi definiti rispetto al quadro da dipingere: un tempo per abbozzare il lavoro, un tempo per finirlo e un tempo per concluderlo. Ogni tempo è caratterizzato da sensazioni particolari: fatica e agitazione nel primo, tranquillità e soddisfazione nel secondo, comunione e contemplazione aperta sul mistero indefinibile nel terzo.

Senza tenere insieme i tre tempi la percezione del lavoro è falsata e non scaturisce nessun senso.

Il filo rosso che tiene insieme i tre tempi e permette di coglierli a specchio l’uno nell’altro perché appaia il senso, mai descritto ma sempre presupposto, è quello che posso chiamare la sincerità profonda del cuore.

Niggle appare agli altri e a se stesso come un uomo mediocre, che fa un lavoro mediocre, con esiti assolutamente mediocri, così mediocri che nessuno lo degna di uno sguardo per quello che lui va creando. Il giudizio è tagliente, come riferisce l’Ispettore: in questo paese la legge predilige le case alle tele. Un’opera o serve a qualcosa o è sciocca. Così sentenzia l’Ispettore che ordina di impiegare la tela del dipinto, con grave disappunto dell’autore, per riparare il tetto del vicino. Sorge però il dubbio nel lettore: sciocca è l’opera o la visione di chi giudica così?

Quando, nel secondo tempo, si stempera la memoria della quotidianità e si prospetta la possibilità di diventare finalmente padroni del proprio tempo superando agitazione e fastidio, indipendentemente da ciò che si fa, le due Voci, la Voce severa e la Voce mite, giudicano Niggle sotto altra prospettiva: “il suo cuore era al posto giusto”. E la seconda Voce aggiunge: “Era pittore per natura. Un minore, naturalmente, e tuttavia una foglia di Niggle ha un incanto particolare. Si è dato un gran daffare con le foglie, unicamente per il piacere che ne ricavava. E non ha mai pensato che questo lo rendesse importante. Non c’è traccia, nei Registri, che abbia finto, anche solo con se stesso, che questo costituisse una giustificazione della sua negligenza per quanto prescritto dalla legge”. Tanto che la prima Voce, quella alla quale non sfugge mai nulla per la sua severità, per quanto possa avanzare contro Niggle mille buone ragioni per condannarlo, non può non riconoscere che Niggle non solo non si aspettava alcuna gratitudine in generale ma che neppure si era sottratto, all’occorrenza, al sacrificio per il suo vicino, sapendo per giunta che avrebbe perso l’ultima occasione per ultimare il suo quadro. Ne faceva fede la corsa in bicicletta, sotto l’acqua, per fare quello che il suo vicino gli chiedeva.

E la conferma del cuore al posto giusto si sarebbe manifestata nel momento in cui Niggle spende una parola buona davanti alle Voci per il suo vicino. Così può godere della realizzazione del suo quadro con l’Albero che campeggia maestoso in tutti i dettagli, proprio quelli che lui aveva immaginato e che prima non era riuscito a dipingere. Quella soddisfazione la riceve proprio come un dono! Solo dopo aver a lungo girovagato nel suo quadro, ormai diventato paesaggio reale anche se immaginato, si accorge che l’Albero era finito, non c’erano difetti, ma non era concluso perché mancavano ancora particolari. E di nuovo si vede come il suo cuore sia al posto giusto allorché intuisce che solo con l’aiuto di Parish, il suo vicino, quello per il quale aveva speso una buona parola disinteressata, potrà concludere il lavoro. I due si ritrovano di nuovo insieme per concludere l’opera in tutta amicizia sebbene i loro destini si distinguano ancora perché Niggle non si accontenta di stare al Quadro ma vuole raggiungere il Margine, non però come fosse un confine delimitatorio bensì come l’accesso a qualcosa di non conosciuto e attirante. Vuole arrivare alle Montagne, dalle quali tutto il paesaggio sottostante deriva. Ma nessuno può sapere se non chi vi si addentra.

Alla fine del racconto si ritorna all’inizio con il giudizio dei concittadini di Niggle che si disputano il valore del loro compaesano o reputandolo sciocco, incapace di produrre qualcosa di utile alla società e la cui scomparsa equivale all’oblio oppure reputandolo un uomo singolare per aver lasciato qualcosa di inutile (di tutto l’Albero, che riempiva il quadro, solo una foglia si era conservata, ma così ben disegnata che è valso la pena custodirla), capace però di riempire di stupore, tanto che molti saranno indotti a cercare un po’ di ristoro proprio in quello che oramai era diventato the Niggle’s Parish, il paese di Niggle. Ma lui continua a conservare il cuore al posto giusto ridendo all’idea che gli attribuiscano una qualche importanza. E dico ‘paese di Niggle’ perché in realtà colui di cui si parla è Niggle, mentre Parish, il suo vicino, è il contesto in cui Niggle vive se stesso e la sua opera.

Davanti al pastore che intende fare da guida per arrivare alle Montagne, Niggle ancora una volta scusa Parish e gli dice: “Sai Parish, ti avevo soprannominato Vecchia Talpa. Ma che importa, ormai? Abbiamo vissuto e lavorato insieme. Le cose sarebbero potute andare diversamente, non però essere migliori”. Intuizione che fa eco alla ragione, inutile, di Niggle descritta da Tompkins alla fine: “Niggle non sarebbe riuscito a progettare un manifesto efficace per guadagnarsi da vivere. Sempre a gingillarsi con foglie e fiori. Una volta gliene ho chiesto il perché, e lui mi ha risposto che li riteneva graziosi! Ci crede? Ha detto proprio così, graziosi!”.

Perché il senso non è mai nell’esito? Perché il senso non ha ragioni utili, ma solo ragioni vere, che però non sono immediatamente coglibili nelle contraddizioni degli eventi quotidiani e dei sentimenti che insorgono. Le ragioni vere si distinguono dalle ragioni utili perché non sono reazioni a qualcosa o a qualcuno, ma provengono da quella sincerità di cuore, quella che Gesù nel vangelo definisce così: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Cercare la gloria che viene da Dio significa voler cercare solo l’aspetto ‘grazioso’ delle cose liberandosi da ogni altro vincolo. Sotto questo aspetto di ‘grazia’ le cose potrebbero benissimo essere diverse nella vita, ma non migliori. Rendersi conto di questo libera da mille rivendicazioni inutili. Detto con altre parole, nello spirito dei Padri del deserto: non vincolarti al carro del malvagio se vuoi entrare nel Giardino che hai intravisto; non cercare gratitudine da nessuno se vuoi che Dio ti riempia della sua meraviglia; non cercare concatenazioni delle cose all’infuori di quelle che ti dà la libertà della visione spirituale. Il senso oltrepassa gli esiti, ma è il senso a riempire il cuore.

La seconda: non esistono limiti costrittivi, ma solo confini di accesso.

Nei tre scenari si assiste ad un continuo spostamento di confini, ma con l’impressione del movimento e della distanza diametralmente opposti. Nell’abbozzo del quadro tutto sempre si complica per il continuo crescere del dipinto, per le continue interruzioni che si susseguono, per i continui rimandi al dopo o a un po’ più in là. Invece nella finitura e nella conclusione del quadro i confini si dilatano senza creare distanza. Ci si muove sempre più avanti, sempre più in là, fino alle Montagne, il Margine invalicabile da cui però tutto discende, senza subire la distanza. Straordinariamente descritto: “Mentre si allontanava scoprì una cosa strana: la Foresta, ovviamente, era remota, eppure poteva avvicinarlesi, persino entrarvi, senza che essa perdesse quel suo particolare fascino. Mai gli era riuscito prima di entrare nella distanza senza trasformarla in semplici dintorni immediati. E questo aggiungeva considerevole piacere alla passeggiata in campagna perché, mentre procedeva, nuove distanze gli si spalancavano dinanzi, sicché si avevano distanze doppie, triple e quadruple, doppiamente, triplamente e quadruplarmente incantevoli. Si poteva andare avanti e avanti, e avere un paese intero in un giardino o in un dipinto (se così si preferiva chiamarlo)”.

Tradurrei queste annotazioni in termini siffatti: se ci si muove solo sull’asse orizzontale ci si affanna e disperde. Ma se ci si muove sull’asse verticale (della profondità o del senso), allora la distanza non crea dispersione ma apertura. E più ci si inoltra, più tutto appare in spazi godibili.

In termini di dinamica spirituale, per la conoscenza del cuore, avviene questo: non serve affannarsi nel raggiungere un ideale cercando di corrispondervi in ogni aspetto. La fatica sarebbe immane e frustrante. Invece basta scegliere un punto e scavare, scavare, fino alle sorgenti del cuore dove tutto si trova riunificato. Quel punto è commisurato su quell’unica cosa necessaria che introduce al Regno, che porta alla visione del Regno e che non si confonde con nessuna cosa, per quanta necessaria o utile. La domanda di fondo non suona: cosa devo fare per entrare nel Regno? Piuttosto: cosa devo tener presente nel mio fare perché la luce del Regno splenda e conquisti il mio cuore e renda tutto godibile? L’andare avanti, l’andare un po’ più in là non significa che troveremo dopo o più in là quello che cerchiamo qui; significa solo che ogni cosa si può aprire su quel ‘più in là’ che costituisce la dimensione del senso che renda al cuore godibile tutto.

La terza: l’eccedenza del reale sorprende sempre.

Nonostante la banalità quotidiana, non solo delle azioni ma anche dei pensieri, il grande si gioca nel piccolo, l’importante nell’insignificante e così via. Un racconto chassidico, ripreso in numerose forme, ce ne svela il significato recondito. Un uomo chiamato Eisik figlio di Jekel, devoto e povero in canna, non la smetteva di preoccuparsi di fronte alla vita: l’affitto da pagare, insieme al macellaio e al maestro, le figlie da maritare e il tempo stringeva. Oltre a preoccuparsi pregava, sempre povero, sempre devoto. Una notte fece un sogno bizzarro. Si vide trasportato a Praga, sotto un certo ponte, all’ombra di un immenso palazzo. Una voce gli diceva: “Ecco, guarda sotto il ponte, nel punto dove poggiano i tuoi piedi c’è un tesoro, ti aspetta, è tuo; i tuoi problemi sono risolti”. Sulle prime non ci badò, ma, ripresentandosi il sogno sempre allo stesso modo, decise di andare a vedere per farla finita con tali sciocchezze. Arrivato al ponte, incerto sul da farsi, finì per farsi notare e le guardie lo arrestarono. Accusato di spionaggio, non trovò di meglio che raccontare la storia del sogno, della voce che insistentemente lo infastidiva e del lungo cammino da Cracovia fino a Praga. Il capitano delle guardie scoppia a ridere: “Ma voi ebrei siete più stupidi di quanto pensassi! Se fossi così sciocco come te e ascoltassi le voci, dove sarei in questo momento? A Cracovia. Da settimane una voce, di notte, mi dice: Un tesoro ti aspetta da un ebreo di Cracovia, di nome Eisik figlio di Jekel! Sì, sotto il forno!’. Laggiù la metà degli ebrei si chiama Eisik e l’altra metà Jekel! E tutti hanno un forno! Mi ci vedi andare di casa in casa a demolire tutti i forni alla ricerca di un tesoro inesistente?”.

A seconda dei Maestri che raccontano questa storia l’allusione di verità che comporta potrebbe essere descritta così: 1) Il tesoro è in casa ma per trovarlo bisogna andare a Praga; 2) il tesoro che ti appartiene puoi trovarlo solo in te stesso e da nessun’altra parte. Detto altrimenti: la conoscenza dell’assoluto si può acquisire dentro il proprio essere e non fuori.

Ma l’aspetto per me più interessante è dato da questa considerazione. L’ebreo Eisik ha bisogno del capitano praghese delle guardie e non può sapere di sé se non riferendosi a un altro. Niggle non può realizzare la sua creazione se non riferendosi a Parish perché le intenzioni del suo cuore non emergono in verità che in rapporto a Parish, il suo vicino prossimo. Di per sé l’opera che Niggle intende creare non ha affatto bisogno di Parish, il quale non solo non può aiutarlo ma lo ostacola. Eppure Niggle potrà concludere il quadro solo con l’apporto di Parish. Avviene quello che i santi chiamano la via della Provvidenza nella vita di un credente. La Provvidenza non riguarda solo l’ispirazione e l’energia per fare il quadro (il bene), ma anche le condizioni di ostacolo, causate da noi o dagli altri (il male) sono rette dalla Provvidenza nel senso di indirizzare i sentimenti del cuore a restare sull’unicum necessario, capace di dare senso a ciò che si fa e a ciò che si vuol diventare facendo. Far emergere la potenza di questo unicum necessario non può non comportare la solidarietà in umanità con i miei simili, con i quali condivido la dignità e la bellezza del paesaggio che mi ospita, l’umanità, che ci costituisce tutti allo stesso modo.

Per questo non è possibile attingere l’assoluto che nella contingenza più concreta, spesso percepita ostile o fastidiosa, percorsa in quell’ andare ‘più in là’ nella dimensione della profondità del segreto di senso che non dipende mai da quella contingenza ma unicamente dal cuore che vi si apre, nell’alleanza con il suo Dio. La materialità della vita, nelle sue contingenze di situazioni penose o comunque difficili, sembra giocare spesso a nostro sfavore nel realizzare quello che portiamo di grande; eppure, l’unico modo per esprimere la grandezza è quello di stare alla Provvidenza per noi nelle minime cose, in tutti gli eventi, esteriori e interiori, per far fiorire lo splendore del Regno. Niente è limite; tutto è porta di accesso. Se la realtà della vita non fosse percepita in questa eccedenza che apre sul Regno resteremmo soffocati o illusi e incapaci di vera solidarietà in umanità. In altre parole, incapaci di adorare e di vivere in letizia.

Nel racconto, i tre scenari rispetto al tempo sono narrati in successione. Non si tratta però di spazi temporali successivi, ma di dimensioni che si aprono. In termini spirituali, non si tratta di lavorare per l’eternità ma di accogliere l’Eterno nel tempo. Paradosso quanto mai indigeribile per la carne o per il mondo, per attenerci al linguaggio delle Scritture, eppure l’unica via di splendore per la carne e il mondo, che così riacquistano la bellezza che li abita. È la dimensione escatologica dell’esperienza cristiana: vivere in funzione del futuro che viene incontro a noi. È la stessa dimensione della parabola del giudizio finale nel racconto evangelico di Mt 25. Non si tratta di immaginare cosa succederà dopo, ma di aprirsi alla rivelazione che quel ‘dopo’ porta all’oggi. Il luogo capace di questa rivelazione? Il cuore, avere il cuore al posto giusto.

p. Elia Citterio